Title: I rossi e i neri, vol. 1
Author: Anton Giulio Barrili
Release date: August 29, 2009 [eBook #29845]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
+—————————————————————————————————+ | OPERE di A. G. BARRILI. | ! | | Capitan Dodéro (1865). 13.ª ediz. L. 1 — | | Santa Cecilia (1866). 11.ª ediz. 1 — | | Il libro nero (1868). 4.ª ediz. 2 — | | I Rossi e i Neri (1870). 6.ª ediz. (2 vol) 2 — | | Le confessioni di Fra Gualberto (1873). 13.ª ediz. 1 — | | Val d'olivi (1873). 18.ª edizione 1 — | | Semiramide, racconto babilonese (1873). 9.ª ediz. 1 — | | La notte del commendatore (1875). 2.ª ediz. 4 — | | Castel Gavone (1875). 10.ª ediz. 1 — | | Come un sogno (1875). 25.ª ediz. 1 — | | Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). 18.ª ediz. (2 vol.). 2 — | | Tizio Caio Sempronio (1877). 2.ª ediz. 3 50 | | L'olmo e l'edera (1877). 20.ª ediz. 1 — | | Diana degli Embriaci (1877). 2.ª ediz. 3 — | | La conquista d'Alessandro (1879). 2.ª ediz. 4 — | | Il tesoro di Golconda (1879). 12.ª ediz. 1 — | | Il merlo bianco (1879). 2.ª ediz. 3 50 | | — Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz. 5 — | | La donna di picche (1880). 6.ª ediz. 1 — | | L'undecimo comandamento (1881). 13.ª ediz. 1 — | | Il ritratto del Diavolo (1882). 4.ª ediz. 1 — | | Il biancospino (1882). 12.ª ediz. 1 — | | L'anello di Salomone (1883). 3.ª ediz. 3 50 | | O tutto o nulla (1883). 2.ª ediz. 3 50 | | Fior di Mughetto (1883). 4.ª ediz. 3 50 | | Dalla Rupe (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Il conte Rosso (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Amori alla macchia (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Monsù Tomè (1885). 3.ª ediz. 3 50 | | Il lettore della principessa (1885). 3.ª ediz. 4 — | | — Edizione illustrata (1891) 5 — | | Victor Hugo, discorso (1886) 2 50 | | Casa Polidori (1886). 2.ª ediz. 4 — | | La Montanara (1886). 8.ª ediz. 2 — | | — Edizione illustrata (1893) 5 — | | Uomini e bestie (1886). 2.ª ediz. 3 50 | | Arrigo il Savio (1886). 3.ª ediz. 1 — | | La spada di fuoco (1887). 2.ª ediz. 4 — | | Il giudizio di Dio (1887) 4 — | | Il Dantino (1888). 3.ª ediz. 3 50 | | La signora Àutari (1888). 3.ª ediz. 3 50 | | La Sirena (1889) 5.ª ediz. 1 — | | Scudi e corone (1890). 2.ª ediz. 4 — | | Amori antichi (1890). 2.ª ediz. 4 — | | Rosa di Gerico (1891). 3.ª ediz. 1 — | | La bella Graziana (1892). 2.ª ediz. 3 50 | | — Edizione illustrata (1893) 3 50 | | Le due Beatrici (1892) 5.ª ediz. 1 — | | Terra Vergine (1892). 5.ª ediz. 1 — | | I figli del cielo (1893) 5.ª ediz. 1 — | | La Castellana (1894). 2.ª ediz. 3 50 | | Fior d'oro (1895). 4.ª ediz. 1 — | | Il Prato Maledetto (1895) 3 50 | | Galatea (1896). 7.ª ediz. 1 — | | Diamante nero (1897) 3.ª ediz. 1 — | | Sorrisi di gioventù (1898). 2.ª ediz. 3 — | | Raggio di Dio (1899). 2.ª ediz. 1 — | | Il Ponte del Paradiso (1904). 2.º migliaio 3 50 | | | | ——— | | | | Lutezia (1878). 2.ª ediz. 2 — | | Con Garibaldi, alle porte di Roma, ricordi (1895) 4 — | | Zio Cesare, commedia in cinque atti (1888) 1 20 | +—————————————————————————————————+
ROMANZO
DI
Anton Giulio Barrili
(in due volumi)
SESTA EDIZIONE
intieramente riveduta dall'autore
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1906.
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la conoscenza di qualche personaggio.
Era uno dei primi giorni di febbraio, nell'anno di grazia 1857, ed era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle giornate, anco nel cuore dell'inverno, sono la cosa più naturale del mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l'aria è tiepida, sarei per dire balsamica. E perchè no? In questa città i fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi l'Europa nelle sue più famose primavere.
Per le strade e pei vicoli, non essendo giorno di festa, si vedeva il solito viavai: ma un attento osservatore avrebbe facilmente notata l'assenza dello zerbinotto e della signora elegante. Infatti, era un lunedì, e il veglione del teatro Carlo Felice era finito alle sei del mattino. Le belle dormivano; e l'ora dei belli, come la dicono a Genova con frase molto gustosa, non era anche suonata. I belli duravano ancora nel primo sonno, quantunque fossero le undici all'orologio delle Vigne, le undici e un quarto a quel della Posta. Notiamo di passata che gli orologi di Genova non sono punto dissimili da quelli delle altre città. Tutto il mondo è paese.
Il sole (non si sgomentino i lettori, che qui non si fanno descrizioni retoriche) il sole indorava i tetti di lavagna e faceva scintillare co' suoi raggi i vetri delle finestre; s'intende di quelle che erano chiuse, perchè dove c'erano finestre aperte i raggi entravano senza chieder licenza. E noi che per il nostro ufficio di narratori non dobbiamo chiederne mai, ci metteremo a cavalcioni sopra un raggio di sole, come faceva il fantastico Oberon sui raggi di luna, ed entreremo per una finestra, che in quel giorno, a quell'ora, si ritrovava aperta, a ricevere i tiepidi saluti di un'aria ristoratrice.
La casa in cui dobbiamo far entrare il lettore insieme con noi, era una vecchia casa di tre piani, posta in via Luccoli. Sebbene di modesta apparenza, lasciava intendere com'ella fosse stata la dimora di una di quelle famiglie consolari, la cui nobiltà risaliva più su delle Crociate, descritta a caratteri di buone opere e generosi sentimenti di virtù cittadina nel libro d'oro della storia. Più tardi la lunga consuetudine del potere, il fasto, la magnificenza del vivere, diedero origine a più orgogliosa forma di patriziato, e si fabbricarono i sontuosi palazzi, con le ville principesche. Ma noi, rispettando i palazzi che attestano lo splendido uso delle ricchezze, e i vecchi nomi non indegnamente portati da tardi nepoti, corriamo più volentieri con l'animo alle memorie di Genova popolana, anteponendo i modesti ricordi d'Almèria, di Tolemaide, di Caffa, alle pompose tradizioni del Consiglietto, con la flotta francese innanzi al Molo vecchio, o con le soldatesche del Botta Adorno entro le mura di Genova patrizia.
Le pietre nere riquadrate formavano la base e il primo piano della casa accennata; e la cornice sotto il secondo piano, colla sua fila d'archetti del vecchio stile lombardo, era anch'essa di pietra dello stesso colore, venuta dalle cave di Promontorio. Anticamente la casa aveva posseduti i suoi portici; ma da un pezzo il vano tra le colonne si era rimpicciolito ad usci di botteghe, e le colonne bisognava indovinarle sotto l'intonaco profano di secoli più recenti. Gli eruditi diranno a chi fosse appartenuta quella casa, e per qual filiera di vendite fosse caduta in balìa di un mastro Nicola Ceretti di Molassana, antico muratore, fattosi ricco più tardi del suo milioncino, e di un figlio unico, il quale, tranne il nome profumato di Arturo e la naturale differenza d'età, era tutto suo padre.
Ma dei Ceretti non dobbiamo darci pensiero per ora. Siamo ai primi di febbraio dell'anno 1857, ed entriamo con un raggio di sole per una finestra al terzo piano della casa in discorso, la qual finestra ci lascia vedere un mondo di cose nella cameretta a cui ella dà il conforto della luce e dell'aria.
Anzitutto, nel fondo, un letticiuolo, appoggiato con una sponda alla parete; al capezzale un comodino colla sua lastra di marmo ingombra per metà da una catasta di libri, a cui faceva la guardia una candela stearica mezzo consumata, su d'un candeliere che voleva parere di bronzo lavorato. Lì presso un cassettone di noce, ma di quella forma bizzarra, ricca di sporti e d'intagli, che consola i dilettanti d'anticaglie, e anch'esso col suo ripiano ingombro per una parte di libri. Poco distante dalla finestra, e collocato pel buon verso ad avere da sinistra la luce, stava un tavolino, che s'atteggiava a scrivania.
Non dimentichiamo uno specchio appiccato alla parete, presso il vano della finestra, e sopra lo specchio un certo trofeo di spade e sciabole in croce; più lungi, in un angolo, un fucile di guardia nazionale, con la sua baionetta voltata all'ingiù, e con larghe chiazze di ruggine, che attestavano i suoi scarsi servizi, lasciando supporre che il suo padrone andasse più sovente ad onorare di sua presenza la sala di disciplina nel vicolo dei Salvaghi, che non il portone del palazzo municipale.
Non finiremo questa breve descrizione senza accennare due quadri a olio, di mezzana grandezza, che presentavano le figure di un uomo e di una donna. Questa era una signora sui quaranta, d'una appariscente e serena bellezza di forme, quantunque il pittore coscienzioso avesse dovuto correggerne lo splendore con qualche ruga alle tempie, un cerchio turchiniccio intorno agli occhi malinconicamente affondati, e molti capelli grigi tra i neri. Questo ritratto di donna aveva molta somiglianza, nel complesso dei lineamenti, con l'unica persona viva, di sesso mascolino, che veniva passeggiando per la camera.
L'altro ritratto era quello di un bel soldato, con le insegne di colonnello; stupenda testa, con grandi baffi e pizzo tra il biondo e il castagno, spaziosa la fronte, nobile lo sguardo e pieno di bontà. Il pittore, per un tratto di bizzarria non insolito in questo genere d'arte, aveva dipinti gli occhi del colonnello in guisa che parevano sempre guardarvi, da qualunque lato vi foste messo a contemplarlo.
Infatti, il giovine Lorenzo Salvani passeggiava su e giù per la camera, e gli occhi di suo padre erano sempre fissi su lui. L'amore di Lorenzo per suo padre era stato immenso, e pareva a lui, anima di poeta, di non averne perduto l'amore, se, alzando gli occhi al quadro, vedeva sempre il suo buon padre sorridergli.
I lettori non saranno scontenti di noi, che senza tanti preamboli, abbiamo messo loro dinanzi l'inquilino di quella camera, visitata __ex abrupto__ e senza passare per l'uscio. Eglino sanno ora che costui si chiamava Lorenzo Salvani, che era giovine, ed anche poeta. Intendiamoci, per altro; era poeta, e scriveva di molto, ma la sua musa vereconda non aveva ancora gittato una strofa, o una pagina di prosa ai dispregi del pubblico.
Lorenzo aveva venticinque anni, e studiava leggi all'Università. Bene avrebbe potuto strappare la laurea qualche anno prima, se i suoi studi, ch'erano stati altrettanto sodi quanto precoci, non avessero patito una troppo lunga interruzione, durante la quale egli si era addottorato nella disciplina delle armi, alla difesa di Roma, del 1849.
Ritratto non ne faremo, perchè non si capisce mai niente in questa descrizione di bocche e di nasi, che è il forte di certi romanzieri; o piuttosto lo faremo a spizzico, quando ci venga in taglio di accennare a questi particolari. Era di capel bruno, di statura giusta, pallido, con due occhi affondati e grandi come quelli di sua madre. Aveva sempre sulla fronte una grand'aria di malinconia, diradata a tratti da pazzi impeti di allegrezza, così forti e così brevi, da non parere schietta espressione d'una gaia natura. Andava molto volentieri vestito di nero, e colle mani inguantate. Nel momento in cui lo troviamo, nella sua camera e solo, passeggiava in maniche di camicia, con le mani raccolte dietro le spalle, come usava Napoleone il grande, e come doveva esser costume di Alessandro Macedone, se è vero che tutti i grandi uomini si rassomigliano nelle piccole cose.
Uno zibaldone squadernato lo aspettava inutilmente sul tavolino che sapete. Egli già da un'ora andava misurando i sei metri di lunghezza della sua camera; e chi sa quanto avrebbe passeggiato ancora a quel modo, se un leggero batter di nocche sull'uscio non gli avesse rotto il filo delle meditazioni, e se, mentre egli alzava la fronte, l'uscio, che era appena socchiuso, non si fosse aperto tanto da lasciar passare nel vano la più bella testa che Iddio avesse mai posta sugli òmeri di una donna; una di quelle belle teste genovesi, ritratte con tanto amore dai pennelli del Vandyck, piene di vita e di leggiadria, dagli occhi sereni, che promettevano di diventar languidi un giorno, se già non erano a mezzo, per l'ombreggiamento delle lunghe ciglia. Il collo era forse d'una linea troppo lungo, per un sottile ricercatore del bello assoluto; ma il bello relativo ci aveva il conto suo, per dare un ragionevol sostegno ad una abbondanza prodigiosa di capelli neri e lucenti, che la fanciulla stentava ogni mattina a chiudere nel minore spazio possibile.
—Lorenzo,—diss'ella con un bel suono di voce argentina,—cercano di voi.
—Di me?—chiese il giovine, trasognato.—E chi mai?
Per intendere la maraviglia di Lorenzo bisognerà sapere ch'egli non riceveva nessuno. Amici ne aveva pochissimi, piuttosto conoscenti che amici; e se gli occorreva di accennare il numero del suo uscio di strada, non era certamente con aria d'invito. Non usava dimestichezza colla gente, e non ne lasciava prendere; a molti aveva reso servizio, senza chiederne mai a sua volta. Però gli era venuta la fama di carattere chiuso, solitario, ed anche un tantino ombroso; tranne i saluti di necessità, e le fermate di convenienza, non s'indugiava egli con la gente, nè la gente inclinava a trattenerlo per via.
Soltanto l'Assereto, un antico suo compagno di scuola, aveva il privilegio di andare attorno con lui; e allora a vederli erano passeggiate lunghissime, in città, e fuori le porte. Ma i due amici si vedevano di rado. L'Assereto era un giovinotto così affaccendato nella piazza de' Banchi; Lorenzo Salvani, dal canto suo, viveva così immerso ne' suoi studi, che l'amicizia, l'intrinsichezza loro passava quasi inosservata; e il nostro Salvani restava sempre, nel concetto dei giovani, il solitario e l'ombroso di prima.
Lorenzo aveva chiesto adunque chi fosse il nuovo e inaspettato visitatore.
—Un signore,—rispose la fanciulla,—che dice di essere vostro amico. Michele non ha saputo ridirmene il nome; lo ha fatto passare nel salottino, ed io sono venuta ad avvertirvene.
—Grazie, buona Maria!—E lo sguardo del giovine si fece tutto amorevole, per accompagnare quelle tre parole. Così nella voce, come negli occhi, era una espressione ineffabile di tenerezza quasi paterna.
Mentre egli s'era voltato per indossare il soprabito, si sentì sfiorare il volto da qualche cosa, che, descritta in aria la sua curva, venne a cadergli da' piedi. Era un mazzolino di viole mammole, ch'egli si chinò prontamente a raccogliere. Rivòltosi da capo verso l'uscio, Lorenzo Salvani vide ancora la testa di Maria, che lo guardava e rideva.
—Orso!—gli disse la fanciulla, temperando col sorriso il rimprovero.—Non siete venuto neanche a dirmi buon giorno, questa mattina, e non meritate che sia dato a voi in altra maniera.
—Voi sarete sempre migliore di me;—rispose Lorenzo, mentre riponeva il mazzolino tra le risvolte della sottoveste. Sono un orso; è proprio vero.
—Oh, come la pigliate voi? Non lo dico già perchè sia vero;—replicò la fanciulla, mettendosi sul grave.—So bene, io, che lavorate tanto, e pensate ancora di più.—
Quindi levati gli occhi al ritratto della madre di Lorenzo, le scoccò un bacio colla punta delle dita, e disparve.
—Chi è mai quest'importuno?—chiese a sè stesso Lorenzo, imitando senza avvedersene il conte Almaviva nella prima scena del __Barbiere di Siviglia__.
E si mosse, per andare nel salottino.
Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia a venir sempre buon frutto.
Il primo a dir ciò, sebbene con diversa immagine, è stato Orazio Flacco, in uno di quei versi, che vincono il bronzo al paragone. Verrà il giorno, pur troppo, che in Italia non si saprà più il latino; ma in qualche altro paese non lo avranno dimenticato; i versi del nostro amico Orazio si leggeranno ancora, e si citerà sempre il suo aureo dettato: __fortes nascuntur fortibus et bonis__.
Questo ricordo classico avrà fatto intendere al lettore il nostro proposito. In quella che Lorenzo Salvani va a ricever quell'altro, che ancora ignoriamo chi sia, non sarà male che diciamo qualche cosa intorno alla famiglia del nostro giovine amico.
Il colonnello Salvani, già da due anni dormente il gran sonno, era stato a' suoi tempi uno di quegli uomini che ad una mente eletta e ad un cuor di leone accoppiano una squisita delicatezza di sentire. Grande sventura, essere cosiffattamente dotati dalla natura; perchè queste splendide virtù, con le quali si potrebbe fare il mondo, se fosse ancora da fare, e soprattutto se francasse la spesa di farlo, non riescono in quella vece se non a cozzar le une con le altre, o a renderci sventurati, in un mondo già fatto, anzi così mal fatto come ognun vede. Rigo Salvani, andando molto diritto sulla via del dovere, seguendo il bene e propugnandolo in ogni occasione, aveva avuto di molte amarezze, perfino nella ristretta cerchia de' suoi amici e compagni di lavoro. In politica il cuore è un viscere inutile, spesso anche dannoso; ed egli era così venuto, per una lunga trafila di disinganni, a disdegnare il genere umano, con tutta la migliore intenzione che aveva di amarlo.
In assai giovine età Rigo Salvani aveva preso a congiurare, ed era uno dei più animosi soldati di quella falange sacra, decimata prima dai patiboli di tutti quanti i governi della penisola, poscia dai campi di battaglia, e schernita più tardi da una generazione di sconoscenti, i quali si figurano di aver fatta essi la patria, perchè hanno comperato cartelle del debito pubblico molto sotto alla pari, o perchè hanno messo mano in laute imprese industriali. Ai tempi di Rigo Salvani l'amor di patria non fruttava nulla in quattrini; e neanche in onori, salvo alle volte il cordone dell'ordine riverito di mastro Impicca.
Ma lasciamo da parte queste malinconie. A Bologna, in una di quelle spedizioni di carbonaro, o giù di lì, Rigo Salvani si era invaghito di una nobilissima donna, e l'aveva fatta sua, nè parve che quelle nozze scemassero l'audacia e la costanza del congiurato. Profondamente innamorata di lui, animosa e paziente, Luisa Salvani fu una forza nuova, non già un ostacolo ai propositi dell'intrepido uomo.
Il primo processo lo trovò padre d'un figliuoletto, e la dolcezza degli affetti domestici fu turbata poi dall'esilio. La sua Luisa rimase sola, sposa e vedova ad un tempo, senz'altra consolazione che quella creaturina, di cui ella doveva custodir l'esistenza, innanzi di poterla educare ai nobili esempi paterni.
Così visse Lorenzo Salvani dal 1832 fino al '47, sempre accanto a sua madre, e non vedendo suo padre se non rarissime volte, allorquando l'esule interrompeva i suoi sconsolati viaggi per venire a salutar di soppiatto la moglie e fuggirsene da capo innanzi che la polizia avesse sentore della sua presenza: mesti ritorni e meste dipartite, che poi risplendevano come altrettanti fari luminosi sul mare tenebroso della sua vita raminga.
Nè più riposato per lui fu il tempo succeduto all'esilio; perchè, ritornato del '47 in Italia, Rigo Salvani partecipò ai moti di Genova, che dovevano finire con la promulgazione dello Statuto e con la dichiarazione della guerra santa, come la chiamarono allora; nè valse a mutarle il nome che il papa Pio IX, dopo aver benedetta l'Italia, la maledicesse pentito.
Non è nostro intendimento raccontare quel che operasse allora il Salvani. Uomini come lui non potevano stare inoperosi, o mancare, dovunque fosse da menar le mani; e quando le fortune d'Italia si trovarono ridotte allo stremo sulle sacre mura di Roma, minacciate dai fratelli di Francia, il Salvani era maggiore, e contava le sue quattro ferite.
Era la sera del 29 aprile del '49, e il maggiore occupava coi suoi legionari la porta di San Pancrazio, quando gli venne annunziata la presenza di un giovinetto, il quale chiedeva di lui. Rigo Salvani stava in quel punto scrivendo; però, fatto entrare il visitatore, gli chiese, senza alzar gli occhi dal foglio, chi fosse e che cosa volesse.
L'adolescente, ch'era vestito di rosso, e ad onta della tenera età portava molto fieramente il cappello di feltro a larghe falde con la penna tricolore, salutò militarmente e rispose:
—Sono Lorenzo Salvani.—
Immagini il lettore che senso facesse sull'animo del maggiore quella breve risposta. Rigo Salvani balzò dalla sedia, corse ad abbracciare il figliuolo, e tirandolo con dolce violenza sotto il lume d'una candela, gridò:
—È lui, proprio lui!—
Ma l'ebbrezza di quell'amplesso paterno non fu lunga; il maggiore, lasciata la bruna testa del figlio, che teneva stretta nelle palme, ripigliò con accento di rimprovero:
—E tua madre, disgraziato?
—Mia madre,—rispose l'adolescente,—mi ha data la sua benedizione, trovando giusto che dov'era il padre potesse stare anche il figlio.—
Il maggiore stette un istante a guardare quel sedicenne che ci aveva le risposte così pronte, e che stava lì ritto e rispettoso davanti a lui nella posizione del soldato senz'armi; poscia borbottò tra i denti:
—Infine, ha ragione, ci può stare anche lui.—Abbracciò allora una seconda volta suo figlio, e dopo averselo fatto sedere vicino, e chiestogli le nuove di casa, proseguì:
—E adesso, in che compagnia sei?
—In nessuna, signor maggiore. Desidero di servire sotto il vostro comando, se non vi è discaro.
—Sta bene; e quando sei giunto?
—Oggi stesso; vengo da Civitavecchia, e precedo i signori Francesi, dei quali ho veduto lo sbarco, liberamente operato.—
Dicendo queste ultime parole, l'adolescente batteva de' piedi sul pavimento, in segno di dispetto.
—Chétati!—rispose sorridendo il maggiore.—Non entreranno così liberamente di qua.
—Lo credo; qui ci siete voi, padre mio. E poi, penso che i cittadini di questa repubblica ricorderanno gli esempi dell'antica. Furio Camillo era ben nato da queste parti.—
Lorenzo, sebbene in quell'anno avesse cominciato a studiare filosofia, non aveva già dimenticati i due di rettorica. Parlava volentieri dei Fabii, dei Manlii, dei Quinzii, e d'altri somiglianti semenzai d'uomini prodi. Ancor egli aveva cantato a squarciagola per le vie di Genova:
Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Ov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Che schiava di Roma
Iddio la creò.
Rigo Salvani era tutt'occhi a contemplare suo figlio; ne ammirava lo sciolto linguaggio e il piglio marziale. Lorenzo era ancora un ragazzo, ma già in lui si sentiva l'uomo. Le prime schioppettate avevano da compiere la trasformazione, e da porvi il suggello.
—Tu, dunque, sei venuto a tempo;—gli disse il maggiore.—Credo che domani i signori Francesi, ai quali mi sembra che tu porti già un grande amore, saranno alle viste.
—__Hannibal ad portas__. Ma noi, babbo, non istaremo a piagnucolare come la plebe romana dopo la rotta di Canne, e muoveremo loro incontro.
—Se questo sarà il comando dei capi.
—S'intende, signor maggiore. Ma poichè oggi, entrando in Roma, ho già imparato a cantare: __Anneremo in Campidojo—A saluta' er berretto__, non mi spiacerebbe cambiar domattina di musica. A proposito, padre mio, dicono che il primo fuoco fa paura….
—Secondo i casi, ragazzo mio;—rispose il maggiore, che se la spassava ad ascoltare la gaia parlantina del figlio.—Ed anche dipende molto dalla compagnia in cui uno si trova.
—Orbene, padre mio, se non vi spiace, starò vicino a voi, farò di non tremare. Se mi vedrete una brutta cera, ditemelo subito; la vergogna mi farà diventar rosso come questa camicia.
—Te lo darò io, il rimedio contro la commozione del primo fuoco;—disse il maggiore.—Mettiti a cantare la Marsigliese, e ti sentirai un cuor di leone.
—Avete ragione, padre mio; ma io non la canterò certamente in francese.
—E perchè?
—Perchè non mi pare ben fatto cantarla nella stessa lingua di chi viene ad assalirci. Voi avete detto ch'io porto amore ai Francesi, e, sebbene celiando, avete colto nel segno. Io amo molto i Francesi, perchè sono un gran popolo, ed hanno fatto di grandi cose nel mondo; ma la lingua della patria innanzi tutto. Ed io, per far le schioppettate con loro, come dobbiamo, essendo assaliti, vedrò di scordare che hanno fatta la rivoluzione dell'89 e promulgati i diritti dell'uomo.
—Ecco, tu parli come un uomo di Stato, mio buon Lorenzino;—disse Rigo Salvani, accarezzando i neri capegli del figlio.—Ma perchè non vorrai tu cantare la Marsigliese nella sua lingua nativa? È il canto della libertà, e la libertà è patrimonio di tutte le nazioni. D'altra parte, mi dicono che sia impossibile voltarlo in italiano, conservando tutti quei tronchi che sono nell'indole della lingua francese.
—Oh!—rispose Lorenzo con la baldanza spensierata che è propria dei giovani.—Se la difficoltà è tutta nei tronchi, non è cosa da spaventarsene; e poichè l'essenziale è di poterla cantare, io ne sono venuto a capo. Non ci sarà la forza dell'originale; ma la musica supplisce al difetto. Sentite un po'.
E l'adolescente cominciò in questo modo a cantare:
Prodi, orsù; per la terra natia
Il bel dì della gloria spuntò.
Contro noi la tirannide ria
Lo stendardo sanguigno levò.
Udite voi?—L'empie coorti
Van ruggendo per l'arso terren;
Vengono, vengono, sul vostro sen
A sgozzarvi figliuoli e consorti.
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
—Benissimo! va innanzi:—gridò il maggiore Salvani.—La musica ci si adagia abbastanza bene, in questa tua strofa. Sentiamo l'altra.—
Lorenzo, incuorato dalla lode paterna, proseguì con accento più concitato:
Che vuol mai questa folla di schiavi,
Questa lega di perfidi re?
Per chi mai questi ceppi da ignavi?
Quelle pronte catene perchè?
Forse per noi?—Su, ti disfrena,
O gran tempo represso furor!
Siam noi che pensano nell'imo cor
Di ridurre all'antica catena?
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
—Lascio stare le altre,—soggiunse l'adolescente, com'ebbe finito il ritornello,—e vengo subito all'ultima, a quella che ogni buon repubblicano usa cantare in ginocchio.
Santo amor della patria, tu incita,
Tu sostieni la vindice man;
Libertà, libertade gradita,
Co' tuoi figli combatti sul pian,
E volga a noi—i passi suoi
La Vittoria, al tuo forte chiamar;
E i vili veggano, presso a spirar,
La tua gloria e il trionfo de' tuoi.
All'armi, cittadin!
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
—Bene!—gridò il maggiore, stringendo il giovinetto nelle sue braccia.—Tu sei davvero sangue del mio sangue.
—Ah! questo bel legionario è vostro figlio? Me ne rallegro con voi, maggiore Salvani.—
Queste parole erano proferite da un nuovo personaggio, entrato allora allora nella camera. Portava egli pure la tunica rossa e il cappello di feltro nero colla penna dei tre colori, e sebbene non contasse ancora i ventidue anni, aveva già aspetto d'uomo maturo. Il pensiero è quella certa lama, così spesso adoperata a raffronti poetici, che a lungo andare logora la guaina. Il viso pallido, lo sguardo e l'atteggiamento malinconico, la fronte prominente e spaziosa sotto l'onda dei lunghi capelli biondi, mostravano a prima giunta il pensatore; e il pensatore a quell'età non poteva essere se non un poeta.
—Sei tu, amico?—disse il maggiore, muovendo incontro al nuovo venuto.—Eccoti mio figlio, per l'appunto, Lorenzo Salvani: un tuo concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.
—Bello, e animoso, in verità!—soggiunse quell'altro.—Ed è probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.
—L'hai dunque udito?
—Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È molto difficile voltare quell'inno nella lingua nostra, senza mettersi in guerra dichiarata colla musica. C'è sopra tutto la prosodia del quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a proposito, l'ultima strofa non ce l'avete mica fatta sentire. Sapete bene che la Marsigliese ha un'ultima, ultimissima strofa, dove sono i fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; __Nous entrerons dans la carrière__….
—Ah sì, dite benissimo;—replicò il giovinetto;—e questi sono i versi che stanno meglio sulle labbra d'un ragazzo par mio. Infatti, ho tradotto anche questi:
Noi verremo secondi a riscossa,
Che i maggior non saranno già più;
Ma là sparse sarannovi l'ossa,
Ad esempio d'antica virtù.
A quelli eroi—sopravvivendo,
O con essi caduti sul pian,
—«Hanno voluto» tutti diran
«Vendicarli, o seguirli morendo».
All'armi, cittadini
Stretti a drappel moviam!
Corriam, d'un sangue vil
Que' solchi abbeveriam!
—Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti,—disse l'altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare,—perchè venite animoso a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo caduti.—
Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi della gangrena, e le palle di cannone ch'entravano per le finestre a turbar l'agonia del Tirteo genovese.
Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era Goffredo Mameli, l'autore dei __Fratelli d'Italia__ e di tanti altri bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della sua sconciatura, e più del coraggio con cui s'era fatto a metterla in mostra.
Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l'arrivo del generale Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo si pose sull'orme del padre.
L'eroe di Sant'Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell'animo del giovinetto. Tutto ciò ch'egli aveva udito e letto intorno a quel maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della riverenza che gl'inspirava la vista del grand'uomo dalla camicia rossa, coperto il petto e le spalle dal __poncho__ americano, onde il braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento dell'òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.
A quell'aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma, terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d'un subito tutta la possanza di quell'uomo sulle moltitudini; comprese allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui cenno altri si precipitasse senza esitare dall'alto d'una torre, siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.
Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese; indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:
—Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più dispotismo sulla terra.—
Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte mura di Roma, sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.
Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov'era già la moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all'Università genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le carezze di sua madre.
Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l'acerbità gli amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti. Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia: l'Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il __Fratelli d'Italia__; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima grande rivoluzione d'Italia, soldati d'ogni paese e strumenti d'ogni tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.
Lorenzo si pose con tutta l'anima allo studio. Lo sconforto che gli occupava lo spirito gli nutrì quell'amore della solitudine che già rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l'anno scolastico, volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin dalla sua prima giovinezza diventato maestro.
Egli soleva dire a Lorenzo:
—Impara a leggere ne' tuoi codici; impara a scrivere le tue prose e i tuoi versi; ma impara anche a dare in tempo la botta diritta, e a piantare di primo lancio una palla di pistola in un palo, a quaranta passi discosto. Il coraggio l'hai; abbi ancora la destrezza, perchè gli uomini in maggioranza son tristi, e dai tristi bisogna sapersi far rispettare. Ama la patria, perchè essa, che ti ha dato i natali, è schiava dello straniero, e perciò non devi patire questa vergogna, non già per alcun bene che tu ti possa riprometter da lei. Così devi amare il tuo simile, senza dolerti delle sue doppiezze e de' suoi tradimenti. Se trovi una donna sincera, amala come io ho amato ed amo tua madre. Se trovi un amico che sia schietto e generoso, stendigli la mano. Se la donna o l'uomo non risponderanno alla fede che avevi riposta in essi, non ti accorare oltre il bisogno; sarà tanto peggio per loro; tu ara diritto, e non ti dar pensiero del resto.—
Questi insegnamenti, misti alle conversazioni politiche, ai ricordi del campo, alla lettura di Plutarco e alle lezioni di scherma, avevano fatto opera gagliarda nell'animo sensitivo di Lorenzo. A quarant'anni, ammaestrato ad una simile scuola, sarebbe riuscito uno stoico; ma non aveva ancora diciott'anni, e lo aspettavano certe battaglie, alle quali si mostra inerme quel petto che era pur dianzi tetragono ad ogni avversità della vita.
La madre di Lorenzo era una di quelle donne, non troppo rare, la Dio mercè, presso noi, cresciute nel culto del bello, del buono e del vero. Ella aveva molto sofferto per la lontananza del marito, che fortemente amava, e al quale aveva consacrato quel ragionevole ossequio che si merita la virtù presso gli animi virtuosi. Egli, poi, la ricambiava di pari affetto, la sua nobilissima Luisa; per lei si spianavano le rughe della sua fronte; e quando ella parlava. Rigo Salvani trovava pure il modo di comporre ad un sorriso quelle sue labbra chiuse. L'amor loro poteva assomigliarsi a que' fiumi, i quali son tanto più profondi, quanto alla superficie vi appariscon più calmi.
E nondimeno taluni si argomentavano di sapere che negli anni dell'esilio il signor colonnello avesse fatte le sue. Ignoravano costoro che per la donna amata Rigo Salvani era tornato di sovente a casa, sotto mentite spoglie, arrisicando la libertà e la vita. Non erano questi davvero i diportamenti di un uomo, che mettesse i suoi affetti fuggevoli in paese straniero. Tuttavia, ed eccettuato quel tanto che vuolsi ascrivere al bisogno naturale della maldicenza, ecco da dove quelle ciarle avevano potuto prendere una mezza apparenza di vero. Al suo palese ritorno, che fu nel '47, Rigo Salvani aveva condotta con sè una bella fanciullina di forse otto anni, collocandola in casa come una sua propria figliuola.
Ora, siccome i Salvani vivevano piuttosto appartati, non si poteva a tutta prima capire che cosa significasse quella ascosaglia. Le poche domande che in un lungo spazio di tempo si poterono fare da qualche curioso, erano accortamente deluse. Ne seguì naturalmente che quanto non si sapeva di certo, si affermasse audacemente per vero, attinto da buonissima fonte, e che presto non ci fosse più alcuno, tra i conoscenti e i vicini della famiglia, il quale non credesse esser quella una figlia naturale di Rigo Salvani. La cosa era chiara; non poteva essere altrimenti; e qui taluno, di fantasia più ferace, rimpolpava di qualche particolare la chiacchiera, accennando, coll'aria di chi sa più che non voglia dire, a certo amorazzo di Spagna, e compiangendo sinceramente la povera signora Luisa, costretta a tenersi in casa quel frutto degli illeciti amori del vagabondo consorte.
Ma la povera signora Luisa non pareva dolersene, come tutta quella brava gente avrebbe desiderato, per accattar fede ai suoi benevoli sospetti. Essa amava teneramente la fanciulla; ed anche Lorenzo, di sette anni maggiore in età, l'aveva in conto di sorella. Quante volte ritornava a Genova in vacanze, ci aveva sempre il suo presente per la cara Maria, che d'anno in anno cresceva in bellezza, affinandosi in grazia, in gentilezza, in bontà, tutta amore e devozione per quella che aveva preso a chiamare anche lei col dolce nome di madre. Presentiva ella, tenendosi così stretta al fianco della pietosa signora, che troppo breve spazio di tempo le sarebbe avanzato per dimostrarle tutta la sua gratitudine?
Nel '55 la signora Luisa morì: il colonnello, d'allora in poi, fu più taciturno, più chiuso del solito: Lorenzo per quell'anno lasciò le Pandette e il Digesto da banda, e non si mosse da Montobbio, perchè, oltre il suo proprio dolore che lo aveva abbattuto, c'era l'accoramento del babbo, che gli faceva paura.
Tutte le mattine, sull'alba, Rigo Salvani era al camposanto a salutare la tomba di sua moglie, quella tomba che racchiudeva la miglior parte di sè, tutte le ricordanze profumate della sua giovinezza, gli amori, le gioie, i patimenti in ugual misura divisi tra due nobili cuori. Nè l'amore dei figli poteva più bastare a quell'anima sconsolata. I figli nostri son nati per la vita del futuro, nè ci compensano della perdita di chi ha vissuto con noi amorosamente il passato.
Un giorno. Rigo Salvani, andato secondo il costume al camposanto, non ne fu più visto ritornare. Lo trovarono freddo irrigidito sulla tomba della moglie. Le due parti d'una sola esistenza, che tali si potevano dir veramente, divise per breve ora dalla morte, si erano nella morte ricongiunte. L'orfano pianse a lungo i parenti, ed allorquando le lagrime cessarono, il suo cuore era già largamente abbeverato di quella amarezza, che è il viatico degli onesti nel mare procelloso della vita. Dei cari estinti gli rimaneva pur qualche cosa; il culto dei severi insegnamenti, il sacro debito di dar sesto alle non prospere cose domestiche, e di essere a sua volta come un padre per la giovine Maria.
Lasciò allora la campagna, e pose dimora in Genova, dove sperava di cavare in qualche onesta maniera il vivere, pure attendendo a finire i suoi studi. Delle sostanze paterne ben poco si potè sottrarre ai creditori ed ai vampiri giudiziarii. Intanto due anni passarono, e salvo l'esser giunto a conseguir la licenza in leggi, il povero Lorenzo non era venuto a capo di nulla. E di sovente pensava al triste futuro, alla sua vita senza indirizzo, senza speranze, con pensieri a contrasto coi fatti, come con le necessità urgenti del giorno. Vero figlio del suo secolo, si lagnava del padre suo che lo divorava, come Saturno la prole.
Che cosa avrebbe egli fatto? L'avvocato? Era una bisogna troppo lunga, nè egli aveva modo di aspettare un altr'anno per la laurea, poi due per le pratiche, e dio sa quanti altri per sudarsi una clientela. C'erano i pubblici uffizi; ma in questi si comincia sempre dal lavorare per nulla, e a farsi avanti occorre poi sempre una legione di santi intercessori, Darsi al commercio? Peggio che mai. Anche a cominciar da scritturale, da commesso, da galoppino, gli sarebbe bisognato rifar da capo tutta la sua educazione, e aver conoscenti che sapessero e volessero raccomandarlo caldamente qua e là, dove e quando il posticino si potesse trovare. Intanto, il bisogno di lavorare incalzava. Lorenzo era giunto a quell'ultimo stadio dell'agiatezza, allorquando dall'oggi al domani si casca nelle strette della necessità, perchè si è vissuti con gli ultimi avanzi di una modesta sostanza, e non si sa ancora che cosa sostituirvi.
Egli tuttavia non si era perduto d'animo, vagheggiando in buon punto un modesto disegno. Apertosi schiettamente coll'amico Assereto, aveva finalmente, nè senza fatica, trovato qualche cosa. L'Assereto era uomo di partiti, e di facile entratura; amava anche molto Lorenzo Salvani, col quale discorreva volentieri di letteratura. Il che non deve far maraviglia ai lettori non genovesi. Essi hanno da sapere, infatti, che da noi le Camene son tenute in conto più che a prima vista non sembri. La necessità fa l'uomo industrioso, perciò il genovese, quando sia giunto all'età di dover pensare ai casi suoi, si mette a lavorare con tutte le sue forze; ma non dimentica le panche della scuola, e gli studi geniali della adolescenza gli sorridono sempre, come l'immagine dell'òasi al viaggiatore del deserto. S'ingegna tutto il giorno sulla piazza de' Banchi e sulla popolosa calata del porto; ma si riposa alla sera discorrendo d'arte, mettendo a confronto drammi e commedie, teatri di prosa e teatri di musica, ed accettando la discussione su tutti i rami dello scibile.
L'Assereto, voleva ad ogni costo trovar modo di aiutare l'amico Salvani. A grossi guadagni non c'era da pensare, pur troppo; ma occorreva procacciargli tanto da tirar avanti la barca, aspettando una giornata di buon vento. Quel tanto, gli pareva di averlo trovato presso un ricco bottegaio, il quale «sapeva poco di lettera», e aveva bisogno di uno, che ogni sera gli mettesse a segno i suoi conti.
Non arriccino il naso certi lettori schizzinosi, al sapere che Lorenzo Salvani, uno dei più ragguardevoli personaggi della nostra storia, teneva i libri d'un bottegaio. Se hanno essi un'altra occupazione più nobile da offrirgli, ci usino la cortesia di avvisarcene, e noi lo accomoderemmo subito al loro servizio. Di meglio non s'era trovato allora; ma era pur sempre il principio di qualche cosa. Ottanta lire al mese, pagate in sedici scudi d'argento, non erano una spregevole moneta, e Lorenzo Salvani la guadagnava con due orette di lavoro notturno, che neppur l'aria aveva a risaperlo.
Quelle ottanta lire, messe insieme con qualche avanzo delle antiche sostanze e con alcune gioie di famiglia, vendute alla spicciolata, aiutavano tre persone a vivere. Lorenzo, la giovine Maria, ed il vecchio Michele, veterano di Montevideo e di Roma, il quale, a sua volta, si acconciava all'umile ma gradito ufficio di servitore. La pigione di casa, al tempo in cui comincia il nostro racconto, era pagata ancora per tre mesi.
E adesso, che abbiamo fatto intendere un poco lo stato delle cose nella famiglia Salvani, non sarà male proseguire la narrazione interrotta.
Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni, e di una spasimata voglia che aveva di scendere in campo per la sua dama.
Abbiamo lasciato Lorenzo nel punto che egli era per entrare nel salottino, chiedendo a sè stesso chi fosse mai l'importuno che veniva a cercare di lui. L'importuno era un giovinotto sui trenta, lungo e magro, con una testa volgare, capelli rossigni e ruvidi, corti e radi i peli sul viso, la guardatura fosca. Non bello, adunque; ma non per niente è stata inventata la moda, che anco d'un ceffo di cane può farvi una faccia da figurino di Parigi.
I capelli rossigni del nuovo venuto erano dunque tagliati a spazzola sulle tempia, con la divisa tirata ben diritta e bene impomatata sul cranio. La barba rada, che traeva un pochettino al castagno, si stendeva tra gli orecchi e gli zigomi in due ventole smilze. Il labbro superiore e il mento accuratamente rasi, lasciavano risaltare una bocca sottile, ornata di denti bianchissimi, ch'egli faceva spesso vedere, con notevole compiacenza. La magrezza delle membra, coll'aiuto d'un vestimento all'inglese, simulava sveltezza di forme. I guanti perlati, coi tre cordoncini neri sul dorso, che era mezzo coperto dai manichini insaldati, lo stivalino inverniciato, e l'occhialetto cerchiato di tartaruga, davano il compimento a questo esemplare della grazia posticcia d'allora, e di poi. C'era insomma tutta la parte materiale della eleganza aristocratica; e l'aspetto dell'uomo, così ridotto a forme di consuetudine, poteva riuscir tollerabile ai più, e, crepi l'avarizia, parer grazioso a parecchi.
Lorenzo Salvani non seppe trattenere un atto di maraviglia, quando vide costui nel suo salottino. L'inarcamento delle ciglia e la testa tirata indietro significavano il più grosso dei punti ammirativi, e una filza di puntini per giunta.
—Collini!—esclamò egli, senza muoversi ancora dal suo atteggiamento.
—Sì, Collini, per l'appunto;—rispose l'altro con un sorriso ch'egli si studiava di rendere amabile.—Vi maraviglia forse?
—Forse; lo avete detto voi stesso;—ripigliò Lorenzo, con accento malizioso, ma senza cattiveria.—Ma che buon vento vi sbalza quassù?
—Non troppo buono, per verità;—disse il Collini.—Comunque sia, non vi dispiaccia che io sia venuto da voi per chiedervi un servizio da amico.
—Non potevate farmi cosa più grata,—disse di rimando il Salvani.—Son così lieto quando posso renderne uno, che ciò mi consola della mia pochezza, e della mia povertà. Accomodatevi, prego, e veniamo all'essenziale.
—Eccolo;—rispose il Collini, sedendosi sulla scranna che Lorenzo gli offriva.—Questa notte, alla veglia del Ridotto, sono stato insultato.
—Oh diamine! e da chi?
—Dal marchesino di Montalto. Un tale che non ha il becco d'un quattrino! Lo conoscerete; è quel coso biondo, tutto superbia, che va sempre ritto impalato, nell'eterna compagnia del Pietrasanta.
—Voi sapete che io non ho dimestichezza con questi signori del patriziato. Vivo così fuori del mondo!
—Ah, è vero; e forse è il meglio che si possa fare;—concesse con un mezzo sospiro il Collini,—Ma a noi la professione comanda di viverci dentro, e bisogna adattarsi. Io dunque vi dicevo che questa notte, al ridotto del Carlo Felice, sono stato insultato dal signor Montalto, e alla presenza di una signora, di una dama.
—Perdio! la cosa è grave. Ma dite…. in che modo?
—Oh, si andrebbe per le lunghe;—rispose il Collini, con aria impacciata.
—Scusate;—si affrettò a dire Lorenzo.—Non domandavo del modo, se non per misurare la gravità dell'offesa, e non pensavo affatto alla persona che era presente. Le donne, in questi casi, van nominate il men che si può. Ma bisognerà pure, se debbo darvi consiglio, bisognerà pure ch'io sappia la frase, la parola di cui vi ritenete offeso.
—Avete ragione, Salvani; ed ecco qua tutto il necessario. Accompagnavo la signora, che era mascherata. La signora bisbigliò alcune parole, certamente di grazioso motteggio, come è l'uso, al marchese di Montalto, il quale stava insieme col marchese Pietrasanta, in un angolo della sala dove c'è il camino. Non udii le parole della signora; ma quali si fossero, non dovevano meritare una dura risposta, alla quale essa ribattè prontamente ch'egli non era cortese. Notate, Salvani, che la signora è di buonissima nobiltà, e le smorfie del Montalto, che non potrà poi far risalire la sua al tempo delle Crociate, erano veramente fuori di posto, e un grazioso motteggio della contessa…. Oh, perdonate, quasi mi lasciavo sfuggire il suo nome.
—Non importa,—disse Lorenzo.—Io non soglio ricordarmi di ciò che debbo dimenticare. Proseguite pure.
—Orbene,—soggiunse il Collini,—a quel piccolo rimprovero della signora, il Montalto fece un inchino impertinente, accompagnato da un sorrisetto sarcastico.
—E voi?
—Io non potei ritenermi dal fargli notare la sconvenienza del suo ghigno. Ma egli allora, rialzando il capo e guardandomi in atto sdegnoso, mi disse: «Voi badate ai fatti vostri». Volli replicare; ed egli da capo: «Mi provocate voi forse?»—«Sì, perchè no?»—«Voi?» ribattè egli, beffardo.—«Signore» dissi allora, «io non so di che cosa possiate ridere, quando io vi parlo in questo modo; ma penso lo direte a coloro che avrò l'onore di mandarvelo a chiedere».—«Saranno i ben venuti» rispose; e ci separammo. Eccovi tutto l'accaduto. Che cosa debbo fare?—
E il giovinotto dai capelli rossigni stette ansioso ad aspettar la risposta.
—Perbacco!—esclamò Lorenzo Salvani.—Non trovo altro modo di uscirne, se non mandando i padrini a questo marchese di Montalto. La ragione del duello mi sembra assai lieve; ma probabilmente c'è sotto qualche ruggine colla signora….
—Colla signora? Oh no;—rispose il Collini.—Ella mi disse di non conoscere il Montalto altrimenti che di vista, e di non avergli detto se non cose gentili, e molto innocenti.
—Allora ci sarà una ruggine del Montalto con voi.
—Eh, qui penso che abbiate ragione, Salvani. Egli deve volermi un mal di morte, perchè gli ho lasciato sempre intendere di non stimarlo gran che.
—Male!—esclamò Lorenzo.—Consentite a me, più giovine di voi, ma vostro antico compagno alle medesime scuole, di sgridarvene un poco. Gli uomini bisogna stimarli tutti, senza accarezzarne nessuno. Ora a noi; in che cosa posso esservi utile?
—Già lo immaginate, poichè vi ho detto d'esser venuto chiedervi un servizio. Fatemi da padrino.
—Sta bene;—disse Lorenzo, accennando del capo.—Siete pratico d'armi?
—E di sciabola e di spada ho tre anni di scuola, da Licurgo Cavalli.
—Ce n'è d'avanzo. E di pistola?
—Mi son sempre esercitato.
—Ottimamente! Due grammi di coraggio, di cui non patirete certamente difetto; due di sangue freddo, che è proprio dell'arte vostra, e siete armato di tutto punto. Dove abita questo Montalto?
—In via Balbi.
—Palazzo?…
—Oh, non abita in un palazzo, il marchese di Montalto. La nobiltà ce l'ha tutta in boria. Non ricordo più il numero dello stabile; ma non vi sarà difficile trovarlo, prendendo lingua dai bottegai di là dal palazzo Reale. Aspettate; ricordo che c'è un portinaio, e ch'egli abita al secondo piano.
—Bene, bene, lo troveremo;—conchiuse Lorenzo.—Ma, a proposito del mio plurale, non avete un compagno da darmi, per questa bellica impresa?
—Non ne ho; non saprei….—disse impacciato il Collini.
—Come? E non siete voi sempre in fiorita compagnia, nella quale potrete sempre trovar l'uomo che occorre?—chiese Lorenzo, che non poteva più stare alle mosse.—I vostri antichi compagni li avete sempre trascurati un tantino, per andare con altra gente, e di maggior levatura. Non dico ciò per farvene un rimprovero. Dio guardi. Accenno il fatto, e ripeto lagnanze di vecchi amici, che forse, confessatelo, da un pezzo in qua non v'accorgevate nemmeno che fossero al mondo.
—È un'accusa che non merito;—gridò il Collini, arrossendo.—La mia professione di medico, l'onesto desiderio di tirarmi innanzi, mi hanno condotto a vivere più in un ceto che in un altro; ma io vi giuro….
—Oh, non giurate nulla;—interruppe Lorenzo.—Capisco tutto, e vi ripeto che non parlavo per farvi rimprovero. Io, finalmente, debbo riconoscere che nel momento del bisogno avete pur fatto capo alla mia modesta persona. Sapete da quanto tempo non ci troviamo insieme? Da due anni.
—Credete?—balbettò il Collini, arrossendo ancora.
—Se lo credo! ne son certo. Ma andiamo, via! Non avete tra i vostri magnati l'uomo che vi possa servire? Lo cercherò io tra i miei fedeli del buon tempo e del gramo. Pregherò l'Assereto di darmi man forte.
—L'Assereto? Mi par di conoscerlo.
—Certamente, lo conoscerete. Studiava filosofia con me, all'Università, quando voi eravate ai primi anni di medicina. Ma noi altri non ci siamo perduti di vista, sebbene egli abbia mutato strada. Ordunque, ai fatti. Aspettatemi due minuti, e sono ai vostri comandi.—
Come il lettore ha veduto, questo signor dottor Collini, che veniva a chieder servizi di tanto rilievo, non si faceva notare per costanza nelle sue amicizie. Inoltre, viveva in un ceto di persone, e andava a cercare assistenza fraterna in un altro, in quello, per l'appunto, che aveva abbandonato.
Il dottor Collini (lo diciamo ora, poichè ci viene in taglio) era un ambizioso di tre cotte, e della modesta sostanza che aveva ereditata dai suoi, si era giovato accortamente per frequentare i gran signori. Esercitava la medicina, nella quale era versatissimo e già famoso per qualche cura fortunata, sebbene ancor giovine: ma si diceva che quel giovine medico s'aiutasse più con la sottigliezza dei raggiri che con la bontà delle ricette. E taluno, anzi, più addentro in certi misteri della vita cittadina, lo accusava d'imprestar denaro ai figli di famiglia, ai troppo vivaci rampolli delle nobili casate con le quali era entrato in relazione, per farselo poi restituire raddoppiato dai frutti, o triplicato, o quadruplicato, col savio metodo delle rinnovazioni. Ahi, la calunnia! Ma egli in questi negozi non entrò mai per suo conto: parlava, faceva parlare da altri, e non domandava nemmeno di essere ringraziato della sua cortese intromissione. Al più, volendo malignare ad ogni costo, si sarebbe potuto dire che egli sapesse collocar bene il suo denaro, essendo uno dei socii occulti del banco Cardi Salati e C., del quale a suo tempo racconteremo vita e miracoli. Brutta cosa, non è vero? Ma questa non si sapeva, e quanto a certe chiacchiere di gente malevola, il Collini le poteva disprezzare. Dotto e virtuoso per molti, non aveva agli occhi loro altro difetto che l'ambizione, anzi la forma più tenue dell'ambizione, la vanità. E se ne rideva un pochino, senza perdergli stima. Si sa bene, chi non ha il suo difettuccio? La vanità è il piede di creta di tanti colossi! Ma bisognava anche dire che la vanità del Collini, non che un piede, fosse una gamba a dirittura.
Per avere un titolo di conte, il giovinotto avrebbe sacrificato Dio sa che cosa, e, stiamo per dire, battuto moneta falsa. Però invidiava al marchese di Montalto le sue pergamene, come gl'invidiava la bellezza (un po' sciocca, la chiamava egli tuttavia) e i sospiri delle belle signore. In teatro gli davan noia gli applausi prodigati ad un tenore, come di cosa che gli levassero a lui: sulla pubblica piazza avrebbe augurato il capitombolo ad un saltatore di corda, ad un mattaccino, per tutte le prodezze che sapevano fare, e che tiravano troppo l'attenzione della folla.
Lorenzo Salvani non sapeva niente di ciò. Nel Collini non vedeva altro che un semplice vanerello, e, da buon filosofo com'era, gli perdonava facilmente quel suo peccatuccio. Era d'altra parte contento che nell'ora della necessità, in una di quelle occasioni che provano gli amici, il Collini si fosse ricordato d'un vecchio compagno di scuola, da gran tempo a mala pena salutato per via.
Così risoluto di rendergli servizio, si vestì in fretta, mise nel taccuino alcuni biglietti di visita, e uscì di casa in compagnia del Collini, suo Pilade improvvisato.
L'Assereto fu presto scovato tra piazza dei Banchi e il vicolo de'
Cartai, ragguagliato d'ogni cosa e persuaso a dare una mano. Due ore
più tardi, egli e il Salvani erano al caffè della Concordia, dove il
Collini stava aspettando l'esito della loro visita al marchese di
Montalto.
—Ebbene?—chiese egli ansioso.
—Tutto fatto;—rispose Lorenzo.
—Come, fatto?
—Eccovi tutto per filo e per segno. Abbiamo trovato il signor marchese, assai garbato nei modi, quantunque ne trapelasse un poco della sua alterigia. Saputo del nostro incarico, ci domandò se sapevamo anche le condizioni dell'alterco tra lui e voi. Io, come potete immaginare, risposi di no; che infatti siamo ancora adesso a non saperne nulla. Parve meravigliato, e mormorò tra i denti: «Tanto meglio; vorrei essermi ingannato». Gli chiesi allora che cosa significassero quelle sue parole di colore oscuro. «Niente, niente che vi possa dispiacere, nel vostro delicatissimo ufficio» si affrettò egli ad aggiungere colla maggior compitezza. «Voi bene intenderete, signori, che per andarmi a incontrare sul terreno col signor Collini io non sono certamente costretto a pensare di lui come ne pensano i suoi amici. La sua riserbatezza, del resto, gli fa molto onore, e voi vedete che amo rendergli giustizia. I miei padrini sono il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, capitano nel settimo reggimento di fanteria». Infatti, quei due signori erano in casa sua, e ce li presentò. Sono due compitissimi cavalieri, e c'intendemmo subito. Noi abbiamo lasciato loro, com'era giusto, secondo gli usi nostri, la scelta dell'arma, ed essi hanno scelta la spada.—
Un sottile osservatore avrebbe potuto notare un lieve mutamento sul volto del Collini, una cosa da niente, ma di quelle che bastano a far sentenziare sommariamente di un uomo. Lorenzo tuttavia non si addiede di nulla, e la faccia del Collini si ricompose prontamente. Che paura, del resto? Una piccola scossa, a tutta prima, sentendo nominar l'arma che si dovrà maneggiare. Ma le armi son tutte pari, davanti alla fortuna che le guida.
—Domattina,—proseguiva Lorenzo,—alle ore cinque dobbiamo trovarci in Albaro, presso la chiesuola diroccata di San Nazaro. È un ottimo luogo. Le armi le porterò io, che sono di Toledo, col __Christi__ inciso sul forte della lama. Siete contento?
—Contentissimo:—rispose il Collini;—e vi ringrazio di cuore.
—Anch'io sono contento,—disse il Salvani.—Non già del duello. Ma poichè bisognava farlo, preferisco la spada. È un'arma meno chiassosa, e di antica nobiltà italiana.
—Così penso ancor io;—riprese il Collini.—Io dunque faccio assegnamento su voi altri.
—State sicuro. Ma, a proposito, e il ritrovo? Verremo da voi alle quattro, se vi conviene….
—No, no;—interruppe il Collini.—Non venite da me; ci ho le mie buone ragioni; temo che s'indovini dove vado. Per una visita medica, che fingerò di aver da fare, non è proprio necessario che si vedano due gentiluomini al mio uscio di casa. Farò dunque in modo da non dar sospetti in famiglia, e alle quattro e mezzo sarò io stesso a' piedi della collina, sotto la villa del Paradiso.
—Vi aspetteremo dunque lassù. E adesso dove andrete?
—Dal Cavalli, a rifare la mano.
—Benissimo; a domattina.—
I due amici, salutato il Collini, andarono pei fatti loro. Ma come furono giunti sulla piazza delle Fontane Amorose, l'Assereto si fermò sui due piedi, guardando il compagno.
—Ebbene?—disse Lorenzo.—Che c'è?
—Sai una cosa?—disse di rimando quell'altro.—Questo Collini non mi pare un uomo solido.
—Baie! e perchè?
—Perchè più volte ho cercato di guardarlo nel mezzo degli occhi, e non ne sono mai venuto a capo.
—Sai che è una sua abitudine non guardar mai fissamente. E voi altri lo tartassavate sempre per ciò, dandogli del gesuita a tutto pasto.
—Sì, quello che vuoi; ma la sua faccia mi persuade meno che mai.
Credo che sia pentito d'essersi messo in questo impiccio.
—E in questo noi non ci abbiamo da entrare;—rispose il Salvani.—È venuto a chiederci un servizio; glielo abbiam fatto, e penso, mettendo la modestia da banda, che non avrebbe potuto trovare altri due che lo servissero meglio. Sul terreno farà il debito suo. Li conosco bene, questi uomini: non hanno il coraggio impetuoso, ma il sentimento della loro dignità li sostiene. E poi, questo non è il suo primo duello.
—Credi? Ebbene, si vedrà domattina. Addio; sarò da te questa sera.—
Così dicendo, l'Assereto se ne andò a casa sua, per la salita di Santa Caterina, crollando il capo come l'Apostolo del dito; benedettissimo uomo, che voleva vedere e toccare.
Lorenzo Salvani discese dai Ferri della Posta verso Luccoli, e rientrando in casa ordinò al fido Michele che spiccasse le spade dal trofeo, per dar loro una ripulita. Poi si mise da capo a tavolino, ripigliando a scrivere nel suo zibaldone, con la voluttà dell'uomo povero, che ha tutti i suoi feudi nel regno della fantasia.
Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli non siano poi tutti in paradiso.
Qualche lettore curioso vorrà sapere dell'altro intorno a quella testolina di fanciulla, che insieme abbiam vista apparire dal vano di un uscio, e di cui, con pochi e rapidi tocchi abbiamo anche abbozzato una specie di ritratto. E noi vogliamo contentarlo, questo lettore curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il racconto.
Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza, che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova, perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra immaginazione.
Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore, castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil creatura.
Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre, gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia prominenti.
Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto, sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__» (anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due nobilissime creature.
Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone, gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani alla cara fanciulla.
—Un giorno qualcheduno ti amerà,—aveva detto la signora Luisa,—di un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto, buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi dobbiamo rispettare la sua volontà.
—E mia madre?—aveva chiesto Maria.
—Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?
—Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto, l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più fortunata tra le orfane.—
Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro, nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un rimedio efficace!
E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto, aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare; e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non arrossiva di metterle in lotteria.
Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di assoluzione.
Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio del suo caro fratello.
Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto, che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a spacciare.
Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.
Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco, fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare, osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi, che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo sulle braccia, e via discorrendo.
Nel salottino di Lorenzo Salvani il terribile albo non c'era, non essendo ancora venuto l'uso della fotografia a buon mercato; e l'altra costumanza dell'albo bianco, trappola di poeti e di pittori, era in uno de' suoi intervalli di felicissimo riposo.
Maria, del resto (che in simili faccende gli uomini non contano mai), anche se la costumanza dell'albo fosse stata viva e fiorente, non l'avrebbe seguita di certo. La fanciulla aveva altro da pensare, e il gusto di certi trastulli donneschi non lo sentiva affatto. Non amava, per esempio, i fiori sul davanzale, nè i canerini in gabbia; amava tutte le creature del buon Dio, ma senza far preferenze.
Nel giorno da cui prende cominciamento la nostra narrazione, Maria aveva fatte le maraviglie della visita ricevuta da Lorenzo. Il giovine non chiudeva la sua casa a nessuno, ma nessuno ci andava, perchè egli non concedeva diritti di dimestichezza a nessuno. Sapevano tutti ch'egli aveva una graziosa sorella; lo vedevano uscire con essa, ma non c'era verso di potersi accompagnare. Eglino del resto andavano sempre a diporto per istrane vie, a guisa di chi va per le sue faccende. Le strade Nuove e l'Acquasola, ritrovo di gente sollazzevole, non vedevano quella coppia fraterna se non molto di rado, e sempre di passata.
Abbiam dunque detto che la visita del signore sconosciuto aveva fatto maravigliar la fanciulla. Lorenzo, dopo quella visita, era uscito in fretta, senza dirle nulla; ed era questa una grossa novità. Era tornato due ore dopo, e si era seduto al suo tavolino, senza andare neanco a salutarla. Che voleva dir ciò?
Non istette molto a saperlo. Un'ora dopo il ritorno del fratello (il lettore ha già inteso perchè usiamo chiamarli alla breve fratello e sorella), Maria si spiccò dal suo lavoro, per andare sul terrazzo a respirare un po' d'aria; chè la giornata, come abbiamo già detto, era bellissima, e tiepida, a malgrado della stagione.
Nel salire la scala, udì Michele, che era nella sua cameretta sotto il tetto e canterellava una sua prediletta romanza spagnuola:
Mis ojos te vieron
Rosaura querida;
Mortal fuè la herida
De mi corazon.
Michele cantava sempre spagnuolo, con quel suo accento americano che fa rabbrividire ogni buon cittadino della __Castilla vieja__. Ma egli non si curava più che tanto della purezza dell'accento, e tirava innanzi. Dopo la canzoncina di Rosaura, veniva quell'altra:
Pescadorcita mia
Desciende à la ribera,
Y escucha placentera
Mi cantico de amor;
Sentado en su barquilla,
Te canta su cuidado,
Cual nunca enamorado
Tu tierno pescador.
Il veterano di Montevideo ne aveva un centinaio, di queste canzoni, e quando lavorava attorno a qualche cosa, le sciorinava tutte, una dopo l'altra, con una costanza mirabile.
—Bravo, Michele!—gli disse la giovinetta, entrando nella camera.
—Oh, signorina! Domando mille perdoni. È una delle mie vecchie cantilene, che non mi lasciano mai, come certi dolori aromatici che ho buscati laggiù.—
Michele intendeva di parlare di dolori reumatici; ma la corretta pronunzia di certi vocaboli non era il suo forte.
—Povero Michele!—soggiunse la giovinetta, non badando ai dolori aromatici, ai quali era avvezza, come a tanti altri suoi __lapsus linguae__.—Cantate, cantate; è una cosa che rallegra lo spirito. Ma che cosa fate voi ora. Dio mio? Quelle spade!…—
—Oh nulla, signorina. È il signor Lorenzo che mi ha comandato di dar loro una ripulitura. Sono belle armi, perdiana! Veda come si piegano! Le ho vedute adoperare dal signor colonnello, e le so dir io che fu un famoso scontro. Ho veduto allora una botta di terza, data così a tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca al solo pensarvi.—
Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro, e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i suoi colpi di riserbo.
A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò che voleva sapere.
—Ma voi non mi dite il perchè di questa novità!—esclamò ella.—Mio
Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo….—
E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla parete, tanta era l'improvvisa commozione.
—Oh, la non si spaventi, signorina!—gridò Michele, deponendo la spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei.—Da quanto ho potuto capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non fo per dire, darebbe dei punti a suo padre.—
La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele. Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio socchiuso, entrò deliberatamente da lui.
Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si volse a guardare.
—Orbene, Maria?—disse egli, come per chiederle che cosa volesse.
La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader tramortita.
Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.
—Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto?—
La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:
—Voi andate a battervi?—
A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:
—Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?
—Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai.—E il volto della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella vece spremute dalla gioia.
Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando come altrettanti smeraldi.
Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti, essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.
Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il pigro involucro della materia.
E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il quale fosse toccato in sorte alla terra.
Non aveva le ali, ecco il guaio. Ma è forse necessario avere le ali, per essere angeli? E non sarebbe per avventura un guaio più grosso? come a dire una gran tentazione a volar via da questo mondo gramo?
Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi in Purgatorio.
La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l'unica città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.
Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è, topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire, dell'Appennino ligustico.
In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l'avranno a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta l'onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa accompagna in linea parallela fino alla foce.
Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d'Albaro? Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi, e un albero si paga tant'oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il __Paradiso__, e per memoria quell'altro che diede albergo all'autore di __Don Giovanni__, della __Parisina__ e del __Lara__.
Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina d'Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell'antichità; i quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C'è infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d'Albaro. Quest'ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle falde della collina incerto tra due strade, come l'asino di Buridano tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San Francesco d'Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a ricongiungere con la sua sorella di sinistra.
Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco d'Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno, tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento dell'antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento. Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il '60 la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle rovine, addio; l'utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo oltre misura; l'istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell'amore e della pace fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.
Il savio lettore ha già capito che questo era il luogo prefisso al duello del dottor Collini col marchese di Montalto. La posta delle due parti belligeranti era sul ripiano dinanzi alla chiesa; ma i padrini del Collini dovevano, come è già noto, aspettare quest'ultimo, mezz'ora prima, sotto la villa del Paradiso, per accompagnarlo poscia sul terreno.
Appunto in quel luogo la strada di San Francesco d'Albaro fa gomito, per dare agio ai carri e alle vetture d'inerpicarsi lassù. Epperò, sul ciglio della collina, dove fa capo quel giro tortuoso della salita, v'è una specie di terrazzo sporgente, il quale sopraggiudica la via sottoposta; e accanto al terrazzo una scaletta ripida, per comodo dei pedoni che vogliono prendere la scorciatoia.
Su questo terrazzo erano appostati alle quattro e mezzo del mattino tre uomini, Lorenzo Salvani, l'Assereto e il servo Michele. La vettura con la quale erano giunti, l'avevano mandata più innanzi.
Il cielo, ancora buio, stillava un po' di brina, od altro di consimile: l'aria, non ricordandosi più de' tepori del giorno innanzi, era gelida; e l'aspettare di quei tre sul terrazzo non poteva dirsi la cosa più allegra del mondo.
Lorenzo appariva tranquillo; solo l'amico Assereto si faceva lecito di scrollare il capo e di battere de' piedi sul terreno, in guisa da lasciar trapelare che non il freddo soltanto gli recasse molestia.
Così la intese il Salvani, perchè, dopo alquante battute di quella fatta, si voltò all'amico e gli disse:
—Diamine! che impazienza è la tua?…
—Di' piuttosto che disperazione;—soggiunse l'Assereto. Lorenzo non rispose altrimenti a quelle parole dell'amico che con un dispettoso crollar delle spalle.
—Sentimi, Lorenzo;—disse allora l'Assereto.—Io, già lo sai, ho accettato questa seccatura per te, non per altro riguardo al mondo. Ora ci ho in capo che questo signor Collini ce ne voglia fare una delle sue.
—Suvvia!—interruppe Lorenzo.—Tu l'hai sempre con lui, e questo non istà bene.
—Bravo! E tu vedi tutti gli uomini buoni, come un collegiale tutte le donne belle. Figliuolo mio, non si dànno di questi appuntamenti alla gente. Quando si è pronti a battersi, si dice ai padrini: venite a casa mia a svegliarmi. Quando se n'ha una voglia deliberata, si dice loro: dormite pure della grossa; io verrò a cercarvi a casa vostra. E in questo caso ci si arriva un'ora prima. Qui invece, che cosa avviene? Che si dà la posta a mezza strada, e si ritarda per giunta.
—Sia come tu vuoi;—rispose Lorenzo,—ma l'ora non è anche passata. D'altra parte, in questo negozio, siamo andati un po' tutti col capo nel sacco, senza consultare il lunario. Tu vedi che incomincia appena ad albeggiare. Gli avversarii non sono giunti ancora.
—Oh, in quanto a quelli, guardali là in capo alla strada.
—E chi ti dice che non sia invece la carrozza del Collini?
—Vuoi scommettere?
—No, Assereto; non scommetto mai. Spero che quella sia la carrozza del Collini, e non mi curo del rimanente.
—Ed io ti dico che sono gli altri.
—Vedremo.
—Sta bene, vedremo. Ma intanto, se egli non viene, che cosa si fa?
—E che cosa vorresti fare?—chiese Lorenzo.—Già, credilo, il Collini non istarà molto a giungere, e quasi mi pare di fargli villania a darti retta. Ma, dato e non concesso, come dici tu, con eleganza curiale, che egli non venisse, la cosa è chiara come un'operazione aritmetica. Si va sul terreno, e si fa testimonianza dell'accaduto.
—Profferendosi prima ai comandi della parte avversaria,—interruppe l'Assereto.
—S'intende; ma è anche debito di gentiluomini rifiutare la generosa offerta; e i poveri padrini di un vigliacco se le vanno a capo chino e con la coda tra le gambe, come cani bastonati.
—Convieni che sarebbe una brutta cosa….
—È verissimo; ma che vorresti tu farci? A certi malanni che capitano tra capo e collo non c'è rimedio che tenga. Ma ecco la carrozza che gira il gomito della salita.
—Ahimè!—esclamò l'Assereto.—Siccome io sono certo che ella porta nel suo grembo i nemici, come il famoso cavallo di Troia, ti propongo di ritirarci nella scaletta, perchè non ci abbiano a vedere in questa disgraziata postura.
—E che c'è di strano,—rispose Lorenzo,—che noi stiamo qui aspettando il Collini? Noi non dobbiamo rendere ad essi altro conto che di una assenza sul terreno, all'ora prefissa. Del resto, ci avranno già veduti.—
Intanto che questo dialogo si proseguiva tra i due, la carrozza, girato il gomito della strada, veniva al trotto verso il ciglio della collina. I due amici si fecero per moto naturale a guardarla, e per la portiera, che era aperta, videro il Montalto co' suoi padrini e il chirurgo.
Quei della vettura e quei della strada si scambiarono il saluto con molta freddezza. A Lorenzo il sorriso del marchese di Montalto parve altiero anzi che no. Tuttavia non volle dirne nulla all'Assereto, di cui temeva i commenti sarcastici. Ma all'Assereto non era sfuggito quel sorriso, e siccome egli nella furia del suo malumore non perdonava a nessuna cosa, si affrettò a dire:
—Hai veduto? Ci squadrano dal capo alle piante come bordaglia di strada. Ma riderà bene….
—Chi riderà l'ultimo!—gridò Lorenzo, levando le parole di bocca al compagno.—Hai ragione, Assereto. Ora usami questa cortesia, di aspettare un poco in santa pace. Sono le quattro e quaranta minuti, e il ritrovo davanti alla chiesa è fermo per le cinque. Il Collini non vorrà tardare più molto. Forse ha perduto tempo a trovar la carrozza. Aspettiamo dunque…. fino a tanto che si può.
—In questo caso, ottimo Lorenzo, tu sveglierai me, quando l'eroe sarà giunto, o tu ti sarai stancato di attenderlo.—
Così parlò quella buona lana dell'Assereto, e ravvoltosi bene nel suo mantello si sdraiò sul sedile di lavagna che correva intorno ai murelli del terrazzo, cercando di pisolare un tantino.
Nel quale si dimostra che l'Enfisema non è un personaggio greco.
L'aspettare è la più brutta, la più fastidiosa delle occupazioni, anche quando non si abbia altro da aspettare che un amico, per andar di brigata a desinare in campagna; figuriamoci poi quando sia per un così grave negozio, come quello per cui Lorenzo e l'Assereto aspettavano il dottor Collini.
I preliminari di un duello e il tempo che scorre dalla disfida ai colpi, sono la pietra di paragone del coraggio di due avversarii. Ai tempi antichi, quando i gentiluomini portavano tutti la spada al fianco, il combattimento si faceva di sovente appena avvenuta la provocazione. Oggi, in cambio, manca l'uso dell'arma e manca per conseguenza l'occasione di far subito. Bisogna anzitutto mettersi in balìa di due padrini, i quali trattano, e qualche volta anco bistrattano la faccenda. Poi si ha da dormirci su; poi bisogna svegliarsi fuor d'ora, vestirsi, uscire e andar sul terreno, aspettare che i padrini s'intendano su cento minuzie, scelgano il luogo, misurino il campo, dividano, giuochino a sorte il lato migliore, visitino il petto e le braccia, diano le armi, i segnali e via discorrendo. Di questa guisa, un uomo di poco animo ci ha tempo a pentirsi d'essere andato tanto oltre; un uomo di polso ci ha tempo a sbadigliare di molto, come un povero viaggiatore sul disagiato sedile di una carrozza. Ma il Collini non era un uomo di polso, e Lorenzo Salvani lo aspettava inutilmente da un pezzo.
Guardò l'orologio per la ventesima volta; erano le quattro e cinquanta minuti.
—Oh, insomma!—gridò egli allora,—Assereto, levati su!—
L'Assereto balzò in piedi tutto confuso, stropicciandosi gli occhi.
—Perchè svegliarmi?—esclamò egli.—Facevo un sogno così bello! Figurati; sognavo che il tuo Collini era venuto, con un cuor da leone, tutto armato di feroci propositi. Ma vedo bene che bisognerà notare di falsità il detto di Omero.
—Qual detto?—chiese Lorenzo, in quella che ambedue, seguiti dal taciturno Michele, si avviavano verso la viottola di San Nazaro.
—Non sai? nel primo libro dell'Iliade, dove Achille dice che «__da Giove anco il sogno procede__». Ora il mio è stato un sogno inspirato da Momo, il Dio dello scherno. Il Collini non è venuto; andiamo noi.
—__Tu dixisti__,—rispose il Salvani, imitando la burlesca gravità di Giorgio Assereto.—Soltanto ti prego di studiare il passo, perchè la viottola è lunga, e mancano appena otto minuti alle cinque.—
A mezza strada trovarono la loro vettura, svegliarono il loro medico, che russava beatamente nel fondo; pigliarono le spade, e poi giù a passo di corsa fino a San Nazaro.
Il sole non era anche spuntato dallo scoglio di Portofino, dove i primi Genoati credevano che stesse a dormire; ma i primi colori dell'aurora dipingevano timidamente il cielo e le digradanti costiere ligustiche. Il rancio, il rosato e il verdognolo, magnifici colori che l'alba tiene in serbo nella sua tavolozza d'estate e d'autunno, cedevano qui il luogo ad una tinta pallida, tra turchiniccia e cenerognola, unico segno della mattutina risurrezione del creato.
Sul ripiano davanti alla chiesuola stavano quattro persone aspettando. Il marchese di Montalto, con un lungo pastrano nero abbottonato fino al collo, stava con le mani in tasca appoggiato al muro. Il medico guardava il mare, dando le spalle ai nuovi arrivati. Il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, colla sua divisa di capitano e con la sua cappa cenericcia sulle spalle, guardavano verso lo sbocco della viottola.
Lorenzo e l'Assereto si fecero innanzi, salutando con molto garbo, e gli altri risposero del pari. Il Montalto non fece altro che metter la mano al cappello, e stette nella medesima postura di prima.
—Signori,—disse Lorenzo,—io spero che non ci ascriveranno a colpa lo averli fatti aspettare.
—Mai no;—rispose il Pietrasanta,—sono le cinque in punto.
—Questo so bene, signor marchese,—soggiunse il Salvani,—ma a noi duole di essere giunti dopo le Signorie loro al ritrovo.—
Gli altri si strinsero nelle spalle, quasi volessero dire: che ci abbiamo a far noi?
Lorenzo intese la mimica, ma finse di non addarsene.
—Signori,—soggiunse egli, con un sorriso malinconico, da cui trapelava l'angustia dell'animo,—aspettavamo il signor Collini. Ma, a quanto sembra, egli è stato trattenuto in città da altre faccende, che avrà reputate più urgenti.—
Un altro sorriso, ma di ineffabile disdegno, fu quello che sfiorò le labbra del marchese di Montalto. Gli altri si contentarono di tacere, aspettando la fine del discorso. Infatti Lorenzo, per nulla turbato proseguì:
—Siamo stati ad attenderlo fino all'ultimo. Egli ha mancato alla sua fede, e noi siamo venuti qua, per significare alle Signorie loro tutto il nostro rammarico.—
Il marchese di Montalto sorrise da capo. I suoi padrini si volsero a lui per vedere che cosa dicesse; ed egli allora, levatosi con piglio di noncuranza dalla sua prima postura, e cavandosi il cappello, pronunziò queste poche parole:
—Francava la spesa di alzarsi così per tempo, per riuscire a ciò!…—
Il sangue si rimescolò tutto nelle vene al Salvani, e una vampa di fuoco gli corse alla fronte; tuttavia si contenne:
—Signori,—ripigliò a dire,—non avevo finito. Io ed il mio onorevole collega Giorgio Assereto significavamo alle Signorie loro il nostro rammarico, perchè questo era debito nostro. Siamo stati a recare un cartello di sfida al marchese Aloise di Montalto da parte del signor Ernesto Collini. Questi mancando al ritrovo, a noi correva obbligo di far loro le nostre scuse. Dopo di che, io, come primo padrino del signor Collini, mi metto a disposizione del marchese di Montalto.—
Il Pietrasanta e il Nelli, sebbene prevedessero questa fine, non poterono rattenersi da un senso di meraviglia, cagionato forse dall'accorto e cortese giro di frasi con cui il giovane Salvani l'aveva preparata. Essi lo guardarono in viso; era pallido, ma non del pallore della paura, poichè gli occhi suoi scintillavano per l'interno corruccio che egli durava fatica a frenare. L'Assereto, a cui le ultime parole del Montalto non avevano fatto minor senso, si era posto accanto all'amico, con un cipiglio da vecchio __hidalgo__ spagnuolo.
Michele, fermo a distanza legale, sorrideva ad uno de' suoi baffi, che andava tirando con molta compiacenza.
—Tanto meglio!—riprese il Montalto, rendendo con la superba esclamazione impossibile ogni mezzo di onesto componimento; poi, parlando a voce bassa coi padrini, soggiunse:—in verità, con questa gente non avrei sperato mai più di finirla così.—
Lorenzo, che aveva un udito finissimo, non perdette una sillaba di quel discorso fatto in disparte, ma stimò acconcio di tenerlo per sè.
Allora l'Assereto, il quale, per la deliberazione di Lorenzo Salvani, diventava egli il ministro plenipotenziario, fece il muso anche più arcigno di prima, ed invitò, con quella fredda cortesia che è l'arte somma dei padrini, la parte avversaria a misurare il terreno e a metter le condizioni.
Intanto Lorenzo era rimasto a guardare la marina, e si accendeva un sigaro. Aloise di Montalto, poco discosto da lui, ragionava di cose vane col suo medico.
Il terreno, dentro le mura della chiesuola fu in breve ora misurato e diviso. A Lorenzo toccava in sorte di dare le spalle all'ingresso; di guisa che, se il combattimento durava, egli avrebbe finito coll'avere il sole in faccia. Le spade, tratte a sorte, eran quelle di Lorenzo.
Furono fatti entrare i due avversarii, i quali si erano già cavati il pastrano, il soprabito e la sottoveste, rimanendo in maniche di camicia. Il conte Nelli di Rovereto prese il suo posto da un lato, e l'Assereto dall'altro, ambedue colla spada in mano. Mastro del combattimento fu nominato il Nelli, senz'altra formalità, perocchè Lorenzo aveva detto all'Assereto, che cedesse quell'ufficio, per abbondanza di cortesia, senza rimetterlo alla sorte.
I medici ed il Pietrasanta, che rimaneva fuor di quistione, si piantarono sulla porta. Michele aveva dovuto ritirarsi; ma, da quell'uomo di partiti che egli era, girando attorno alle mura, aveva trovato finalmente un buco, dal quale gli veniva fatto veder dentro a suo bell'agio; e potete immaginarvi che vi si mettesse con molta curiosità.
Come il Montalto e il Salvani si trovarono l'uno al cospetto dell'altro, il conte Nelli di Rovereto prese a parlar loro in questo modo:
—Signori, abbiamo deliberato che voi combattiate fino a tanto che uno sia ferito per modo da non poter più tenere la spada. Io, mastro di combattimento, vi darò il segnale di fermarvi quando mi paia che uno di voi sia toccato dalla punta dell'avversario, e il signor Assereto, dal canto suo, potrà fare lo stesso, quando si avveda di qualche ferita, che io, stando da questo lato, non potessi vedere per bene.—
L'Assereto s'inchinò in atto di assentimento. Il Nelli proseguì:
—Quando uno di voi scivolasse sul terreno, che mi pare un po' sdrucciolo per l'umidità del mattino, e si trovasse nel caso di dover indietreggiare fino ad una di quelle due linee che abbiamo segnate da una parte e dall'altra, sarà debito del suo avversario fermarsi al nostro comando, ed ambedue smettere il combattimento, sotto pena di essere notati di slealtà. Ma noi sappiamo che ciò non farete, essendo gentiluomini. E adesso, signori, a voi!—
Dopo questa frase sacramentale, i due avversarii, salutati alla lesta i padrini, incrociarono le spade.
Sulle prime non fu altro che un giuoco di finte. I due avversarii si studiavano a vicenda, per vedere se l'accennar d'un colpo passasse senza che fosse parato dall'altro. Lorenzo Salvani stette molto a spiegare il suo giuoco; egli parava largo anzi che no, a guisa di principiante. Senonchè egli fu presto costretto a stringere, perchè il Montalto, stanco di quelle schermaglie, aveva ingaggiato un assalto, con due botte diritte molto vigorose.
Lorenzo parò facilmente col forte della lama, e con la punta minacciò gagliardamente a sua volta. A quel punto, ambedue si accorsero di avere a stare attenti. Il Montalto era un esercitato schermidore, ricco di partiti e di bella apparenza. Lorenzo era più sodo, e non faceva di molte novità; ma un avversario accorto come il Montalto non poteva negare che quello era un osso duro a rodere, assai più che non facesse a prima giunta vedere.
Alla seconda botta del Montalto, Lorenzo aveva risposto con una seconda legatura del ferro, minacciandolo così da vicino, che il marchese dovette balzare indietro e battere la lama dell'avversario con un colpo vigoroso di terza. Lorenzo sollecito avea dato innanzi di un passo, e la lama del Montalto, non potendo andare più oltre a cercargli il petto, gli offese con la punta il dosso della mano; e siccome ambedue avevano voluto tirar senza guanto, si vide sulla mano di Lorenzo qualche goccia di sangue.
Il mastro di combattimento fu sollecito a fermarli, ed egli coll'Assereto e i due medici si fecero a guardar la ferita.
—Non è nulla;—disse Lorenzo, poichè ebbero guardato.—Non è nemmeno una scalfittura.—
Si rimisero in guardia; e qui davvero cominciò il combattimento. Lorenzo incalzava cosiffattamente, che il marchese di Montalto dovette balzare indietro due volte. Ma questi, tornando all'assalto, si avvide che il Salvani si studiava di non cedere d'un passo, e non abbandonava mai il terreno guadagnato. Allora il duello fu continuato di pie fermo, e i padrini dovettero poco dopo intromettersi, che già i due avversarii stavano elsa ad elsa, guardandosi e sorridendo.
Ambedue i padrini ruppero in un grido di ammirazione.
—Bravi! bravi, perdio!—esclamò il conte Nelli, il quale, da buon gentiluomo, non faceva più da padrino, ma da giudice imparziale.—Signori, voi siete due valenti avversarii. Io, con licenza del signor Assereto, vi prego a farla finita, e chi ardirà dire che non vi siete diportati da prodi cavalieri avrà da aggiustarla con noi.
—Signor conte,—disse Lorenzo, voltando a terra la punta della sua spada,—io di buon grado ascolterei i vostri consigli e la vostra preghiera, che tanto onora il vostro carattere. Ma per quanto io senta degno di stima il mio avversario, non posso dimenticare l'asciutta accoglienza che è stata fatta testè alle nostre prime parole, quando siamo venuti, con tanta nostra confusione, ad annunziare il brutto tiro del signor Collini. Non posso dimenticar la frase del signor marchese Aloise di Montalto, nè il suo riso sardonico, nè certe parole che ho dovuto udire, sebbene pronunziate a mezza voce con voi. Ora, io ho molta stima pel marchese Montalto, e non mi farei lecito mai di pensare che egli potesse ritrattare nessuno de' suoi gesti, o nessuna delle sue parole.
—Io vi ringrazio;—disse il Montalto, con molta cortesia di gesto e di accento,—e queste vostre parole m'insegnano a stimarvi di più.
—Sicchè?…—dimandò il mastro di combattimento.
—Sicchè, mio caro Rovereto,—rispose il Montalto,—noi ci rimetteremo in guardia, con vostra licenza.
—E Dio v'aiuti;—soggiunse il bravo capitano.—Signori a voi!—
Il duello ricominciò. Ma Aloise di Montalto fu questa volta assai più guardingo e fece a studiar molto le parate. Il giovane cominciava a sentire dentro di sè un tal poco di pentimento per certi suoi modi, e da quel leal gentiluomo ch'egli era badò più a schermirsi che a ferire l'avversario.
Ma Lorenzo Salvani non era uomo da accettare simiglianti cortesie, e appena si fu avveduto che il Montalto tirava soltanto a difesa, spiccò un salto indietro, e piegando la spada a terra, parlò in questa guisa:
—Signor marchese, o assalite voi pure, o ch'io mi metterò ad imitarvi, e tireremo innanzi di questo passo fino al dì del giudizio universale.
—Oppure a quello di San Bellino, che casca tre giorni dopo;—soggiunse tra sè il vecchio Michele, che stava dal suo buco a guardare la scena.
—Avete ragione!—esclamò Aloise di Montalto.—Volete vincermi di cortesia, e ne avete il diritto. Ecco dunque, io vi contento.—
E così dicendo, si rifece al primo giuoco. Le spade giravano, s'inseguivano, si legavano e si districavano con una rapidità meravigliosa, senza dar tregua a quell'armonico soffregamento dell'acciaio, che fa ribollire il sangue nelle vene ai più dolci di tempera. Ma ogni bel giuoco dura poco; certe battute di terza e di quarta, che erano il forte del marchese di Montalto, non furono più così aggiustate come prima, e Lorenzo, che se ne avvide, incalzò. Finse una botta al sommo del petto, appoggiandola con una forte spaccata di gambe, e poi, girando il pugno, passò incontanente al fianco. Il Montalto non fu in tempo a respingere l'assalto, e la parata bassa che egli fece, giunse a mala pena a sviare un tratto la lama dell'avversario, la quale, in cambio di andargli al petto, lo colse in quella parte del costato, dove s'incurva verso le spalle.
Lorenzo, fatto il colpo, trasse la spada a sè, rimettendosi in guardia. Ma fu inutile: il Montalto era caduto a terra, e il sangue spicciava dalla ferita.
Allora tutti quanti accorsero per rialzare il caduto, e il dottor
Mattei, ottimo giovanotto che faremo conoscer meglio ai nostri lettori
quando ci venga a taglio, cortesemente aiutato dal suo collega in
Esculapio, si fece a visitar la ferita.
Egli alzò dapprima la camicia, e con una pezzuola inzuppata d'acqua ripulì tutt'intorno alle labbra della ferita; per la qual cosa il Montalto, che nella repentina commozione del fatto era quasi uscito di sensi, si riebbe ed aperse gli occhi, sorridendo agli astanti.
Ma a costoro il sorriso del giovine non poteva bastare. Essi stavano tutti muti, con tanto d'occhi, aspettando il responso, ed interrogando gli sguardi del Mattei, che continuava la sua esplorazione.
—Penetrante?—gli chiese il collega, in quel gergo che i profani intendono così poco.
—Probabilmente:—rispose il Mattei,—la ferita è tra la settima e l'ottava costa, e dalla natura del colpo si può argomentare che vada dal basso all'alto nella cavità toracica.
—E,—disse l'altro con esitanza,—non c'è lesione?…
—Questo vedremo ora,—soggiunse il Mattei, guardando attentamente il collega e il ferito.—
Aloise intese la mimica, e fu pronto a mettere innanzi la sua parola.
—Parlate pure, mio caro Mattei;—disse egli,—con me potete dir tutto liberamente.
—Non temete,—interruppe il chirurgo;—io non ho l'uso di tacere la verità ai malati della vostra tempra. E poi, ancorchè il polmone fosse tocco, non ci sarebbe quel gran male che il volgo crede, ogni qual volta si tratta di simili lesioni. Aspettate, ora faccio un esperimento.—
Così dicendo, il buon discepolo di Chirone cavò fuori un moccolo, lo accese e lo accostò alle labbra della ferita.
—Vedete?—disse egli allora sorridendo con aria trionfale al collega.—La fiamma non si muove, e questo è buon segno. Ora guardate i tessuti circostanti alla ferita; essi non offrono alcuna traccia di enfisema. La qual cosa significa,—proseguì egli voltandosi ai profani,—che non c'è sfogo d'aria e che il polmone non ha ricevuto la visita del ferro. E nemmeno è lesa l'arteria intercostale, come possono vedere dalla pochezza del sangue spicciato dalla ferita.
—Non è dunque altro che una ferita leggiera?—chiese il Pietrasanta.
—Leggiera! Intendiamoci;—soggiunse il chirurgo;—per me non ci sono ferite leggiere, tranne le scalfitture; ed anco queste ci hanno i loro malanni, secondo i luoghi. Questa poi è una ferita bella e buona, e se fosse consentito dalle regole d'arte esplorarla con uno specillo, mi riprometterei di misurarvela profonda di sei centimetri o sette. Il marchese di Montalto si metta in riposo, e lasci fare a me ed alla natura, quella gran medichessa che ne sa dieci volte più di noi tutti.
—Potete immaginarvi, caro dottore,—disse Aloise,—che io seguirò i vostri consigli. Io non ho nessuna voglia di morire, e sono molto lieto di non avere in corpo quel tal personaggio greco di cui parlavate poco anzi.
—Ah, volete dir l'__enfisema__? Certamente gli è un personaggio fastidioso;—rispose il Mattei, che stava molto volentieri alla celia,—ma se egli non è venuto ora, non vien più di certo.—
Le parole del medico e la buona cera di Aloise avevano rasserenato la comitiva. Ma appunto allora, e in quella che i due medici stavano intenti a riunire le labbra della ferita con alcune strisce di sparadrappo ed una acconcia fasciatura, fu notata la presenza di due personaggi, i quali assistevano in disparte alla scena.
Di un'alzata d'ingegno che fece l'uomo dai capelli rossigni, e di quello che poscia ne avvenne.
Quella apparizione improvvisa scosse un tal po' la brigata; ma ebbero da strabiliare addirittura quando videro chi fosse l'uno dei due nuovi venuti.
Era il dottore Ernesto Collini, che stava sulla soglia con gli occhi bassi e le braccia penzoloni. Accanto a lui era un ignoto personaggio, vestito di nero dal capo alle piante, che non mostrava nemmeno i solini della camicia. Con aria tra l'umile e lo sfrontato, se ne stava là, a spalle un po' chine, ma con gli occhi fisi su quel crocchio di giovani, senza punto scomporsi, e quasi senza addarsi del senso d'ingrata meraviglia che la presenza del Collini e la sua avevano destato negli astanti.
Il primo a rompere il silenzio fu Lorenzo Salvani, a cui come primo padrino del Collini e per cagion sua costretto ad incrociare il ferro col marchese di Montalto, si spettava più che ad altri il parlare.
—Voi qui?—diss'egli, con accento da cui trapelava tutto lo sdegno dell'anima.—E che cosa venite a fare?—
Il Collini, di smorto che era nel viso, si fece livido senz'altro; alzò la fronte verso Lorenzo, ed al fiero corruccio balenante dagli occhi del giovine rispose con uno sguardo sottile e freddo che pareva volesse passarlo fuor fuori; ma quello sguardo fu un lampo, e gli occhi del Collini si levarono subito al cielo, con aria contrita, in quella che la voce diceva, con accento da pulpito:
—Il mio dovere!
—Il vostro dovere? È già stato fatto;—gridò il Salvani.—Guardate; per cagion vostra due galantuomini, i quali non avevano sdegno o rancore di sorta l'uno contro l'altro, sono stati ad un pelo di uccidersi.
—Il Cielo mi è testimone che io mi dolgo amaramente di quanto è avvenuto testè,—disse il Collini, alzando gli occhi al cielo, come per offrirgli il suo calice di amarezza;—credevo che tra il marchese di Montalto e i miei padrini non dovesse accader nulla. Se manca uno degli avversarii (e permettetemi di usare questa parola per farmi intendere, sebbene non sia intesa più dal mio cuore), i suoi padrini, dissi tra me, non hanno a far altro che dar atto della sua assenza, comunque ella possa venir giudicata da animi preoccupati. Io dunque sono condotto a credere che se, dopo un fatto simile, si è trovato il modo di fare un duello, ciò debba ascriversi a feroce desiderio di sparger sangue, e non ad altra cagione.—
Lorenzo era fuori di sè per lo sdegno; gli altri tutti erano meravigliati, stupefatti da tanta audacia. Pure nessuno fiatò.
—E tuttavia,—proseguì il Collini col medesimo acuto e senza guardare in volto nessuno degli astanti,—io me ne dolgo come se fosse un male avvenuto per cagion mia. Ora, o signori, lasciatemi dire il perchè non sono venuto al ritrovo, e poi mi giudicherete.
—Sono curioso davvero di saperlo;—borbottò il dottor Mattei, daccanto ad Aloise di Montalto, il quale stava ancora seduto sul terreno, aspettando il fine della fasciatura.
—Sapevo che il battermi era un male;—disse Ernesto Collini.—Son cristiano, cattolico, e me ne vanto. Cedendo la provocazione del marchese di Montalto, io ho obbedito ad un sentimento di vanità mondana, che ora detesto. E notate, o signori; io m'ero talmente ostinato in questo pericoloso sentimento, che fui per ricusare il sacrifizio di me stesso, perfino alle strazianti preghiere di un vecchio venerando….
—Che altra storiella ci racconta costui?—interruppe l'Assereto.
—Lasciatelo dire, signor Assereto;—soggiunse il capitano;—il suo racconto mi diverte non poco.
—Vi diverta, o no,—ripiccò il Collini, voltandosi improvviso e rizzando il capo come un serpe a cui sia stata calpestata la coda,—io debbo andar fino all'ultimo. Sì, o signori, quel vecchio venerando mi mandò iersera a chiamare, e mi chiese se fosse vero di quella sfida che avevo mandata al marchese di Montalto, ed io non potei nascondergli il vero, che egli del resto conosceva per filo e per segno. Egli mi pregò, mi scongiurò allora, che mi ritenessi da quella prova di sangue, e non gli valsero preghiere, nè scongiuri. La mia ostinatezza giunse a tale da consentire che egli scendesse dal letto, sul quale è inchiodato da più mesi, e trascinare sul pavimento la sua onorata canizie. Egli tremava per il grave scandalo e per me, ma più ancora per la vita del suo nipote….
—Ah! ah! mio nonno!—interruppe Aloise.—Non avrei pensato mai più che egli ci avesse un cuor così tenero.
—Sì, o signor marchese di Montalto. Vostro nonno vi ama, checchè possiate pensarne voi. Quel buon vecchio, al quale con le mie cure assidue vo prolungando la vita, io sono stato al punto di ucciderlo con la mia ostinazione vanitosa. E ci volle la intromissione di parecchi savi personaggi, perchè io vedessi il danno che recavo a quel povero vecchio, e l'offesa che facevo alla santità della morale. Infine, signori che vi dirò? Ho raccolto il capo nelle palme, ho pianto come un fanciullo, e in quelle lagrime tutta la mia superbia si è stemperata. E allorquando ebbi rinunziato al duello, avreste dovuto, com'io, vedere il suo giubilo. Figliuol mio, mi disse egli, io vi sarò grato di questo sacrifizio fino a tanto che io viva, ed eccovi la benedizione di un povero vecchio….
—Per ora;—interruppe da capo Aloise,—e più tardi potrà anco lasciarvi il rimanente.
—Signor marchese, potreste supporre?…
—Tutto. Non vi ha egli chiamato suo figlio? Badate a me, e consolatevi. I vecchi sono pozzi di verità.
—Insomma, signor di Montalto, comunque vogliate portar giudizio di me (e debbo fare anche questo sacrifizio) credete pure che ci vuol più coraggio a parlarvi come io vi ho parlato adesso, che ad incrociare una spada col più valente schermidore del mondo.
—Avete ragione, messer Collini;—interruppe a sua volta Lorenzo, il quale non poteva frenarsi più oltre,—e penso che ci voglia più pazienza ad ascoltar voi per dieci minuti, che a marcire nel fondo di una prigione. Colà, almeno, non si ode altro che lo strepito delle proprie catene; non si vede altro che il viso arcigno, ma non disonesto, di un carceriere. Insomma, voi siete un codardo; liberateci dalla vostra presenza, e subito!
—Ben detto!—gridarono tutti ad una voce.—Levatevi di qua!—
E uno di loro, il Nelli, aggiunse con piglio marziale:—fronte indietro, passo di carica, e __marche__!
Il Collini vibrò una bieca occhiata a Lorenzo, un'altra in giro a tutti gli astanti, e stringendo i pugni, uscì dalla chiesuola, accompagnato dal sozio vestito di nero.
Giunti che furono sul ripiano, in cambio di tirar oltre per la viottola, dove avrebbero potuto esser còlti dalla brigata che ci aveva le sue vetture ad aspettarla, voltarono a sinistra per una via scoscesa, che, praticata sul lembo dello scoglio, va giù fino ad una spiaggerella sul mare. Di là risalendo, potevano andare a passare per un'altra viottola, e la mercè di certe scorciatoie assai note ai genovesi che vanno colassù a villeggiare, riuscire a San Pietro della Foce, da dove sarebbero tornati in città alquanto più tardi delle vetture.
Era quella del resto la strada che il Collini aveva tenuta per andare alla chiesuola. Senza essere veduti da alcuno, egli e il suo taciturno compagno erano giunti fin sotto quella sporgenza del masso dove accadeva il combattimento, ed avevano potuto cogliere il momento opportuno di farsi innanzi, quando più non si udisse lo strepito delle armi.
Ridiscesi adunque su quel tratto di spiaggia, dove erano affatto celati alla vista di coloro che stavano in alto, sul ripiano della chiesuola, i due sozii si fermarono.
Il dottor Collini aveva la schiuma alla bocca, e mulinava nel capo i più feroci pensieri. La vergogna era stata grande per lui, e tutti i sarcasmi di quei giovani animosi li aveva infitti, come strali avvelenati, nel cuore. Imperocchè egli sentiva pure tutta la vigliaccheria del suo atto; ma, siccome avviene a tutti i tristi della sua fatta, che sono codardi e vanitosi ad un tempo, non sapeva patire lo scherno, e covava nell'animo la vendetta.
Nessuna parola era stata anche scambiata fra i due. Ernesto Collini, senza badar molto a quello che si facesse, si chinò sul greto a raccogliere alcuni ciottoli, e si diede a scagliarli nel mare, facendoli scivolare di rimbalzo sulle acque tranquille.
Duemila trecento e trentott'anni innanzi, un altro vanitoso crudele, sebbene assai più possente di lui, se la prendeva col mare, facendolo battere a colpi di verghe.
—Perdio!—ruppe finalmente a dire il Collini.—E non mi vendicherò di costoro? E quel Salvani, il quale mi dice occorrere più pazienza a udir me, che non a marcire nel fondo di una prigione!… Oh, ti ci farò marcire ben io, se quello ch'io penso è vero.
—Benissimo, figliuol mio!—disse allora il compagno.—Questo si chiama ragionare. Seguite l'esempio di chi ha vissuto più di voi. Io mi sono vendicato di molti, e la buona causa se n'è avvantaggiata parecchio.
—A voi sembra un negozio molto spiccio, padre mio. Ma come fare?
—Non dubitate; da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Costoro, se voi siete prudente ed astuto, vi daranno tutti nel laccio da sè. Io li conosco, questi cervelli stemperati, i quali ardiscono fare e dire ogni cosa che loro talenti, alla luce del sole. La vendetta è un peccato, figliuol mio, quando ella non giova ad altri che a noi, quando non serve a Dio; ma la vendetta che giova alla sua causa, è buona. Non si chiama egli il Dio delle vendette? Date tempo al tempo, e vedrete come sapremo conciarli pel dì delle feste.
—Ma io ho bisogno di far presto!—rispose il Collini, digrignando i denti.—Sentite, padre mio, come il cuore mi batte. Oh certo, se non era pel vecchio Vitali, io non mi sarei lasciato persuadere a tanta debolezza.
—Che! che!—interruppe quell'altro, accompagnando le sue parole con un certo risolino sarcastico;—non vi sareste battuto neppure. Avete colorito assai bene il vostro racconto, bisogna convenirne; ora finite con aggiustargli fede voi stesso.
—Padre!…—esclamò il Collini, provandosi a guardare in viso il suo interlocutore.
—Bando alle inutili parole, vi prego!—disse questi, senza tener conto del piglio sdegnoso del Collini.—Sapete pure che se io per avventura ammalassi, non manderei per voi, e non inghiottirei pur una delle vostre pillole. Con me i vostri corrucci non faranno mai buona prova. Siate dunque più schietto con me, poichè ci conosciamo così bene! Io poi non vi ascrivo a colpa di non essere un Rodomonte. Altri ha il coraggio di sfidare la punta di una spada, o la canna di una pistola; noi abbiamo quello del serpente, che striscia nel buio, e dal tronco di un albero agguata il leone e lo stritola. È questo, a mio credere, il coraggio più sicuro e il più profittevole. Io vi confesso schiettamente che sono contento di voi, e tutta la società, alla quale dovete gloriarvi di appartenere, non si dipartirà da questo giudizio. Al vecchio Vitali importava che voi gli uccideste il nipote, o che foste ucciso da lui (la qual cosa era molto più probabile), come a me importa di quel gabbiano laggiù, che va girando sui flutti per buscarsi un pesce a fior d'acqua. È la salute dell'anima che gli preme, a quel vecchio barattiere, e il mio consiglio soltanto gli dettò quella preghiera che egli vi fece, senza punto discendere dal letto e trascinare nel fango la sua onorata canizie, come voi dicevate testè con tanta eloquenza, quella preghiera insomma alla quale voi vi siete acconciato così di buon grado. Non è egli vero?
—È vero!—brontolò il Collini, chinando la testa.
—Il vecchio Vitali è un tristo;—riprese l'uomo vestito di nero;—le sfondate ricchezze che egli ha, non sono sue. Non vi è ignoto com'esse provengano da un nostro deposito, che egli non ha voluto restituire, e di cui si ostina anzi a negare l'esistenza. Ora i suoi milioni sono il frutto di quel deposito; son dunque nostri, e dobbiamo ad ogni costo riaverli, sia che egli faccia voi suo erede, la qual cosa mi pare molto difficile e fors'anco un tantino pericolosa, o che Aloise di Montalto diventi uno dei nostri, e si rassegni a spartire con noi. Eh, figliuol mio, non mi crollate il capo a quel modo! Se ne son vedute tante, in questo mondo. In fin dei conti, è necessario che i milioni del vecchio tornino a noi; questo è l'essenziale, e noi provvederemo ai modi. Voi siate prudente, più zelante, e soprattutto più obbediente che non foste pel passato.—
Il Collini si mordeva le labbra, e non rispondeva nulla a quel discorso del savio compagno. Ma questi non aveva anche finito.
—Badate, signorino!—aggiunse egli.—Se voi siete fino ad un certo punto utile a noi, per l'ufficio a cui v'abbiamo posto nella casa del vecchio, noi siamo padroni assoluti e dispotici della vostra persona, e, come avrete potuto già intendere da certe mie paroline, ci abbiamo in mano il bandolo di molte matasse ingarbugliate, e della vostra fra l'altre. Non ricalcitrate dunque, che potrebbe tornarvi a danno; in quella che la fedeltà e l'obbedienza vostra potranno farvi ricco, reputato e contento. State adunque di buon animo, ed accettate un giogo, che è tanto lieve e soave. Farete in questa guisa il vostro tornaconto, e vi vendicherete di tutti i vostri nemici.
—Avete ragione, padre mio! Io sono un pazzo, quest'oggi!
—Bravo! così mi piace vedervi. Suvvia, dimenticate quello che io vi ho detto, se pure non vi parrà più acconcio chiudervelo bene in mente, e andiamo in città.
—Andiamo,—rispose il Collini.—Pur che io mi vendichi!…—
E fatto questo discorso edificante si mossero verso la salita, donde potevano recarsi a San Pietro della Foce.
Intanto che questa bieca conversazione si faceva sulla spiaggia del mare, più in alto, sulla porta della chiesuola diroccata di San Nazaro, Aloise stringeva affettuosamente la destra di Lorenzo.
—Amico vostro per tutta la vita, Salvani! Voi siete un gentiluomo, e lo avervi conosciuto mi tempera il rammarico della ferita che ho toccata da voi. Vogliate anzitutto scusare quel piglio d'alterigia e qualche brutta frase che non v'è andata a sangue, e che a me importa assaissimo di spiegarvi ora. Il Collini è un mascalzone, e a quest'ora lo sapete anche voi. Dopo aver fatto il valoroso al cospetto di una donna, egli cercò padrini, e nessuno gli volle servire. Io non conoscevo voi, e potete argomentar di leggieri che il vedervi giungere col signor Assereto, altra persona a cui profferisco la mia amicizia, mi facesse cattivo senso. Infatti io ero certo che il Collini non si sarebbe battuto. Un suo duello di due o tre anni fa, quantunque l'avversario non fosse uomo di polso, finì Dio sa come, e ci volle tutta la prudenza dei padrini per rabberciare la cosa e non farla voltare allo scandalo. Ricordandomi delle sue prodezze, io dunque pensai che volesse mettermi uno schermidore di rincontro; e tale di fatto eravate, ma non a quel modo che io argomentavo. Eccovi la ragione dei miei portamenti di questa mattina; ed ora che vi ho tutto confessato, accettate voi il mio pentimento sincero?—
Lorenzo afferrò la mano che Aloise gli offriva, e lo abbracciò con affetto.
—Vostro amico per la vita e per la morte, Aloise di Montalto. Il caso, più assai che l'arte, dirige la punta di una spada; ma non è certamente il caso quello che fa incontrare due uomini i quali debbano essere amici, come noi saremo da oggi in poi.—
Aloise e Lorenzo, il nobile e il popolano di nome, ma ambedue gentiluomini per altezza di mente e cortesia di modi, si abbracciarono da capo.
Tante e così svariate commozioni avevano stancato il ferito, che sostenuto da Lorenzo e dal dottore Mattei si recò fino alla sua carrozza, la quale stava ad aspettarlo più al largo, a metà della viottola.
Il duello di Aloise di Montalto fece chiasso, e se ne parlò per giorni parecchi in ogni ritrovo, da via Balbi a porta d'Arco, dalla piazza de' Banchi al famoso angolo della libreria Grondona; e questo per la qualità delle persone che c'entravano, e che, salvo Lorenzo, erano tutte conosciute in Genova, stiamo per dire, come Barabba a Gerusalemme, nei tempi evangelici.
Come è costume da noi in simili occasioni, furono fatte di molte ciarle su quello scontro e sulle sue conseguenze. Il Montalto era lì lì per tirare le cuoia; il polmone era stato passato fuor fuori; un'arteria era stata toccata; insomma non c'era più speranza di salvarlo. Tutti avevano parlato col medico, e vi sapevano dire perfino come il ferito avesse passato la notte. Ma più delle ciarle furono discordi i pareri sulle ragioni del duello. C'era chi dava il torto al marchese di Montalto, e chi a Lorenzo Salvani; e si trovò perfino chi desse ragione al Collini, perchè (si diceva) era tempo oramai di farla finita con quella barbara costumanza del duello.
E v'ebbe anche taluno, il quale, forse per meglio dimostrare la barbarie del duello, affermò che se a lui fosse stata recata una sfida, avrebbe risposto a pugni e mostaccioni: oppure avrebbe accettato l'invito, ma con due pistole, l'una carica e l'altra vuota; e magari con due pillole, diverse nella composizione e negli effetti; il che nel caso del signor Collini sarebbe parso più naturale.
Ma torniamo a Lorenzo, del quale ci importa per ora più che di tutti gli altri personaggi della nostra narrazione. Egli era tornato a casa, dove il veterano Michele lo aveva preceduto, dando con tutta la forza dei suoi polmoni nella tromba della fama, sebbene non ci avesse altri uditori che la signorina Maria.
La giovinetta s'era fortemente turbata a quel racconto di Michele; ma Lorenzo era giunto anche lui sano e salvo; laonde ella non seppe dolersi dell'accaduto che riusciva ad onore del fratello, e tenne bordone alle guerresche sfuriate di Michele con una frase che merita d'essere qui riferita:
—Alla perfine, un uomo deve fare il debito suo, avvenga che può; ed anco a me, se fossi un uomo, darebbe l'animo di fare lo stesso.—
Il giorno dopo, Lorenzo Salvani, tornando dalla via Balbi dove si era recato a visitare Aloise di Montalto, passò all'uffizio delle Poste, e trovò una lettera per lui, la quale veniva da Genova.
Chi mai poteva avergli scritto da Genova?
Era una letterina chiusa in una elegante sopraccarta inglese di forma quadrata, col suggello di ceralacca azzurra e una corona comitale in rilievo. Di conti, Lorenzo non conosceva altri, per allora, che il Nelli di Rovereto; ma la lettera non poteva venire da lui, che egli aveva veduto mezz'ora innanzi al capezzale di Aloise. D'altra parte la soprascritta faceva mostra di certi graziosi uncinetti, che non indicavano punto la mano di un uomo; e non veniva da un uomo quell'essenza di violetta che profumava la lettera.
Lorenzo, dopo avere almanaccato un tratto, fece quello che avreste fatto voi, o lettori, e che avremmo fatto anche noi, in un caso simigliante. L'aperse, e lesse queste poche parole:
«La contessa Matilde Cisneri prega il signor Lorenzo Salvani, a voler passare da lei, domani, per cosa urgente; e lo ringrazia in anticipazione.»
Potete immaginarvi come egli rimanesse a quella lettura. Di stucco, è forse un dir troppo. Ma che cosa voleva la contessa Cisneri da lui? Lorenzo l'aveva udita nominare come una delle più belle signore di Genova; ma, vivendo egli appartato dal mondo elegante, non aveva mai avuto occasione di conoscere quella bellezza neanche per via. Ma egli era uomo, finalmente; ed una lettera di donna doveva fargli quel senso che fanno di consueto ad un uomo gli scarabocchi di una figlia di Eva.
—Domani!—andava egli dicendo tra sè.—Da oggi a domani ci sono ventiquattr'ore da aspettare. Basta; purchè passino, vedremo.
Dove si legge vita e miracoli della signora che aveva scritto la lettera.
La contessa Matilde Cisneri, che ora è in Francia, abitava nel tempo di questa narrazione una palazzina di là dall'Acquasola. Oggi la cerchereste invano, questa palazzina, perchè ha da essere caduta nel taglio di una tra le nuove strade aperte verso la montagna, se pure non è rimasta sopraffatta tra due file di casamenti nuovi, che bene non ci ricorda.
Era una donna celebre, la contessa Matilde; una delle dieci o dodici apostolesse della moda, le quali si contendono, o si spartiscono il dominio dei cuori; regine elette per suffragio universale, ma che ripetono tuttavia il loro diritto divino dalla bellezza e dal censo; le quali, se vanno a spasso, ci hanno il corteggio di parecchi cavalieri, e in teatro vedono aprire e chiudere di continuo l'uscio dei loro palchetti, per la ressa dei visitatori; talune buone e talaltre cattive secondo la loro natura e quella di chi le attornia; donne che tutti saettano dei loro sguardi e assediano dei loro sospiri; delle quali ognuno vi racconta la vita, o si argomenta di raccontarvela, perchè essendo esse più in mostra di tante altre, ogni loro parola, ogni gesto, sono interpetrati per diritto e per rovescio, epperò ad un terzo di vero si appiccicano molto agevolmente due terzi di falso.
La contessa di cui parliamo, nata col titolo, avrebbe dovuto perderlo andando sposa ad un ricco intraprenditore di opere pubbliche; ma questi era morto, lasciando lei erede usufruttuaria. Non aveva carrozza; ma a Genova la mancanza di una carrozza non è poi molto grave. Per contro aveva un palchetto in prima fila al teatro Carlo Felice, e ci andava con una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto, avendo poi l'aria di tenere la vedovella in quasi materna custodia. Da qualche tempo la contessa era infastidita dei suoi adoratori consueti. A Genova, come in ogni altra città, v'è uno stuolo vagabondo di questi personaggi, i quali fanno in una sola sera, e nel tempo di una sola rappresentazione di teatro, più giri che uno sciame di pecchie. Altri direbbe calabroni, ma noi ci atteniamo alla immagine più graziosa. Ora alla contessa Matilde questo farfalleggiare non andava molto a genio, nè più le garbava quello scambiare di futilissimi discorsi, o il dover nutrire la conversazione di ciò che faceva l'Erminia, l'Amalia, la Fanny, od altra delle dive, semidive e ninfe della giornata.
D'altra parte (e forse qui era da trovarsi la vera ragione) da qualche tempo ella non risplendeva più nel «ligustico cielo» come una stella di prima grandezza. Al suo entrare in teatro, ella non vedeva più, come prima, voltarsi le teste di tutti gli Adoni, con quel piglio di curiosa attenzione che sembra dimandarne altrettanta. Gli astronomi del teatro guardavano qualche regina di più fresca consecrazione, o qualche sposina, o qualche bella fuggitiva d'altra città, regina forestiera, venuta a rivaleggiare di pompa e di leggiadria con le padrone del campo.
Ella insomma non era più nel novero delle prime, sebbene il suo specchio non avesse punto smesso dal dirle, e con ragione, che la bellezza le fioriva sempre le guance. Vanità delle cose umane! Neppur la bellezza bastava a combattere gli effetti della consuetudine; e quel che era peggio, molte delle nuove venute erano più belle di lei, nè i giovinetti, nè i vecchi che la pretendevano a giovinotti, quando si recavano a farle la visita d'uso, rifinivano mai dal tenerle discorso di questa o di quella delle sue fortunate rivali.
Il tedio della contessa Matilde era grande, anzi sterminato a dirittura. Già due volte aveva parlato, così tra un nastro e un ventaglio, di voler morire, perchè a questo mondo non si era compresi mai, e faceva delle elegie alla luna, ma avendo tuttavia il buon gusto di non metterle in versi. Anche qualche gita al camposanto non sarebbe stata male; ma quella mancanza d'alberi per incorniciare le tombe l'aveva subito distolta dal malinconico pellegrinaggio, e dai pensieri che vi fanno capo. Anche laggiù regnava la menzogna, e, peggio assai che detta a fior di labbro, scolpita nel marmo.
Gli amici di casa, vogliamo dire i più intimi, non la riconoscevano più. Nessuna cosa poteva rallegrarle lo spirito. Era ella in uno di que' tali momenti in cui si piglia un amante, se si riesce a trovarlo autentico; uno di quelli amanti teneri e feroci ad un tempo, i quali si fanno della donna amata una divinità ed una vittima, e mettono un pizzico di pepe nelle sciocca monotonia della vita.
Aloise di Montalto, con la sua svelta persona, ed il viso improntato di nobile alterezza, che ricordava il verso di Dante __Biondo era e bello e di gentile aspetto__, sarebbe stato l'uomo adatto a temperarle quella mestizia profonda, a farle parere ancor bella la vita, e soprattutto a far crepare di rabbia tutte le rivali sullodate, e di gelosia mista a rimorso tutti i pianeti che s'erano lasciati attrarre nell'orbita di quelle nuove stelle, o comete che fossero.
Ma ella aveva fatto i conti senza Aloise. Il giovine Montalto amava, e non era lei la donna che lo faceva sospirare. Ora, con tutto il suo accorgimento femmineo, la contessa non aveva indovinato ciò; aveva creduto che Aloise fosse un uomo come tutti gli altri, ai quali basta una languida occhiata per farli girare, come le banderuole dei tetti, al più lieve soffio di vento. Per sua maggiore disdetta, la prima parola che ella aveva detto ad Aloise, nella veglia delle maschere al teatro Carlo Felice, lo aveva punto sul vivo.
—Che cosa vai tu a fare ogni giorno sul belvedere dei Giardinetti, accanto alla villa Di Negro?—gli aveva sussurrato ella all'orecchio, ripetendo una frase udita da altri.
Aloise andava appunto colassù ogni giorno e ci passava le ore intiere; ma c'era un grosso perchè, una viva debolezza del suo cuore. Egli infatti non andava a nessun ritrovo di amore, su quel belvedere dei Giardini pubblici, e non istava a guardar altro che un comignolo di tetto.
Già da parecchi mesi egli faceva quel pellegrinaggio ogni giorno; ma nessuno sapeva che cosa guardasse, perchè egli non se n'era aperto mai con alcuno, nemmeno col Pietrasanta che gli era amicissimo. Laonde, non è a dire come gli recasse molestia sentirsi toccare quel tasto da una maschera che egli aveva facilmente conosciuta per la contessa Matilde.
Tutti sanno che al tempo di questa narrazione, le veglie del teatro Carlo Felice si tenevano soltanto nelle sale del Ridotto. Le signore eleganti salivano in pompa magna a darvi una scorsa, o mettevano una mascheretta al viso, e un domino di seta sulla loro abbigliatura da teatro, onde era facile il riconoscerle, come se fossero andate a fronte scoperta.
Aloise dunque aveva arrossito a quella dimanda pungente della contessa Matilde, e tremando in cuor suo che ella avesse potuto indovinare un segreto non confidato da lui ad anima viva, rispose asciutto alla contessa Cisneri:
—Che cosa t'importa? Vo a studiare filosofia.
—Tu, filosofia! E su quale problema di grazia?
—Sulla curiosità di voi altre donne.
Allora venne la risposta della contessa: «non sei gentile» e tutto il rimanente, di cui ebbe a scontar la pena il Collini, che accompagnava la signora mascherata.
Il dialogo avvenuto fra i due era per la contessa il pizzico di pepe che abbiamo accennato più sopra. Aloise era uno scortese superbo, di cui avrebbe saputo vendicarsi in ogni occasione; il Collini, fino a quel giorno non avvertito da lei, s'era ingrandito di schianto fino alla misura di un eroe.
Ma quella era stata una meteora. Quarantott'ore dopo, ella sapeva della viltà di Ernesto Collini, e di Aloise gravemente ferito per mano di un cavaliere incognito (stile da romanzo storico) che il capitano Nelli di Rovereto andava dipingendo alle signore, gentile come una fanciulla e prode come Ettore Fieramosca.
La contessa Matilde non istette molto a pensare, e fattasi raccontare ogni cosa a puntino dagli amici del Nelli e del Pietrasanta, formò nella mente il più audace disegno che donna concepisse mai per vincere il tedio della vita. Il giorno dopo, una letterina profumata era già alla posta, coll'invito a Lorenzo Salvani di recarsi da lei, per cose d'urgenza.
Lorenzo era dunque aspettato nella mattina del giovedì, e c'era avviso ai servi che, entrato il signor Salvani, la contessa non era in casa per altri.
Adesso il cortese lettore si prenda l'incomodo di venire con noi nella palazzina Cisneri, e senza farci annunziare dal servitore in livrea di panno nero coi bottoni dorati e la lettera C sormontata da una corona comitale, passeremo per un androne lastricato a quadretti bianchi e neri, saliremo una breve scala di marmo, ed entreremo senza chiedere licenza in una spaziosa anticamera, tutta adorna di quadri a olio, paesi e marine di dugent'anni fa, che si potevano guardare ed anco trovar belli in una pinacoteca, ma che in quella sala non erano guardati da nessuno, sopraffatti per giunta da quattro tele più grandi, che rappresentavano gli antenati della contessa.
Uno di questi era un omaccione, grasso, rubicondo, con gli occhi sgusciati a guisa delle tartarughe; ed era il bisavolo, come ragionevolmente appariva dall'abito di velluto, tagliato alla foggia del settecento e dalla parrucca incipriata con la coda a sacchetto. L'altro era il trisavolo, magnifica arigusta avviluppata in un robone di velluto cremisino che aveva dovuto sostenere importanti uffici, non sappiamo dove, ma in qualche luogo di certo.
Mancava l'avolo, perchè (diceva la contessa) egli non aveva mai voluto farsi fare il ritratto. Il conte Cesare era un benedetto uomo, pieno di stravaganze, che non c'era verso di cavargliele dal capo. Aveva il temperamento sanguigno, il conte Cesare! Del resto, gran soldato; e Napoleone I, che s'intendeva d'uomini, avrebbe dato un occhio del capo per averlo dalla sua; ma lui duro. Il conte Cesare, che non voleva farsi fare il ritratto, era morto di un colpo apopletico. Bella morte, per un gentiluomo!
Come ognuno vede, se mancava il ritratto a olio, suppliva il bozzetto a voce. Il Cigàla, quel faceto giovinotto che molti dei nostri lettori si ricorderanno di aver conosciuto, e che è morto da valoroso nella giornata di Montebello, sospettava fortemente della autenticità di quei ritratti, e sosteneva di averli veduti nel fondo di una bottega da rigattiere. In quanto al conte Cesare, lo diceva un ritratto di fantasia, per meglio colorire i due accennati.
Gli altri due erano ritratti di donne. Una era la moglie del conte Cesare, la quale non partecipava punto alla ripugnanza del marito per la pittura. L'altra era una gentildonna della famiglia, andata a nozze, non si sapeva più bene se con un Pallavicino di Parma o con un Visconti di Milano.
Il prete di casa le sapeva a menadito, tutte quelle storie; ma il poveraccio era morto! La contessa Matilde ne aveva sentito parlare, quand'era piccina, ma non le aveva tenute a mente. Della qual cosa non è a dire quanto le dolesse; perchè le ricordanze di famiglia sono una seconda religione, e bisogna tenersele care.
Il padre della contessa, l'unico ritratto di cui il faceto Cigàla non avesse mai dubitato, era in miniatura, e si poteva vederlo nel salotto verde, sopra la spalliera del gran canapè, sul quale la contessa era usa sedersi, quando non le tornasse meglio sdraiarsi su d'un piccolo sofà, accanto alla finestra, per leggiucchiare i giornali.
Faremo un breve ritratto dell'ultima discendente di tanti egregi personaggi, dicendovi che era bionda, bianca nel viso come tutte le bionde, ed amava portare i capelli tirati indietro, ma con una fila ordinata di ricciolini minuti sulla fronte, come una dama francese del Seicento. Ella poi, bionda com'era, reputava ottima la tappezzeria verde, le cortine verdi, che facevano risaltare assai bene la sua bianca figura.
Siamo dunque entrati nel salotto verde, e non ci ha neppur visti dal vano di un uscio socchiuso, o dal buco di una toppa, la vispa Cecchina, una cameriera che sa tutto, che vede tutto, vero ministro degli affari interni in gonnella di lana, a scacchi rossi e neri, e grembiale di seta.
Invisibili come un eroe di poema epico, a cui un Nume benigno ha concesso l'accappatoio di una nuvola, possiamo guardare a nostro bell'agio la bionda contessa, che è appunto sdraiata sul piccolo sofà daccanto alla finestra, con un tavolincino di lacca giapponese posto lì presso, che la mano della signora possa giungervi senza incomodo, a scegliere tra una rivista francese, due giornali di mode, uno di politica, e un volume del Leopardi.
Il qual volume, sia detto ad onor del vero, stava aperto sulla lastra verniciata, parendo rimasto a bocca aperta per la meraviglia del trovarsi in quella compagnia.
La contessa Matilde non leggeva. Appunto pochi momenti innanzi aveva deposto il libro, aperto alla pagina di Consalvo, a cui consola la triste agonia il primo bacio di Elvira. Col capo arrovesciato sulla soffice spalliera tondeggiante del sofà, gli occhi socchiusi in atto di meditazione profonda, una mano raccolta al seno e l'altra mollemente abbandonata lungo le pieghe di una veste di color pavonazzo, stretta alla vita e stretta al collo, dov'era terminata da una gorgieretta a cannoncini insaldati, l'avreste detta una bella figura del Vandyck, spiccatasi dalla sua tela, e diventata di carne, d'ossa e di seta, per far grazia a voi, prelibati lettori.
Qual era l'argomento delle sue meditazioni? Ecco qua: la contessa Matilde pensava che era prossimo il tocco, e che, seguendo la consuetudine delle visite, l'ignoto ed affettato Lorenzo Salvani, non avrebbe tardato molto a giungere.
E infatti, il tocco era passato di poco, che un giovanotto chiuso in una specie di cappa che portava allora il nome di lord Raglan, commetteva i suoi stivalini inverniciati su per la salita della palazzina Cisneri. Giunto lassù, detto il suo nome, e gettato il __raglan__ sulle braccia del domestico, salì nell'anticamera che il lettore conosce. Lo stesso domestico, passatogli innanzi, e alzata la portiera del salotto, annunziò alla contessa la venuta del signor Lorenzo Salvani.
—Fatelo entrare!—disse ella con una voce che noi non chiameremo argentina, a cagione dell'abuso che si è fatto ormai di simili aggettivi.
A Lorenzo il cuore «balzava in petto» davvero, e non già per far servizio alla rima come nei melodrammi, Il giovinotto era intrepido, anzi audace ai pericoli, ma pur sempre timido come un adolescente, al cospetto di una donna, e più d'una donna veduta per la prima volta. Ma bisognava farsi innanzi, ed egli entrò nel salotto, a fronte alta, per isforzo di volontà, impacciato nondimeno e confuso. Il verde di quel salotto gli aveva ferito lo sguardo; il viso di quella bionda creatura seduta lo aveva abbagliato.
La contessa era rimasta nella sua prima postura fino al comparire di Lorenzo sulla soglia; ma, vedutolo appena, con sapiente magistero aveva sollevata la testa e sporgeva la mano come per accennargli la via che egli aveva a tenere per giungere a lei.
Il salotto di una bella signora che non si è mai veduta, a cui non si è mai parlato, è infatti come una lunga strada, anzi come una distesa di mare, su cui c'è grande bisogno della bussola: ed anche allorquando si vede il porto, bisogna studiare il modo di giungervi, senza dar nelle secche.
—Signore,—disse la contessa al giovine, come fu giunto vicino a lei,—ho ardito chiamarvi da me come si usa con un vecchio amico. È però giusto che, come ad un vecchio amico, vi stringa la mano, mentre vi ringrazio della vostra sollecitudine.—
Che cosa rispose Lorenzo Salvani a quelle cortesie, a quella stretta di mano e a quel lungo sorriso che accompagnava gli atti e le parole? Qualche cosa egli balbettò di certo; ma nè ella l'intese, nè egli avrebbe saputo ripetere. Questo avviene pur sempre nei primi incontri, ed ognuno dei nostri lettori lo saprà per sua particolare esperienza.
Comunque sia, non è qui il caso di stare a cercare che cosa avesse detto. Egli strinse, o piuttosto si lasciò stringere la mano dalla contessa, arrossì un pochino e prese il posto che la signora gli offriva su d'una sedia a bracciuoli, accanto al sofà. Quell'atmosfera (se la donna è un corpo celeste, perchè non avrebb'ella pure la sua atmosfera?) quell'atmosfera, pregna di tutti i profumi della bellezza, lo aveva inebbriato.
Ahimè, povero uomo! Egli è sempre così che tu cominci i tuoi romanzi, senza sapere dove ti condurrà la catastrofe!
Cionondimeno, se Lorenzo Salvani avesse vissuto un po' meno tra i libri e alquanto più nel consorzio dei vivi, egli non sarebbe rimasto sopraffatto a quel modo, e in quella atmosfera ci avrebbe trovato più quintessenza di violette, che non arcano profumo di donna gentile. Ma che farci oramai? Era quello di Lorenzo Salvani il primo segno, il barlume de' suoi primi ardori per una donna vera. Egli non aveva fino a quel punto messo il suo cuore fuor che in quelli amori di sedici anni, così candidi, così vaporosi, per una donna di cui non s'è mai udita la voce; che si vede soltanto per le vie a diporto, e nemmeno tutti i giorni; della quale si vorrebbe essere casigliani, entrare in dimestichezza coi parenti, e financo, Dio ci perdoni, col ciabattino che le adorna il portone di casa; e alla quale nondimeno non si sente la fiera bramosia di stringere la persona tra le braccia, per ricevere la scossa elettrica di quel condensatore vivente.
Lorenzo non aveva ancora amato davvero. Non erano certo mancate le follie della prima giovinezza; ma le ali del pensiero non v'erano punto rimaste impaniate. Però quella entrata nel salotto della contessa Matilde era come l'apparizione di un nuovo mondo per lui; era il pianeta di Venere, nel quale egli si vedeva sbalzato, come per effetto d'incantesimo. Era egli Astolfo nella Luna, o Rinaldo nella dimora di Alcina, o Ruggero nei giardini d'Armida? Tutti questi eroi avevano perduta in ugual modo la bussola; però il lettore può scegliere.
A Lorenzo mille pensieri ed immagini di questa fatta passarono, come un baleno, nella mente, e insieme un desiderio prepotente di essere amato da quella graziosa donna dai capelli biondi e dalla lunga veste di color pavonazzo, che gli stava mollemente seduta di rincontro.
Era quella forse la donna della veglia mascherata, alla quale il marchese di Montalto aveva detto parole scortesi? Era quella la signora di cui si parlava tanto, per le sue acconciature, per le sue fogge di vestire, per la sua vita brillante? Era un angelo, o una sirena? Poteva amarlo, lo amava di già, o non l'avrebbe amato mai? Tutti questi pensieri erano e ad un tempo non erano nell'animo suo; si aggirava in una regione fantastica, e gli mancava il tempo di coglierne distintamente i contorni.
—Signor Salvani,—diss'ella,—voi dunque mi perdonate il fastidio che ho dovuto recarvi?
—Che dite mai, signora contessa?—rispose Lorenzo.—Io ringrazio anzitutto la buona ventura che mi ha fatto salire in questo paradiso.—
Per un esordio di conversazione non c'era male. La contessa fece un grazioso cenno del capo, e giovandosi dell'ultima parola di Lorenzo, proseguì:
—Un paradiso, dite benissimo, quantunque non vi siano angeli, nè santi.—
Lorenzo aveva già fatto il gesto di chi vuole rispondere qualche cosa; ma la contessa non gliene diede il tempo.
—Oh, non mi state a dir altro in contrario!—soggiunse ella.—Io so bene che voi, signori, non patite penuria di complimenti.
—Complimenti, signora contessa! È una brutta sentenza, e soprattutto pronunziata senza ascoltare le parti, quella che voi infliggete ad un uomo il quale non si disponeva a dir altro che la verità. A me infatti sembra che gli angioli almeno ci siano.
—E questo,—ripiccò sorridendo la contessa Matilde,—non è forse un complimento?—
Lorenzo stette un tratto silenzioso e raccolto in sè medesimo, a guisa di chi vuole si ascolti attentamente quello che sta per dire; quindi si fece a parlare in tal modo:
—Signora contessa, abbiatemi per iscusato, ve ne prego, se appunto la prima volta che ho la fortuna di parlare con voi, comincio a disputare come un accanito dialettico. Ma che cos'è infine un complimento?
—Voi saprete assai meglio di me la definizione del vocabolo, signor Salvani; ma qualunque cosa esso sia, non potrete levargli il carattere di una frase esagerata.
—E sia pure;—proseguì Lorenzo,—ma perchè si dice, questa frase esagerata? Una cagione riposta ci ha pure da essere. E che cosa sono, di grazia, le immagini e le metafore nello scrivere, se non modi svariati ed efficaci a colorire meglio un pensiero? Certamente non si potrà dir bella ad una brutta; ma si dicesse pure, non sarebbe esorbitanza di frase, sibbene una bugia addirittura, e l'uomo che la dicesse dovrebbe arrossire, temendo che fosse giustamente tolta in mala parte. Ora ditemi, signora contessa, arrossisco io forse per timore, nel dirvi, come faccio, che gli angioli ci sono, in questo vostro paradiso?—
Qui cominciò tra quelle due persone che non si erano mai vedute, l'una delle quali non sapeva ancora per qual ragione fosse chiamata al cospetto dell'altra, una di quelle conversazioni, tessute a ghirigori fantastici, nelle quali non si dice nulla, o quasi, e tuttavia si lasciano intendere tante cose.
Matilde ragionò di molto con lui; della sua solitaria dimora, fino a cui non giungeva il frastuono della città; del Leopardi, che ella leggeva con affetto indicibile, e di cui ella intendeva i concetti assai meglio che pel passato, quando l'animo suo non s'era anche educato alla scuola dei patimenti; del vivere ristretto e fastidioso di Genova; dei sereni piaceri della campagna, e di mille altre cose, vere o false, ma dette sempre con molta grazia e con un'aria di schietta semplicità da innamorare ognuno che fosse stato a sentirla.
Potete dunque argomentare quale prova facesse sull'animo di Lorenzo. Assorto come era in una ebbrezza profonda, non le chiese, anzi dimenticò affatto di chiederle la cagione per cui essa lo aveva chiamato in casa sua, e si lasciava andare a discorrere di mille cose, come il marinaio addormentato che sogna la sua innamorata si lascia cullare nel suo burchiello, confidato alla cura delle onde tranquille.
La contessa poi sapeva toccar quelle corde che gli andassero più a genio, e, come è virtù di molte donne, s'innalzava agevolmente al pari di lui, faceva suoi i pensieri del giovine e li metteva fuori in tal modo da far sembrare che ella non avesse mai pensato diverso.
Erano le quattro dopo il meriggio, e quella benedetta conversazione non era anche finita. I quattro tocchi della campana si fecero udire in mezzo ad una di quelle tali pause che si riscontrano nel dialogo più vivo, come una radura che lascia veder l'orizzonte, nel fitto di una boscaglia.
—Dio mio! le quattro!—esclamò la contessa.—Si dimentica il tempo in vostra compagnia, signor Salvani; e veramente mi duole di non avervi ancora parlato di quella tal faccenda per la quale vi avevo pregato di venire da me. Oggi intanto non sarebbe più tempo. Venite domani?
—Se così vi aggrada,—rispose Lorenzo sollecito.
—E se così aggrada a voi,—soggiunse la contessa.
—Oh, di questo potete esser certa, signora. Non si parte da casa vostra senza portar via qualche cosa….
—Qualche cosa?
—Eh, sicuro; il desiderio di ritornarvi.
—Se è così, tanto meglio; portatene via molto, signor Salvani; io non me ne lagnerò certamente.—
Il nostro Lorenzo se ne tornò a casa col cervello scombussolato, senza pensare, senza intendere cosa alcuna, ma leggiero, leggiero come un uomo felice. I tristi pensieri lo assalsero dopo l'arco dell'Acquasola, quando fu per discendere in città. Gli risovvenne allora della sua vita senza speranza, della povertà che lo stringeva ai lati, cose tutte che egli sentiva doppiamente acerbe, poichè egli aveva veduto la donna da cui gli sarebbe stato dolce l'essere amato.
Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole.
La dimane il giovine fu puntuale al ritrovo, come potete argomentar di leggieri. Nella notte il suo letto solitario era stato visitato dagli alati messaggeri di Morfeo, i quali erano tutti intenti a raffigurargli una bionda, con la veste di color pavonazzo e la gorgieretta di mussolina a cannoncini insaldati. Il più bizzarro ricambio di pensieri, il più veloce viaggio nei giardini di Amatunta era stato fatto dal dormente, in compagnia della bionda consolatrice del suo sogno. Però non è a dire con quanta sollecitudine ansiosa egli facesse, all'ora istessa del giorno innanzi, la salita della palazzina Cisneri.
Allorquando egli entrò nel salotto verde, vide la contessa Matilde seduta presso la finestra, con la matita tra le mani, che stava disegnando un fiore sopra un foglio di carta. Ella non indossava più la veste di color pavonazzo, ma un'altra di seta nera, con la vita foggiata per modo da lasciar le spalle nude ed il sommo del petto, su cui scendeva un camicino di mussolina ugualmente nera, lieve impedimento agli occhi di un profano riguardante. Intorno al collo si ravvolgeva, venendo ad incrociarsi sul petto, uno di que' tali arnesi di pelo di martora che hanno pigliato presso le donne il nome pauroso di un serpente, forse in omaggio a quella bestia che venne a capo di infinocchiare la loro progenitrice degnissima.
La contessa poteva rimanere scollata, perchè il fuoco acceso nel camino manteneva nel salotto una tiepida temperatura. Acconciata in quel modo, aspettava la seconda visita di Lorenzo Salvani.
Appena egli comparve, la contessa alzò il capo, piegandolo leggiadramente verso la spalla in modo da saettare il giovine con uno sguardo ad occhi semichiusi, e, con la muta eloquenza del più cortese sorriso, gli porse la mano.
Lorenzo corse a stringere quella mano, e non contento di stringerla, chinò il capo a baciarla.
Ella non fece alcun atto di meraviglia. È così poca cosa, ed ha una scusa così ragionevole nelle antiche consuetudini il baciare una mano, che la contessa Matilde poteva lasciarlo fare a suo modo, senza mestieri di simulare un atto di corruccio.
—Siete venuto!—diss'ella, così per cominciare il discorso.
—Potevate credere, signora contessa,—rispose Lorenzo,—che avessi tardato pure di un minuto?
—Oh no! Voi siete un cortese cavaliere, e questo si sa. Pensavo anzitutto che le vostre faccende avrebbero potuto forse trattenervi, e quasi mi doleva di avervi costretto a regalarmi un'altra delle vostre ore preziose.—
Un'ora! La contessa avrebbe potuto dir tre o quattro a dirittura, chè tante ne aveva passato accanto a lei, il giorno innanzi, il nostro Lorenzo. Ma questo era forse un modo di dire della contessa Matilde.
—Non v'è negozio che tenga,—rispose il giovine,—innanzi ad un vostro invito, e mi pare di avervi già detto con che animo si parta da casa vostra. Ma che cosa stavate voi facendo, signora?
—Oh, una cosa da nulla. Mio Dio! Temo che non m'abbiate a trovare un po' troppo leggiera, con queste frivolezze.
—Che dite, signora? Per me non è nulla di frivolo in quello che fate, sia pure un ricamo.
—Ed è appunto un disegno per ricamo;—disse la contessa.—L'ultimo venuto da Parigi non mi garbava molto, e volevo farne uno di mio capo per metterlo sul telaio. Sapete pure, signor Salvani, che lunghe ore di tedio passiamo noi in casa, quando manchi l'argomento affettuoso delle cure domestiche. Un ricamo, od altra cosa qualsiasi, che a prima giunta pare, e considerata in se stessa è certamente assai frivola, ci offre una occupazione materiale in cui riposare la mente, per farci poi cavar più diletto da una bella lettura, o da una passeggiata all'aperto.
—Non vi scusate, signora contessa!—soggiunse Lorenzo.—Voi disegnate un fiore, e sta bene. Il fiore non è egli forse una delle più belle opere di Dio? Anzi, per dimostrarvi che siffatte occupazioni si addicono agli uomini come alle donne, con vostra licenza, voglio metterci anch'io queste mani profane.
—Fate pure, signor Salvani, e il mio fiore riuscirà certamente più bello.—
Lorenzo prese con fanciullesca sollecitudine, il posto della contessa Matilde, e tolta in mano la matita, si diede con artistica gravità ad abbozzare un elegante mazzolino di que' fiori che nascono soltanto negli orti della fantasia cinese. Imperocchè l'uomo si è fitto in capo di abbellir la natura, e dove non si mette a dirigere e ad educare gli amori delle piante per mutarne le forme e temperarne a sua posta i colori, inventa nuove fogge senz'altro; queste però sulla carta, perchè la natura non è disposta a seguirlo in tutti i suoi capricciosi vaneggiamenti.
Non faccia le meraviglie il lettore se Lorenzo Salvani, il giovine severo, il soldato di Roma, s'è posto a disegnare un mazzolino di fiori pel telaio della bionda contessa. Gli antichi, nostri maestri in tante cose, non isdegnarono rappresentarci Ercole, il figlio di Giove e il domatore dell'idra di Lerna, seduto presso ad Onfale, in quella positura che finse più tardi lo Shakespeare per il suo Amleto a' piedi di Ofelia (leggete a questo proposito il testo inglese), e intento a trarre il filo dalla conocchia di lei. Ora tutti gli uomini sono figli in cotesto del dio della Forza, che lo imitano a puntino nelle sue debolezze.
Che faceva intanto la contessa Matilde? Con una mano poggiata sulla spalliera della scranna, e la testa curva accanto a Lorenzo, ella stava seguendo degli occhi i giri della matita che egli maneggiava con facile sprezzatura. Le guance della donna erano presso alle sue, e i segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella superficie, di consueto così pallida.
Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d'acqua e ne fa sparire in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle sue, la più grossa che le avesse ancor detta.
—Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande dalla vostra persona!—
Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà, dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.
Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa Matilde. Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul volto delle donne, quando mette loro più conto.
Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla contessa.
—Signora,—le disse egli con voce tremante,—che cosa ho detto io mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.
—Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto;—rispose la contessa Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano.—Voi ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè, il quale, non mi offende già, mi addolora.—
Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m'intenda? pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le dimostrano?
La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.
—Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non farmene arrossire?
—No, vi dico quel che penso; perchè?
—Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece, come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola, per difendermi da un'accusa che so di non meritare.
—Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.
—Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi. Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest'uomo. Questo povero giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che esco dai confini del vero. In un cuore come il mio l'affetto nasce e germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento da intendere come l'esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è la verità, o signora, e l'onest'uomo, che vedete del pari, sente il debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero giovine, l'onest'uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.
—Dio mio!—esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in atteggiamento di mestizia.—È egli dunque vero che un uomo ed una donna non possano stare l'uno accanto dell'altra ed essere amici, null'altro che amici?—
Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme, e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.
—E perchè mai,—proseguì la contessa, come se ragionasse con se medesima,—tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole?—
Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a rispondere:
—Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà così presto come io ve l'ho detto, la seconda volta che vi vedo, pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore, negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi dunque a chi vi ha detta la verità?—
E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.
La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo, senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.
—Perdonarvi!—disse ella con voce fioca.—È cosa fatta. Una donna non ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna forse, più sofistica delle altre, noterebbe che simili parole, perchè s'abbia a ritenerle in ogni loro parte sincere, son forse dette troppo presto.
—Ma io vi ho già detto, o signora, come la penso in materia di amore. Io non pratico, nè conosco la ipocrisia del cavaliere galante, il quale vi s'insinua dolcemente nel cuore, vi signoreggia superbamente quando sia giunto a persuadervi con la sua lunga umiltà. Con me, signora contessa, voi siete padrona di voi medesima; io non aspetto a cogliervi alla sprovveduta; vi amo, e ve lo dico schiettamente con le labbra, poichè mi è dato parlarvi, in quella stessa guisa che ve lo avrei detto e seguiterei a dirvelo con gli occhi, se non avessi altro modo.
—Ma sapete, signor Lorenzo,—(la contessa Matilde disse proprio: Lorenzo)—che queste vostre parole mi mettono in pensiero? Sedetevi qui, accanto a me, e vediamo di poter discorrere tranquillamente. Ho da dirvi anzitutto perchè io v'abbia pregato a venir qua.—
Lorenzo si assise. Il cuore del giovine s'era inondato di gioia, all'udire che la contessa per la prima volta lo chiamava col suo nome di battesimo.
—Parlate, parlate, signora!—esclamò Lorenzo.—Voi sapete pure la mia vita esser vostra, e non essere cosa ai mondo la quale io non fossi lieto di fare per obbedirvi.—
Una stretta di mano lo ricompensò di quelle parole, e se una mano ardeva, l'altra non era fredda di certo.
—Voi siete un uomo d'onore;—incominciò a dire la contessa, con un tal poco di solennità nello accento,—lo so; e appunto per questo ho amato meglio volgermi dirittamente a voi. So che vi siete diportato da prode gentiluomo in un duello, nel quale avevate a contendere con uno dei più valenti schermidori della città, e me ne congratulo con voi, non già in quel modo e per quella costumanza volgare di una persona che s'incontra per via, ma con affetto sincero, ed anco, se non vi è discaro saperlo, con gratitudine, perchè c'era di mezzo una dama, e questa dama voi l'avete difesa, in vece del suo cavaliere che si dimostrava un codardo.
—Come, signora? Voi sapete….
—Sì, so tutto, e non mi riterrò neppure dal dirvi che quella dama…. ero io.
—Voi, signora contessa!—
E così dicendo, Lorenzo Salvani la guardò trasognato, come per nuova che giunga inaspettata, sebbene egli stesso, fin da principio, avesse argomentato che l'invito della contessa Cisneri potesse avere qualche addentellato col suo duello di San Nazaro.
—Non vi faccia stupore!—proseguì rapidamente la contessa Matilde.—Se sapeste il fatto, non vi sarebbe difficile intendere quanto poca parte ci avessi. Ero nel mio palchetto in teatro, sul finire dello spettacolo, e mi aveva preso desiderio di salire nel Ridotto a vedere le maschere. Il dottor Collini era nel palchetto, come ci sono tanti altri,—(queste parole, in forma di parentesi, furono accompagnate da un sospiro)—ed egli mi si profferse per cavaliere. Detto, fatto; entrai mascherata nel ridotto, e fu allora che mi avvenne di dire al marchese di Montalto quelle innocenti parole che voi sapete….
—Io! non so nulla, signora contessa;—interruppe candidamente Lorenzo Salvani.—Il nome della signora mascherata non fu pronunziato da alcuno, ed io non chiesi nemmeno quali parole avessero dato appiglio alla contesa tra il Collini e Aloise di Montalto.
—Oh, mi fate respirare!—soggiunse la contessa.—Appunto a voi, cortese e leale come oggi vi conosco, ma come fin dall'altro giorno vi avevano decantato i padrini del vostro avversario, volevo chiedere se il mio nome fosse stato messo fuori. A voi, Salvani,—(la contessa qui disse proprio Salvani, tralasciando il titolo di cerimonia)—a voi non sarà ignoto che noi, povere donne, siamo come le nostre vesti di seta o di raso; una macchiuzza, e che sarebbe invisibile sulla vostra giubba di panno nero, le guasta per modo che non hanno più nessun pregio. Ora il solo avermi nominata, sebbene io sappia di non aver detto o fatto cosa biasimevole, l'esser posto il mio nome in mezzo ad una contesa di quella fatta, che fu sciolta per giunta col sangue, mi avrebbe cagionato un rammarico da non dirsi.—
Questo discorso fu fatto con piglio modesto dalla contessa, in quella che i suoi occhi non si dipartivano dal volto di Lorenzo, quasi interrogando i pensieri che gli passavano per la mente. Ed ebbe a rallegrarsi della sua attenzione, perchè Lorenzo aveva seguito con manifesta ansietà il racconto e si leggeva ne' suoi occhi come fosse contento di sapere che il Collini era per lei un semplice conoscente, e null'altro.
Quello di Lorenzo Salvani era un sentimento che tutti gli uomini conosceranno a prova. La donna che noi incominciamo ad amare non ha da essere sospettata, nè d'opere, nè di pensieri; non ha da aver fatto mai l'occhiolino ad un altro, sotto pena di scomunica. Ed ecco in qual modo si può diventar gelosi perfino del passato.
—Ora,—proseguì la contessa Matilde,—poichè ho cominciato, vi dirò tutto. Non vi annoio, già?
—Signora,—esclamò Lorenzo, con aria di dolce rimprovero.
—Eh, gli è che questi discorsi non mi paiono tali da premervi molto. Comunque sia, lasciatemi dire, e ci guadagnerete questo, che mi conoscerete un po' meglio.—
Il giovane rispose a queste parole afferrando per la seconda volta la mano della contessa, e stampandovi un bacio. Questo almeno era un modo di parlare che non si poteva togliere per un complimento, e non domandava nemmeno risposta. Matilde arrossì, sorrise malinconicamente, e senza ritrarre la mano da quelle di Lorenzo che la tenevano prigione, proseguì:
—Al marchese di Montalto, che conoscevo come tanti altri per averlo veduto in qualche veglia, dissi poche e cortesi parole. Ma, che volete? senza badarci, anzi senza saperlo, io debbo aver toccato un tasto delicato, e me ne duole, poichè un cuore di donna intende come pungano certi dolori; e sebbene egli non s'è mostrato molto cortese nel rispondermi, io lo stimo come un giovine abbastanza diverso da tanti e tanti altri.
—Avete ragione,—esclamò Lorenzo.—Aloise di Montalto è un vero gentiluomo. Egli a quest'ora sarà dolentissimo di essersi mostrato scortese con voi, quantunque io penso che non vi avesse conosciuta, e soltanto la presenza del Collini gli avesse inasprite le parole. Ma io lo conosco già tanto da potervi quasi affermare che, appena risanato, egli mi seguirebbe fin qui, per iscusarsi con voi.
—No, no, Salvani! Non ve ne date pensiero;—interruppe la contessa, ridendo.—Che importa a me, finalmente? Io stimo quel signore, ed oggi anche più di prima, poichè vedo che lo stimate voi: ma in verità non reputo necessario di conoscerlo più da vicino.—
Anche questo era un tocco maestro, e Lorenzo lo sentì, senza darsene ragione.
Egli stette silenzioso, ed ella egualmente; ma egli, se taceva, non rifiniva però dal guardarla con que' suoi occhi languidi.
—Or bene,—gli disse ella dopo un tratto,—che fate?
—Signora, adesso tocca a me. Il mio discorso era rimasto a mezzo; lasciatemelo dunque finire. Mi crederete voi se vi dirò che vi amo? Mi perdonerete voi se ardirò dirvelo?
—Signor Salvani!…—esclamò la contessa, adombrando nella sua reticenza un timido rimprovero.
—Signora!—ripetè egli.—Poc'anzi avevate messa da parte questa inutile parola.
—Davvero? Ah, mi avvedo che perdiamo il capo ambedue. Siatemi invece cortese di finir l'opera vostra. Il mio disegno vi attende, perchè gli diate l'ultima mano.
—Debbo finirlo? Vi preme tanto?
—O che, non mi avrebbe a premere? Qual conto fate di me? Suvvia, da bravo, venite.—
Ciò detto, la contessa Matilde si alzò e condusse Lorenzo al tavolino.
—Ma non son buono a far nulla,—diss'egli, poichè si fu seduto dinanzi al suo bozzetto,—se voi non vi mettete da capo ad ispirarmi.
—Intendiamoci, anzitutto!—rispose la contessa alzando l'indice con gesto leggiadro;—voi non mi direte più nulla?
—Ve lo prometto, ma, ve ne prego, ripigliate il posto di prima.—
La bionda contessa sorrise, e posta la mano sulla spalliera della scranna chinò il capo fin presso alla guancia del giovine, in atto di guardare i segni che gli uscivano dalla matita.
E noi in questa positura li lasceremo ambedue, poichè ci stanno benissimo, e non si annoieranno di certo.
Di un ghiotto discorso che facevano insieme Aloise di Montalto e il
Pietrasanta, innanzi di mettersi in carrozza.
Il dottor Mattei aveva dato nel segno, commettendo la guarigione di Aloise di Montalto a quella gran medichessa che è la natura. Quindici giorni dopo il duello, Aloise era già fuori dal letto; e non solo poteva uscir di casa, ma il savio discepolo di Esculapio glielo aveva raccomandato, perchè rinfrescasse le forze all'aria aperta, usando tuttavia la precauzione di andare per le prime volte in carrozza.
Quindici giorni in casa sono peggio che la morte, per un giovanotto; ma il poter uscire, dopo quei quindici giorni, gli è come una risurrezione.
Il ferito aveva ricevuto in quelle due settimane moltissime visite; ma quel via vai di persone, le quali facevano tutte la stessa dimanda, non aveva certamente potuto divertirlo molto. Soltanto il Pietrasanta, co' suoi sproloquii di capo scarico, e Lorenzo Salvani, co' suoi modi schiettamente amorevoli, consolavano all'ammalato taluna di quelle lunghe ore che il tedio gli faceva centellare minuto per minuto.
Il Salvani gli era andato proprio a' versi, tra perchè era stato suo avversario (la qual ragione parrà strana e non è) e perchè, così alla gagliarda prova dei fatti come nel tranquillo ricambio di affettuosi pensieri, ci aveva avuto agio di conoscerne i pregi. Egli pensava spesso a quel baldo giovinotto, e quasi non sapeva capacitarsi che fosse nato senza titoli di nobiltà.
Perchè, bisogna confessare un difetto di Aloise, e i lettori non gliene facciano gran carico, essendo l'unico che avesse, e mal digesto avanzo di educazione aristocratica, anzi che matura convinzione dell'intelletto. Egli credeva ancora che i titoli natali dessero ogni maniera di virtù, come quei tali sacramenti che imprimono carattere ai buoni cattolici.
Qual è l'uomo tra noi, il quale non abbia una o due di queste fisime in capo, mai discusse a mente tranquilla e sempre citate a guisa di assiomi! E non è a dire che manchi lo ingegno per discernere l'errore; ma gli è che certe cose, succhiate, stiamo per dire, col latte, rimangono nel cervello, come fondo di bottega, e l'occhio, avvezzo a vederle, non si ferma a discuterne il pregio.
Ora nessuno può fare ad Aloise il torto di credere che egli, con quello ingegno che aveva, se si fosse posto a meditare un tratto su quel dirizzone, non avrebbe durato fatica a scorgere le corna del pregiudizio. Per giungere a ciò sarebbe bastato il guardarsi d'attorno, nella gente del suo ceto, e considerare se tutti i suoi pari avevano quella scienza infusa, o quella innata nobiltà di sentire che gli pareva privilegio del nome patrizio.
Ma in fin dei conti, come si sarebbe potuto ragionevolmente domandare che Aloise facesse queste considerazioni, se lo storto concetto dell'universale non fa che aiutare a questa illusione? A Genova, come in molti luoghi, si fa di cappello ai milioni, anche quando non abbiano altre virtù che li rincalzino; ma a Genova, più che altrove, si fa di cappello al titolo di marchese, e a tutti i privilegi della nascita, non badando se siano posti su d'un uomo da nulla, come il mantello o la giubba sulle smilze grucce d'un attaccapanni.
Maniere di adorazione storte ambedue; laonde si può dire che se in altri luoghi il concetto della rivoluzione è stato volto a profitto dei ricchi, della gente nuova e dei subiti guadagni (per dirla con Dante), qui a Genova non ne è pur giunto un soffio, ed abbiamo accettato due maniere di aristocrazia, in cambio d'una.
Noi ripeteremo una cosa detta fin dal principio di questo racconto: amiamo i bei nomi quando sono ben portati, e null'altro. La nobiltà che noi intendiamo, è privilegio sempre difficile ad ottenersi; ma si ottiene per fermo con la mistura di questi tre ingredienti: onestà, ingegno e generosità di propositi. Sia patrizio o plebeo l'uomo posto in alto dalla riverenza dell'universale, se quelle virtù non soccorrono, povero a lui! nè le ricchezze sfondate, nè il fasto della cieca liberalità, possono farci dimenticare la sua pochezza d'intelletto e di cuore. E allora la carrozza stemmata, la coppia di leardi, o di sauri, superbamente attaccata, e la poveraglia più superbamente tenuta ad ornamento del portone di casa, ci fanno sorridere malinconicamente, come avviene per tant'altre miserie del mondo.
Questi pensieri abbiamo voluto dirveli, perchè li mettiate insieme con altri parecchi, e a noi si tolga il fastidio di doverci spiegare per lungo e per largo, sì quando avremo aria di lodare la nobiltà e la ricchezza, sì quando avremo aria di buttarle tra le ciarpe dei ferravecchi.
Ora torniamo ad Aloise. Le ricchezze del giovine marchese di Montalto erano più che modeste, e forse in questo senso il dottor Collini intendeva la frase detta a Lorenzo: «un tale che non ha il becco di un quattrino». Il fitto di alcune case poste in città gli dava un'entrata di forse ottomila lire. Palazzo non ne aveva, essendo la dimora cittadina de' suoi vecchi già da lunga pezza andata in mano d'altri, e gli rimaneva soltanto, inutile arnese, il palazzotto campestre della sua famiglia, posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che fiancheggiano la Polcevera.
Si possono fare di molte cose, con otto mila lire, in una città come Genova. Si può, verbigrazia, avere una bella casetta, arredata con elegante semplicità, tenere due persone di servizio ed anche la balia in casa, se si è ammogliati e consolati di prole; ma in questo caso non c'è da pensare a sciali, bisognando stare per molt'altre cose a stecchetto. Ma si possono fare altresì poche cose con ottomila lire, quando non si abbia il conforto e le modeste costumanze della vita domestica. Abbiate un appartamento pulito in una delle vie principali; contentatevi di un solo servitore; andate a desinare alla Concordia; tenete uno scanno a teatro; fatevi vestire, o spogliare da un sarto di grido; siate socio al Casino, anche senza far altro che una partita a biliardo; rendete a tempo e luogo servizio ad un amico, e poi mi saprete dire dove si arrivi con ottomila lire d'entrata. All'uscita, non è vero? e senza troppo aspettare.
La casa di Aloise, in via Balbi, non era grande, ma bella e bene arredata. Il buon gusto del giovine si faceva notare in ogni cosa, e perfino nella disposizione delle suppellettili. Nella sala d'entrata erano pochi gli arredi, ottenendovi lo spazio maggiore una pedana per assalti di scherma, e tutti gli altri arnesi pertinenti a quell'uso. Da un lato, fermata alla parete, vedevasi una lavagna quadrata ed incorniciata, dove gli amici che venivano a cercar di Aloise e non lo trovavano in casa, potessero scrivere il nome o quello che loro piacesse meglio.
Da quella stanza si entrava in un salottino, vero esemplare di eleganza, parato di seta azzurrognola, coi mobili tutti dorati. Sulla spalliera del lettuccio da sedere e di tutte le seggiole, come sull'alto della cornice di uno specchio inclinato, era intagliato lo stemma dei Montalto, un leone coronato, rampante su d'uno scoglio, con la breve leggenda «__Altius__», ossia, per dirla in volgare, «più alto». Quegli arredi eleganti, e una Madonna attribuita al pennello del Dolci, che si vedeva di rincontro allo specchio, decoravano un tempo il salotto della madre di Aloise, e il giovinotto le serbava gelosamente come preziose reliquie di un caro passato.
Nella sala da studio, a sinistra del salotto, gli occhi erano abbarbagliati e rallegrati ad un tempo dal più pittoresco guazzabuglio. Anzitutto avevate a cansare una gran tavola rotonda, coperta con superba sprezzatura da un magnifico sciallo persiano, sulla quale erano posti, apparentemente a rinfusa, libri dalle carte dorate, sfere, mappamondi di porcellana, portasigari ed altri graziosi nonnulla, in mezzo ai quali regnava un telescopio, il quale, posto com'era, non aspettava altro che la notte e l'apertura della finestra, per ispecolare le stelle.
Più oltre, dopo la tavola, un pianoforte verticale, che mostrava le spalle al mezzo della camera e ad un divano turchesco, appoggiato alla parete di rincontro. A sinistra dell'uscio, tra la tavola rotonda e il divano, uno scrittoio, con tutto il bisognevole, e due statuette di porcellana del Giappone, le quali sorridevano allo scrittore, e in mancanza dello scrittore, alla seggiola sulla quale avrebbe potuto sedersi. Tutt'intorno poi, incisioni, mensole che sostenevano statuette di gesso, pipe con la canna di gelsomino, e via discorrendo.
Dall'altro lato del salotto, sollevando la portiera di seta, si vedeva la camera da letto; ma in questa non metteremo piede, contentandoci di restare, con maggior profitto per il nostro racconto, nella sala da studio, a sentire che cosa dicesse Aloise col marchesino Pietrasanta, aspettando che il servitore andasse a cercare una carrozza da nolo, per condurli a diporto.
Su quel divano turchesco, che abbiamo accennato, era seduto, anzi mezzo sdraiato il Pietrasanta, facendosi puntello del gomito alla persona, e chiudendo beatamente gli occhi ad ogni boccata di fumo che mandava fuori. Perchè, voi già l'avete indovinato, o lettori che indovinate ogni cosa, egli fumava; e noi vi aggiungeremo che fumava i due terzi del giorno, e un terzo delle seimila lire che gli dava il marchese padre per le sue male spese. Il che è quanto dire che fumava molto; non sigari di Avana, che si fabbricano a Malta, nè di Manilla, che si fabbricano ad Amburgo, ma sigarette turche, ed autentiche.
Enrico Pietrasanta era un buon giovine; in fondo nè carne, nè pesce, ma di ottima pasta. Non aveva mai fatto male ad alcuno; a parecchi aveva anzi reso servigio; amava il suo cavallo e si lasciava amare da una ballerina, aspettando che i suoi parenti gli scegliessero quella donna che avrebbe dovuto amare per tutta la vita; andava spesso a ragionare col sarto intorno alle nuove fogge della quindicina; non s'impacciava di politica, ma non poteva patire la compagnia del prete di casa e non parlava mai con irriverenza della rivoluzione, del progresso e degli uomini più chiari per le opere della penna o della spada a servizio della patria. Uomo insomma, che, con altro indirizzo, avrebbe potuto diventar utile alla sua terra, ma che, stretto d'ogni parte dalle consuetudini de' suoi pari, nè forte tanto da rompere il freno, si rassegnava a vivere inoperoso.
Era però naturale che tra lui ed Aloise di Montalto corresse una maggiore dimestichezza, sebbene non fosse pari la tempra dell'animo. Nella cerchia de' suoi pari ognuno si legge quel compagno che gli sembra più di suo gusto; Aloise aveva accettato, come suo Pilade, il marchesino Pietrasanta, nobile come lui, sebbene a gran pezza più ricco, generoso di sensi come lui, sebbene alquanto più fiacco.
Il Pietrasanta, che ci siamo studiati di far conoscere un poco, era sdraiato sul divano, Aloise era seduto al pianoforte e per la prima volta dopo la sua malattia stava suonando qualche melodia, così per rifarsi la mano.
—Dunque tu dici,—esclamò egli, poichè fu giunto agli ultimi accordi di una di quelle geniali romanze che andava appunto allora mettendo fuori il Mariani,—che mi avevano già bello e spacciato, in casa Pedralbes?
—Eh davvero! Non ti mancava più altro che il becchino per darti quattro martellate sulla cassa. Figurati! In un momento di pazzia, o di tedio andato in cancrena (che bene non si sapeva dire), tu avevi voluto scendere dal letto. La ferita appena rimarginata si era aperta da capo; d'onde il sangue a rigagnoli, lo svenimento, una febbre da cani, il dottore Mattei con le mani nei capelli…. e tante altre novelle di questa fatta.
—Ma chi le ha spacciate, queste frottole?—chiese Aloise, che non poteva tenersi dalle risa.
—Credo il piccolo Riario, il quale a sua volta le aveva pescate sulla piazza delle Fontane Amorose, nella fermata delle quattro. Insomma, mio povero Aloise, tu eri morto, e in casa Pedralbes ti facevano l'orazione funebre. C'era la Clelia, col marito, la Isabella, la Clarice, e tutta la gente solita che t'ha imbalsamato di finissimi unguenti come si usava nell'antico Egitto coi morti più illustri. E sai? La signora Violante, quella stecchita padrona di casa che dice una parola ogni mezz'ora, a guisa degli orologi da camera, si è degnata di sentenziare che i Montalto erano una buona casata, e che le doleva di vederla cadere a quel modo, per la tua fine immatura.
—E tu non hai risposto nulla?
—Io? bravo! e come vuoi che facessi, se non c'ero? Questa parte della conversazione io l'ho dal Cigàla, che era presente, e sapeva benissimo che quella era una frottola raccolta in piazza, ma voleva godersi la scena, il manigoldo! Quando giunsi io, puoi immaginarti come tutti mi si stringessero ai panni, per sapere se eri morto, o se ti disponevi a morire da buon cristiano.—Non dubitate,—m'affrettai a rispondere,—quello è un uomo che, messo al punto, non fallirà alla fede de' suoi padri; ma fino ad ora, grazie a Dio, egli non è al punto di tirare le cuoia. L'ho lasciato poc'anzi, vivo e fuori del letto, con licenza del medico, e se non è morto per avventura dacchè sono uscito di casa, io credo che egli terrà la promessa di venir domattina a fare una gita in carrozza fino a Nervi.—
Qui il Pietrasanta buttò la sigaretta, che gli si era spenta nella furia del discorso, ne prese un'altra, l'accese e continuò:
—Il piccolo Riario divenne rosso come una ciliegia, e dalle parole che balbettò intesi che lo spacciatore di quella panzana era stato lui. La signora Violante e tutte l'altre persone si rallegrarono, e fu una festa da non dirsi a parole, come nel fine di tutte le favole che mi raccontava la balia quand'ero piccino.
—Sei un bel pazzo!—soggiunse Aloise a mo' di commento.
—Ah, dimenticavo la più bella. Sai tu, Aloise, chi si cura molto di te e della tua salute? Te la potrei dare alle cento, e non l'indovineresti. Il taciturno tiranno di Quinto.—
All'udire quel nome, del quale daremo a suo luogo la spiegazione, Aloise rizzò il capo, ed era lì lì per balzar dal sedile; ma si contenne, pensando che l'amico avrebbe potuto farne le meraviglie e cavarne appiglio a qualche arrisicata congettura.
—Il signor Antoniotto?—chiese egli allora con una cert'aria di candore che pareva tolta a prestanza.
—Sì,—rispose il Pietrasanta,—il signor Antoniotto Torre Vivaldi, tiranno di Quinto e dei paesi circostanti, schiuma di __paolotto__ e assiduo ascoltatore di messe nella chiesa della Maddalena.
—Sta bene; ma che cosa ti ha detto egli?
—«Caro Pietrasanta, mi ha detto, non potete credere come mi prema di quel giovine. Ho conosciuto molto suo padre, e ricordo __eziandio__ che ai tempi antichi i Montalto erano scritti nel nostro albergo».—Avrebbe potuto dire nell'albergo di sua moglie, poichè da lei prende il nome di Vivaldi; ma già tu sai che il marchese Antoniotto si crede anco lui un discendente di quel navigatore…. aiutami tu a dire il nome, e la terra che avrà sicuramente scoperto.
—Voi dire Ugolino Vivaldi. E aggiungi il fratello Vadino. Ma anche in due, non scopersero nulla, poveracci, e pare che naufragassero alle coste della Guinea, dove un secolo e mezzo più tardi credette di riconoscerne i discendenti un altro Antoniotto, del casato Usodimare.
—Vedi che combinazione! L'Antoniotto moderno se l'è proprio dimenticata. Ma che i tuoi antenati fossero scritti nel suo albergo, lo ha ben voluto ricordare. Ringrazialo della sua degnazione, come io l'ho ringraziato in tuo nome della sua sollecitudine per te.
—Hai fatto benissimo;—rispose Aloise.—Ma come poteva trovarsi iersera in casa Pedralbes, egli che non esce mai di casa senza…. sua moglie?—
Queste ultime parole duravano fatica ad uscirgli di bocca; pure, gli bisognava dirle, se voleva farsi intendere dal Pietrasanta.
—To',—rispose questi,—egli non ha mica il torto! Sua moglie è, per tutti gli Dei, la più bella donna di Genova, e potrei aggiungere anco di altri luoghi parecchi. Hai tu mai notato, Aloise, che grandi occhi verdi?
—Verdi! Questa è nuova di zecca.
—Verdi, sì, verdi; e perchè no? Una volta mi erano parsi neri, un'altra volta azzurri; e siccome io non amo vivere nel dubbio, ho colto il destro di guardarli bene una mattina, alla luce del sole, e ti asserisco che sono verdi, del più bel verde marino, come quelli di Gulnara, la regina del mare, nelle __Mille e una notte__. Io son venuto allora a capo d'intendere come il riflesso della luce o dell'ombra, li possa far parere a volte azzurri, a volte neri. E che magnifici capelli castagni! Tu sai, Aloise, che io non ho mai avuto una gran tenerezza pei capelli castagni; ma quelli della marchesa Ginevra, così fini, così abbondanti e lievemente increspati, meriterebbero di essere posti nel firmamento, invece della chioma di Berenice, se, a dir vero, non istessero meglio su quella testa meravigliosa. E sono poi castagni? Chi lo sa? Sono neri…. sono biondi….
—E dàlli con le stravaganze! Perchè non aggiungi che son bianchi?
—Eh, secondo il riflesso, perchè no?—rispose l'impertinente sragionatore.—A me poi la marchesa Ginevra fa questo senso; che cosa ne posso? E la persona! Come è svelta, senza dare nello scarno! Come è piccino quel piede, e come è sottile quella mano! Io non so, Aloise, se tu abbia mai considerato quel naso di purissima forma greca, le grandi sopracciglia, e quei candidi denti e le labbra che paiono di corallo tenero….—
Aloise, in quella che l'amico passava cosiffattamente in rassegna tutte le bellezze della marchesa Ginevra, era rimasto assorto in certi suoi pensieri; ma finalmente, veduto che il ritratto andava un po' per le lunghe, disse al Pietrasanta:
—Ma tu non hai risposto alla dimanda che io ti avevo fatta.
—Ah, è vero, scusami. Ma tu potevi del resto argomentare che se c'era il marchese Antoniotto, c'era anche la signora la quale era bella sai, bella come se il marito fosse stato mille miglia lontano.
—Che altra novità è questa tua?
—Eh, lo sai pure! Un marito ai fianchi, è come una brutta veste od un acconciatura disdicevole, che la più graziosa tra le donne ci scapita a portarla.
—Pazzo!—esclamò un'altra volta Aloise, a cui gli sproloquii del Pietrasanta avevano la virtù di rallegrar sempre lo spirito.—E come accomodi tu tanta ammirazione per la marchesa Ginevra co' tuoi amori da palco scenico?
—Ih, come corri! La mia ammirazione per lei è affetto legittimo del senso artistico, e non altro. Che vuoi si faccia ella di me? Ed io in fin dei conti che potrei farmene di lei? Io penso che sia la donna più fredda del mondo. Già, non potrebbe essere diverso. Dio le fa belle, e poi leva loro l'anima, perchè si conservino meglio, come gli uccelli impagliati.
—Pietrasanta! Tu non sei giusto….
—Bravo, e che cosa ti ho da dire? A me fa questo senso. E poi…. e poi….
—E poi, che cos'altro?
—E poi, mi paiono donne da lasciarle dove sono.
—Qui, forse, hai ragione;—disse, aggrottando le ciglia, Aloise.
Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise.
In quel mentre, giunse il servo ad annunziare che la carrozza era innanzi all'uscio di strada. La qual nuova, com'è agevole il credere, interruppe il dialogo dei due amici; e il lettore, a cui ne dolesse, non ce l'apponga a noi, sibbene al servitore, che è venuto in mal punto.
Due minuti dopo, Aloise e Pietrasanta salivano in quella vettura di rimessa, fatta venire dal servo, e i due cavalli che v'erano attaccati partivano al trotto verso la Nunziata. Il Montalto era rimasto sovra pensieri, e non badava nemmeno alla lunga e popolosa strada che percorreva, la quale è l'arteria principale, l'arteria aorta di Genova, e piglia tanti nomi diversi ad ogni suo gomito, da via Balbi fino a piazza San Domenico, e di là fino alle porte della Pila.
Giunti all'aperto, il Pietrasanta cominciò uno dei soliti discorsi bizzarri, ai quali Aloise stava attento, secondo l'umore, e rispondeva o non rispondeva, secondo la voglia.
Il discorso importante, quello al quale Aloise di Montalto aveva a stare più attento che mai, cominciò dopo il paese di Quarto, allorquando al girare di una piccola lingua di terra che s'inoltra sul mare, videro un palazzo di campagna, di forme magnifiche e di stile severo, murato sul pendio di un colle, poco lontano dalla strada maestra.
—Ecco là;—disse il Pietrasanta, accennando del dito,—quella è la dimora estiva del tiranno di Quinto.
—È davvero un bel luogo di villeggiatura!—rispose Aloise.
—Che te ne pare, Aloise?—esclamò l'altro.—Oggi siamo proprio perseguitati dai Torre Vivaldi.
—Oh bella! Se veniamo noi stessi a passare dinanzi a casa loro!…
—Orbene! La montagna che si muove verso Maometto; Maometto che si muove verso la montagna; il miracolo non è sempre lo stesso? Vuoi che andiamo a vederla, questa villa Vivaldi?
—E a Nervi?—chiese Aloise, così __pro forma__.
—A Nervi ci andremo poi per riposare i muscoli. E poi, che cosa c'importa di vedere, colà? Abbiamo detto a Nervi, come avremmo detto al Giappone, per fare una passeggiata, e siamo padroni di mutare l'itinerario. E poi, sentimi, due passi a piedi ti faranno anche bene.
—Sei tu mai stato alla villa Vivaldi?
—Io no; ma che importa? Ci aprirà il giardiniere.
—Andiamo dunque.
—Andiamo. Ehi, cocchiere!—gridò il Pietrasanta.—Lasciate la strada maestra e prendete quell'altra a sinistra. Vogliamo andare alla villa Vivaldi, là da quel cancello verde che vedete.—
Il cocchiere obbedì e la carrozza fu in breve davanti al cancello di ferro fuso, sormontato da uno stemma partito di rosso e d'argento, col capo d'oro all'aquila nascente di nero, coronata e rostrata d'oro.
Due forti scampanellate chiamarono il giardiniere, il quale, veduti i due signori, e indovinandoli d'alto bordo, si affrettò ad aprire, e a riceverli col cappello in mano, dinanzi allo smontatoio della carrozza.
—Amico,—disse il Pietrasanta,—vorremmo entrare, con vostra licenza, a vedere un poco questa magnifica villa.
—Oh, sono padroni!—rispose l'altro con due inchini; e fattili entrare davanti a sè, richiuse il cancello.
Il palazzo Vivaldi era superbamente piantato sul colmo d'un poggiuolo, e vi si andava per un lungo e spazioso viale a dolcissimo pendio, chiuso ai lati da due file di rosai e di tamerici. L'architettura esterna era la consueta di quasi tutti i palazzi delle nostre campagne: soltanto si notava che quattro finestre del piano nobile, le ultime a manca, si allargavano a forma di loggia, custodita da grandi vetrate che s'intelaiavano nei colonnati; e le ultime quattro a destra cadevano entro le linee perpendicolari di una torre che usciva da quella parte del palazzo, rompendo ad angolo due acque del tetto.
Il piazzale dinanzi al gran portone arcato era coperto di ghiaia; i viali ai due lati andavano a dare in un muro che serviva di riparo a due di quelle belle spalliere di aranci e di limoni, che hanno fatto dire al Goethe il famoso verso: «Kennst du das Land wo die Citronen blühen?» Alle spalle del palazzo correva una stradicciuola campestre; laonde, per collegarlo col prato e col bosco della villa, scendeva dal pian nobile dell'edifizio un cavalcavia, fatto a foggia di gradinata, con le sue sontuose balaustrate di marmo.
Un gigantesco platano sorgeva a fianco della gradinata, ombreggiando quella specie di terrazzo per cui si entrava nella gran sala del pian nobile. In mezzo al prato, che era vastissimo, rallegrava gli occhi del riguardante un laghetto di forma ovale, coi margini di marmo bianco, entro il quale cresceva la ninféa, spandendo le sue larghe foglie vellutate a fior d'acqua, e navigavano a loro posta due cigni. L'orizzonte era precluso da ogni parte da filari di querci, sotto i quali correvano a cerchio spaziosi ed ombreggiati sentieri.
Tutte queste cose, sul finir di febbraio, sebbene mancassero i colori smaglianti della vegetazione primaverile, davano immagine di magnificenza principesca, e lasciavano argomentare che paradiso terrestre fosse la villa Vivaldi nei mesi di estate.
Il Pietrasanta, in quella che andavano girando per ogni luogo, aveva fatto amicizia col giardiniere, e ragionava con lui di tutte le belle cose che si presentavano alla loro ammirazione.
—Veda!—gli diceva il giardiniere, fermandosi presso una specie di querce e facendone notare la corteccia cedevole ma tenace, questo è l'albero del sughero, che è così raro dalle nostre parti.
—Buono per far turaccioli!—notò giudiziosamente il Pietrasanta.—E i sedili, che gli adornano il tronco, accanto a questa gran tavola rustica, che cosa significano?
—Ah!—rispose il giardiniere, con un piglio dottoresco,—questa è la __Corte d'Amore__.
—La Corte d'Amore! Che diamine di Corte è ella?
—È il luogo dove la signora marchesa viene a sedersi. Tutte le Vivaldi hanno sempre avuto il costume di venire a passare sotto quest'albero le ore calde della giornata. I miei vecchi hanno sempre veduto la medesima cosa; ed anche adesso, quando la signora marchesa è in campagna, ci sta tre o quattr'ore ogni giorno.
—Scusatemi, Giacomino,—disse il Pietrasanta, che già sapeva il nome del giardiniere,—ma non mi sembra poi una gran cosa da meritare un nome così bello e una così nobile preferenza.
—Oh, perchè lo vede così nudo. Ma nella buona stagione c'è tutto il verde dintorno; la signora marchesa poi fa rimettere a posto tanti altri sedili di maiolica, stendere un gran tappeto su questa tavola di lavagna, e una bella tenda fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole. Io poi ci porto dei fiori; la cameriera ci porta dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi per tutti i signori che vengono qui a far conversazione con Sua Eccellenza.
—Ah! mi ricordo,—disse Pietrasanta, volgendosi ad Aloise,—che il piccolo Riario mi parlava di un certo ritrovo, dove si faceva crocchio intorno alla bella marchesa. La Corte di Amore! Il nome è bello, e probabilmente la presenza della signora farà bello anche il luogo.
—Ora, se le loro Signorie vogliono vedere la grotta….
—La grotta! C'è una grotta? Sicuro che vogliamo vederla.
—Va pure;—disse Aloise,—io non ti seguo.
—Perchè? Sei forse stanco?
—Sì, un po'; ma non te ne dar pensiero. Ti aspetterò qui seduto sull'erba, e tu mi porterai le novelle dell'antro muscoso.
—E delle stalattiti. Perchè,—soggiunse il Pietrasanta, volgendosi al giardiniere,—ci saranno anche le stalattiti; non è egli vero, Giacomino?
—L'ha da vedere, Vossignoria, che grotta!—rispose questi.—Non se ne trova una così bella, anco a farsela naturale.
—E voi dovete esserne tanto più superbo,—disse il Pietrasanta,—in quanto che nemmeno il Creatore, l'unico che se le possa far naturali, potrà superarvela.—
Il giardiniere si accorse di averla detta grossa, ma non sapeva come rimediarci. Però, tutto confuso, chiese perdono a Dio di quell'atto di superbia, e precedette il Pietrasanta nel fitto delle piante, per dove si andava alla grotta. Era un uomo dabbene e timorato di coscienza, il giardiniere dei Torre Vivaldi, e pensava con raccapriccio a quello che gli avrebbe potuto dire il padrone, se lo avesse inteso bestemmiare a quel modo.
Intanto Aloise, appena i due furono scomparsi, in cambio di sedersi sull'erba, siccome aveva detto di voler fare, andò a posarsi su d'uno di que' sedili di sasso, e precisamente su quello che era a' pie' dell'albero presso la tavola, piantando i gomiti sulla lavagna e rimanendo col capo chino tra le palme.
Il giovine stette in quella postura un bel tratto, pensando e sospirando; poi, come uomo che ha preso una deliberazione, si alzò ed andò per ogni lato a cercare. Che cosa cercava? Un coccio di maiolica, un mozzicone di lavagna, qualche arnese, insomma, da potergli servire per iscrivere su quella superficie levigata della tavola.
Trovò finalmente il fatto suo, e si pose con fanciullesca gravità a segnare un nome a lettere maiuscole, sulla lavagna. Il filo del coccio si corrodeva nello sfregamento, ma Aloise calcava sempre più forte, e tornava sulle lettere per modo da scavarle più profonde, sicchè non potessero più cancellarsi.
Il nome che egli andava cosiffattamente incidendo (i lettori si saranno già apposti) era quello di «Ginevra», della bella marchesa di Torre Vivaldi.
Ecco dunque posto in chiaro il segreto di Aloise. Il giovine marchese di Montalto amava quella gentildonna che nostri lettori non conoscono ancora se non per la bizzarra dipintura che ce ne ha fatto quel capo scarico del Pietrasanta.
Raccontiamo una cosa che parrà strana a molti, ma che è vera come l'istessa verità, e che taluni conosceranno a prova. L'amore di Aloise per la bella marchesa di Torre Vivaldi contava già sei anni di vita, e l'innamorato non aveva detta anche una parola alla donna de' suoi pensieri.
Appena sei anni innanzi Antoniotto Della Torre aveva tolto in moglie la bella Ginevra, ultimo rampollo dell'antica casata dei Vivaldi. Insieme con la mano della fanciulla, che era in un monastero a compiere la sua educazione, c'erano cinque o sei milioni di sostanza, e il patto che il marito assumesse il nome della famiglia, che si sarebbe estinto colla persona di Ginevra.
La giovinetta andò sposa al Della Torre, senza pure averlo veduto; ma lo aveva veduto il tutore, e bastava. Sono questi i matrimoni che da noi si dicono di __convenienza__, parola che vorrebbe dissimulare il tornaconto, e non ne viene a capo. Antoniotto era ricco; la Vivaldi era ricchissima, nobilissima e bellissima per giunta; laonde non è a dire se il tornaconto c'era, e perciò il matrimonio fu combinato alla spiccia, e la fanciulla uscì dalla cella solitaria del monastero per andar difilata alla stanza nuziale.
Per tutta Genova s'era fatto un gran ragionare di queste nozze, Antoniotto Della Torre era uomo di mezza età, di umor cupo ed ambizioso; ma in fin dei conti era nobile e ricco, e nessuno trovò a ridire sulla deliberazione del tutore, il quale, a dirvela in confidenza, in quella che concedeva la mano della sua pupilla ad uno de' suoi consorti, acconciava le sue faccende particolari, e tra l'altre, dando il capitale, non rendeva strettissimo conto dei frutti. Dice l'adagio che una mano lava l'altra, e tuttedue lavano il viso.
E bisognava aver veduto che nozze! Canzoni e sonetti ne furono scritti e stampati a dozzine. V'ebbe tra gli altri un poeta il quale, pigliando l'inspirazione dagli stemmi delle due famiglie, scrisse che un più ragionevole nodo non si sarebbe potuto stringere mai, trattandosi di un'aquila che ne «impalmava» un'altra. Immaginate che aquilotto avrebbe dovuto nascere da quelle __auspicatissime nozze__! E tuttavia non era nato un bel nulla, e i voti del poeta erano rimasti più sterili della sua fantasia, la quale almeno, se non de' suoi parti, poteva insuperbire delle sue sconciature.
Appena celebrate le nozze, gli sposi erano partiti per un lungo viaggio, siccome è debito di persone le quali intendono la dignità del loro stato, e possono mettere la loro ambizione nell'appendere il nido dei loro amori eterni all'alcova di un albergo parigino. Gran dolcezza di ricordi vuol essere, pei giorni futuri! Ma infine, perchè no? Se non dolci, saporiti di certo.—«Angelo mio, ti rammenti di quella __sôle à la Normande__?»—«Sì, amico mio, era eccellente; e quella __bisque aux crevettes__?»—«Adorabile, hai ragione, adorabile! Me ne viene ancora l'acquolina alla bocca.»
Il ritorno dei Torre Vivaldi a Genova fu salutato come un fatto di rilievo. La donna, vissuta nella solitudine del convento, era a mala pena conosciuta di nome; però la sua sfolgorante bellezza, circondata da tutti gli agi del suo grande stato, destò l'ammirazione universale, nè più nè manco di una cometa sopraggiunta d'improvviso nel nostro sistema planetario. Tutti fecero a gara per avvicinarsi alla bella Giunone dell'Olimpo ligustico, e beati gli Dei e semidei, ai quali lo stato loro, i titoli sonanti e la larghezza del censo, consentivano di starle vicini ed entrare in dimestichezza col fortunato Giove. Il quale lasciava ammirare, lasciava corrersi la gente dattorno; accoglieva tutti, faceva buon viso ai giovani, come ai maturi. Più tardi ci occorrerà il dire quel che egli fosse, quali i suoi pensieri e i disegni. Basti per ora il sapere che egli, sempre un po' chiuso nel segreto della propria ambizione, usava tener corte bandita e regnare su tutta la gente che lo sfarzo del suo vivere e la superba bellezza della moglie gli tiravano in casa.
Quando la marchesa Torre Vivaldi comparve per la prima volta nel teatro Carlo Felice, fu una meraviglia universale. I re franchi non furono mai levati sugli scudi con tanto entusiasmo, quanto ne fu posto da quella curiosa e volubile assemblea a salutarla regina. Ella sì, poteva dire come Cesare, «__veni, vidi, vici__»; perchè tutti gli sguardi si volsero a lei, e non se ne distolsero per tutta la sera, sebbene ci fossero, di là dai lumi della ribalta, una bella cantante ed una ballerina fatta a pennello.
Aloise di Montalto era quella sera in teatro, e stava appunto in platea, dando le spalle a quel palchetto di prima fila dov'era comparsa la splendida gentildonna, con una veste scollata di stoffa azzurrina, che lasciava scorgere i purissimi contorni del collo e degli òmeri, e le braccia ignude. Una luna falcata le ornava i capelli, pettinati alla foggia di Diana; il collo e i polsi scintillavano lontano per una magnifica collana e per due braccialetti di brillanti; ma gli occhi della marchesa, ombreggiati dall'arco superbo delle ciglia, scintillavano d'una luce più vivida, e l'alabastro delle carni abbacinava gli occhi dei riguardanti, assai più dell'oro e dei brillanti, sebbene questi rifrangessero per tutte le loro faccette e con tutti i bagliori colorati dell'iride, la luce di cento doppieri.
—Come è bella!—dicevano tutti. Ma più delle labbra parlavano gli occhi estatici, un mormorio di universale ammirazione e i cannocchiali puntati a gara su quel palchetto di prima fila. Diana non guardava nessuno; pareva quasi non avvedersi di tutte quelle lenti ustorie rivolte sulla sua persona, e non distoglieva lo sguardo dalla scena se non per ricambiare una parola col marito e coi tre o quattro amici che si davano lo scambio nel palchetto, come i soldati in sentinella; tutti ragguardevoli personaggi, ai quali si leggeva in volto la vanità dello stare e del farsi vedere accanto a quella regina, eletta così prontamente dal suffragio universale.
Un uomo solo contraffaceva co' suoi modi alla curiosità della folla, ostinandosi a non guardare dove tutti guardavano; e la cosa riusciva tanto più notevole in quanto che egli era pochi passi discosto dal palchetto, e la sua bionda cuticagna faceva troppo forte contrasto con gli occhi sbarrati di tutti i suoi vicini, verso la bella signora.
—Guarda, Aloise,—gli avevano detto alcuni amici,—guarda che stupenda bellezza!
—Guardate voi altri, se vi garba,—aveva egli risposto;—io bado alla scena.
—E perchè non vuoi dare un'occhiata di qua, dove c'è la bella
Vivaldi, tornata l'altro dì da Parigi?
—Oh bella! perchè non mi par necessario.
—È uno dei soliti capricci; lasciatelo fare!—aveva soggiunto il
Pietrasanta, che era nel crocchio.
—Un capriccio! Sarà;—disse di rimando Aloise,—ma io penso che sia ragionevole come tante altre cose, alle quali si usa dar questo nome. O che? Per la semplice ragione che una bella donna è venuta in teatro, tutti dobbiamo voltarci per adorarla? È bella, voi dite; tanto meglio…. per suo marito. Io, per me, sto attento alla musica, la quale è fatta per tutti; e, poichè voi altri guardate altrove, penso sia cantata e suonata soltanto per me.—
Aloise non aveva potuto risponder sempre di questa conformità alla gente. Per quella sera si incaponì a non guardare; ma alcune sere dopo, essendo egli in un palchetto a far visita ad una signora, sua mezza parente, gli venne chiesto come gli paresse la marchesa Torre Vivaldi.
—Dov'è,—soggiunse egli.—Io non l'ho anche veduta.
—Come?—disse allora la dama;—siete venuto qui sul davanti e non avete veduto quella bella signora che è due numeri più indietro di noi?
—Ah, sì, la vedo. È molto bella.—E non disse altro.
Senonchè, per uno di quei tali contrasti che occorrono così frequenti nella umana natura, dopo essersi fitto in capo di non guardar mai quella ottava meraviglia del mondo, si fece a guardarla fin troppo. Se qualcuno gli avesse fatto notare quella sua contraddizione, egli non avrebbe voluto capacitarsene; ma, anche senza addarsene, i suoi occhi correvano spesso verso quella bella figura.
Quella sera la marchesa Ginevra era modestamente vestita di nero, con la vita aggiustata alla persona, le spalle e il collo interamente coperti, e nessun altro ornamento tranne certe frappe aperte sulle maniche, alla foggia del cinquecento. I suo capelli castagni erano tirati indietro, e la severità di quella acconciatura era temperata soltanto da due riccioli lunghi, che le scendevan dietro alle orecchie, andandosi a confondere col nero della veste.
Il giovine Montalto non avrebbe voluto guardarla tanto; ma che farci? Il fascino era troppo forte, e tutti i più fermi proponimenti che egli andava facendo in cuor suo, cedevano ad ogni tratto innanzi a quella potenza di attrattiva che era negli occhi ed in ogni lineamento di quel volto mirabile.
Temendo però che altri si avvedesse della sua debolezza, si alzò, e congedatosi dalla signora, uscì da teatro. Fu quella un'impresa da eroe, sebbene egli, per sentirsene l'ardimento, avesse avuto mestieri del sopraggiungere d'un nuovo visitatore, al quale, o subito o poco dopo, avrebbe dovuto cedere il posto.
Il povero giovane era entrato tranquillo in teatro, e ne usciva profondamente turbato. Da quella sera la naturale mestizia del suo animo si rabbuiò fino all'umor nero, e il giorno dopo incominciarono le passeggiate solitarie ai Giardinetti dell'Acquasola, da dove si scorgeva il tetto, nient'altro che il tetto, di un palazzo della Strada Nuova, sontuosa dimora della marchesa Ginevra. Colassù almeno egli poteva fermarsi, e contemplare a suo bell'agio quel tanto di spazio murato in cui viveva la bellissima donna.
Queste cose s'intenderanno molto più agevolmente quando si pensi che
Aloise aveva diciott'anni, e che quello era il suo primo amore.
Timido com'era, egli non avrebbe ardito mai farsi presentare in quella casa. La sua fantasia entrava liberamente dal tetto; ma le sue gambe avrebbero ricusato di salirne le scale. Non già che una donna gli facesse paura; la sua educazione gli aveva insegnato benissimo quella scioltezza di modi con cui s'entra in casa altrui; e tante volte ne aveva fatto sperimento! Ma quella non era una donna come tutte le altre, poichè egli se ne era innamorato; epperò tremava al solo pensiero di metter piede in sua casa, e di farsi leggere negli occhi il segreto del cuore.
D'altra parte, perchè sarebbe andato ad accrescere la schiera dei curiosi? Si sarebbe ella avveduta? avrebbe ella osservato un ragazzo come lui? Il vero amore, in un giovinetto inesperto, riesce così impacciato ne' suoi modi, che spesso dà nel ridicolo, e una donna giovine, bella ed ammirata da tanti, è più facilmente disposta a farne le grasse risa, che non a mostrarsene grata. Ed Aloise, il quale era giovine d'anni, ma adulto di mente, le intendeva benissimo, tutte queste cose, e non ne pigliava argomento a sperare.
Così scorse il tempo. La marchesa Ginevra, passato l'inverno, era andata in campagna, dove incominciò da quell'anno a passare i sei mesi della bella stagione. Inoltre, per due inverni consecutivi andò col marito a Parigi, e il povero innamorato visse come gli venne fatto, non cavando altro conforto che dalla sua giovinezza e dallo studio.
L'amor suo, seguendo l'esempio della natura, aveva i suoi periodi di sopore, e soltanto la presenza dei Torre Vivaldi a Genova lo faceva riavere, ma inasprendo sempre maggiormente la piaga. Intanto gli anni correvano. Aloise di Montalto viveva solitario, immerso ne' suoi studi, alternando le Pandette con la musica, l'economia politica colle lettere. I soli passatempi della sua malinconica ma robusta giovinezza, erano il cavalcare e la scherma. Di questo modo egli s'era fatto da per sè un tal uomo che molti stimavano e tutti poi rispettavano, sebbene pochi lo amassero, a cagione della sua contegnosa alterezza.
Ma questa in fin de' conti vale assai più del fare sbracciato e arrendevole, col quale vi studiate di piacere al volgo, e non ne accattate il più delle volte che spregio. Aloise, anche asciutto nei modi come era giudicato, non poteva negarsi che fosse un perfetto cavaliere; e molte donne gli avevano posti gli occhi addosso per cominciare il solito romanzo: molti uomini, poi, di quelli che la sanno lunga, avrebbero voluto tirarlo dalla loro, come un ottimo strumento alle comuni ambizioni. Ma egli si schermiva da quelle e stava lontano da questi; e il riserbo, più ancora che le sue virtù, lo faceva crescere dieci cotanti nella estimazione universale. La qual cosa potrebbe addursi come una testimonianza a pro' di quell'adagio, secondo il quale la potenza di un uomo sta per un terzo nell'essere e per due nel parere.
Noi pensiamo ora di non aver altro da aggiungere al ritratto morale del giovine, che s'era battuto con Lorenzo Salvani, che andava a passeggiare sul belvedere dei Giardinetti e che incideva il nome di Ginevra su d'una tavola di lavagna nella __Corte d'amore__ della villa Vivaldi.
Quando il Pietrasanta e il giardiniere tornarono dalla grotta, Aloise era già andato fuori del viale ad aspettarli in mezzo al prato, affinchè essi, vedendolo da lontano sui margini del laghetto, intento a guardare i cigni, non passassero più dinnanzi alla tavola, sulla quale avrebbero potuto scorgere una pericolosa testimonianza de' fatti suoi.
L'amico fece una lunga cicalata sulle oscure bellezze della grotta, che noi tralasceremo per amore di brevità, e poco stante ambedue se ne ripartirono, dando una larga mancia al giardiniere: il quale li aiutò a salire in carrozza scusandosi con abbondanza di parole del non aver fatto entrare il veicolo sul piazzale del palazzo, come sarebbe stato dicevole con persone tanto ragguardevoli.
—Non ve ne date pensiero!—disse quel pazzo di Enrico Pietrasanta.—Noi viaggiamo nel più stretto incognito, e non amiamo le cerimonie.—
Il Pietrasanta, celiando, diceva la verità. Infatti, pochi minuti prima quando il giardiniere aveva presentato loro l'albo dei visitatori, Aloise di Montalto s'era fatto sollecito a pigliar la matita, e dopo avere ammiccato al compagno, scriveva sull'albo due nomi strani: __Goffredo Rudel e Percivalle Doria__.
—Che cosa t'è frullato in capo,—chiese Pietrasanta, quando furono per istrada,—di mettere que' due nomi in cambio de' nostri?
—Bravo! E volevi far sapere ai padroni di casa che i nostri __noi__, come tu hai il vezzo di dire, sono stati a visitare la loro villa?
—E che male ci sarebbe stato, che i nostri __noi__ lasciassero risapere che ci sono venuti?
—Nessun male, Enrico mio; ma non c'è nessun utile a farlo risapere. E poi, non l'hai detto tu stesso poc'anzi, che i nostri __noi__ viaggiano nel più stretto incognito?—
In questi ed altri ragionari della medesima risma, si giunse a Genova, e il Pietrasanta accompagnò a casa l'amico.
Il servitore attendeva con impazienza il ritorno di Aloise, al quale si affrettò a dire, appena fu entrato:
—C'è qui il maggiordomo del nonno di Vostra Eccellenza, il quale ha gran premura di parlarle.—
In molte case nobili di Genova i servitori non hanno ancora perduto l'uso di dare dell'Eccellenza al padrone. In altri luoghi d'Italia, in cambio di smetterlo, si dà quel titolo a tutti, come il governo darebbe una croce di cavaliere. La qual cosa non fa male a nessuno, e un'usanza val l'altra.
—Mio nonno!—esclamò Aloise, volgendosi al Pietrasanta.—E che diamine vuole mio nonno da me?
—Vorrà forse far testamento,—rispose l'amico.
—Oh, questo l'avrà già fatto, e penso che non abbia neppure molto pensato al suo nipote. Ci ha certi figuri d'attorno!
—Basta, va a vedere che cosa vuole. È anche l'unico modo di saperlo.
—Tu parli come un savio della Grecia!—disse Aloise; ed entrò difilato in un'altra camera dove il maggiordomo del vecchio banchiere Vitali stava ad attenderlo.
Fu grande la meraviglia del marchese di Montalto quando seppe che suo nonno, il quale era sempre a letto ammalato, lo scongiurava che andasse da lui, ma non di giorno, sibbene in punto di mezzanotte, ora prediletta degli innamorati, dei congiurati e delle fantasime.
Di un vecchio che voleva vivere e non voleva fare testamento.
Adesso il lettore ci usi la cortesia di seguirci in via di San Luca, dove lo faremo entrare in uno di que' palazzi, che sarebbero magnifici, se avessero un po' di spazio davanti, e che, stretti l'uno sull'altro dalla ragione dei tempi andati, quando otto metri di larghezza in una strada le facevano meritare il nome di stradone, implorano quotidianamente un raggio di luce per consolare la tetra malinconia che li opprime.
Saliremo ad un terzo piano, il quale, la mercè di una scala spaziosa, non ci parrà troppo alto, ed entreremo in una camera da letto, vasta come un dormitorio di collegio e fredda per conseguenza, quantunque vi si noti larghezza di sontuosi arredi ed un soffice tappeto che copre tutto il pavimento.
Questa vasta camera era a mala pena rischiarata da una lampada modesta, ritta sul comodino accanto ad un letto coperto da un padiglione di damasco rosso cupo, e quella lampada non faceva altro che illuminare il viso pallido e scarno di un vecchio, che usciva fuori dalla rimboccatura delle lenzuola.
Quel vecchio aveva i capegli radi e bianchissimi, la fronte spaziosa e prominente, e sarebbe stato un bel vecchio, se non avesse avuto gli occhi troppo piccini ed affondati nelle orbite, il naso troppo sottile ed adunco, e le labbra asciutte, tirate orizzontalmente come un semplice tratto di penna su d'un foglio bianco di carta.
Era egli il signor Vitali, l'onesto e reputato banchiere, grave dei suoi settantaquattro anni e di tutti gli acciacchi che sogliono accompagnare gli ultimi anni della vecchiaia, e inaugurare la decrepitezza. I suoi malanni lo tormentavano fieramente, ed egli si sentiva per giunta assai debole.
Pover'uomo! Tutta Genova si dava pensiero della sua preziosa salute, poichè, come tutti i ricchi, egli era in voce di probo e benefico, e si soleva dire di lui: «poveretto! egli appartiene alla schiera di quei pochi, che sa male di vederli morire.»
L'ammalato non era tuttavia solo nella camera. Un uomo vestito di nero dal capo alle piante stava seduto su d'un seggiolone presso la sponda del letto, e appunto in atto di toccare il polso al vecchio Vitali, con un piglio di amorevolezza particolare.
—Mi pare,—disse costui, dopo che ebbe finito,—che Ella stia un po' meglio, questa sera.
—Sì, un po' meglio,—rispose con voce fioca l'ammalato,—ma mi sento fiacco, assai fiacco.
—Eh me lo immagino!—soggiunse l'altro.—Ma vorrebbe Ella da un giorno all'altro rimettersi in modo da potere alzarsi dal letto? La natura vuole il suo tempo, come l'arte. Speri nella Provvidenza, signor Giovanni! Iddio vede tutti, e non abbandona nessuno.
—Sì!—disse il vecchio, alzando gli occhi verso il padiglione del letto e mettendo un lungo sospiro.—Io voglio vivere; ho bisogno di vivere!
—Ed egli la farà vivere, egli che può tutto. Ma se ne' suoi fini imperscrutabili….—
Pronunziando queste parole, l'uomo vestito di nero s'era fermato un tratto, come per misurare l'effetto di quello che stava per dire. Nel punto medesimo, gli occhi dell'ammalato scintillarono, e la sua faccia si voltò sul guanciale a guardare colui che parlava, come per dirgli: Or bene, proseguite!
L'uomo vestito di nero doveva essere avvezzo a quel muto linguaggio, perchè fu sollecito a proseguire:
—Sì, certo; se ne' suoi fini imperscrutabili ci fosse di chiamarla a sè. Ella avrebbe il torto a desiderare così fortemente la vita. Il cielo è la speranza, anzi dirò di più, la sicurtà infallibile di chi ha operato il bene.—
Il vecchio fece con le sue labbra sottili un certo gesto, che mostrava chiaramente com'egli non fosse molto soddisfatto di quella chiusa.
—Ma via!—soggiunse l'altro.—Non di questo si tratta, e, tutti gli amici di Vossignoria sperano che Ella risani prestissimo. Ha bevuto la pozione?—
Il vecchio, che amava poco parlare, rispose di sì con un lieve cenno del capo.
—Ma è ancora quasi tutta nel bicchiere;—disse l'altro,—beva il rimanente; le farà bene.
—No!—rispose il Vitali con assai maggiore fermezza di accento che non avesse a sperare da un ammalato suo pari,—non bevo più, per questa sera.
—Eppure questa bevanda, signor Vitali, le concederebbe una notte più calma.
—Sì; ma il giorno dopo io mi sento più fiacco di prima.
—Eh, certamente si sentirà fiacco; ma non ha il dolce chi non vuole l'amaro. Se quella bevanda le concilia il sonno e le fa riposare lo spirito, è segno che giova. Ella poi sa come siano insonni e dolorose le sue notti, quando ricusa di bere.
—È vero!—disse l'ammalato.
—E che lugubri fantasie l'assalgono nei sogni….
—È vero, è vero!—ripetè il Vitali, crollando mestamente il capo.
—Ella vede allora tante cose spiacevoli; vede sua figlia moribonda; vede l'ombra del padre Martelli….
—Non è vero! Non è vero! Sono invenzioni!—gridò spaventato il vecchio.—Io non vedo l'ombra di nessuno, perchè non ho rimorso di nessuna cosa al mondo.
—Meglio per lei, se non ha rimorsi;—soggiunse asciuttamente quell'altro.—Intanto mandi giù quella bevanda mirabile, e ne avrà giovamento. E poi, pensi anche un tantino a quella tal cosa che sa. Veda, figliuol mio: qui tutti le vogliamo un gran bene, e non la lasciamo un momento, poichè ci è cara la sanità del suo corpo, come la salute dell'anima sua. Ella non ha nulla da confessare, nessun debito da riconoscere. Per la vita, come per la morte (che tutti dobbiamo aspettarci il peggio da un giorno all'altro) faccia il suo testamento, in modo che se ne vantaggi, a maggior gloria di Dio, l'Ordine nostro in Roma, e quella società che ne prosegue qui in Genova tanto gloriosamente le tradizioni.
—Il testamento non sarebbe valido;—ripiccò l'ammalato, che si appigliava a tutti i pretesti, per isfuggire dalle strette dell'uomo vestito di nero.—La Compagnia di Gesù, come ente morale, è stata abolita negli Stati Sardi, e, secondo il Codice, non ha più potestà di succedere. La società di San Vincenzo, poi, non è legalmente riconosciuta….
—Cavilli de' suoi avvocati, signor Vitali! E fanno torto alla sua mente, che tutti credono volta a propugnare l'incremento della religione. Quando si ha in animo di fare il bene, le strade si trovano. Se Ella non può lasciare erede la Compagnia di Roma, nè la società di Genova, perchè la legge non riconoscerebbe valido il testamento, può testare bensì a pro' delle singole persone, le quali, com'Ella di leggieri argomenta, si recheranno a scrupolo di volgere il suo danaro a quel fine che Ella pietosamente avrà stabilito. Faccia questo, signor Vitali, e vedrà che la sanità del corpo verrà a rincalzare la purezza dell'anima. __Mens sana, in corpore sano__, fu anche adagio dei gentili, sebbene non avessero il beneficio della luce spirituale. Qui, poi, non si domanda la sua morte; si desidera anzi che viva lungamente. Suvvia, signor Giovanni, siamo uomini, mostriamoci consentanei nella nostra vecchiezza ai savi concetti di tutta la nostra vita.—
Il vecchio stette un pezzo a pensare su quelle argomentazioni ad hominem; poi levando gli occhi verso il suo interlocutore e vedendo che lo guardava fiso, aspettando una sua risposta, balbettò:
—Quando fossi davvero in punto di morire…. farei….
—E la morte, signor Giovanni, non può bussare al suo uscio da un momento all'altro?—gridò, con piglio oratorio, l'uomo vestito di nero.
—Dite da senno?—soggiunse l'ammalato sbarrando gli occhi—-È dunque vero che potrei morire da un momento all'altro? Oh, non voglio, non voglio morire!…
—Si cheti, si cheti!—si affrettò a dire quell'altro, che si accorse di essere andato troppo oltre per quella volta. Vede, signor Giovanni? Si scalda, il sangue, e le vien da capo la tosse. Suvvia, mandi giù questa bevanda, che aiuterà a calmarla.—
E in questo dire gli accostò il cucchiaio alle labbra. Il vecchio bevve, e la sua testa ricadde inerte sul guanciale. Frattanto la pendola, che era di rincontro al letto, scoccò un tocco.
—È già l'una!—esclamò il Vitali.
—No, le undici e mezzo soltanto. Ella è stanco, signor Giovanni?….
—Sì, molto stanco. Se potessi dormire….
—Oh, dormirà, adesso che ha bevuto quel calmante. Io quindi me ne anderò; Ella pensi al Signore; in lui è la speranza e la salvezza nostra.—
E l'uomo vestito di nero, che i lettori avranno già riconosciuto per quel tale compagno del dottor Collini alla chiesuola di San Nazzaro, uscì dalla camera del banchiere Vitali.
Appena questi fu solo, parve respirare più tranquillamente, e dopo pochi minuti stese il braccio verso il comodino, per afferrare un campanello che scosse leggermente. A quel suono, comparve nella camera il maggiordomo.
—Signor padrone, eccomi qui. Che cosa comanda?
—Padre Bonav…. cioè, il signor Bonaventura se ne è andato?
—Sì signore.
—Lo avete accompagnato fino al portone?
—Sì signore.
—E avete lasciato il portone aperto?
—Sì, l'ho lasciato. Il marchese suo nipote non starà molto a giungere.—
A queste parole il volto dell'ammalato si rasserenò un poco.
—Sta bene;—diss'egli,—lo farete entrar subito da me, e poi potrete andarvene a passar la notte a casa vostra. Stia il Paolo in anticamera a vegliare. Voi fate il vostro comodo fino a mezzogiorno.
—Grazie, signor padrone.—
E Battista si ritirò, ma non senza fare i suoi commenti a quel saggio poco frequente di larghezza. Erano infatti rarissime le volte che il signor Vitali permetteva al suo maggiordomo di andare a passar la notte con la sua famiglia.
—Ci ha da essere qualcosa di grosso in aria,—disse Battista tra sè,—perchè il padrone sia diventato così largo di mano. Che voglia rappattumarsi col nipote? Chi sa? Il diavolo, quando diventò vecchio, si fece eremita.—
In punto di mezzanotte Aloise di Montalto entrava in casa del nonno, e il maggiordomo gli schiudeva l'uscio della camera da letto.
Il giovine era pallido, e non poteva dissimulare il suo turbamento. Da parecchi anni egli non aveva più posto piede nella casa di suo nonno, cioè dalla morte di sua madre, che il vecchio banchiere non si era neppur mosso per andare a vedere, e darle l'ultimo bacio innanzi che ella morisse.
Aloise aveva amato fortemente sua madre, e ne venerava la memoria come una cosa sacra; però alla chiamata del nonno era stato in forse di rendergli pan per focaccia, ricusando di andare da lui. La nobiltà dell'animo suo faceva sì che egli non pensasse neppure ai milioni del vecchio, e quando taluno dei suoi amici glieli rammemorava, egli era uso a rispondere che suo nonno era padrone di lasciarli a cui gli piacesse meglio, e che egli non si sarebbe neppur mosso per piatire su quella eredità. E questo che egli diceva, lo pensava davvero, essendo uno di que' tali uomini che vogliono bastare a sè medesimi. Se fosse nato senza il becco di un quattrino, avrebbe lavorato per vivere, in quella stessa maniera che studiava per suo diletto, vivendo del suo e non chiedendo nulla, non isperando nulla da altri.
Ma questo nonno, che lo mandava a chiamare, era infermo, e Aloise non poteva dimenticare che quello era il padre della sua genitrice, sebbene fosse stato nemico verso il suo sangue, come tanti altri padri della sua risma. Queste ragioni gli consigliarono di andare; e andò, per quanto poca voglia ne avesse.
Da quell'animo generoso ch'egli era, fece anzi di più del suo debito. Entrato nella camera del banchiere Vitali, andò difilato ad inginocchiarsi alla sponda del letto, e veduto quel viso scarno e quei capelli bianchi, si intenerì e ruppe in grido di ambascia:
—Mio buon nonno!
—Ah, finalmente, sei tu, Luigi?—disse il vecchio con quella dolce lentezza di parole che è una prerogativa degli infermi.—Lascia che ti contempli un poco.—
E così dicendo tentava di sollevarsi un tratto sui gomiti, ma senza venirne a capo.
—Aspettate, nonno; non vi affaticate senza pro'. Io stesso vi adagerò come volete.—
E postegli le braccia intorno al petto, lo sollevò dolcemente e gli ricompose per benino i guanciali sotto le spalle; dopo di che si fece a dimandargli:
—Vi sentite meglio così?
—Sì, adesso che ti vedo, mi pare di star meglio. Come somigli a tua madre!
—Mia madre! Ella vi ha sempre amato, buon nonno; credetelo pure. E se voi non avete potuto venire al suo letto di morte, ella non ve l'ha mica apposto a difetto di amorevolezza per lei. La vostra età avanzata, i vostri negozi, non vi consentivano certamente di venire fin lassù, alla Montalda.—
Così chiamavasi, per corruzione popolesca del nome della famiglia, il castello dei Montalto in Polcevera.
Il vecchio, che era rimasto sovra pensiero al ricordo della figlia, colse la scusa che gli aveva profferta nobilmente Aloise, e rispose:
—Sì, ero assai giù di salute, in quei giorni, e sono molto più gravemente infermo ora. Avevo bisogno di vederti, sai qui sono abbandonato, tradito da tutti; nessuno mi ama.
—Oh, buon nonno, perchè non mi avete fatto chiamar prima? Il vostro Luigi sarebbe corso al vostro capezzale e vi avrebbe consolato nella vostra malattia.—
La cortese arrendevolezza del giovine giungeva perfino a fargli mutare il proprio nome. Il vecchio banchiere non aveva mai voluto acconciarsi alla aristocratica forma del nome di Aloise, e soleva dire che era una caricatura come tante altre; che Sant'Aloise non si riscontrava nel calendario, sibbene San Luigi, e che questo doveva essere il vero nome di suo nipote, senz'altre storpiature nobilesche.
Qualcheduno s'era provato a fargli notare che il nome di Luigi aveva avuto più storpiature d'ogni altro, e tutte ugualmente ragionevoli secondo i paesi; che il Clovis, il Clodoveo, il Lodovico, il Luigi, l'Alvise, l'Aloise, e tanti altri, erano tutte varianti del vecchio __Luduig__ teutonico. Ma il vecchio Vitali proseguiva a chiamarla una caricatura, e ne toglieva argomento a celiare sul suo nobilissimo genero e sulla sua nobilissima figlia, i quali, con tutta la loro nobiltà, s'erano ridotti al verde.
Aloise sapeva ciò, e per contentarlo trasformava il proprio nome secondo il capriccio bisbetico del vecchio.
—Qui siete in mano di gente prezzolata,—disse egli, di gente che vi sta intorno per il vostro danaro.
—Sì, è vero,—esclamò con accento malinconico il banchiere,—e taluni non desiderano altro che la mia morte…. Oh, non ne far le maraviglie, io so quello che dico.
—È una brutta cosa, se ciò che dite è vero. Ma voi per buona ventura non morrete; siete vegeto ancora e potete giungere ad una età molto tarda.
—Dici da senno?—proruppe l'infermo, a cui scintillarono gli occhi nelle loro orbite incavate.—Credi davvero che io possa vivere molto?
—Ma certo! Voi stesso potete persuadervene di leggieri; la malattia non vi ha punto disfatto.
—Oh, se tu sapessi come mi hanno levate le forze! Mi hanno dissanguato; e adesso mi affievoliscono sempre più coi loro beveraggi. Io non ho più fede in nessuno…. ho bisogno di vivere.
—E vivrete. Ma il vostro medico che cosa ne pensa egli?
—Ah! il dottor Collini! Tu lo conoscerai….
—Sì, lo conosco come uomo anche troppo: ma come professore dell'arte salutare ognuno l'ha in concetto di un uomo di vaglia. È il medico delle più cospicue case di Genova! Io, nondimeno, senza voler qui metter fuori il mio giusto sdegno contro costui, penso che molte volte i più valenti professori prendono abbaglio sulle malattie, o le curano con un metodo particolare che non è fatto per tutti i temperamenti. Che cosa ha egli sentenziato che sia il vostro male? Con che rimedii lo cura?
—Che cosa ne so io?—disse il banchiere, crollando il capo mestamente.—Egli esce fuori con certi nomi!
—Orbene, mio buon nonno; volete che io conduca da voi un medico provato?
—Sì, appunto di ciò volevo pregarti, nipote mio. Ho bisogno di un medico, il quale mi tolga di dosso questa spossatezza che mi opprime, e che anzitutto non mi dia più a bere di quella pozione, che mi infiacchisce sempre di più. Io lo farò ricco, costui, se verrà a capo di rimettermi in gambe.
—Oh, a questi patti non c'intenderemo mai. Lo pagherete per le sue visite come un altro, e basterà. Egli poi ci verrà per amor mio, ed io spero mi vorrete lasciare la soddisfazione di aver fatto qualcosa. A domattina, dunque.
—No, non domattina!—gridò l'ammalato.—Egli potrebbe essere veduto da qualcheduno. Venite di notte, sarà meglio.
—E noi verremo di notte, non dubitate. Ma intanto seguite il mio consiglio, buon nonno; fino a tanto che il mio medico non vi abbia veduto, non prendete nessuna di queste medicine che vi si dànno.
—Sì, hai ragione; e con l'aiuto vostro risanerò presto. Mio ottimo Luigi! E dire che mi narravano tante brutte cose di te! che eri uno scapestrato, uno scialacquatore!… A proposito, come te la passi ora?
—Io! Studio e vivo modestamente di quel poco che ho.
—E non hai bisogno di nulla?—soggiunse il vecchio, misurando le parole.—Un giovine tuo pari, che ha da vivere con un certo sfarzo, ha sempre bisogno di denaro….
—Oh no, caro nonno. Vi ringrazio, ma non ho proprio bisogno di nulla. Non ho mai avuto l'uso di spendere più di quello che le mie entrate consentissero, e vi dirò anzi che in questo mese m'è ancora rimasto un po' di danaro dell'anno scorso.
—Bravo! così va bene; bisogna essere economi.—
Con queste parole, e senza pure addarsene, Aloise aveva soggiogato l'animo sospettoso del vecchio Vitali. L'uomo che ricusava le profferte del nonno, certo non s'era affrettato ad andarlo assistere per la bramosia de' milioni. E quel vecchio egoista, il quale in tutta la sua vita non aveva riverito, non aveva amato altro che l'oro, trovava al suo capezzale una di quelle consolazioni che Dio non dovrebbe mai concedere ad uomini siffatti, cioè quella di un angelo consolatore, di un animo profondamente pietoso, che opera il bene senza volerne mercede.
Però il Vitali si dimostrò più aperto, più confidente col nipote; gli promise che avrebbe seguiti i suoi consigli, e lo supplicò che non l'abbandonasse.
Lo sdegno di Aloise si era disciolto innanzi a quella sventura di un uomo ricco, il quale non aveva potuto farsi amare da alcuno e se ne moriva senza compianto, come senza difesa, in balìa di due tristi. Però egli giurò al nonno che sarebbe tornato, e lo lasciò alquanto più tranquillo, verso le due del mattino.
Il vecchio non istette molto a pigliar sonno, e dormì lungamente, per la prima volta, senza brutti sogni e senza paurose visioni.
Aloise non dimenticò la promessa fatta, e la notte appresso egli entrava col dottor Mattei nella camera dell'infermo.
Il vecchio Vitali era più spossato che mai, e solo a vederlo si argomentava che nella giornata egli non avesse ardito ricusare la consueta pozione, amministrata dal Collini. Però si sentiva fiacco, e le poche parole che a tratti tentava di profferire, gli erano interrotte da violenti assalti di tosse.
Il Mattei era un buon medico, lodatissimo per le sue cure e segnatamente per l'avvedutezza con cui giudicava a prima giunta delle malattie, per modo da non essere indotto quasi mai in errore. Aloise lo sapeva bene, epperò assisteva con grande ansietà a tutte le indagini ed esplorazioni che il suo amico andava facendo.
—Che cosa ve ne sembra?—chiese egli, poichè vide il Mattei stringere le labbra in segno di malumore.
—Eh,—rispose questi, facendosi un poco in disparte,—un catarro cronico polmonare, curato alla rovescia.
—Come sarebbe a dire?
—Non vedete? Questa boccia, che a voi stesso aveva destato qualche sospetto, parla chiaro con la scritta del farmacista. Per corroborare il vostro vecchio nonno e fargli vincere il male, gli dànno dell'estratto di acònito, sciolto nella innocentissima emulsione arabica del Franck.
—È un veleno?—chiese impallidendo il Montalto.
—No, ma è tutt'uno. L'infermo s'ha da rinvigorire, non già da levargli le forze. Questo si può fare in certi casi con un uomo giovine e robusto, quando si tratti di combattere il male nelle sue radici; ma qui c'è un vecchio, con una vecchia malattia che lo ha concio, sto per dire, fino al midollo, e ve lo curano coi deprimenti. Io temo una cosa…. che non si siano fermati soltanto all'acònito….
—Che cosa vorreste dire, Mattei?
—È un mio sospetto, e fo conto di chiarirlo subito. Signor Vitali!—
Il vecchio, a cui il medico s'era appressato, aperse gli occhi che teneva chiusi per la stanchezza.
—Voglia scusare la mia curiosità;—gli disse il Mattei,—le hanno applicate mignatte?
—Oh, molte, molte!—rispose sospirando l'ammalato.
—Vedete?—soggiunse il medico, volgendosi ad Aloise;—io non m'ero ingannato. Questi polsi frequenti, depressi e quasi filiformi, questa prostrazione generale di forze, mi avevano aria di derivare da qualche cagione più forte che non fosse il solo estratto di acònito. E probabilmente lo avranno tenuto a dieta rigorosa….
—Molto, molto rigorosa!—soggiunse il Vitali, ch'era tutt'orecchi ad ascoltarlo.
—Di bene in meglio!—ripigliò il Mattei.—Estratto di acònito, mignatte e dieta! Ma che cosa vogliono, questi signori?
—Che cosa vogliono?—rispose Aloise.—Ve lo dirò io. Vogliono che mio nonno faccia testamento.
—Ah! ah! testamento? Ed io vi prometto, Aloise, che se il signor
Vitali vuol fare a modo mio, li corbellerà tutti ben bene.—
A quelle parole il volto dell'infermo si colorò leggermente, e gli balenarono gli occhi. Il Mattei, che le aveva pronunziate voltandosi a lui, si fece al capezzale e gli strinse affettuosamente la mano.
—Anzitutto,—diss'egli,—qui bisogna mutar registro addirittura.
—Che debbo fare?—chiese il Vitali.
—Ha Ella qui in sua casa una persona fidata?
—Sì, il mio maggiordomo.
—Bisognerà ch'io gli parli.—
Il vecchio volse gli occhi al tavolino da notte, ed Aloise fu sollecito a intendere il suo desiderio, poichè diede di piglio al campanello per chiamare Battista, il quale accorse subito alla prima scampanellata.
—State bene attento alle mie parole;—disse il Mattei a
Battista.—Amate il vostro padrone?
—Che cosa mi domanda Ella? Non v'è cosa al mondo che io non fossi pronto a fare per lui.
—Sta bene; e il vostro ottimo padrone darà una giusta ricompensa ai vostri servigi. Non mi fate le boccacce! È naturale che se voi fate il vostro debito, il padrone si disponga a testimoniarvi la sua gratitudine. Qui appunto non si tratta soltanto di servirlo con fedeltà, ma ancora con amore ed avvedutezza. Nè debbo tacervi che, caso mai non vi andasse a' versi, ci sarebbe il marchese di Montalto, qui presente, per aggiustare i conti.
—In fine, che cosa mi comanda di fare?
—Io non comando; raccomando. Il signor Vitali ha fede in noi, e vuol risanare. Io dunque ho pensato che per farlo risanare ci siano parecchie cose da fare. Anzitutto buttar via quella pozione, ogni qual volta ve la facciano comperare, e sostituirvi, nella medesima boccia, sotto la medesima scritta, una semplice emulsione del Franck, senz'altri ingredienti, della quale io vi scriverò qui la ricetta.
—Sarà fatto!—disse Battista.
—Benissimo! Il vostro padrone poi non deve stare alla dieta. Così, senza aver bisogno di consigliarvi con alcuno, voi baderete a nutrirlo, con cibi di agevole digestione, ma sugosi come sarebbero i buoni brodi e qualche pezzo di carne arrostita. Gli darete inoltre a bere del vino, con infusione di china; da principio un cucchiaio ogni volta che mangerà, e poi anche due. Ma per ordinarvi questo, ci sarò io. Quando poi, fuori d'ora, il signor Vitali chiedesse da bere, gli darete del decotto di china, del quale vi lascerò la ricetta.
—Sarà fatto!—ripetè il maggiordomo, chinando il capo.
—Badate dunque; e che nessuno abbia a risaperlo. È l'unico modo di restituire la sanità al vostro padrone.
—Oh! che dice Ella? Ci sarebbe forse pericolo?
—No, ma potrebbe sopraggiungere, se con quelle vostre bevande consuete e col tenerlo a dieta, proseguiste a levargli le forze, mentre, a voler vincere il male, ha bisogno piuttosto di raddoppiarle.
—Ah sì!—disse Battista,—ora capisco quello che vuol dire Vossignoria. Bisogna che il padrone si faccia forte contro il male. È quello che ho sempre detto io.
—Vedete dunque che non c'è bisogno di molto studio,—soggiunse ridendo il Mattei,—e quasi si può far senza dei cinque anni d'Università. Voi siete dunque avvisato; avete in mano la vostra fortuna, o la vostra disgrazia.
Ciò detto, il Mattei si accostò ad un tavolino per iscrivere le sue ricette, che consegnò al maggiordomo, ripetendogli per filo e per segno tutte le sue raccomandazioni; dopo di che tolse commiato dal vecchio Vitali con queste parole, che gli fecero balzare il cuore per la contentezza:
—In quanto a Lei, signor Vitali riveritissimo, stia di buon animo e segua i miei consigli. Io le prometto che con un mese di questa cura ella potrà alzarsi e mandare i medici a quel paese, incominciando da me.—
Di una gita che fece il dottor Collini nel vicolo di Mezza Galera.
Conoscono i lettori il vicolo di Mezza Galera? È uno di due, che salgono da piazza delle Erbe (detta dal popolino __Piazza Nuova da basso__) fino al celeberrimo vicolo del Fico. Quei luoghi, tra Sant'Andrea, Sarzano e San Donato sono ancora, insieme coll'altra regione da Scurreria fino a Banchi, tra i più sudici e tetri della vecchia Genova; e il vicolo di Mezza Galera, ai tempi del nostro racconto, era degno più che mai del suo nome, poichè raccoglieva nel bel numero de' suoi abitanti la famiglia Garasso, nella cui casa dobbiamo oggi recarci.
Non ci sarà da turarci il naso, badate. Entreremo in una scala abbastanza pulita, col vestibolo imbiancato di fresco, e certi scalini di lavagna sui quali si sono già commessi piedini più riguardosi dei nostri; i quali piedini salivano, al pari di noi, fino al secondo piano, dov'era un uscio dipinto a nuovo tutti gli anni, con un picchiotto di ferro, per farsi udire dalla gente di casa. Il campanello sarebbe stato arnese di troppo sfoggio colà, e i monelli del vicinato non avrebbero posto gran tempo a strapparne la corda, o a tagliare la nappa.
L'appartamento di quel secondo piano è piccolo; ha tre camere, la cucina e qualche bugigattolo dei soliti. Le masserizie sono vecchie e malinconiche, segnatamente in una sala più grande, che ha l'aria d'essere il salotto della casa, se si badi ad una tavola quadrata posta nel mezzo e coperta di un grosso tappeto di lana rossa, con due stoini da' piedi; ad un vecchio stipo intagliato, con suvvi una scarabattola di cristallo, nella quale si vede un Gesù bambino vestito di raso bianco, che tiene il mondo in mano; ad un sofà, con due cuscini ritti a mo' di spalliera; finalmente ad un grosso armadio di noce, a sportelli, sull'alto del quale fa bella mostra di sè una civetta impagliata.
Un'altra civetta, ma non impagliata, è seduta presso la finestra, su d'una larga sedia a bracciuoli. È la padrona di casa, a cui diamo quel nome per una certa aria di parentela che il suo volto ci aveva con quell'uccello di rapina, quantunque ella, a' suoi tempi, fosse stata in voce di donna belloccia anzi che no, e coi suoi quarantacinque suonati, con la esorbitanza adiposa delle forme, potesse ancora, presso taluni di più facile contentatura, passare per un bel pezzo di femmina. Era una femmina alta e di grosso calibro, come le vecchie colubrine dei nostri antenati, e chiudeva la prepotenza smisurata delle forme in una casacca di velluto nero, orlato di fettucce di seta marezzata, e in un gonnellone di lana verde, partito a larghi quadri, molto appariscente, sebbene un po' stazzonato dall'uso.
Quella donna aveva fatto di molte cose, nella sua gioventù; ma nel tempo di cui si narra, aveva anche messo di costa qualche migliaio di scudi, e da quattro anni si centellava le purissime gioie di un matrimonio d'inclinazione.
In quel cuore, coperto a sette doppi come lo scudo di Aiace, era dunque penetrato il dardo d'amore? Sissignori; la nostra signora Momina (a chi nol sapesse diremo che Momina era un vezzeggiativo di Geronima) aveva un cuore fatto a bella posta per amare, a malgrado di tutte quelle cortine, rivellini e bastioni di carne, che vietavano gli approcci della fortezza.
Fin da quando ella era a' servigi del signor Omobono, vecchio calzettaio, il quale appunto da quattro anni aveva tirate le calze, la signora Momina, che allora aveva titolo di donna di casa, ed ufficio di serva padrona, aveva adocchiato un giovanotto dalla zazzera bionda e dalla faccia rosea come le mele carle, il quale passava tutti i giorni sotto le sue finestre.
Costui era stato garzone di bottega presso uno stipettaio; poi si era accomodato da un fabbro; più tardi aveva mutato d'arte e di principale, ma non imparando altro che a darsi bel tempo e suonare la fisarmonica. Gli amici lo chiamavano il __Bello__, e tale pareva alla signora Momina; la quale si reputò la più avventurata femmina del quartiere, quando si fu avveduta che quel giovinotto era tutt'occhi per lei, e che alla notte andava a farle la serenata col suo malinconico strumento a manticino.
Tutte quelle cose le andarono cosiffattamente al cuore, che non istette lunga pezza a farsi trovare sull'uscio di strada; e colà, poichè la signora Momina non era donna da volerlo far sospirare e struggersi, con troppo danno di quelle guance rosee, furono fermati i primi patti della resa. D'allora in poi il Bello salì fino in casa; dapprima raramente e con molti riguardi, poi tutti i giorni alla libera. Il vecchio calzettaio era a letto e non aveva nulla a vedere di quell'intruglio; di guisa che il Bello non ebbe più mai a piatire in casa propria per desinare e cenare, come faceva senza portarci quattrini.
Là, in casa del vecchio bietolone, egli ci aveva ogni cosa; i bocconi prelibati, le vestimenta e i denari per le male spese. La provvidenza gli s'era fatta incontro, sotto le spoglie della signora Momina, e figuratevi che gran provvidenza l'avesse ad essere, una provvidenza innamorata.
Il vecchio padrone morì, e quella sera se ne bevve un bicchiere di più, per dargli l'estremo vale all'uso degli antichi. Gli eredi non avevano potuto ritogliere alla signora Momina quel tanto che il vecchio le aveva lasciato, in ricompensa delle sue cure assidue, nè quel tanto che ella aveva saputo metter da parte, di roba e denaro. Però, quando ella profferse la sua candida mano al biondino, egli non se lo fece dire due volte; e due mesi dopo, il parroco delle Vigne celebrava le nozze.
Il Bello la faceva contenta fra tutte le mogli. Di tanto in tanto correva qualche manrovescio, ma le lividure erano sempre colorite d'un tal poco di gelosia: onde la signora Momina, se per avventura le dolevano le carni, aveva a ricattarsene largamente nella soddisfazione della sua vanità femminile. E poi, era un così leggiadro garzone, e sapeva chiedere così bene la pace, quando aveva bisogno di denaro! Chi bene ama, soleva dire la signora Momina, chi bene ama, bene bastona.
Costei, come si è detto, ci aveva in serbo un bel gruzzolo di scudi; ma guadagnava anche piuttosto largamente, facendo l'indovina coi mazzi di carte, e in casa sua ci bazzicavano molte signore, senza contare le gran dame che la mandavano spesso a chiamare. Questa di sapere il futuro è sempre stata una manìa delle donne, e talvolta anche degli uomini; laonde la nostra indovina del vico di Mezza Galera faceva quattrini a bizzeffe ed aveva modo di mettere il naso in un visibilio di pettegolezzi, i quali è fama andasse poi a rifischiare ad un certo valentuomo che li pagava ad oro sonante.
Che cosa faceva intanto il Bello? Si occupava di cose politiche; era un Verrina in sessantaquattresimo, un Bruto che avrebbe ucciso non uno ma dieci tiranni, e che, mancandogli la buona occasione di trovarseli sotto le mani, passava il tempo nelle ultime sale della bottega da caffè del Gran Corso, giuocando grosse poste a biliardo e a picchetto. Leggeva __l'Italia e Popolo__ e si vantava anzi di aver contribuito coi suoi denari al sostentamento di quel democratico giornale, nè si riteneva dal dire qualche volta (in un crocchio di amici profani alla politica) come egli avesse stretto la mano a Giuseppe Mazzini.
Queste cose, già s'intende, non si arrisicava a dirle al cospetto di Francesco Bartolomeo Savi, direttore di quel giornale, ed ottimo cittadino di cui Genova rimpianse nel '64 la morte luttuosa, nè d'altro dei capi del partito, ed amici del Mazzini; i quali, parte non lo conoscevano neppure, parte lo avevano in conto di un semplice gregario, e gli perdonavano l'ozioso vivere e la mania del giuoco, in grazia del fervore che egli mostrava per la causa comune.
Parecchi di questi ottimi popolani sapevano bensì della vita oziosa del Bello, e del bazzicar che faceva in certi luoghi; ma, buona gente ed aliena dai cattivi giudizi, non ci guardavano tanto nel sottile. Alla fin fine, spendeva del suo, e nessuno andava a grattare quella superficie per vedere sotto l'intonaco. D'altra parte, egli era così ardito nella affermazione de' suoi propositi, si mostrava così bollente ne' suoi entusiasmi, che sarebbe stato proprio un fargli villania, il non aggiustar fede alla saldezza ed alla onestà de' suoi intendimenti.
Questo bel mobile era il marito della signora Momina, dottoressa in cartomanzia. Adesso vedremo che cosa andasse a fare in casa loro quel signore dai capelli rossigni, il quale, mentre noi eravamo intenti a dipingervi quella coppia felice, saliva le scale e bussava all'uscio del secondo piano.
—Serva umilissima, signor Magnifico!—esclamò la signora Momina, aprendo l'uscio al dottor Collini; che era appunto egli il visitatore della famiglia Garasso.
—Buon giorno, signora Momina; è in casa suo marito?
—Sissignore, è in casa; ma il poverino è ancora nel primo sonno. Questa notte, per far servizio a Vossignoria, come mi ha detto, è venuto a casa molto tardi. Ma non dubiti, corro a svegliarlo.
—Brava! gli dica che si spicci, perchè ho fretta.—
La signora Momina andò nella camera da letto a scuotere il marito, che borbottò un poco e bestemmiò per giunta; ma quando ebbe udito che c'era il magnifico dottor Collini ad aspettarlo, fu pronto a sedersi sul letto e a stropicciarsi gli occhi.
—E così, signora Momina, come vanno le faccende?—chiese il Collini alla femmina, quando ella tornò in sala a fargli compagnia.
—Oh, non c'è male; io non posso lagnarmi della fortuna. A proposito, sono già stata questa mattina dal signor Bonaventura. Quello è un uomo che si alza per tempo! Tra l'altre cose che ho potuto raccontargli ce n'è una, la quale egli mi ha detto di riferirla a Vossignoria; e sebbene io non sappia quanto le possa premere….
—Dite, dite! Di che si tratta?…
—Si tratta di una cameriera alla quale sono andata a far le carte ieri mattina, di là dall'Acquasola. Costei ci ha un suo innamorato, del quale voleva conoscere la fedeltà, e mentre stavamo nella sua camera a fare il giuoco, è sopraggiunta la padrona, una gran dama, che ha voluto fermarsi a vedere, e poi le è frullato in capo che indovinassi qualcosa anche a lei.
—E come si chiama questa signora?—chiese il Collini.—Se il signor Bonaventura vi ha detto di raccontarmi questa, gli è segno che mi sarà necessario di conoscere i personaggi.
—È la contessa Cisneri;—disse la signora Momina,—una bionda….
—Ah, sì, la conosco, proseguite.
—Orbene, ho fatto il giuoco anche alla signora contessa, ed ho scoperto un fante di fiori, il quale era cotto straccotto per la regina di quadri: che essa non lo vedeva di mal occhio; che lo aspettava e che egli era appunto per via.
—Benissimo, e poi?
—La signora contessa ha riso molto, ed ha voluto che continuassi il giuoco, stando molto attenta a tutte le cose che io le narravo, segno che le carte dicevano la verità. Poi mi ha congedato, dandomi due scudi.
—È qui tutto?
—No. Quando la signora contessa se ne andò, la cameriera mi disse che avevo indovinato tutto per bene; che il fante di fiori c'era da parecchi giorni; un certo signor Sovani…. Silvani….
—Forse Salvani?—interruppe il Collini, a cui quelle storpiature della signora Momina avevano fatto aguzzare gli orecchi.
—Sì, per l'appunto, Salvani; un signore bruno, che si è battuto in duello. Così mi disse la cameriera, e infatti nelle carte, il duello c'era sempre alle spalle del fante di fiori.
—Ah!—disse il Collini tra sè.—E come diamine lo ha conosciuto, la Cisneri? Sta bene che per ora io non posso andare in sua casa, dopo quel maledetto negozio…. Ma esserci andato subito egli…. Oh, adesso più che mai è necessario che io mi vendichi di tutti costoro.—
Poi, volgendosi alla signora Momina, e simulando un'aria contenta, il
Collini le disse:
—Vi ringrazio della storia; ma in fede mia non capisco perchè il signor Bonaventura vi abbia detto di raccontarmela. Conosco la Cisneri; ma che abbia un fante di fiori o non l'abbia, non è cosa che possa premere a me. Vedremo poi, se ci sarà una continuazione; e chi sa che non n'abbia a nascere cosa che torni utile di sapere.
—Certo, signor Magnifico, ed io sarò sempre disposta a dirle ogni cosa. Ma ecco mio marito.—
«Mio marito!» Per dire queste due parole, la signora Momina compose le labbra ad un sorrisetto vanitoso che pareva dicesse: guardate che bell'omino gli è mai!
Ma il Collini non ci badò più che tanto; e dopo aver, risposto ai saluti del Bello, entrò con lui nella camera da letto, dove si sedette e cominciò subito a parlare di cose importanti.
—Orbene?
—Ci siamo;—disse il Bello,—vogliono fare da senno.
—Ma egli, come c'entra?
—A capo fitto; è dei più caldi.
—Ma via, raccontatemi tutto. Dove si radunano? Quali sono i loro mezzi? Che cosa intendono fare?—
Il Bello non rispose a questa furia di domande se non stringendo le labbra più volte, abbassando gli occhi, e simulando l'esitanza di un uomo che sente un po' di rimorso.
—Suvvia!—disse il Collini.—Che cosa vi ho mai rifiutato, io? Non sono ricco, e mi levo, sto per dire, il pan di bocca per voi. Volete di più? Fin dove la mia borsa consentirà che io giunga nello spendere, giungerò. Eccovi intanto questi altri sul conto.—
E così dicendo, il Collini, posto mano al portamonete, ne cavò fuori un biglietto rosso che diede al Bello, e che questi, non che ricusarlo, si affrettò a mettere in tasca, accennando al Collini che parlasse più sommesso, per non essere uditi da quella colomba di sua moglie.
—Che cosa?—disse il Collini.—Vostra moglie non sa nulla….
—Nulla, signor dottore. Le ho detto che dovevo farle servizio in una certa faccenda; ma ella non s'immagina che Vossignoria mi abbia a dare la croce di un quattrino. Per dinci, se lo sapesse, sarebbe donna da voler la sua parte.
—Mentre in cambio voi volete la vostra di quelli che essa guadagna.
—Eh, signor dottore, come fare? Perdo sempre, a quel maledetto giuoco! E poi, alla mia età, bisogna bene che mi dia un po' di bel tempo.
—Avete ragione; tristo chi non sa pigliare il mondo pel suo verso. Ma veniamo al buono, e ditemi tutto quello che sapete.—
Il Bello faceva ancora lo schizzinoso, per non aver l'aria di cedere così presto. C'è il pudore dei bricconi, come quello dei galantuomini.
—Ma gli è…. vede Vossignoria?… vi sono di certe cose!… Alla stretta de' conti, si tratta d'amici, e non vorrei….
—To'! avete degli scrupoli di coscienza?
—Oh no, signor dottore. So pure che Ella è un uomo per la quale, e non vorrà giovarsi di queste cose a fin di male. E poi, sono certi segreti, che ognuno li conosce a menadito.
—Io, per esempio,—disse il Collini, che cominciava a stizzirsi di tanti preamboli,—non ne so ancor nulla, ed e per questo che vi dò dugento lire al mese.
—Via, non si scaldi!—rispose il Bello, arrossendo un poco;—le dirò tutto quello che so. Gli è fino dell'anno scorso che se ne parla. È un disegno nato nel cervello di parecchi popolani.
—E non vi sono capi?
—Cioè…. Non ho detto che non ce ne siano. Da principio quella gente operava di suo capo; ma poi se ne apersero con Giuseppe Mazzini, il quale è venuto a bella posta in Genova.
—Quando?
—Oh, alcuni mesi or sono, e adesso deve tornare.
—L'avete veduto, voi?
—Io no; ma lo seppi, quando c'era, e parecchi furono a vederlo. Il disegno da prima non gli andava a' versi; ma quando gli fu detto degli apprestamenti fatti, del gran numero di uomini sui quali si poteva contare, se ne capacitò. Si tennero molte conferenze, e fu nominato, sotto la sua direzione, un comitato misto di artigiani e di signori, per dividersi il lavoro e provvedere a tutte le occorrenze.
—E il danaro? Senza danaro non c'è musica; lo saprete pure!
—Oh, del denaro ne hanno, e col denaro si è potuto avere delle armi a carra.
—E ora cosa s'argomentano di fare?
—Non lo so. Probabilmente non lo sanno neppur essi.
—Badate, Garasso! Io voglio saper tutto; se no, smetto la musica.
—Sicuro!—rispose il Bello, ridendo sgangheratamente.—E la sua musica, signor dottore, io non son uomo da disprezzarla. Ma veda, quando io le dico che non lo sanno ancora neppur essi, gli è che non lo sanno davvero, ed io non voglio mangiarle il pane a tradimento. Che so io? Parlano di una spedizione nel regno di Napoli, nella quale entrerebbero tutti questi emigrati che sono a Genova. Altri vorrebbe tentare anche un colpo a Livorno. Altri dice che non si devono spartire le forze; insomma non c'è ancora nulla di stabilito. Qui poi si vorrebbe mettere il governo in angustie, perchè non mandasse a monte il negozio; epperciò v'ha chi propone di impadronirsi dei forti e della Darsena, come avvenne nel '49; altri pensa che quando s'è presa una cosa, non bisogna lasciarsela fuggire di mano, e che si potrebbe fare un governo provvisorio per aspettare l'esito certo della rivoluzione a Napoli, e mettere in fiamme tutta la penisola. Ma finora sono discorsi accademici, e bisogna aspettare una risposta di laggiù.
—Da dove?
—Da Napoli. Si dice che là sia già tutto preparato, le armi distribuite, e gli animi disposti all'impresa, appena una mano di patrioti giunga a sbarcare su quelle spiagge. Ma qui vogliono esserne ben certi, e non dir quattro fino a tanto non sia nel sacco; epperciò si è mandato qualcheduno a pigliar lingua, a vedere come stiano le cose.
—Perdio!—esclamò il Collini.—E voi dicevate che non c'era anche nulla di fatto? A me pare che ce ne sia d'avanzo. E il nostro bel signorino, che fa in mezzo a costoro?
—È dei primi. Lo hanno anzi nominato membro del comitato, e lo tengono in grandissima considerazione, sebbene in molte cose mostri di non intenderla a modo loro.
—È dunque uno dei capi?
—Sì, certamente. Pare che egli non aggiusti gran fede a certi disegni; ma nessuno lo crede uomo da ciurlare nel manico, il giorno delle busse. La si figuri; si voleva menar le mani subito, e fu egli che, con le sue storie, persuase gli altri a rimettere il colpo a tempo opportuno.
—E che occasione si aspetta?
—Non ha inteso? Si aspetta la risposta di laggiù.
—E quanto credete che l'abbia a tardare?
—Non lo so. L'uomo è già partito, e non si aspetta altro che il suo ritorno per pigliare una deliberazione.
—Lo avete voi veduto?
—Chi? l'uomo che è partito?
—No; vi parlo di lui, del nostro signorino.
—Oh sì, l'ho veduto parecchie volte alla Società degli Operai, dove dà lezioni di storia, e tutti stanno ad udirlo con tanto d'orecchi. Infatti parla molto bene, e vi racconta le cose in modo che tutti le capiscono, e par quasi di toccarle con le mani.
—Questo m'importa poco, anzi nulla;—soggiunse il Collini.—E non avete altro da dirmi?
—Le ho detto tutto quanto sapevo.
—Bene, bene! Badate a non nascondermi nulla, quando vi avvenga di saper qualche cosa; e anzi tutto non perdete tempo. Sapete dove sto di casa, e potete venirmi a cercare.
—Non dubiti, signor dottore; ma Ella mi promette….
—Che cosa?
—Che il mio nome non uscirà fuori per nessun modo. Se s'avesse a risapere, io non potrei dirle altro. E poi….
—E poi, che cos'altro?
—Vorrei,—disse il Bello,—che i miei amici non ne avessero a patire. Ella sa, signor dottore, che se dico queste cose a Lei, gli è perchè la credo un galantuomo.
—E perchè vi pago profumatamente. Suvvia, non mi fate quel muso. Patti chiari, amici cari, dice l'adagio, A voi mette conto il parlare, a me il sapere; e una mano lava l'altra.
—Orbene,—soggiunse l'altro, crollando le spalle,—sia come Ella vuole. Io del resto so che sono tutti pazzi da catena, e me ne lavo le mani.
—Bravo! questo è parlare da savio. Lavatevene le mani. E intanto a rivederci.—
Dopo queste ed altre parole di minor conto, il dottor Collini se ne andò, non senza aver salutato la signora Momina, che lo accompagnò fino sul pianerottolo della scala, come si conveniva ad una persona tanto ragguardevole.
—Ve'! ve'!—disse il Bello, mentre infilava la giacca per uscire a sua volta.—È un comodo mestiere, la politica, e ci si guadagna da vivere, senza molta fatica. Chi sa che diamine vada mulinando nel suo cervello, questo medico del malanno? Basta; vengan danari; al resto pensi chi vuole, io no, certo.—
Che brava gente, quella famiglia Garasso! La moglie, con l'aiuto delle carte, diceva la buona ventura e faceva la spia nelle case. Il marito, pel vizio delle carte, vendeva i segreti degli amici. L'asso di quadri, simbolo del danaro, lo avevano ambedue al posto del cuore.
Nel quale si comincia a sapere chi fosse e che cosa facesse l'uomo vestito di nero.
Il dottor Collini uscì dal vicolo di Mezza Galera molto contento de' fatti suoi. Dal caso di San Nazaro in poi, era quella la prima volta che il valentuomo si mostrava quasi ilare in volto e si stropicciava le mani.
Quantunque la gente non gli avesse apposto a grave colpa l'essersi malamente diportato in quella sua contesa col Montalto, il Collini non aveva per fermo a lodarsi della figura fatta, e fra le cose che più gli dolessero, c'era questa del non poter più andare dalla Cisneri, e di dover troncare così il suo romanzetto al primo capitolo.
Ma più ancora venne a sapergli male che il suo padrino, l'uomo che si era battuto in sua vece, fosse andato in casa della Cisneri, dove un mazzo di carte e le parole di una cameriera dicevano troppo chiaramente in qual conto egli fosse tenuto. Come aveva potuto andarci, egli che non conosceva punto la contessa? E perchè c'era andato? Il Collini non lo sapeva ancora; ma l'amarezza che ne sentiva in cuore, gli faceva indovinare come i suoi proprii diportamenti fossero la cagione di tutto, e com'egli ne avesse il danno e le beffe.
Povero Collini! Con tutto il suo ingegno e la sua avvedutezza, esser riuscito a fare la parte del bietolone!—Oh! ma se ne avranno a pentire!—pensava egli, stringendo i pugni nel segreto delle sue tasche, mentre la signora Momina gli raccontava la sua gita in casa della Cisneri. E allora gli tornavano in mente le acerbe parole di Lorenzo Salvani nella chiesuola di San Nazaro, e sentiva odiarlo lui più fieramente, più profondamente, che non odiasse il suo vero avversario Aloise di Montalto.
Ma perchè, con tutta questa amarezza, nell'uscire dal vicolo di Mezza Galera, egli si andava stropicciando le mani, a guisa di uomo contento? Or ora lo sapremo, se i lettori vorranno seguirci.
Il dottor Collini se ne andò per la via dei Giustiniani: voltò a destra verso la piazza di San Lorenzo, scese per Scurreria e Campetto, donde risalì per un labirinto di vicoletti fino alle Strade Nuove, e proprio rasente ad un gran palazzo, nel cui portone entrò con la spigliata franchezza di un uomo, il quale avesse fatta quella strada centinaia di volte.
Salì per un largo giro di scale fino al piano nobile; dov'era un grand'uscio, a cui volse lo sguardo della volpe d'Esopo al famoso grappolo d'uva, ed entrò per un andito in una scala più stretta, la quale andava su per altri due piani. Giunto all'ultimo, suonò il campanello, e poco stante l'uscio si aperse appena quel tanto che consentiva il ritegno d'una catena tirata attraverso i due battenti, lasciando scorgere il viso di una donna attempata, alla quale il naso bitorzoluto e i peli del mento, la gonna di lana nera, la cuffia e il grembiule di tela bianca, davano aria d'una portinaia di monache.
Costei, appena riconobbe il Collini, spiccò la catena dal gancio, e dischiuse l'uscio per lasciar passare il noto visitatore.
—È in casa il signor Bonaventura?—chiese il Collini.
—Sissignore, è sul terrazzo, intorno ai suoi fiori. Aspetti, e corro a chiamarlo.
—No, no, signora Marianna, non s'incomodi; andrò io stesso.—
E così dicendo, il Collini s'inoltrò per due o tre camere fino ad un corridoio, che riusciva appunto sul terrazzo. La signora Marianna, che vedeva quasi sempre ogni giorno il Collini, lo lasciò andare, e dopo aver chiuso l'uscio e rimessa la catena, gli tenne dietro fino alla camera dov'essa accudiva alle sue faccende domestiche.
Il terrazzo del signor Bonaventura, era come tutti gli altri dei nostri palazzi genovesi, lastricato a quadri bianchi e neri, coi suoi orticini dai lati, molti vasi bellamente posti in giro, nei quali fruttificavano alcune piante di aranci e di limoni, una vasca di marmo col delfino che gettava il suo zampillo d'acqua, e un pergolato di rose gialle e di gelsomini.
Il signor Bonaventura, che noi chiameremo alla spiccia il padre Bonaventura, a cagione della sua antica ascrizione alla compagnia di Gesù, stava presso un orticino sarchiellando il terreno e nettandolo dalle erbe selvatiche, per seminarvi lattuga ed altre ortaglie di stagione.
Era vestito, come sempre, di nero, e in cambio del cappello, portava in capo una berretta di velluto. Cosa strana per un giardiniere suo pari, accanto al sarchiello ed all'innaffiatoio, e' ci aveva un grosso cannocchiale da teatro.
Il padre Bonaventura andava pazzo per l'arte del giardiniere, e l'educazione dei fiori, come di tutte le pianticelle degli orti, era il suo passatempo prediletto.
Orticultura, fioricultura, sollazzi proprii delle anime innocenti! Ma se il padre Bonaventura, che amava tanto i fiori, le lattughe e il prezzemolo, non era un'anima innocente, non era neanche un tristo, nè un furbo volgare; bensì qualche cosa di più grosso, un uomo d'ingegno, nato per comandare a' suoi simili. Un tempo, il suo gran diletto era stato quello di far discepoli. Era gesuita, maestro esercitato nelle più astruse discipline, e i giovani posti nelle sue mani facevano ottima prova; testimone il Collini, che era stato suo discepolo, e si chiariva profondo nell'arte sua, com'era sottile in ogni maniera di accorgimenti.
Non avendo più giovinetti da tirar su nello studio, il padre Bonaventura educava i garofani e le camelie con lo stesso amore, con la stessa perseveranza di assidue cure. A Genova dimorava per antica consuetudine, e sebbene fin dal tempo della cacciata dei Gesuiti egli avesse gittato l'abito, rimaneva in Genova ugualmente utile alla Compagnia, per tutte quelle cose che verremo dicendo, e teneva carteggio pressochè quotidiano col padre generale dell'Ordine.
Uomo di lui più destro ad ogni maniera di lavori non si sarebbe potuto trovare. Egli però continuava ad essere come ministro plenipotenziario in un luogo dove i suoi non erano più ufficialmente rappresentati, e più utile assai di un vescovo nominato __in partibus infidelium__, egli poteva dirsi un agente segreto, ma potentissimo, in una città dove non avrebbe potuto stare, nè giovar molto, con aperta dignità di padre provinciale. Era quello un posto difficile, epperò fatto a bella posta per un uomo di fede provata e di accorgimento sopraffino, come veramente appariva il padre Bonaventura; nè poco era il lavoro, nè lieve la malleveria dell'ufficio.
A Genova, nel tempo di cui parliamo, la libertà aveva largamente fruttificato. Quello spirito d'indipendenza che deriva dall'uso dei traffichi, e dal continuo muoversi d'una popolazione marinara, la lontananza dalla sede del governo, e le stesse ricordanze repubblicane del paese, erano un potentissimo aiuto allo svolgimento dei concetti liberali consacrati dalla rivoluzione del 1847 e dalle riforme legislative che l'avevano accompagnata.
Ma se a Genova c'erano i più gran rompicolli di tutta Italia, se qui era il centro più temuto e più sospettosamente vigilato della rivoluzione, c'erano anche i più ostinati fautori dell'antico ordine di cose, e forse la più operosa officina della reazione.
C'era anzi tutto il volgo ignorante degli uomini avvezzi a millantare le più arrisicate dottrine, in quella che lasciavano le loro famiglie pensare a operare in tutto altrimenti: spregiudicati a parole, liberi pensatori senza sapere che cosa pensare, audacissimi mangiatori di grasso in venerdì e sabato, ma fuori di casa, e destinati a diventare la gente più divota e insieme la più codina della cristianità, nella stagione dei malanni insanabili.
C'erano poi i ricchi patrizi, i quali, la più parte, astiavano il governo piemontese e ricordavano il patrio Consiglietto: e tra essi la gente più strettamente divota al Papa e all'Imperatore nella loro significanza da medio evo; epperò tale, per larghezza di censo ed autorità di nome, da doversi accarezzare e tenere in carreggiata, oggi blandendola cogli onori e la reverenza alla grandezza dei titoli, domani spaventandola col fantasma minaccioso delle plebi irruenti.
C'erano i titolati meno abbienti, anzi poveri addirittura; gente da sostentare in ogni modo migliore, la mercè di Opere pie acconciamente sfruttate, di antichi legati, di pubblici uffizi, e da scrivere intanto nelle file della tenebrosa legione, nella quale avevano a militare per vecchia tradizione e per nuovo debito di gratitudine.
C'erano i ricchi plebei, i villani rifatti da tirare, spinte o sponte, nel girone superiore, per la naturale attrattiva del vivere sfoggiato, per la cupidigia degli onori e di tutti gli altri amminicoli della superbia mondana.
C'erano i liberali sinceri da combattere, da traccheggiare, da molestare di continuo e in ogni ragione di cose, fossero poveri o ricchi, nobili o plebei, sicchè avessero a guastarsi il sangue, a perdere gli uni la costanza dei propositi, gli altri il loro buon nome nelle angustie della necessità.
C'erano sopra tutto i giovani da domare, i vigorosi intelletti da isterilire nel fiore della pubertà. Con quali armi? Anzitutto un ordinamento meraviglioso, ragnatela finissima, le cui cento fila mettevano capo in ogni ceto di persone, in ogni ragione di negozi. Il beneficato e l'ambizioso, mutati di subito in acconci stromenti di propagazione, erano tutti sfruttati secondo la misura delle forze loro, dell'ingegno, delle particolari attitudini e delle aderenze domestiche.
Però le opere pubbliche, le amministrazioni in mano loro, gli instituti di carità e di beneficenza soggetti al loro indirizzo. La reazione, sempre padrona delle coscienze nei tre sommi momenti della vita, la nascita, il matrimonio e la morte, signoreggiava del pari le moltitudini, la mercè di questa intromissione dei suoi creati in ogni garbuglio mondano, in ogni gara di private ambizioni, in ogni dramma domestico. Si esercitava la virtù come un mestiere, e si sfruttava il peccato come una cartella del debito pubblico.
Il governo d'allora non avversava punto la setta, che anzi aveva a tenersela cara, come quella che gli guerreggiava i partiti avversarii e gl'indocili. Il popolo, svogliato, facile a mutar consiglio, ateniese insomma fino al midollo, lasciava correr l'acqua al mulino e una cosiffatta congrega girare a sua posta le chiavi nella toppa mal custodita del santuario domestico. Che cosa potevano i pochi, i rivoluzionari da caffè, contro tante forze riunite? Non mai il demonio fu così degno del nome di __Legione__, come quando era incarnato nella mente di padre Bonaventura. Era egli infatti che muoveva tutte quelle fila svariate secondo il suo ordinato disegno.
E poi, oltre al disegno generale, il padre Bonaventura ci aveva altri fini da conseguire, altre reti da tendere. Alla Compagnia doveva andare quanto più si potesse di denaro, ma soprattutto le ricchezze del banchiere Vitali, le quali erano frutto, diceva egli, di un grosso deposito confidato dai gesuiti a quello specchio di probità, sebbene non vi fosse modo di farglielo confessare o di metterne fuori le testimonianze.
Il Vitali era stato fin dalla sua giovinezza uno dei più fidati amministratori del denaro della Compagnia, e la sua fortuna, fatta legalmente alle loro spalle e mercè il loro aiuto, s'era illegalmente rimpinzata di quel grosso deposito. Ma il padre Martelli, che sapeva di tutto quel negozio, era morto poco dopo la cacciata del sodalizio da Genova, non avendo tempo a dir altro se non che il danaro lo aveva il Vitali. E il Vitali negava.
Che cosa fare? Armato di tutto punto e forte di mille spedienti contro un uomo giovine, il quale si combatte nel rigoglio di tutti i suoi affetti, buoni o malvagi, l'astuto Bonaventura era impotente, o quasi, contro un vecchio come il Vitali. Non c'era altro che una speranza, poggiata sulla paura che il vecchio Vitali aveva grandissima della morte, e sul terrore che gli metteva addosso il pensiero della dannazione dell'anima. Senonchè, fino a tanto si sentiva in gambe, non c'era verso di cavarne un costrutto, e le fiamme dell'inferno, che gli davano molestia quand'era ammalato, gli sfioravano a pena la cute, quando era sano ed aveva fatto una buona digestione.
Il signor Giovanni Vitali era stato nella sua giovinezza un libero pensatore de' suoi tempi, che aveva letto il Voltaire e citava il __Dizionario filosofico__ con tutte le sue celie da scomunicato. Ma egli ci aveva pure una religione, quella dell'oro, che è maestra e consigliera di tutte le altre. In Turchia, per far quattrini, non avrebbe tardato a diventare un fervente seguace del Corano; da noi, per la stessa ragione, si acconciò all'andazzo dei tempi e diventò una creatura dei Gesuiti. Questa è una strada che molti hanno fatta, antichi miscredenti, ai quali ha messo conto venire a patti e aprir banco di mercatanti sulla gradinata del tempio.
Ora questo signor Vitali, che s'era ingrassato alle spalle della Compagnia, non voleva restituire il mal tolto. Il padre Bonaventura, che conosceva i suoi polli, aveva fatto il disegno di levargli le forze, e (ci si condoni la frase, perchè qui viene a taglio davvero) di accarezzargli una cronica malattia in cambio di combatterla, affinchè, spossato e pauroso della morte, consentisse di buona voglia a far testamento, a pagare con qualche milione la sua pace con Dio. Ed è agevole il vedere come, con l'aiuto del discepolo Collini, il padre Bonaventura avesse avviato per bene il negozio, che Aloise di Montalto (caso non preveduto) gli cominciava a guastare.
C'era dunque assai più di un furbo volgare sotto quella giubba nera che teneva apparenza mezzana tra il laico e il cherco. C'era infatti il generale d'un corpo d'esercito, mallevadore di tutte le sue operazioni, colla sua fama a repentaglio innanzi a que' giudici severi della Compagnia di Gesù. La voluttà del combattere e l'agonia del vincere, levavano il padre Bonaventura molto più su di tutti i suoi compagni e di tutti quei miseri strumenti che egli educava al proseguimento dell'opera comune e delle loro private ambizioni.
Il lettore non reputerà che noi ci siamo dilungati troppo in questa sposizione, la quale vuol essere considerata come una di quelle chiavi di ferro che sono necessarie a stringere insieme le parti di un edifizio. E noi d'altra parte non potevamo farne senza, per le necessità del nostro racconto.
—Oh! siete voi?—esclamò il padre Bonaventura, voltandosi al rumore dei passi, e riconoscendo il Collini.
—Sì, padre mio, e vi porto molte novità.
—Davvero? Mettetele fuori!—
Così dicendo, il padre Bonaventura s'era rimesso a sarchiellare il suo orticino.
—Tengo finalmente nel pugno il Salvani!—disse l'altro, cominciando __ex abrupto__.
—Bene! ottima preda!—rispose il padre Bonaventura.—E in che modo?
—Sono padrone del suo segreto.
—Di bene in meglio! E qual è questo segreto?
—Egli si è gittato a capo fitto nelle imprese dei rompicolli. Costoro vanno maturando una rivolta, e il Salvani è tra i primi.
—È tutto qui?—chiese il padre Bonaventura con quell'aria sbadata che aveva assunta fin da principio.
—O che?—esclamò meravigliato il Collini.—Non vi pare che basti?
—Per che farne?—ribattè il padre Bonaventura, stringendosi nelle spalle.
—Per che farne, voi dite? Per andare a Palazzo, avvisarne le autorità, e quando costoro siano invischiati per bene, farli cogliere e mettere in gattabuia.
—Benissimo, Collini! Aspettare che siano caduti in trappola…. che non possano più dare indietro…. Sì certo, è un accorgimento di buon conio; ma chi vi dice che le autorità non ne sappiano quanto voi?
—Oh, è impossibile che ne abbiano sentore. Fino ad ora non c'è nulla di fatto; sono discorsi accademici, tra i caporioni, i quali non li hanno certamente lasciati trapelare.
—Sì, lo so che non c'è nulla di fatto….—soggiunse il padre
Bonaventura.
—Lo sapete?
—Sicuramente; perchè farne le meraviglie? Voi pagate per sapere; io so senza pagare.
—Come? da chi?
—Da quel tale che spaccia queste primizie a voi. Non forse per mezzo mio avete conosciuto quel fior di donna della signora Momina, e quel pendaglio da forca di suo marito? La signora, parlandomi di molte cose, mi ha toccato anche delle vostre confabulazioni col Bello. Io le ho detto che non se ne avesse a stupire; che si trattava di cose innocentissime, per non guastarvi il negozio. Il Bello poi mi ha parlato schiettamente, sebbene abbia negato di ricever denaro da voi. Ma io conosco il galantuomo! Ditemi, Collini; quanto avete dato al Garasso, per cavarne questi segreti?
—Dugento lire.
—È troppo salato, il vostro segreto. Io invece so tali cose del Garasso, che egli viene da me come la biscia all'incanto, e mi spiffera tutto, parendogli grazia che io voglia star zitto sui fatti suoi.
—Ma io non sapevo nulla di ciò;—sì provò a dire il Collini, mortificato.—Voi, padre mio, la sapete più lunga….
—Del diavolo, volevate dire? Sia pure. Il Garasso, tanto che lo sappiate, ha dimestichezza con una certa combriccola di ladri, che la Questura non è anche venuta a capo di scovare, e tiene il sacco a costoro, nascondendo o facendo vendere alla cheta qua e là i frutti della loro industria.
—Che cosa mi narrate voi mai, padre Bonaventura! E coi guadagni che farà certamente in questo ramo di commercio, ha egli bisogno di giuocare? Io so che il suo denaro egli lo manda a male a picchetto e a biliardo.
—Lo sapete! Ve lo avrà detto egli. Io so invece, e l'ho di buon luogo, che non è un giuocatore sfortunato. Il biliardo e qualche partita a picchetto non sono poi la botte delle Danaidi. C'è anzi qualche luogo riposto dove si giuoca alla carrettella e alla __roulette__, e dove il Garasso ha trovato il filone di una miniera; ma ci vuol altro a saziare le voglie della Violetta!
—Della Violetta? Chi è questa Violetta?
—Ah, non lo sapete? È una mala femmina, molto bella e molto capricciosa. Si fa chiamare così, per scimiottare quella tal donna che hanno messa sul teatro.
—La __Traviata__?
—Sì, che è una figlia naturale della __Signora delle Camelie__.
—E voi dite che il Bello….
—È innamorato fradicio di questa donna, e tutto il danaro che egli ruba agli altri, passa per le mani della Violetta, come pel buco dell'acquaio!
—E la signora Momina non ne sa nulla?
—Bravo! se lo sapesse, gli caverebbe gli occhi. Quella vecchia peccatrice è pazza del marito, e gli dà anche una parte de' suoi denari, perchè la sfoggi cogli amici e tiri innanzi a volerle bene. Anche costei ci ha trovato la penitenza de' suoi peccati, in quel suo bel maritino; e chi sa che un bel giorno egli non le faccia scontare tutte le sue ladrerie!…—
Il padre Bonaventura faceva quel discorso edificante, in quella che proseguiva a sarchiellare i suoi orticini e a mettervi le sementi di lattuga. Era un uomo assennato, il padre Bonaventura, e soleva dire che chi ha tempo non aspetti tempo.
Il dottor Collini era rimasto muto, e tutto vergognoso in cuor suo per la soverchiante saviezza del maestro, il quale sapeva tante cose e cavava profitto da tutte.
—Eccovi dunque, mio buon figliuolo,—proseguì il gesuita,—in che modo io tenga stretto il Garasso, e perchè io abbia a così buon mercato i segreti che voi pagate così cari. Ma non ve ne date pensiero più del bisogno; tutti i giorni se ne impara una, ed io sono molto più innanzi di voi nella vita. Soltanto io vi raccomanderò di studiare, di non perdere una parola di tutto quello che udrete narrare da altri, sebbene a prima giunta non v'abbia a parere di molto rilievo. Non v'è nulla d'inutile a questo mondo, e presto o tardi ogni cosa viene in taglio. Sapete la storia del ferro di cavallo?
—Io no; che storia è questa?
—È una storia dell'Evangelio: di uno degli Evangelii apocrifi, intendiamoci bene; che non vorrei esser preso da voi per uno spacciatore di frottole ed un cattivo cristiano. Ve la racconterò, perchè mi pare che calzi mirabilmente al caso vostro.
—Raccontatela, padre mio, se è vero che io debba cavarne profitto.
—Una volta…. Come vedete, la storia incomincia al modo di tutte le altre. Una volta, nostro Signore (e così dicendo il gesuita si cavò umilmente la berretta di velluto) andava a diporto per un paesello, che non so bene se fosse Emaus, o Cafarnao, e gli veniva ai panni l'apostolo Pietro. Andando innanzi, quest'ultimo incespicò in un piccolo arnese di ferro che stava per terra, e chinati gli occhi a guardare, e veduto che era un ferro di cavallo, gli diede un calcio per buttarlo sprezzatamente da un lato della strada. Nostro Signore, che vedeva tutto, si volse e andò a raccogliere quel pezzo di ferro. Pietro, il quale a que' tempi non era ancora il principe degli Apostoli e quel valentuomo che divenne poi, crollò le spalle, come se quella del maestro fosse stata una fanciullaggine. Ma il maestro non disse nulla, e come furono giunti dinanzi alla bottega di un maniscalco, vendette quel ferro di cavallo per due soldi, che gli servirono poco stante per comperare una manata di ciliegie.
—È una graziosa storia!—esclamò il Collini, ridendo.
«—Statemi a sentire, che viene il buono: Pietro non aveva badato più che tanto a quei traffichi, e quasi rideva sotto i baffi di quella lezioncina del maestro, la quale non gli pareva poi molto rilevante. Ma egli avvenne poco dopo che dovessero fare una lunga strada in un luogo deserto, sotto il flagello del sollione. Pietro si lagnava dell'arsura, e non si sentiva più gambe da tirare innanzi.—Se trovassimo una fontana!—diceva egli tra sè. Ma la fontana non c'era, e il povero apostolo moriva di sete. Ma vedete miracolo! Andando con gli occhi bassi e la lingua penzoloni, alla guisa dei cani, vide a terra una ciliegia; la colse e se la mangiò con un gusto da non dirsi a parole. Più oltre gli avvenne di trovarne una seconda, poi una terza, una quarta e via discorrendo, le quali andavano tutte a rinfrescar l'ugola arsiccia dell'apostolo. Sapete il proverbio, Collini?
—Una ciliegia tira l'altra;—rispose il discepolo;—è questo il proverbio al quale accennate?
—Sì, per l'appunto. Una ciliegia tirava l'altra, perchè la tasca di nostro Signore era bucata, e le ciliegie cadevano sempre, senza che egli avesse aria di addarsene. Quando non vi furono più ciliegie, erano giunti al loro destino: Pietro non pativa più la sete, e sebbene non ardisse parlare, ringraziava in cuor suo la previdenza del Maestro. Questo allora sorridendo si volse e gli disse:—O Pietro, uomo di poca fede, crederai tu ora che non c'è nulla di inutile a questo mondo, e che anco un ferro di cavallo, trovato in mezzo alla strada, può giovare a qualcosa?
—L'apologo è bello,—disse il Collini, chinando il capo, ed io voglio farne il mio pro'. Ma intanto, facessi male, o no, a pagare così profumatamente il Garasso, questo Salvani è in nostro potere.
—Non lo nego. Io già ve lo avevo detto là sulla spiaggia di San Nazaro: tutti costoro daranno nella pania da per sè. Sono scapati, pieni di fumo e di vento, e noi potremo, quando ci paia, farli ballare sulla croce di un quattrino. Ma credete voi ora non ci sia nulla, proprio nulla di meglio da fare?
—E che cosa?—esclamò trasognato il Collini.
—Prendete questo cannocchiale.
—Per che farne?
—Ora vedrete. Aggiustate le lenti alla vostra veduta a guardate laggiù, su quel tetto aguzzo, che cade appunto nella visuale del Molo vecchio.
—Vicino al porto?—chiese il Collini, guardando.
—No, molto più vicino a noi. Quando vi dico che casca nella visuale del Molo vecchio, gli è per farvi intendere la direzione. Vedete su quel tetto aguzzo un terrazzo con quattro pali verdi sugli angoli?
—Ah sì, presso il campanile delle Vigne.
—No, più a sinistra. C'è anco in un cantuccio una pianta stecchita, che a guardarla così senza cannocchiale sembra un gran ramo secco, ed è in quella vece un pèsco od un mandorlo, come potrete vedere dai fiori che ha messo.
—Sì, sì, vedo; c'è anche una donna su quel terrazzo.
—Molto bella, non è vero?
—Sì, molto bella. E chi è?
—Non capite. Quella è la casa di Lorenzo Salvani.
—Ah!—disse Collini.—Sua sorella….
—Sua sorella!—esclamò con piglio ironico il padre Bonaventura.—Lo dicono; ma non è sua sorella.
—Oh oh! Un altro segreto?—soggiunse il dottore, levando il cannocchiale dagli occhi e guardando il maestro.
—Perchè no?—rispose questi.—Ce n'ho di molti, io, e vi so dire che escono tutti a suo tempo dal bossolo.
—Voi dunque dicevate che non è sorella del Salvani?
—No, certo; ma il dirlo non basta, e bisogna averne in mano le prove. Quella bella fanciulla che vedete lassù, intenta a gettar le briciole di pane ai colombi del vicinato, fu condotta dal padre Lorenzo Salvani in casa della moglie, che poteva avere otto anni, o in quel torno. Taluni credettero che fosse il frutto di un amorazzo del colonnello rivoluzionario; ma questa era un'invenzione delle male lingue, ed io so che la fanciulla non è in nessun modo consanguinea del vostro signor Lorenzo.
—Il mio!—borbottò il Collini tra i denti.—Così diceste il vero!…
—Sarà, sarà, non dubitate, uomo di poca fede! Ma pensiamo ai modi. È una buona e savia giovinetta, quella che vedete, ed io so ancora di certi misteri domestici che le tornano ad onore grandissimo. Insomma è l'angelo di quella casa, e occorre levarla di là, combattere l'avversario nel suo campo.
—E come fare?—chiese il Collini che stava con tanto l'occhi a guardare il maestro.
—Eh! bisognerà scoprire anzitutto il segreto di quella nascita. C'è in casa Salvani un certo cofanetto d'ebano nel quale potremmo trovare il fatto nostro; ma quel cofanetto è molto ben custodito; e per averlo in mano….
—Qui sta il busilli!
—Sicuro, il busilli sta qui; ma è già un gran che averne scoperta l'esistenza.
—Certo, padre mio; ma in che modo avete potuto trapelare tutto ciò?
—Questo, poi,—disse il padre Bonaventura inarcando le ciglia e stringendo le labbra con aria di sussiego,—è il mio segreto. Io ve ne ho già detti tanti in mezz'ora, che non ve l'avrete a male se vi tacerò questo.
—Avete ragione, vogliate perdonare. Ma non sapete altro finora, di questa fanciulla? Non avete sospetto di nulla intorno all'esser suo?
—Eh, in quanto ai sospetti, sì certamente ci ho i miei! E se fossero fondati sul sodo, io metterei pegno di poter toglier la ragazza da quella casa. Ma per esserne certo, occorre mettere il naso in quel benedetto cofano.
—E questi sospetti si potrebbero sapere? Sarebbe questo per avventura un altro dei vostri segreti, padre mio?
—Vi siete apposto; è un altro de' miei segreti, e ve ne starete a becco asciutto per ora.
—Oh! non mi preme punto di sapere il vostro segreto;—rispose il Collini.—Purchè io mi vendichi, non ho altro da chiedere. Voi non sapete, padre mio, quanto mi crucci questo pensiero, e che inferno mi sia diventata la vita, aspettando il giorno che mi vengano sotto le mani costoro!…
—Adagio, Biagio!—interruppe il padre Bonaventura.—Non vi scaldate così per tempo. Una cosa non può stare senza l'altra, e la vostra vendetta non può scompagnarsi, per correre più spedita, dallo adempimento del debito vostro.
—E l'ho forse dimenticato, il mio debito?
—No, figliol mio, non lo avete dimenticato; ma si può dire che lo trascuriate un tantino. Avete veduto il Vitali?
—Sì, l'ho veduto ieri. Perchè mi fate questa dimanda?
—Non avete notato,—proseguì il padre Bonaventura, senza aver l'aria di rispondere alla inchiesta del discepolo,—come il vecchio sia indurito nel peccato…. e nella sanità di corpo?
—Eh, certamente l'ho notato; ma che farci? Quel vecchio ha una complessione più salda che non paresse da prima. La dieta rigorosa e l'estratto di acònito stentano ad infiacchirlo.
—Ah! ah! Voi dunque portate opinione che la sua resistenza al male e ai rimedii sia proprio l'effetto della sua complessione robusta?
—Sì, lo credo; e che cosa volete che sia?
—Buon uomo! tre volte buono!—esclamò il gesuita.—E poi dicono che siete un gran medico!…
—Padre!—rispose il Collini, rizzando il capo con aria di corruccio.
—Suvvia, non andate in collera! Voi altri medici sapete sempre in un modo o nell'altro tirar l'acqua al vostro mulino, e capacitarvi anche di tutto quello che ha minore apparenza di ragionevole. Ma io, vedete! io, che non so un iota di ricette, vi so dire che gatta ci cova, e che il vecchio ci sfugge di mano, se non ci mettiamo tutta quanta la nostra avvedutezza.—
A quelle parole del padre Bonaventura, il Collini diede uno sbalzo indietro.
—Che dite mai?—gridò egli.—E come potrebbe avvenir ciò? Donde cavate questa vostra congettura?
—Da certe mie considerazioni, le quali giudicherete da per voi. Ascoltatemi. Sono oramai parecchi giorni che il Vitali sta più contegnoso del solito, e, cosa strana, non si fa più pregar tanto, quando si tratta di mandar giù qualche cucchiaiata della vostra emulsione. Anzi, per dirvela schietta, ogni qual volta io gli consiglio di bere, si affretta a prendere, non una, ma due dosi (scusate se non vi so parlare con le frasi dell'arte) e di sovente me ne domanda una terza. Ora, questo fare mi ha dato nel naso, e ier l'altro appunto ho voluto indagarne la cagione, se mi fosse dato trovarla. Avevo l'aria di uno sbadato, e guardavo, dondolando la testa, gli affreschi del soffitto; ma con la coda degli occhi stavo attento all'infermo. Vorreste crederlo? Quel manigoldo mi guatava con que' suoi occhietti di cinghiale, e pareva farsi le beffe del fatto mio. Oh, qui c'è del buio,—dissi tra me,—e bisognerà vederci dentro.
—Ma perchè non dirmi nulla?—soggiunse il Collini.
—Perchè? Perchè non volevo dir quattro, fin che il pan non era in sacco. Anzitutto mi bisognava chiarire il sospetto. Sapete già, figliuol mio, che io sono l'uomo dei sospetti. Che diamine! Il mio buon Collini lo ha ridotto allo stremo con le mignatte, l'estratto di acònito e la fame, e il catarro cronico, in cambio di durare, vuol mentire al suo nome? E l'ammalato sta saldo e se la ride per giunta? perciò mi sono messo a studiare….
—E che cosa avete scoperto?
—Nulla, allora; ma ieri sera qualche cosa. Erano forse le undici, ed uscivo dalla casa del vecchio. In cambio di volgere per la via della Maddalena e ridurmi a casa, tirai innanzi dalle parti di Fossatello, per un mio negozio, anzi appunto per la faccenda di quella ragazza che vedete là sul terrazzo. Spesi forse un'ora; e al ritorno, mentre ero per risalire nella via di San Luca, vidi uscire dal portone di casa Vitali due persone, le quali vennero incontro a me con passo spedito. Io mi feci da un lato, e siccome nulla è inutile a sapersi, li guardai un po' nel mostaccio. Ora indovinate chi fossero! Aloise di Montalto, e quel tal mediconzolo che lo accompagnava nella gita di San Nazaro.
—Chi? Il Mattei?
—Sì, appunto il Mattei. Figuratevi come rimanessi di stucco! Essi non mi riconobbero, anzi non guardarono neanche dalla mia parte. Ah, questi signorini sono pure scapati! S'argomentano di far la guerra, e non ne sanno i primi rudimenti. Hanno letto le storie moderne dell'America e dell'India, e non ricordano gli accorgimenti sottili delle __Pelli rosse e dei Thugs__, pei quali un ciottolo smosso, un filo d'erba piegato, sono indizio del passaggio di un nemico. Perchè vivono in un paese civile, costoro non pensano che ci sia da studiare il terreno, e da guardare, verbigrazia, ogni volto di persona in cui s'avvengono di nottetempo. Povera gente! Perciò sono sconfitti, e la loro baldanza va in fumo.
—Ma come mai,—disse il Collini,—come mai il Montalto e il Mattei avevano da trovarsi colà? Non è nemico del nipote, il vecchio Vitali?
—Anch'io dissi tra me; come mai?—proseguì il padre Bonaventura.—Ma a questo mondo bisogna aspettarsene di tutti i colori. Qui, pensai tosto, qui s'ha da trovar la chiave del segreto. Il vecchio che sta saldo e se la ride alle mie spalle; Aloise che esce di notte dalla casa del nonno, dove è certamente entrato alla cheta, appena ne sono uscito io, e che si fa accompagnare da un medico…. Qui giace nocco! Ora non è da cercare perchè fu fatta la pace; piuttosto è da sapersi in che modo.
—Sicuro!—interruppe il Collini.—È da sapersi in che modo.
—E come ve la cavereste voi, figliuol mio? Sentiamo un po' il vostro consiglio.
—Il vecchio,—soggiunse il Collini,—non può' muoversi dal letto, e di questo non possiamo dubitare. Egli ha dunque avuto bisogno di un intermediario.
—Benissimo!—esclamò il padre Bonaventura, accennando del capo.
—E bisogna trovare questo intermediario;—aggiunse il Collini.
—Arcibenissimo! Voi volete andar molto innanzi, col vostro ingegno.
Ma chi potrà essere questo intermediario del malanno?
—Un servitore, di certo.
—__Optime__! E questo servitore qual è? Il vecchio Vitali ne ha tre, senza contare la governante.
—Ah! qui, padre mio….
—Qui vi casca l'asino, non è vero? Io invece vi dirò che ha da essere il servo prediletto, quello di cui si fida maggiormente, e quello che gli ruba di più.
—Ma se v'ingannaste?…—disse con esitanza il Collini.
—Oh, non abbiate paura. Tra i servitori c'è sempre quello a cui mette più conto accattarsi la benevolenza del padrone, e qui non si sgarra. Per fortuna anche noi ci abbiamo il nostro tornaconto a invigilare i servitori come i padroni, e messer Battista vedrà com'io so aggiustarlo pel dì delle feste, se per avventura si mette a farmi l'indiano.
—Ah! il Battista!…
—Certo, il Battista; e chi altri volete che sia?
—Avete ragione, padre mio; andiamo dunque; non c'è tempo da perdere. E quel figuro del Mattei, che mi vien sulla mano? Non è un trattar da collega, il suo, e bisognerà che io gli renda pan per focaccia.
—Sì, come vorrete;—rispose il gesuita.—Intanto c'è da parare il colpo di questi signori, e questo, appena io abbia dette due paroline al Battista, sarà compito vostro. Siete un valente medico, e non dovete fallire al vostro buon nome.
—Oh, in quanto a ciò, se voi avete il modo di guastare il tranello di que' signori, abbiatelo per cosa fatta.
—Ed io vi prometto che vi darò tanto in mano da vendicarvi dei vostri nemici; parola di Bonaventura Gallegos. Andiamo dunque.—
E così dicendo, il padre Bonaventura, degno concittadino di Torquemada, come i lettori hanno già indovinato dal suo cognome, andò a lavarsi le mani sotto lo zampillo di acqua che mandava per le nari il delfino della vasca; poi prese il suo cannocchiale e precedette nelle sue stanze il discepolo.
Qui si racconta come il padre Bonaventura sapesse sfruttare le ribalderie de' suoi simili.
Intanto il vecchio Vitali, la mercè degli accorgimenti del medico Mattei, andava risanando ad occhi veggenti. Egli aveva l'aspetto più florido, e la tosse cominciava a recargli meno molestia; per le quali cose è agevole argomentare che l'animo, fedele termometro della sanità del corpo, gli si era sollevato di molto.
Battista, il maggiordomo, era poi entrato cosiffattamente nelle grazie del padrone, che questi gli aveva già fatto un bel regalo, e gli aveva promesso di largheggiare di più, appena si fosse alzato dal letto.
Aloise andava tutte le notti a casa del nonno, per accompagnare il Mattei. A quest'ultimo era doluto un poco di dover andare così di soppiatto a visitare il banchiere, sapendo egli benissimo che la consuetudine comandava un certo riguardo tra colleghi, e non permetteva che uno vogasse all'altro sul remo. Ma qui, più che altrove, era necessario opporre astuzia ad astuzia, e non si trattava punto di uno dei soliti casi, nei quali il timore di offendere un pregiato collega debba legar le braccia di un medico e vietargli l'uso del suo nobile ministero.
E poi, Aloise lo aveva tanto pregato! Il Mattei era uno spirito generoso, il quale già si mostrava degnissimo di quella fede universale che gli è venuta di poi, e di quella fama scientifica che egli ha di presente grandissima, in Genova e fuori. Però, alla guisa di tutti i nobili intelletti, egli cedeva al fascino di quell'animo gentile che era Aloise di Montalto; laonde per lui, più che medico, era amico, e il corso di questa narrazione lo dimostrerà anche più largamente ai lettori.
L'infermo era contento, e gli si leggeva negli occhi come gli andasse a' versi la cura del suo notturno Esculapio. Egli s'inteneriva perfino col nipote, e quasi piangeva al ricordo di Eugenia, la sua poco amata figliuola, la nobilissima madre di Aloise, mostrandosi pentito di non essere andato a darle l'ultimo bacio sul suo letto di morte.
E vedete un po' come entrasse la gratitudine nel cuore di un egoista! Egli era tornato, in un suo discorso con Aloise, sull'argomento dei quattrini, esortando il nipote ad accettare qualche regaluccio.
—Tu avrai bisogno di un bel cavallo;—gli aveva egli detto.—Alla tua età e col nome che porti, non s'ha da guardar tanto nel sottile. S'ha da spendere con riserbo, ma non s'ha per contro da dimenticare la dignità del casato.
—No, caro nonno,—aveva risposto il giovine;—vi ho già detto che non voglio nulla, perchè non ho bisogno di nulla. In quanto a cavalli, ci ho __Antar__, il mio sauro, balzano di tre, che non cambierei con nessun altro di maggior prezzo.—
E Aloise tenne fermo sul niego. Era una buona azione quella che egli faceva in casa del nonno, e la sua buona azione doveva esser pura d'ogni speranza, e perfino d'ogni sospetto di ricompensa.
Il dottor Mattei non voleva nulla neppur egli, ed aveva detto al banchiere, il quale avrebbe voluto almeno pagargli le visite:—No, signor Vitali. Se io fossi il suo medico, piglierei cinque lire per visita come un altro, e non un quattrino di meno. Ma sono in cambio un medico di straforo, e qui non fatico nemmeno per la gloria.—
Non c'era verso di far mutar pensiero a quei due. Il vecchio banchiere si trovava così di sbalzo in mezzo a due galantuomini, e gli pareva di sognare.
Ma gli altri non dovevano star molto a tornare alla riscossa. Lo
stesso giorno che avveniva il dialogo tra il Collini e il padre
Bonaventura, sul terrazzo di quest'ultimo, ambedue si recarono in casa
Vitali.
Il vecchio li accolse asciuttamente, siccome da parecchi giorni aveva uso di fare. Ascoltò i ragionamenti e le raccomandazioni del medico, le chiacchiere del Gallegos, e respirò soltanto appena vide che si congedavano.
Bonaventura vedeva tutto, notava tutto, epperò aveva notati anche i modi asciutti del vecchio banchiere; ma fece le viste di non badarvi, contento di saperne la cagione e di poter rimediare con un colpo maestro. Giunto nell'anticamera, pigliò il maggiordomo in disparte, e scambiò con lui queste parole:
—Battista, vi aspetto a casa mia, e subito.
—Per far che?
—Ho da parlarvi di cose gravi.—
Battista era uomo che capiva il latino; però, sebbene intendesse dove l'altro voleva andare a battere, stette saldo e rispose:
—O perchè non può Ella dirmele qui? Io ho da assistere il padrone, e non posso venire da Lei.
—Non potete?—disse ironicamente il padre Bonaventura, aggrottando le sopracciglia.
—Non posso,—ripetè Battista, rizzando il capo e facendo il muso lungo una spanna.
—Ah non volete venire? Badate, messer Battista! Ho da informarvi di certe cartelle di rendita che sono state vendute per venticinque mila lire; le quali venticinque mila lire sono state affidate, perchè fruttino, al banco Cardi Salati e compagni. O che? Non mi fate più cipiglio? La superbia è svampata tutta quanta?—
Altro che superbia svampata, come diceva padre Bonaventura! La faccia di Battista, a quelle parole, era diventata di tutti a colori, o temperanza di colori, dal bianco al pavonazzo. Egli balbettò alcune parole scomposte, e si lasciò cadere su d'una sedia.
—Non temete, Battista!—gli disse il padre Bonaventura con accento più rimesso e mettendogli una mano sulla spalla.—Se voi obbedirete, io sarò muto come una tomba. Venite dunque, io vado ad attendervi.—
Mezz'ora dopo. Battista, pallido e reggendosi a mala pena sulle gambe, entrava nello studio del padre Bonaventura, camera malinconica, coperta tutta intorno di scansie zeppe di libri, e senz'altro ornamento tranne un gran crocifisso che stava a piombo sulla scranna del gesuita, e che noi portiamo opinione avrebbe fatto assai meglio a cascargli addosso, in cambio di starsene appiccato alla parete.
—Battista,—gli disse il padre Bonaventura, alzando il capo dalla scrivania, e assumendo un'aria tra inquisitoria e patema,—io sono molto scontento dei fatti vostri.
—Signore!…—balbettò il maggiordomo.
—Voi tradite il vostro padrone:—proseguì il gesuita.—Sì, voi; non istate a farmi quelli occhiacci stralunati. Io lo so di buon luogo. Voi date il vostro padrone in balìa dei suoi nemici.
—E quali nemici può avere il mio padrone?—si provò a chiedere il maggiordomo.
—Meno chiacchiere! Voi lo sapete meglio di me. Il marchesino di
Montalto è tornato in casa di suo nonno, e voi lo avete aiutato a ciò.
E ditemi ora: quanto v'ha egli promesso di farvi lasciare, sul
testamento del vecchio?
—Signor Bonaventura,—rispose Battista, appigliandosi a queste ultime parole,—io non so che cosa Ella voglia dire….
—Badate, badate! Io so che ricevete tutte le notti il Montalto; e quando ve lo dico io….
—Non sa nulla del medico!—pensò in cuor suo il maggiordomo;—costui tira ad indovinare, ed io non sarò così bietolone da lasciarmele cavare di bocca.—
Fatta questa preparazione mentale, Battista si sentì più animo a rispondere:
—Non è vero!—
Ma il padre Bonaventura aveva meditata la sua progressione oratoria, e la dimenticanza del nome del medico non era che un artifizio retorico.
—Ah, non è vero? E come va dunque che egli ci si trova, e lo accompagna sempre il medico Mattei? Come va che voi andate a comprare altri medicamenti, secondo le ricette del vostro medico clandestino? Sareste per avventura sonnambulo, da non ricordarvi più di giorno quello che fate di notte tempo?—
Il maggiordomo non seppe più oltre schermirsi, e rimase muto, in quella che Bonaventura proseguiva la sua perorazione in questo modo:
—Voi siete su d'una mala strada, Battista. Vi mettete a tenere il sacco all'erede, prima che sia morto il nonno; al quale frattanto si abbrevia la vita con quelle medicine che non ardiscono mostrarsi alla luce del sole. Se fossero tali da risanare l'infermo, il vostro Montalto e il suo complice non si nasconderebbero nelle ombre della notte, e voi non vi fareste a mentire, a negar quello che io so, senza bisogno che lo confermiate voi.
—Orbene,—disse il maggiordomo, che non vedeva più scampo,—poichè Vossignoria lo sa, non c'è più ragione che io m'ostini a negarlo. Ma posso giurarle che io mi sono piegato per obbedienza al signor Vitali, e con idea di far bene. Il signor Aloise è un gentiluomo; il dottor Mattei è un medico molto stimato, ed io non posso credere che abbiano perversi disegni. Essi alla perfine non vorranno andar mica in galera!…
—Ah! ci andrete voi, messer Battista, se a me salterà il grillo di parlare delle vostre prodezze. Ricordatevi quello che io v'ho accennato testè nell'anticamera del signor Vitali, e che v'ha tirato qui tutto mogio e tremante. Dove avete rubato il denaro che sta a frutto per voi nel banco Cardi Salati?…
—Sono i miei risparmi;—rispose il maggiordomo turbato, che non si studiava nemmeno più di negare i fatti, tanta appariva la certezza del suo inquisitore.
—Ah, i vostri risparmi! E quando mai, in venti anni di servizio, con moglie e figli alle costole, si possono risparmiare venticinquemila lire? Voi avete quarantasei anni; siete maggiordomo da otto anni, e prima eravate un semplice valletto. Dove l'avete guadagnato quel gruzzolo? Probabilmente lo scrigno di casa Anselmi, donde vi hanno scacciato, senza farvi peggio (che l'avrebbero largamente potuto), ne saprà qualche cosa. Anche certa argenteria, mancata quindici anni or sono in casa Priamar, se potesse parlare ne direbbe di belle sul conto vostro; e finalmente uno studio accurato sui conti di casa del signor Vitali, che andate derubando a man salva da otto anni, metterebbe il suggello alla vostra probità esemplare. Orbene, messer Battista, osate dire ancora che sono i vostri risparmi?—
Ad ogni nuova ribalderia appostagli da quel giudice severo del padre Bonaventura, il disgraziato impallidiva sempre più; perchè le erano tutte autentiche, e meritavano di essere bollate davvero. Ma donde aveva potuto risaperle, il padre Bonaventura, tutte queste prodezze, che egli, il reo, credeva morte e sepolte da un pezzo? Certo egli era un negromante, che se la intendeva con gli spiriti maligni. Però la testa gli girava come un arcolaio; sentiva alle tempie il sangue picchiar nelle arterie; la camera gli si allungava stranamente davanti agli occhi; la persona del suo inquisitore si rimpiccioliva, in quella che la voce di lui gli suonava cupa e minacciosa come rombo di temporale in lontananza.
L'interrogazione beffarda, con cui il padre Bonaventura chiuse il discorso, comandava una risposta sollecita, e Battista dovette alzare il capo, mostrando una faccia così livida che mai la somigliante non fu veduta davanti ad una Corte d'Assise. Lo sciagurato cadde ginocchioni e, giungendo le mani in atto supplichevole, gridò:
—Signore, ho moglie e quattro figli! Per carità non mi rovini!…
—Sì,—continuò l'altro, per dargli il colpo di grazia,—avete una moglie che va attorno, vestita di seta e di velluto. In casa vostra si fa scialo d'ogni ben di Dio. Vostra figlia, la maggiore, ne fa di tutti i colori, sotto quello di trovare un marito. Ecco i vostri guai, le vostre disgrazie! E per sovramercato, ci avete venticinque mila lire da mettere al dodici per cento, presso gli usurai che ne cavano il cinquanta. Una entrata sicura di tremila lire all'anno…. eh, non c'è male! Senza contare quello che guadagnate onestamente, e quello che pensate di arraffare ancora…. Perchè voi, signor Battista, non siete uomo da volervi fermare a mezza strada; non è egli vero?
—Signor Bonaventura, per carità…. per tutto quello che ha di più sacro in questo mondo, non mi rovini! Sono padre di famiglia…. Le dirò tutto…. Le racconterò tutto quello che desidera sapere da me….
—Che cosa volete narrarmi che io non sappia a menadito?—ribattè il padre Bonaventura.—Ma via, raccontate pure; dalla vostra schiettezza argomenterò se meritate che io vi usi misericordia.
—Oh, non dubiti, Vossignoria!—gridò il maggiordomo.—Non dimenticherò una parola. Il signor Vitali fu quegli che mi mandò a cercare il nipote, ed io l'ho obbedito. Saranno adesso venti giorni da quella notte che il marchese di Montalto è venuto in casa, e s'è rappattumato col nonno. La notte appresso tornò, insieme col medico Mattei, il quale ha esaminato l'infermo e la cura del signor Collini. Il signor Giovanni, non so perchè, non aveva più fede in quest'ultimo.
—Ah, ah!—esclamò il padre Bonaventura.—E che cosa gli hanno detto quei bravi signorini?
—Che la cura era sbagliata. Anzi, a dirla schietta, il signor Aloise pareva che sospettasse della onestà del medico Collini, come ho potuto argomentare da certe sue parole. Insomma, che le dirò? hanno ordinato, lì su due piedi, una cura diversa.
—Lo so, lo so. Ma come hanno potuto venirne a capo, se l'infermo continuava a bere della solita pozione?
—Oh, questo si fece per darla ad intendere. Il medico Mattei ha levato l'acònito dalla emulsione del Frank. Io seguitavo a comperarne, giusta la ricetta del signor Collini, ma la gettavo via subito, mettendo nella boccia quell'altra più semplice, o più innocente, come la chiamava il dottor Mattei che l'aveva ordinata. Questo, come le ho detto, era un artifizio perchè durasse l'inganno.
—Ma qui non è tutto, certamente!—esclamò il padre Bonaventura, piantando gli occhi addosso alla sua vittima, come se volesse divorarsela.
—Sì, c'è il rimanente. Hanno levato il signor Giovanni dalla dieta, raccomandando che fosse nutrito di cibi succosi, dandogli anche a bere del vino con infusione di china. Ed ecco in qual modo lo hanno sollevato dalla sua fiacchezza.
—Volete dire che lo hanno tirato più presso alla sepoltura,—interruppe il gesuita.
—Questo poi non lo so; non avrei mai potuto immaginarlo;—rispose il maggiordomo, facendosi incontro alla ipocrisia del padre Bonaventura.—Anch'io me ne stavo all'apparenza.
—E l'apparenza inganna!—soggiunse il gesuita.—Voi per esempio, messer Battista, ne siete la prova lampante. Chi al vedervi, non vi direbbe un onest'uomo?—
Battista chinò il capo e non rispose nulla.
—Ma via, a tutto c'è rimedio. Avete confessato il mal fatto; ed io voglio usarvi misericordia, se mi promettete di attenervi ai miei comandi.
—Son pronto a tutto!—rispose umilmente Battista.
—Orbene, aspettatemi un po'.—E così dicendo il padre Bonaventura si alzò, e corso all'uscio, disparve, lasciando il povero maggiordomo pauroso ed incerto in mezzo alla stanza.
Il dottor Collini stava in quell'altra camera dove il padre Bonaventura era andato a cercarlo, e tenendosi presso all'uscio aveva origliato tutto quel dialogo. Però egli non ebbe mestieri di molte spiegazioni del maestro, per dirgli con accento di sicurezza:
—Non dubitate, padre mio; ho già rimediato a tutto, purchè quest'uomo voglia servirci.
—In quanto a ciò, ve ne sto io mallevadore. Venite dunque.—
Ed ambedue entrarono nello studio, dove ebbero col maggiordomo del signor Vitali una conversazione edificante, la quale i nostri lettori avranno soltanto ad indovinare, da quello che ne avvenne di poi.
Dove si chiariscono gli effetti della contromina.
—Padre, mi sento assai male.
—Eh, lo vedo, lo vedo pur troppo dagli effetti. Ma che cosa si sente?
—Un grave ingombro allo stomaco; non posso più digerire. La tosse mi molesta da capo….
—E che cosa ne dice il suo medico? Egli sarà certamente uomo di sua confidenza.—
Il vecchio Vitali a queste parole mandò un lungo sospiro, che gli fu interrotto da un assalto violento di tosse; laonde il padre Bonaventura si alzò per andargli a mettere con piglio affettuoso una mano sulla fronte.
Dodici giorni erano passati dal dialogo avvenuto tra il gesuita e il maggiordomo del Vitali; dodici giorni assai bene spesi, poichè, mentre il padre Bonaventura e il Collini, simulando lo sdegno, non s'erano più lasciati vedere in casa del vecchio banchiere, la sua salute, in cambio di seguire quel miglioramento che s'era avverato da principio, andava peggiorando rapidamente.
Il Mattei ed Aloise di Montalto non sapevano indovinare le cagioni di quel mutamento. Pensarono un tratto che il diavolo, per opera de' suoi bravi sergenti, il padre Bonaventura e il Collini, ci avesse messo la coda; ma in che modo? Questo era il difficile. Ambedue s'erano licenziati dalla casa del Vitali, facendo dire al vecchio che gli aveva offesi, col mostrare di non aver più fede in essi, e il maggiordomo Battista si lagnava forte di essere stato maltrattato da ambedue, come la prima cagione di tutto quel guaio. Ora, come poteva il Mattei, come poteva Aloise indovinare che il Battista fosse di balla con quei due, egli che appunto aveva largamente aiutato i nostri giovani nella loro opera di misericordia?
Però il Mattei andava da parecchi giorni almanaccando di guasti organici e d'altri malanni inerenti alla natura del vecchio banchiere; vigilava egli stesso i rimedii, e raccomandava al Battista di attenersi fedelmente a' suoi comandi, così nel ministrar le pozioni, come nella misura del cibo; e aspettava intanto che tutti quei nuovi sintomi gli dessero il bandolo della matassa.
L'infermo frattanto, condotto alla peggio dai celati maneggi del Collini, ai quali aiutava il maggiordomo, fedele esecutore di tutti i suoi iniqui comandi, inasprito contro il suo nuovo medico dalla ostinatezza e dall'accrescimento del male, insospettito per giunta di certe smorfie di malaugurio che Battista faceva, ogniqualvolta era solo con lui e gli occorreva di nominare il Mattei, cominciava a pentirsi d'aver sospettato del suo primo medico, e si lagnava di tutti.
Il momento era buono, e il padre Bonaventura ne approfittò, incalzando cosiffattamente per opera del suo fidato, che l'infermo mandasse a chiamar lui e il Collini, per iscusarsi con loro e scongiurarli della loro assistenza.
I lettori sanno già le prime parole scambiate tra il vecchio banchiere e il padre Bonaventura, in quella medesima camera dove li abbiamo un'altra volta introdotti.
—Signor Giovanni,—proseguì il gesuita, poichè fu cessato quell'assalto di tosse,—io non so proprio che dirle. Ella mi ha mandato a chiamare. Son qua. Che cosa dimanda Ella dai suoi nemici?
—Miei nemici?—chiese l'infermo con un gesto di meraviglia.—E può credere che io….
—Sì, credo che qualcheduno l'abbia data ad intendere a Lei. Ma io non me ne offendo, qualunque cosa Ella abbia potuto pensare di me. La religione m'insegna a perdonare le ingiurie, e come Ella vede, signor Giovanni, eccomi al suo capezzale quell'istesso di prima.
—Grazie!—mormorò tutto confuso il vecchio.—E il medico Collini?
—Il signor Collini non metterà molto a giungere; egli mi ha promesso di correr qua appena si sarà sbrigato di alcune faccende della sua professione. Ma, intendiamoci bene, egli verrà a vederla come amico, non già come medico.
—Perchè?
—Perchè? E me lo dimanda, signor Giovanni? Ella sa benissimo che il nostro ottimo amico, allorquando si fu avveduto che il signor Vitali non aveva più fede nel suo ingegno, nella sua perizia, e, diciamolo pure, nel suo cuore, che il signor Vitali aveva mandato a cercare un altro medico, dal quale si faceva visitar di soppiatto, ne fu molto addolorato e giustamente offeso.—
Il padre Bonaventura lasciava cadere queste parole con quella dolce lentezza che ognuno sa quanta forza accresca ai rimproveri; e il Vitali, così nominato ironicamente in terza persona, gli dava certe occhiate supplichevoli, con le quali aveva aria di confessare tutte le sue colpe.
—Mi perdonino!—esclamò egli finalmente.—Ero così fiacco! Non sapevo proprio che cosa facessi.
—E ora, di grazia,—proseguì il padre Bonaventura,—come si sente?
—Oh, peggio che mai! Dio mio, chi mi risanerà? Sono abbandonato da tutti!
—Tutti! Per carità, signor Giovanni, non sia così ingiusto verso gli uomini. E lo abbandonassero pure tutti quanti, forse che Dio non rimane? Dio non abbandona nessuno di coloro i quali si volgono a lui con purità d'intendimenti e intensità di desiderio. Provveda a' casi suoi, mio buon amico. È Dio, lo riconosca ora, è Dio, il quale si giova delle male arti dei tristi per darle un insegnamento efficace.
—Ah, padre! Ella dice benissimo. Ma come potrò risanare, se il signor
Collini non mi perdona?
—Intendiamoci!—rispose il padre Bonaventura;—il signor Collini le ha già perdonato. Egli sulle prime aveva giurato di non metter più piede in sua casa; ma io l'ho tanto pregato, segnatamente oggi, dopo che Ella ha mandato a chieder di noi, che egli si è finalmente piegato; e verrà appunto per salutarla, affinchè Ella non lo reputi uomo da tener astio nel cuore. Ora non crede Ella giusto che il signor Collini ricusi di occuparsi più oltre della cura? Vi sono consuetudini nell'arte medica, alle quali non si può contraffare, senza meritarsi il biasimo universale de' colleghi. Però, quantunque il dottor Mattei non si sia diportato molto cortesemente con lui, il nostro amico non vuole guastargli le sue faccende e lo lascia solo a curarla. Il dottor Mattei è un gran medico, a quanto dicono, e speriamo che la guarisca.—
Qui il solito piglio sarcastico mutava il senso delle parole; e l'infermo che si sentiva così giù dell'animo e del corpo, poteva intendere tutta la forza dell'ironia.
—Oh, non mi abbandonate!—diss'egli.—Io voglio, io desidero essere curato dal signor Collini.
—E allora non ha che una cosa a fare; liberarsi anzitutto dal medico
Mattei.
—È vero; ma come fare?—rispose il vecchio, alzando gli occhi angosciosamente verso il cielo.—Mio nipote….
—Suo nipote! E che ha Ella a temere di suo nipote?—gridò il padre Bonaventura.—Signor Giovanni, quando vorrà Ella intendere che i nostri parenti sono i nostri peggiori nemici? È una trista verità, dolorosissima a dirsi, e il nostro cuore d'uomini e di cristiani ricusa di acconciarvisi; lo so. Pure, è così. Costoro si accostano al nostro letto, non come amici, ma come eredi: sono iene che odorano il cadavere.
—Mio nipote,—rispose l'infermo,—non ha mai voluto un soldo da me.
—Artifizi, signor Giovanni. E che altro avrebbe ad essere? Egli alla perfine sa di essere suo nipote e di aver diritto alla sua eredità. Oh uomini, uomini! Ma noi, per quale tornaconto nostro ci siamo fatti ad assisterla? Le nostre ragioni sono note: di personali non ce n'è punto; si fa tutto per il trionfo della religione, e a questo sacrificheremmo ogni cosa, anche la nostra amicizia per Lei. Ella è convenientemente ricco, signor Giovanni, ed è pure delle sue ricchezze che io mi occupo, come di ogni altra cosa sua. Dio non le ha dato di ammassarle perchè vadano poi in mano di scostumati libertini. Ecco perchè Le raccomandavo di fare il suo testamento, quando Ella non era in pericolo di vita; ed ecco perchè la consiglierei ancora adesso a far ciò, se non reputassi debito mio operare diverso….—
A queste parole il vecchio banchiere aguzzò gli orecchi, e fece tanto d'occhi per guardare il suo interlocutore. Questi proseguì sulla medesima solfa, tra il dolce e l'amaro:
—Debito mio! Non lo so. Fors'anche m'inganno, e fo peggio. Ma Iddio mi è testimone della onestà dei propositi, e mi perdonerà se io commetto errore, non insistendo più oltre presso di Lei. Sì, signor Giovanni, ho pensato di non chiederle più nulla. Speravo che Iddio le avrebbe restituita la sanità in ricompensa delle sue buone opere; oggi in cambio lo supplico di concederle la grazia, senza che queste opere siano venute a far fede della sua pietà cristiana. Egli è grande e misericordioso, e la sua infinita bontà di sovente si compiace nello spargersi sui più ostinati peccatori.—
Il Vitali non rispose nulla a quella intemerata. Le parole erano amare, ma la sostanza era dolce. Il padre Bonaventura non gli chiedeva più che facesse testamento, e questo era il busilli.
Tuttavia, se non rispose al discorso di lui, fu sollecito a ricondurre la conversazione su ciò che più gli premeva.
—Padre,—disse egli,—mi consigli Lei. Come posso fare a mandar via quell'altro?
—Eh, se non vuol altro, la servo subito. Battista.—
E così dicendo il padre Bonaventura andò fino all'uscio della camera, per chiamare il maggiordomo. Battista fu pronto a rispondere, e come fu presso il letto del padrone, gli chiese che cosa volesse da lui.
—Quando verranno quei signori,—ammonì il padre Bonaventura,—direte loro che il signor Vitali non li può ricevere. Se vi chiederanno il perchè, risponderete essere desiderio del vostro padrone, avendolo espressamente raccomandato il dottor Collini, nel quale egli ha la massima fiducia.
—Sì, va benissimo;—soggiunse l'infermo, suggellando in tal modo la pensata del padre Bonaventura.—
In questo modo veniva fatto al gesuita di sgominare i disegni di Aloise e del suo amico Mattei. Costoro, entrati nella rocca minacciata del vecchio banchiere, avevano scavata con finissimo accorgimento la mina che doveva guastare il negozio agli assedianti. Senonchè il padre Bonaventura se n'era accorto in tempo, e aveva risposto con una contromina, tanto più efficace in quanto che era scavata all'ombra del maggiordomo confidente dei due amici, e loro unico aiuto in quella guerra di astuzie.
Poco dopo i comandi dati al Battista, giunse il medico Collini, e fu un ricambio di tenerezze tra lui e l'infermo. Nè mancarono le lagrime, sebbene il Vitali, giusta la natura dei vecchi, non ci avesse molta virtù nelle glandole lagrimatorie, e il Collini per contro avesse da lunga pezza inaridita la fonte degli affetti. Ma che volete? a pianger lagrime vere si suda; laddove ad infingerle, basta far greppo alla guisa dei bambini stizzosi, e spuntano tosto che la è una meraviglia.
Dopo le tenerezze dell'amico, vennero le dimande del medico. Il Collini, simulando di non saper nulla, chiese minutamente quali fossero e in che modo amministrati i rimedi del Mattei, e dopo aver dimenate a dritta ed a manca le labbra ad ogni risposta dell'infermo, aggiunse a mo' di conclusione:
—Sarà una buona scuola, non lo nego. Ci sono parecchi medici odierni, i quali stanno per la teorica del rinvigorire l'infermo. Ma, anche ammettendola, bisogna guardare se l'infermo può essere curato con quel metodo energico. Vedete, padre Bonaventura; qui, con tutte le loro novità, hanno complicato la malattia con un principio di gastrite.—
Era agevole al Collini lo inventare a sua posta, poichè i rimedi del Mattei erano stati da lui, complice il Battista, raddoppiati o guasti con nuovi ingredienti.
Il Vitali non perdeva una sillaba di quel dotto discorso, ed aspettava che, finita la diagnosi, il medico pronunciasse la sentenza. Nè il Collini la fece aspettar molto, e un raggio di contentezza rasserenò la faccia dell'infermo, quando udì che i mali effetti della cura sarebbero stati combattuti e che il Collini stava mallevadore del suo risanamento.
Erano tutti e tre in quei ragionari, allorquando entrò nella camera il maggiordomo con aria turbata.
—Che c'è di nuovo?—chiese sollecito il padre Bonaventura.
—Il dottor Mattei, che domanda di entrare,—rispose Battista.
—E non gli avete detto che il signor Giovanni non può riceverlo?
—Sì certo gliel ho detto. Egli è venuto in compagnia del marchese di Montalto, il quale, appena io gli ebbi risposto, si fece pallido in viso e volle andarsene. Ma il signor Mattei gli ha detto andasse pure, che in quanto a sè non voleva uscire senza prima parlare col padrone.
—E che cosa vuole?—ripigliò il padre Bonaventura, voltando in parola il gesto di meraviglia e di malcontento del vecchio Vitali.
—Non lo so;—rispose Battista.—Egli è qui in anticamera che aspetta.—
Il padre Bonaventura e il Collini si guardarono in volto, come per chiedersi a vicenda consiglio. Ma l'incertezza fu breve; imperocchè il gesuita, avvezzo a simiglianti battaglie, aveva già meditate tutte le conseguenze del fatto.
—Ditegli che entri;—soggiunse egli.
Poscia, voltandosi all'infermo, e presagli la mano, gli disse:
—Signor Giovanni, non abbia timore. Siamo qui noi ad assisterla. Se il medico Mattei s'argomenta di venir qui a farle rammarico, la sbaglia di grosso.—
Il medico Mattei entrò nella camera. Egli era pallido, ma composto nei modi e in apparenza tranquillo, sebbene i suoi occhi mandassero lampi di malaugurio per i due signori che stavano presso il Vitali.
Entrò con la fronte alta e con passo sicuro; girò gli occhi intorno, con piglio di alterezza, e accostatosi a' piedi del letto, col suo cappello in mano, incominciò a parlare in questa guisa:
—Signor Vitali, non si disturbi per questa visita che io le faccio contro il suo espresso divieto. Ho poche parole a dirle, e so molto bene come si debba parlare a persone rispettabili per la loro età e pel loro stato di salute. Nella accoglienza che mi è stata fatta testè sul suo uscio di casa, ho notato un tal po' di mistero, e nimico giurato qual sono del segretume, ho voluto chiarirlo, perchè non s'abbia a dire che sono stato discacciato da casa sua.
—Oh, non è stata questa la mia intenzione!—borbottò il Vitali.—La creda….
—Sta bene, sta bene!—interruppe il Mattei.—Ella sa che se io ho consentito a venir qui, fu perchè Ella stessa mandò a chieder di me, e mi supplicò di tornare ogni giorno, poichè le pareva di ritrar giovamento dalle mie cure. Forse lo aver accettato, mentre mi era noto che Ella era in mano di un altro medico, potrà dare appiglio a sospetti: ma di ciò non m'importa, ed io sarei lieto di renderne conto al signor Collini, se pure gli desse l'animo di domandarmelo. A quest'uopo saprei invocare il giudizio di onesti colleghi (che, la Dio mercè, abbondano nell'arte nostra), e non sarei io certamente colui che dovesse arrossire. Ora, ripeto, la mia cura avea fatto buona prova, ed Ella, signor Vitali, ebbe a ringraziarmene più volte. Tutto ad un tratto si mutano le cose; il signor Vitali, che andava risanando ad occhi veggenti, peggiora…. Che vuol dir ciò? Non mi curo di saperlo. Vedo questi due signori tornati in sua casa, e non mette conto che io cerchi altro. A Lei in cambio, signor Vitali, io debbo chiedere una schietta dichiarazione….
—Che cosa vorrebbe?—gridò il Collini, che si struggeva dalla rabbia.
—Non parlo con Lei, signore!—rispose Mattei con un'aria di spregio che fece chinar gli occhi a quell'altro.—Parlo col signor Vitali.
—Il signor Giovanni è molto fiacco,—soggiunse il padre
Bonaventura,—e non mi sembra opportuno che Ella venga ora a turbarlo.
—È tuttavia opportuno,—disse di rimando il Mattei,—che le loro Signorie si trovino qui a conciliabolo. Ora io ho soltanto poche parole da chiedere al signor Vitali, e faccio assegnamento sulla sua onestà perchè egli dica alle Signorie loro quanto mi abbia pagate le visite.
—Oh, nulla! nulla!—si affrettò a dire l'infermo, che era sulle spine.
—Orbene,—aggiunse con pari fretta il Collini,—il signor Giovanni sa il debito suo e sarà pronto a soddisfarla.—
Il Mattei fu ad un pelo di avventarsi al Collini e stampargli le cinque dita sul viso. Ma lui soccorse la prudenza, come Achille la dea Minerva, nel primo canto dell'Iliade. Tuttavia se egli, pensando al luogo dov'era, contenne la mano, non volle per fermo tacersi.
—Signor Collini,—diss'egli,—non mi pigliate per a pari vostro, vi prego; o ch'io sarò costretto a mostrarvi che non tratto soltanto la lancetta.—
Poi, volgendosi da capo al letto dell'infermo, proseguì:
—Non chiedo certamente di essere pagato per l'opera mia. Poichè, come ho già avuto l'onore di dirle, si ha l'aria di scacciarmi da questa casa, desidero si ponga in chiaro che io non ci venni per alcun pensiero di guadagno. Ed ora, signor Vitali, la riverisco e le auguro un sollecito risanamento…. se questi bravi signori glielo vorranno permettere.—
E buttate queste parole come una ceffata sul viso dei due, il dottor
Mattei se ne andò di quel passo con cui era venuto.
Il padre Bonaventura e il Collini erano rimasti mutoli, fortemente turbati per quella sfuriata del Mattei. Anche l'infermo era rimasto di sasso; non sapeva più a chi dovesse credere, e nascondeva il suo turbamento in un assalto di tosse.
—Signor Giovanni, si calmi, per carità!—gli disse finalmente il padre Bonaventura.—Non badi alle parole di quello screanzato.—
Contuttociò, il dialogo rimase freddo. Quella scena aveva tolte le parole a tutti; e poichè ebbero dato da bere al Vitali, il Collini e il Gallegos si accomiatarono da lui, promettendo che sarebbero tornati nella sera.
Uscirono taciturni, come già una volta dalla chiesuola di San Nazzaro. Ma fatte due scale, il padre Bonaventura si fermò, mettendo una mano sul braccio del discepolo, e gli disse:
—Abbiamo vinto a mezzo. Ora bisogna che il vecchio risani a volo.
—Sta bene; ma perchè?
—Perchè oramai questo Mattei ci terrà d'occhio. Abbiamo svegliato i mastini, e ci vorrà cautela. Anche il vecchio sta all'erta….
—È vero!—borbottò il Collini.
—Bisognerà dunque rinunziare per ora al testamento. Il Vitali deve aver piena fede in noi, e la otterremo facendogli ricuperare la salute. Io intanto provvederò ad altri spedienti; e anzitutto torremo di mezzo i mastini.
—Ah sì! questo è il più rilevante per ora. Ed io mi potrò vendicare finalmente?…
—Sì, certo, figliuol mio. So i segreti di Lorenzo Salvani; saprò quelli di Aloise da Montalto; bisognerà indovinar quelli della ragazza di casa Salvani…. Lasciate fare a me. Chi s'aiuta il ciel l'aiuta; e noi ci aiuteremo con mani e piedi, se occorre.—
Di un Don Giovanni da dozzina e delle pretensioni che aveva.
Dal bel principio di questo racconto si è fatto cenno di un Arturo Ceretti, figlio del padrone di casa del signor Lorenzo Salvani, notando che il giovinotto, salvo il nome attillato e profumato di Arturo, era tutto suo padre, il vecchio Nicola Ceretti di Molassana, antico muratore e capomastro arricchito. Aggiungeremo adesso che era bianco e roseo; che aveva il naso un po' stiacciato e gli occhi scerpellini, ma che i suoi capegli biondi erano sempre arricciati e lisciati; che era lungo, allampanato e discretamente ciuco; la qual cosa non si argomentava soltanto da due lunghi orecchioni che gli uscivano di riga ai due lati del volto.
Ora che l'abbiamo messo fuori, calziamolo e vestiamolo della roba sua; calzoni stretti di color grigio perlato, con le sue liste nere sulle costure; un abitino tra la giubba e il farsetto, di color caffè, i cui petti si abbottonavano a stento sull'alto del torace; un panciotto di velluto lavorato a scacchi rossi e neri, ed una cravatta di non sappiamo quanti colori. Una catenella d'oro a quattro file gli usciva da un occhiello del panciotto, la quale sosteneva parecchi ciondoli, gingilli ed altri picchiapetti, scendendo con una gran curva ad affondarsi nel taschino, dove era raccomandata all'anello di un orologio che il nostro Arturo faceva spesso vedere, col pretesto di guardar l'ora.
Nè vanno dimenticati gli anelli, che erano in buon dato, e se il nostro personaggio non ne portava ad ogni dito, come gli Assiri, ne aveva per contro due o tre ad un dito solo, tanto per non esser troppo da meno di quei popoli. Il nodo della cravatta era inoltre fermato da una grossa spilla ornata di brillanti. Il cappello era di feltro nero, come quello di tutti gli altri mortali; ma noi mettiam pegno che se il giovine Arturo Ceretti avesse potuto spiccare dal chiodo uno di que' cappelli d'oro che stanno per insegna sulle botteghe di certi cappellai, lo avrebbe volentieri portato.
Con tanto sfarzo, e con tanto sforzo di eleganza, il signor Arturo Ceretti non ci aveva altro di eletto che il nome. Voleva parere un damerino, e riusciva una figura grottesca; copiando dai re della moda non era mai vestito a modo. Il suo sarto s'era già parecchie volte sentito tenero di dirgli: per carità, la non confidi a nessuno che sono io che la vesto!
Ma adesso, dallo sfoggio degli abiti nessuno argomenti che il nostro Arturo fosse uno scialacquatore come tanti altri. Era anzi misurato in ogni cosa; non giuocava a nessun giuoco, e segnava sul taccuino le buone e le male spese, per tirar la somma alla fine del trimestre. Il trimestre era il concetto fondamentale della sua testa. Gli averi di mastro Nicola, suo rispettabile genitore, consistevano in otto o dieci case, le quali davano il frutto di un'ottantina di appartamenti; e lo davano, perbacco! I Ceretti, padre e figlio, non usavano concedere proroghe a' loro pigionali, nè condonare il fitto alla povera gente. Il trimestre era il perno di una ruota che girava di continuo, e i denti dovevano incontrarsi nelle pigioni anticipate; se no, la mercè dei soliti congegni, saltava fuori la citazione dal giudice.
Ora, siccome mastro Nicola sapeva leggere poco, e scrivere anche meno, il nostro Arturo teneva i conti, faceva egli stesso le scritte meglio di un notaro, e non gli sapeva male; che anzi ci aveva gusto. La protuberanza dell'abbaco doveva essere molto rilevata nel suo cranio, e, posta accanto a quella dell'egoismo, doveva formargli una specie di Parnaso, montagna poetica, la quale, se ben ci ricorda, aveva due cime.
E il fonte Castalio? diranno i lettori. Se il Parnaso c'era, il fonte non doveva mancare. Il fonte era degnamente rappresentato da una vena amorosa che spicciava sempre, sebbene non iscaturisse dal cuore. Ma che volete? Sotto l'abbaco e l'egoismo, vette nevose del suo Parnaso, quell'amorosa fontana non poteva dare acque limpide e salutari. Potete dunque argomentar di leggieri che amorazzi fossero i suoi. Correva dietro ad ogni femmina in cui si abbattesse per via; Don Giovanni di razza bastarda, passava il tempo a caccia di dubbie virtù, di bellezze da tanto alla giornata…. e condonateci la parola, che potremmo dir peggio.
Bisognerà tuttavia esser giusti. Arturo Ceretti era dolente di non aver tra mani selvaggina migliore, e si struggeva dal desiderio di esser prescelto da qualche gran dama. Piantato sull'angolo di una strada, in un crocchio di amici, vedeva passare le più lodate per bellezza, e le più tartassate per tutto il rimanente; ma per lui non c'era un bel nulla; doveva restringersi a contar le fortune degli altri. Teneva il suo scanno a teatro; e là, negli intermezzi del melodramma, ritto in piedi, con le risvolte dell'abito aperte, si atteggiava da conquistatore; ma ohimè! nessuna delle sospirate bellezze rispondeva da un palchetto alle guardate supplichevoli del suo cannocchiale, sebbene fosse incrostato di madreperla.
Ora indovinate a chi facesse l'occhiolino, costui! Alla fanciulla di casa Salvani. Come vedete, ci aveva buon naso. Qualcheduno gli aveva detto un giorno che la sua pigionale dell'ultimo piano era un fior di ragazza, e che egli certamente, da quel gran cacciatore che era, aveva dovuto porle gli occhi addosso, sapendo bene che non era sorella di quello spiantato del Salvani. Non era vero che egli le avesse posto gli occhi addosso; ma, con quel dargli la soia, gli amici lo avevano messo al punto. Da quel giorno il Ceretti si ficcò in capo che avrebbe potuto dar corpo alle celie dei compagni.
Maria non era sorella di Lorenzo; tutti lo dicevano. Che cosa era dunque, se non una amica? E se era un'amica, perchè non avrebbe egli potuto farsi innanzi? I quattrini, diceva Arturo Ceretti, son tutto; ed io ne ho, dei quattrini! Ora vedremo un po' se non si ha da venirne a capo.
Certa gente ha il privilegio dei mali pensieri. Chi mal fa, mal pensa, dice il proverbio. E il nostro Don Giovanni da dozzina aveva fatto un conto, come sanno farne i suoi pari.
Egli dunque faceva l'occhiolino alla ragazza, con quella sicurtà che è propria di certi figuri, e che cresce anzi in ragione diretta delle loro sconfitte. Ora immaginate come dovesse il nostro Ceretti essere sicuro del fatto suo! Non c'era verso che la fanciulla di casa Salvani lo guardasse in viso, sebbene le cento volte, come suo casigliano, egli si fosse messo in mostra, o nelle scale, o alla finestra del cortile, dove, la mercè di un gomito che facevano gli appartamenti, egli poteva vederla e farsi vedere di sbieco.
Questo giuoco durava da un pezzo, allorquando l'occasione si offerse al giovine Arturo di metter piede in casa della sua bella pigionale. Il giorno del trimestre anticipato era venuto, ma il dente della ruota non aveva nulla in cui potesse incastrarsi; il che, vuol dire che Lorenzo Salvani non aveva pagato.
Era quello il caso di mandare la citazione; ma per quella volta il meccanismo dei Ceretti si dipartì dalle sue astiose consuetudini. In cambio dell'usciere, andò il giovine Arturo, vestito con quella eleganza che i lettori conoscono, carico d'oro, di profumi e di smancerie.
E già s'intende che egli, per andare in casa Salvani, aspettò che Lorenzo non ci fosse; di guisa che gli venne fatto avere un primo colloquio con la bella Maria. E dopo il primo venne il secondo, il terzo e via discorrendo, perchè Lorenzo Salvani aspettava una certa somma di denaro, la quale non giungeva mai. Arturo dal canto suo non incalzava, contentandosi di spesseggiar colle visite. Maria non poteva lagnarsi dei modi riguardosi del padrone di casa, e in quanto alle occhiate, fingeva di non addarsene punto.
Il trimestre, che s'aveva a pagare anticipato, cominciava dal primo di aprile; ma tra questi indugi s'era giunti alla fine di maggio; laonde, se si aspettava ancora un po', c'era l'altro trimestre da mettergli accanto.
Lorenzo vedeva benissimo tutto l'orrore del suo stato; ma che farci? Egli era al lumicino. Aspettava certi denari da un tale che era debitore di suo padre, ma che faceva orecchi da mercante. Per colmo di sventura, da due mesi gli si era inaridita quella scarsa vena di guadagno che egli ritraeva dal bottegaio, a cui teneva i libri. Una sera, andando dal suo Creso per la consueta bisogna, il povero giovine aveva ricevuto il suo congedo.
—Perchè? non siete voi contento di me?—aveva egli chiesto al paffuto salsamentario.
—Dio guardi!—aveva risposto costui.—Mio nipote, che sa l'aritmetica, ha detto che va tutto a puntino, ed io poi non ho a lagnarmi di Lei. Ma che vuole? Mia sorella è vedova con tre ragazzi, e non ha chi le dia da vivere. Ella mi ha tanto pregato di pigliarmi il suo primogenito in bottega, che io non ho potuto dirle di no. Il sangue non è acqua! Il ragazzo è di buon'indole; sa il fatto suo, come ho detto, ed io, tenendolo qui in bottega, faccio, come suol dirsi, un viaggio e due servizi.—
Non era punto vero quello che il paffuto salsamentario diceva a Lorenzo con tanto candore, e il nostro giovinetto non poteva indovinare che sotto quel melato discorso ci fosse un tiro dell'uomo vestito di nero, dell'amico di Ernesto Collini. Giunto a trapelare la faccenda di quella tenuta di libri, lo scaltro Bonaventura aveva fatto dire al bottegaio non esser dicevole che egli tenesse a fargli i conti quel giovane, il quale aveva mano in certi garbugli politici, con quella gente che voleva rovesciare il governo, arruffare la cosa pubblica e dar di piglio nella roba altrui; però badasse egli alle cose sue e non si ostinasse a tenerlo presso di sè, che gliene sarebbe potuto derivare gran danno.
Questo discorso, dettato dal padre Bonaventura, era fatto al paffuto salsamentario da un suo vecchio compare, il quale gli aveva sempre voluto un gran bene, e col quale il bottegaio poteva aprirsi liberamente.
—Che diamine mi narrate voi mai!—esclamò il salsamentario, facendo gli occhiacci.—Io non sapevo che il signor Lorenzo fosse un briccone di questa fatta, e l'ho sempre avuto in conto di un giovine dabbene. Ma ora, come potrei farne senza? Mi tiene i conti così pulitamente! Bisogna vedere che fior di scrittura!…
—Oh! se non è altro che questo,—rispose il compare,—io ci ho proprio quello che fa al caso vostro.
—Davvero?
—Sì, un giovane che mi è raccomandato dal reverendo Bonaventura.
—Bonaventura!… Mi par di conoscere questo nome.
—Eh, certo lo conoscerete. È quella degna persona che abita in casa Torre Vivaldi. Il signor Antoniotto lo ha in tale concetto, che ha voluto dargli un quartierino nel suo palazzo.
—Ah sì, mi ricordo,—disse il salsamentario,—è proprio un sant'uomo. E poi, casa Vivaldi si serve da me; e non fo per dire, è molto contenta della mia bottega.
—Orbene, una ragione di più per accettare il giovine raccomandato dal reverendo Bonaventura. Vedete, compare; que' signori la sanno più lunga di noi, e se vi dicono che bisogna levarsi di bottega quell'arnesaccio, credete pure che ci avranno delle buone ragioni.
—Dite benissimo. Fate venire questo giovine. In quanto all'altro, metterò insieme quattro chiacchiere per mandarlo a spasso.—
In questo modo era stato congedato Lorenzo. Egli non sapeva nulla di ciò; nè, come dicemmo, poteva indovinare che quel tegolo venutogli sul capo, gli fosse stato accoccato da qualche mano nimica. Gli pareva opera del caso; epperò aggiustando fede al racconto piagnoloso del bottegaio, ebbe anzi a lodarlo della sua carità di consanguineo, e se ne andò con l'amarezza nell'anima.
Erano ottanta lire al mese che egli perdeva in un tratto. Ora, come avrebbe egli potuto, non che pagar la pigione, provvedere ai bisogni quotidiani di casa?
Lorenzo era pronto nelle sue deliberazioni, e appena tornato a casa, aveva dato a Michele il suo orologio e la catena d'oro, perchè li portasse al Monte di Pietà. Ma le cento lire che ne aveva ricavato non approdavano a nulla. In casa non c'era più altro che il puro bisognevole; di guisa che, spese quelle cento lire, non c'era più da fare assegnamento su d'una capocchia di spillo.
Son questi i misteri dolorosi; e sono particolarmente i misteri di quel ceto, in apparenza agiato, ma a gran pezza più povero e più compassionevole del ceto dei braccianti. L'artigiano non ha a studiarsi di parere, non ha obbligo di tenere la dignità conveniente di uno stato, dal quale il mondo giudica un uomo, e senza il quale quest'uomo è perduto senz'altro nella estimazione universale, e gli vengono meno quelle attinenze che lo aiutavano a reggersi.
Infatti, gli usi del vivere, una certa larghezza nelle spese che paiono superflue, il modo di vestire, tengono un uomo a galla nel __mare magnum__ della società. Si sa che non è ricco, ma si sa pure che vive senza chiedere la limosina ad alcuno. Può aver bisogno di voi per un verso, e voi potete aver bisogno di lui per un altro. E frattanto le costumanze sociali, la gente con cui bazzica, e tante altre piccolissime cose, formano intorno alla sua modesta persona quella ragionevole accolta di forze che lo tengono ritto. Ma se una di queste vien meno, le altre le rovinano addietro, e a rivederci coll'equilibrio! Nessuno aveva regalato mai nulla a quell'uomo, ed egli cavava profitto dall'attinenza di tutti. Però, se egli cade, non c'è un cane che lo rialzi. Se qualcheduno per avventura si accosta, fiuta un tratto…. e basta così.
Grande miseria, quella del signore povero, quando non ha più modo di tenere la faticosa dignità del suo stato! Se è un onest'uomo, tra per la disdetta sua e pei mille raffronti, che gli vengono spontanei, delle sue spregiate tribolazioni coll'onorata larghezza di certi felici bricconi, cola rassegnato a fondo, e talvolta anche s'aiuta a sommergersi, per affrettar l'agonia. Se non è di tempera così forte da cansare il mal esempio, s'aggrappa ad ogni cosa che galleggi, e così di ruffa in raffa s'industria, che, pur navigando sulla strada della galera, qualche volta la sfugge, e diventa un uomo per la quale, magari un pezzo grosso.
Ma basti di ciò, per non dar noia al lettore, che dobbiamo condurre in casa di Lorenzo Salvani, povero vergognoso della specie onesta, siccome è già noto.
Una corona di spine.
Era uno degli ultimi giorni di maggio, il mese delle piogge frequenti e dei frequenti saluti del sole: piogge che rallegrano i campi e le colline, e tutta la bella famiglia delle erbe e delle piante; raggi che scaldano e rinvigoriscono la vegetazione ne' suoi primi germogli.
La natura si risveglia alla nuova vita, e il suo mattino è bello di casta allegrezza. Il vento ardisce appena stormire nelle prime fronde, mutato in auretta leggiera e tiepida; la burrasca sua comare gli tien bordone, e tranquillamente s'assottiglia in un pioviscolo fecondatore; il sole, antico padre di tutti, s'intromette di tanto in tanto in quella festa di famiglia, ed accarezza la natura bambina. L'aria, rinfrescata dalla pioggia, riscaldata dal sole, si conforta di tutte quelle essenze odorate che svaporano di continuo dal calice dei fiori selvatici, e si fa messaggera dei loro primi e fecondi baci d'amore. Per tutte le colline c'è sorriso di luce, di verde e d'aria purissima. Le strade della città, gaie pei raggi di sole e per la frequenza dei viandanti, mostrano anch'esse la loro primavera.
Ma all'ultimo piano della casa Ceretti, nel quartierino abitato da Lorenzo Salvani, erano gli ultimi giorni d'autunno; le foglie della speranza ingiallite cadevano dai rami, e vi soffiava per entro il vento gelato della tristezza.
Lorenzo da parecchi giorni era cupo, irrequieto, come uomo assalito ad un tratto da molesti pensieri. E peggio che molesti pensieri, erano sventure che incalzavano d'ogni parte. La povertà picchiava all'uscio di casa con tutto il suo corteggio di vergogne e di tribolazioni. Nè si doleva egli tanto per sè, quanto per la bella Maria; per la fanciulla commessa alle sue cure, alla sua vigilanza paterna; per Maria, povero fiore condannato forse a perire, mentre la sua bellezza lo faceva degno di risplendere all'aperto e innamorare un nobile intelletto. Era questo il pensiero che struggeva Lorenzo; ed egli si doleva amaramente con sè medesimo di non aver saputo provvedere in tempo alle cose sue, per proseguire l'opera santissima de' suoi genitori.
Se dal pensiero di Maria, correva a meditare sulle proprie sventure, Lorenzo non vedeva altro che buio. Anzitutto la sua generosa ambizione, il natural desiderio di operare qualche cosa a gloria del suo nome, a conforto del suo ingegno, gli erano inceppati, e forse per sempre, dall'avversa fortuna. Nè più contento era il suo cuore. Egli amava Matilde con tutto l'ardore della sua giovinezza: ma l'intelletto, già a gran pezza più maturo del cuore, indovinava di qual tempra fosse l'animo della contessa, e presagiva le amarezze che ne sarebbero a lui derivate.
Matilde era vana e leggiera, e Lorenzo era geloso, e tanto più geloso in quanto che era povero. Le sue strettezze gli riuscivano tanto più acerbe, pensando che la contessa avrebbe potuto trapelarle; ed era uno studio, un tormento continuo il suo, perchè la sua povertà non s'avesse a scorgere da altri.
Più vecchio di alcuni anni e più rotto ai fastidii della vita, Lorenzo Salvani avrebbe tenuto un diverso metro. E prima d'ogni altra cosa avrebbe posto a sè medesimo questo dilemma: «o ella mi ama per quello che sono, o per quello che sembro», ed operato di quella conformità; pronto a patirne le conseguenze, anzi disposto ad affrontarle.
Ma, giovine com'era, e per la prima volta innamorato, Lorenzo Salvani non la intendeva così. S'era dato in balìa di quell'amore subitaneo, prepotente, ma da uomo schietto e leale, senza secondi fini, senza badare ai pericoli, senza prevedere disinganni, senza premunirsi dalla ingratitudine. Ed ora temeva; ogni cosa lo insospettiva; i subiti mutamenti, i grilli della bionda contessa, quel suo rifarsi da capo a tutte le antiche consuetudini, dismesse per lui nei primi e più lieti giorni dell'amor suo, erano tristi presagi per quell'anima altera.
E intanto, pensava egli, intanto esser povero, non poter svolgere tutti i partiti che dànno la misura della forza di un uomo! Sentirsi forte e doversi arrabattare in mezzo a pigmei che vi tengono prigione con catene di refe! Che serve essere statua, se manca il piedistallo, per soggiogare dalla sua conveniente altezza il difforme e l'abbietto?
Queste erano le tribolazioni. Ma quali i conforti? Dicono che Iddio misericordioso non mandi afflizione alle sue creature senza metterci accanto la speranza di un mutamento, speranza che aiuta gli infastiditi a vivere, i tribolati a patire. Anche Lorenzo doveva aver dunque una speranza che gli sorridesse da lontano, come una impromessa di giorni migliori, e che gli sedesse accanto come una compagnia, se non molto efficace, diletta almeno, ne' suoi patimenti. E questa speranza c'era; talvolta sorridente come una promessa nelle ore più riposate, tal altra compagna pietosa nell'amarezza; e gli veniva dall'ingegno che egli sapeva di avere, e che pensava di adoperare in qualche modo per sovvenire alle urgenti necessità.
Lorenzo passava molte ore fuori di casa; ma non perdeva il suo tempo, perchè lo consacrava a Matilde e a' suoi ritrovi politici. In Italia, a que' giorni, l'amore non andava mai senza la patria. Era quasi una malattia del tempo, a cui poscia si è trovato rimedio. E innanzi le battaglie dell'unità, la patria era per gli uni nella preparazione delle forze, senza un formato concetto di quanto si avesse a fare; per gli altri nella congiura; elementi diversi e spesso ridotti a combattersi, ma che pel tirare dell'uno e pel cedere dell'altro, sono pur venuti a capo di qualche cosa.
Ma di questo a suo luogo. Lorenzo da lunga pezza usava star molte ore allo scrittoio, scrivendo per sua naturale vaghezza versi d'ogni metro e prose d'ogni forma, che pochi amici leggevano e che poscia andavano a stipare i cassetti del suo canterano.
Senonchè, cresciuti i malanni, egli doveva pensare a trarre un utile, anche modesto, dagli sgorbi della sua penna capricciosa. L'Assereto, il confidente de' suoi disegni letterarii e delle sue malinconie, fu il primo ad entrargliene.
—Hai scritto tanto per tuo passatempo,—gli disse l'amico,—che potresti oramai pensare a cavar qualche profitto dalle opere dell'ingegno.
—Sì,—rispose Lorenzo,—scrivere, per non trovare uno stampatore che ci metta l'inchiostro e la carta del suo! Stampare, poi, per non trovare un cane che ti voglia leggere.
—Vero, verissimo,—soggiunse l'Assereto,—se tu parli soltanto di quelle opere che si mettono in mostra dal libraio. Ma non potresti cominciare a scrivere un dramma…. una tragedia?
—Mi guardi il cielo dalle tragedie!—gridò Lorenzo.—In quanto al dramma, ci ho pensato anch'io; ma tu intenderai benissimo che il mio lavoro abbia a ritrarre un po' troppo delle amarezze dell'animo.
—E che importa? Sei mesto? Scrivi cose meste, e ci avranno, se non altro, il suggello della verità. E poi, senti un'altra cosa. Ancorchè lo scrivere non t'avesse a fruttar altro che il poter dar noia ai malevoli, scrivi e manda fuori l'opera tua.—
Da questo assennatissimo discorso dell'amico Assereto, fu incalzato Lorenzo a proseguire il suo dramma. Ci s'era messo attorno di lena. Ne aveva cavate le ragioni filosofiche dal profondo dell'anima, e lo andava scrivendo, stiamo per dire, con le sue lagrime.
Un capo comico suo conoscente, al quale egli si era aperto del suo disegno, lo aveva confortato a tirare innanzi, promettendogli che se il lavoro gli fosse andato a' versi, della qual cosa non era a dubitar punto, egli lo avrebbe pagato secondo il poter suo.
Per farla breve, il dramma di Lorenzo in due settimane fu condotto a termine, e soltanto gli mancavano alcune ripuliture qua e là.
L'Assereto aveva letto ed ammirato, ed era anche contento del titolo: __Una corona di spine__.
Ma non era altrimenti contento l'autore; o, per meglio dire, a volte partecipava al giudizio dell'amico, a volte pensava di aver fatto una sconciatura.
Allora ridiventava cupo ed uggioso; e l'ombra mortifera del suo umor nero intristiva tutt'intorno i germogli della speranza. Allora la gloria, l'amore, e tutto ciò che abbellisce la vita, gli si offeriva sotto le più tristi immagini, e lo assaliva come un arcano desiderio che quella rivolta preparata dagli amici suoi, della quale egli non si riprometteva nulla di bene, si facesse presto, affinchè una buona schioppettata lo mandasse là, dove tutto finisce, dove non si è seguitati da fastidiosi pensieri.
Lorenzo era in uno di que' momenti di sconforto, mentre, dopo aver dato l'ultima mano al suo dramma, si disponeva a mandare il manoscritto al capocomico.
Lo aveva suggellato in fretta, quasi per non averselo a vedere più oltre davanti agli occhi, e ci scriveva il ricapito sulla sopraccarta, per ispedirlo al banco delle Messaggerie.
—Perchè non lo date ad una compagnia che lo reciti qui in Genova?—gli chiese Maria, che lo aveva aiutato a legare e suggellare l'involto.—Mi avete pur detto che ce n'è una delle buone.
—Sì, ma non conosco affatto il capocomico. E poi, vedete, se il lavoro piacerà fuori, sarà meglio.
—Ah già! __Nemo propheta in patria__.
—Per l'appunto, ed io non voglio farne su me l'esperienza. Il Bonaldi, col quale ho una certa dimestichezza, mi ha scritto che se il dramma gli va a' versi, lo paga; e questo è l'essenziale. A Genova egli verrà sul finir dell'autunno, e allora lo udranno anche qui, se avrà meritato di stare nel __repertorio__.
—Oh ci starà, non dubitate!—disse Maria, rispondendo anzichè alle parole di Lorenzo, all'aria sfiduciata con cui le aveva proferite.—Avete un bel dire, voi, che al mondo non c'è più gentilezza di affetto. Io già non v'ho mai creduto, e dopo aver letto il vostro dramma vi credo anche meno. Però io sono sicura che piacerà, e farà piangere.
—Come v'ingannate. Maria!—esclamò Lorenzo, sorridendo amaramente.
—E perchè?
—Perchè, mi dite? Si vede, mia buona Maria, che non andate a teatro.
In teatro non si piange.
—Suvvia!…
—Ve lo assicuro. Da prima lo credevo anch'io, che si piangesse, o, per dir meglio, che si potesse, che non fosse vietato dalle consuetudini. Ma ho dovuto persuadermi dell'opposto con questi occhi e con questi orecchi medesimi. Voglio raccontarvela. Ero l'altra sera al teatro Doria, a udire l'__Amleto__.
—Ed è là, a quella recitazione, che non avete veduto piangere?…
—Lasciatemi proseguire. Io non vi parlerò dei signori uomini, i quali sono troppo sovente distratti, e che voltavano i cannocchiali ora sulle bellezze non abbastanza custodite di Ofelia, ora sulle dame dei palchetti. Vi parlerò in cambio di queste ultime; vi parlerò delle donne, le quali hanno fama di esser tenere per eccellenza.
—Ah sì,—disse Maria, facendo niffolo, con grazia fanciullesca,—qualche cattiveria sulle donne!…
—No, la verità, la pura verità! Io ero in un palchetto, e stavo attento alla scena di Ofelia impazzita, che porta i fiori nelle falde della veste. La signora che mi era dappresso, guardava invece tutto intorno, e notava le svariate acconciature delle altre signore.—«Guardate, Salvani, mi disse ella, guardate quella signora là dirimpetto, che nastro giallo ardisce di portare intorno al collo!» __Vraiment__!—esclamò il conte Alerami, un tale che mastica un po' di tutte le lingue,—__mais c'est du dernier mauvais goût__!—Io allora guardai quella donna dal nastro giallo. Era una signora vestita con molta semplicità; e doveva esser bella, ma non sapeva far risaltare la sua bellezza. Figuratevi! Indossava una veste di seta nera, e i suoi capegli, che aveva copiosi, le scendevano modestamente in due liscie staffe intorno alle tempie, nascondendo a mezzo una bellissima fronte. Costei forse era quella sera in teatro per farmi ricordare che mia madre era donna, ed anche voi, mia buona sorella. Essa piangeva, e più volte ebbe a recarsi il fazzoletto agli occhi per asciugarsi le lagrime.
—Oh, finalmente!—gridò Maria;—e ci voleva tanto per dimostrare che avevate torto?
—Sì; ma udite il rimanente. Non ho mica finito! Il nastro giallo aveva attirato gli sguardi della signora che mi era da presso. Il fazzoletto sugli occhi le fece dire queste due parole che io vi ripeterò, perchè ci meditiate su: «una provinciale!» Capite? Quella signora piangeva in teatro; ella dunque non poteva essere altro che una provinciale.—
Questa, che raccontava Lorenzo, era la storia di Matilde. Come i lettori vedono, si era presto guarita del suo sentimentalismo, la bionda contessa! Fedele al vecchio dettato, non aveva potuto durar molto nel tedio delle sue antiche consuetudini. Certo l'amore era una bellissima cosa, ma non le andava più a' versi la gelosia, nè quel soverchio di affetto che vuol essere ricambiato a misura di carbone, idolo cieco che dimanda continue offerte di rapimenti e di lagrime, e sacrifizi quotidiani di ogni altro affetto minore.
Per dirvela in prosa volgare, la contessa amava ripigliarsi la sua libertà. Le piaceva andare a teatro; e andando a teatro le piaceva essere veduta, ammirata e corteggiata, come pel passato, anche a patto di vedere le sue farfalle svolazzare qua e là, e cangiar fiore ad ogni intermezzo dello spettacolo.
—E poi, che male c'è, se vanno girelloni da un palchetto all'altro?—pensava tra sè la contessa.—È ragionevole che paghino un tributo a tutte le loro aderenze. A conti fatti, poi, sono come i nostri messaggeri, apportatori di novelle, procaccini di epigrammi e di bei motti, che giovano a tenerci informate. Il loro numero inoltre è una specie di lusso, e si contano i visitatori di una dama, come le sue vesti e le sue acconciature. Bella cosa, un uomo il quale si ferma soltanto in un luogo, come suol fare Lorenzo! Con tutte le belle cose che s'ha a dire tra due, il sacco si vuota pur sempre, e giunge il momento in cui si ha l'aria di marito e moglie!—
Che diremo delle conversazioni e delle feste? Non rispondere ad un invito di quella fatta le sarebbe parso un peccato mortale. Anche il Leopardi, sbandeggiato dal tavolino, era tornato sullo scaffale. L'esilio fu invero raddolcito al poeta da una legatura di pelle con fregi d'oro; ma era pur sempre un esilio. Insomma, la crisalide voleva uscire dal bozzolo che ella stessa s'era fabbricato. La sua prima natura, non che tornare, pigliava il sopravvento.
Povero Lorenzo! Dove diamine era andato a porre il suo cuore! Per altro, intendiamoci; ammesso il carattere della contessa Matilde, anch'egli ci aveva il suo torto. La donna bisogna saperla conoscere, guardare anzitutto di che piede ella zoppichi. Ora Lorenzo non aveva badato al piede, non aveva capito che quella donna era vana, e che per averla fedele non bastava l'essere, ma gli bisognava il parere. Egli non era in mostra, come avrebbe potuto; non aveva cavato alcun profitto dal suo duello col marchese di Montalto; non andava in nessun luogo. Ora la lode e l'attenzione del mondo non s'aspetta di piè fermo; bisogna andarle incontro deliberati. E Lorenzo, che stava rincantucciato al suo posto, era presto dimenticato. Che cosa aveva a farsi la contessa Matilde di lui, il quale si dilettava dell'oscurità, e voleva tirarci anche gli altri?
Nel quale si fa la spiegazione del proverbio "chi cerca trova".
Maria non aveva risposto nulla a quel discorso di Lorenzo, rimanendo un tratto impensierita, con le mani in mano, in quella che Lorenzo s'era messo a passeggiare su e giù per la camera, a passi concitati, come era sua consuetudine quando i tristi pensieri gli giravano per la fantasia.
Era quella la prima volta che Lorenzo parlava a Maria di un'altra donna, e le dava in qualche modo contezza di ciò che egli faceva fuori di casa.
Chi era la signora del palchetto, accanto alla quale stava seduto Lorenzo? Che dimestichezza era quella, di cui Lorenzo non le aveva mai fatto parola? E perchè, poi, ricordando quella signora, egli metteva fuori tanta amarezza di accento? Questi erano i pensieri della giovinetta, e il cipiglio di Lorenzo non era certamente fatto per discacciarli.
Che cosa, infine, doveva importarne a lei? Essa non lo sapeva, non si fermava a indagarne le ragioni; ma intanto il racconto del giovane l'aveva ferita nel cuore, destandovi arcani dolori non mai sentiti dapprima. Ahimè! proprio dal dolore ci accorgiamo di vivere.
Lorenzo non s'era addato di nulla; passeggiando su e giù per la camera, egli andava in quella vece dicendo a sè stesso:
—Buona fanciulla! Ella s'illude sempre di liete fantasie! E perchè dovrei io beffarmi delle sue illusioni? Forse non ne ho avute io pure di grandissime, l'ambizione, l'amore?… Oh, chi mi terrà conto di quello che soffro, di quello che rispingo a fatica e seppellisco nel profondo del cuore? Ella non si strugge de' miei desiderii smodati e fatali; ella non ama nessuno. Beata lei! L'amore è la suprema dannazione degli sciagurati. Non basta a questa vilissima creta aver fame, pugnare con tutte le necessità quotidiane della vita; bisogna pure che essa ami! L'amore! Che cos'è l'amore? La poesia dei sensi! Arnese di gala! Ma s'ha a farla finita; s'ha a mettervi rimedio, perdio!…
—Lorenzo!—disse finalmente Maria, con piglio amorevole;—che fate voi ora? Non vi perdete di animo in questo modo! Il vostro dramma sarà applaudito….
—Applaudito! Sì, sta bene;—rispose Lorenzo, ricondotto al suo primo pensiero;—ma oro ci vuole! Qui, dinanzi al mio tavolino, avevo bisogno di fede e di speranza, perchè si trasfondessero nell'opera mia e vi soffiassero dentro l'alito della vita. Ora il mio manoscritto è finito e suggellato, e mi occorre ben altro. Ma perchè sto io qui a rattristarvi colle mie malinconie? Me ne andrò, perdonatemi, buona sorella!…
—Sì, andate, Lorenzo. Un po' d'aria vi leverà dal capo tanti brutti pensieri. Andate a salutare l'Assereto; ieri è venuto a cercarvi, e si lagna di non avervi più veduto da tre giorni.
—È vero; sono proprio un orso, come voi mi chiamate qualche volta. Andrò a cercarlo a' Banchi. Povero amico! Anch'egli ci ha le sue, di molestie, e trova sempre il buon umore per consolare i compagni.—
Poco stante, Lorenzo usci, e dopo Lorenzo uscì Michele, per andare col manoscritto al banco delle Messaggerie. Nè l'uno, nè l'altro, scendendo le scale, badarono all'uscio del secondo piano, che era socchiuso, e a due occhi che li avevano spiati da quella breve apertura. Erano gli occhi scerpellini del nostro Don Giovanni da dozzina, del biondo Arturo Ceretti, il quale stava aspettando la partenza del Salvani, per correr su dalla bella Maria.
Quel giorno poi gli cascava addirittura il cacio sui maccheroni. Lorenzo usciva, e gli teneva dietro il servitore. La fanciulla era dunque sola, solissima, e il nostro Arturo poteva spiattellarle l'animo suo.
Corse allo specchio; si ravviò i capegli, si affilettò i baffi, si acconciò per bene le pieghe della cravatta, e, sicuro del fatto suo, infilò speditamente le quattro scale che c'erano tra i suoi penati ed il quartierino dell'ultimo piano. Giunto lassù, tirò discretamente la corda del campanello. La fanciulla venne ad aprir l'uscio, e vedendo il padrone della casa, fece un gesto d'ingrata meraviglia, che a lui non doveva riuscir nuovo, poichè non ebbe aria di addarsene.
—Signora Maria!—balbettò egli.—Domando mille perdoni….
—Entri, signore;—disse Maria; e richiuso l'uscio, precedette il
Ceretti verso il salottino.
—No, no;—soggiunse il biondo Arturo,—andiamo pure nella sua camera da lavoro; non s'incomodi per cagion mia.—
Maria non tenne l'invito, ed entrò risoluta nel salottino, dove, come al solito, gli additò il canapè, ponendosi ella a sedere su d'una scranna lì presso. Ciò fatto, la giovinetta incominciò arditamente il discorso:
—Ella è venuta per la pigione?…
—Sì…. no….—rispose il Ceretti, perdendo la tramontana.—Sono venuto anzitutto per riverirla. A dir vero, il signor Salvani si dimentica un poco di noi, e mio padre da un pezzo aveva ordinato al nostro procuratore di far le pratiche pel pignoramento. Oh, ma non dubiti, io mi sono opposto, e fino a tanto ch'io non tolga il divieto non si farà nulla di nulla.
—Grazie, signor Ceretti, della cortesia che ci usa!—disse Maria, stendendogli la mano.—Ella ha un cuore ben fatto.
—Oh, le pare? Farei ben altro per ottenere la sua benevolenza. Se ardissi dirle….
—Che cosa?
—Che Ella è molto bella, signora Maria, troppo bella, e mi fa dar volta al cervello.—
Come avrebbe dovuto diportarsi la fanciulla a quelle parole? Il piangere, il venir meno, e tutti gli altri accorgimenti della donna impacciata, non erano nelle consuetudini di quella nobilissima giovinetta. Colta così alla sprovveduta, amò meglio simulare una grande serenità di mente: epperò fu pronta a rispondergli, tra adirata e gioconda:
—Eh via, signor Ceretti! Ella vuole pigliarsi spasso de' fatti miei. Per carità, non si faccia beffe di me! Io le son grata della cortesia che Ella pone ad aspettarci ancora un tratto per la pigione. Che vuole di più? Non guasti il benefizio con le sue celie.
—Non parlo per celia;—gridò il biondo Arturo, senza voler capire che l'accorta giovinetta gli aveva con quelle generose parole offerta un'uscita onorevole;—non ischerzo, in fede mia! Son cotto fradicio di Lei, e per andarle a genio, son pronto ad ogni sacrifizio.
—Non avrà a farne di molti;—interruppe Maria con accento turbato.—Io parlerò oggi al signor Lorenzo, perchè non tardi più oltre a pagare il suo debito.
—Sì, gliene parli pure a quel mobile! O dove l'ha a prendere il denaro, quello spiantato?
—Signor Ceretti!…—esclamò Maria.
—Oh, mi lasci proseguire, poichè ho cominciato. Il bel signorino le fa patire carestia d'ogni cosa. Io so che Ella lavora dì e notte per sostentare la famiglia, e il suo servitore va a vendere i suoi bei ricami qua e là. Le pare strano che io sappia questi segreti? Le voglio un gran bene; perciò ho tenuto dietro al servitore. Probabilmente gli altri non se ne daranno un pensiero al mondo, di queste cose; intenti come sono a fare da cavalier servente e da paladino alle signore d'alto affare.—
Il colpo di messer Arturo andava diritto; senonchè. Maria era d'indole altiera e non voleva lasciar trapelare d'esser toccata sul vivo.
—Orbene?—soggiunse ella, increspando le sopracciglia.—Che male c'è? Il signor Lorenzo fa quello che gli aggrada. Poichè Ella sa che non è mio fratello, consenta che io le aggiunga che egli è libero de' fatti suoi.
—Sì, sì!—incalzò il Don Giovanni,—ma intanto lascia lei nelle angustie. L'altro giorno, probabilmente perchè Ella non aveva ricami da mandare a vendere, in casa non s'è mangiato altro che pane. Oh, io so tutto; sto attento a tutto; dò un colpo al cerchio e l'altro alla botte. E infatti so che, mentre Ella si affinava la vista sul telaio, mettendo punti su punti, e lagrime su lagrime, egli era là dalle parti dell'Acquasola, con una bella signora bionda…. bella, cioè, intendiamoci! La dicono bella, e non è. Certo io non mi muoverei di qui per andarla a cercare, anche sapendo che dovesse cascarmi poi nelle braccia.—
Arrossì la povera Maria al vedere come quell'uomo sapesse ogni cosa, e rimase a capo chino, pensando a quella dama di cui udiva accennare già due volte nello spazio di un'ora. Certo la signora di cui parlava Arturo Ceretti era quella medesima ricordata pur dianzi nel suo discorso da Lorenzo. Il cuore di rado s'inganna ne' suoi presentimenti. E Maria, stando seduta, col capo chino, in gran tumulto di pensieri, non si avvide neppure che il Don Giovanni le afferrava la mano, recandosela alle labbra con molta dimestichezza. E come non si avvide della mano, non udì nemmeno il cominciamento del nuovo discorso che le faceva il Ceretti.
—Veda, signora Maria. I suoi begli occhi non sono fatti per piangere, nè per guastarsi sul telaio. Non rovini la sua gioventù per un uomo come quello, che la nutre di malinconia, e che fra pochi giorni, solo che io voglia, sarà senza tetto e senza letto. Io non lo odio se non per il male che egli le fa; del resto son pronto anche a condonargli il fitto di casa. Faccia a modo mio; lo mandi a quel paese! Io sono giovane come lui, e non fo per dire, ma ci ho le mie quattrocento mila lire al sole, e v'ha chi afferma, non senza ragione, che ce ne siano altrettante all'ombra, nei forzieri di mio padre, di cui sono io l'unico erede. Che cosa ne dice?
—Di che cosa?—domandò la fanciulla, rientrando in sè medesima.
—Della mia proposta. Non le pare uno zucchero, al paragone della vita che fa con quel figuro? Andremo a viaggiare; ci daremo bel tempo….
—Signor Ceretti!—esclamò Maria, strappando la mano dalle strette del Don Giovanni e balzando in piedi con aria di sdegno.—Io non la intendo….—
E gli stette dinanzi, guardandolo, smorta nel viso, ma con gli occhi che mandavano lampi.
Il biondo Arturo rimase un tratto dubbioso, ma non sbigottito da quel piglio. Quella era una donna, finalmente, e nessun altri era in casa.
—Dunque non accetta?—chiese egli sogghignando.—vuol farmi la
schizzinosa, signora Maria!
—Esca di qui!—gridò la fanciulla.—E benedica la sua fortuna di aver trovato qui solamente una donna.
—Sì, sì!—rispose l'altro, sempre con la stessa aria, ma con la schiuma alle labbra.—E nemmeno una santa innocentina, in fede mia….—
Disse proprio: in fede mia? Non metterei pegno che egli pronunciasse la frase intiera; perchè mentre parlava ed era per avvicinarsi a lei, si sentì una mano ferrea pesar sulle spalle, un'altra agguantarlo alla nuca, senza alcuna misericordia pei solini insaldati che gli adornavano il collo.
Il giovine Ceretti, colto in quel modo alla tagliuola, si diede, come gli consentiva la stretta dell'ignoto, a gridare:
—Tradimento! tradimento!—
E mentre gridava, si faceva pavonazzo nel volto: gli occhi pareano volergli schizzare dalle orbite sanguigne, e le braccia gli si dimenavano pazzamente in aria come quelle di un antico telegrafo.
—Lasciatemi andare!—disse allora con voce più supplichevole.—Lasciatemi andare!—
Ma quella mano stringeva sempre, e gli dava per giunta certi scrolli a dritta e a mancina, che gli facevano scricchiolare tutte le giunture. Ci fu un momento in cui il mal capitato Don Giovanni non vide più altro che bagliori rossastri, e pensò che la fosse finita per lui. Infatti era ad un pelo di morir soffocato, allorquando intese la voce di Maria che gridava:
—Lasciatelo stare! Non vedete com'è diventato?…—La preghiera di
Maria fu esaudita, ma soltanto a mezzo.
Il biondo Arturo sentì allentarsi un tratto quelle morse di ferro, e gli parve di tornare da morte a vita. Ma ad un tentativo che egli fece per disvincolarsi del tutto, si accorse che il padrone del suo collo non era punto disposto a lasciarlo andare. Infatti, come a confermazione della stretta, il prigioniero udì queste parole:
—No, padroncina! Non le sappia male se la disobbedisco. Questo pendaglio da forca si ha da buttar ginocchioni a' suoi piedi per dimandarle scusa dell'ingiuria che ha fatto alla più virtuosa delle donne. In ginocchio in ginocchio!
—No!—rispose furibondo il Ceretti, che aveva riconosciuta la voce di
Michele.—Voi mi avete còlto a tradimento, è una vigliaccheria!…
—Ah! così tu parli?—gridò Michele, dandogli superbamente del tu.—Va! Eccoti libero!—
E con una spinta gagliarda lo sbalestrò contro la parete. Poi, incrociando le braccia sul petto, ripetè:
—In ginocchio, mascalzone! In ginocchio!
—Io?—gridò il Ceretti, a cui la recuperata libertà e la rabbia profonda facevano credere che avrebbe potuto lottare con quell'uomo.—Io inginocchiarmi?…—
E inarcando le spalle come una tigre, si scagliò contro il suo avversario.
Ma Michele sapeva il fatto suo. Un veterano di America, marinaio e soldato, non aveva a lasciarsi sopraffare da quel bellimbusto del Ceretti. Innanzi che questi si fosse avventato, una improvvisa e maestra pedata lo colse a mezzo lo stomaco; di guisa che, dopo aver barcollato un tratto, andò a ruzzolare da capo sul pavimento.
Michele era sempre ritto al suo posto, con le braccia incrociate sul petto, come Napoleone il grande.
Il Ceretti quella volta non tornò all'assalto. Aveva avuto il suo resto; tutto indolenzito e pesto com'era, non aveva più forza di muoversi.
—Michele!—disse allora la fanciulla con aria di rimprovero al domestico,—avete fatto assai male.
—Male, io, padroncina? La non m'entra. Ho dunque a sentirle dire delle impertinenze e star cheto? Delle impertinenze alla signorina Maria! Ah cane! ah briccone! ah villano rifatto!…—
E giù una dozzina di questi epiteti. Come ebbe snocciolato la sua coroncina, proseguì, volgendo il discorso a Maria:
—Quando si dice il destino! Tornavo di là, dove mi ha mandato il signor Lorenzo, ed ecco m'imbatto in un vecchio compagnone, il quale m'invita ad andare insieme con lui per centellarne un bicchierino di quello che pizzica. Il diascolo mi tentava; ma mi ricordo che per non recarle molestia avevo preso la chiave di casa, e che Ella avrebbe potuto accorgersi che la non c'era più nella toppa. Dico di no, e corro difilato a casa. Entro appena in sala, odo parlare nel salottino, e mi pare di riconoscere la voce di questo signore. Non per ispiare, veh! ma perchè, tant'è, non l'ho mai avuto in buon concetto, mi avvicino all'uscio, e per l'anima di…. non lo sento a dirle villania?… In ginocchio, triste furfante! Insultare una santa!…
—Michele!
—Sì, mi lasci dire, padroncina; una santa! E costui ha l'ardimento di dire…. di credere…. che…. Insomma, o ch'io non mi chiamo più per nome Michele, o ch'io l'ho a fare a pezzetti, come uno spezzatino di vitello!—
Ed era per far venire i fatti dopo le parole, quando Maria s'intromesse, e accennando con la mano al fiero Michele che stesse cheto, disse con accento deliberato al Ceretti:
—Se ne vada di qua!
—Sì, me ne vado;—rispose il biondo Arturo, mentre cercava di racconciarsi alla meglio le vestimenta sgualcite,—me ne vado…. Ma costerà salata! Se quest'oggi non entra in casa la pigione, andranno presto a dormire su d'una strada. Ah, signori miei, sanno il proverbio: chi cerca trova.
—Sicuro;—disse di rimando Michele.—Chi cerca trova…. e qualche volta anche quello che non aveva cercato! Intanto La cerchi il suo cappello, che è rotolato sotto la sedia.—
Il Don Giovanni, turbato com'era, si chinò a raccattare il cappello, e col capo basso, i pugni chiusi, e i denti stretti, passò in mezzo a quei due. Se gli antichi Romani non fossero gente da rispettarsi, anche nella sconfitta, diremmo che egli pareva un Romano il quale passasse sotto le forche Caudine.
Appena fu giunto all'uscio, si volse e con un gesto di minaccia ripetè:
—Vi costerà salata!
—Sì, sì! Aspetta a me!—gridò Michele, in atto di scagliarsi sul fuggente. Ma la fanciulla lo trattenne da capo.
—Michele, per amor mio, fermatevi! Ora bisognerà fare avvisato d'ogni cosa Lorenzo.
—No, padroncina! Ci pensi due volte, innanzi di farlo. Egli è così latino delle mani….
—E voi!—interruppe Maria.
—Io? Gli è un altro paio di maniche. Io posso dar liberamente due golini a quel figuro, senza che alcuno ci trovi a ridire. Il signor Lorenzo non potrebbe cavarsene il ruzzo, senza aver pagato prima la pigione. La gente potrebbe dire che egli mena le mani per pagare i debiti. Io me ne intendo un poco, delle leggi della cavallerizza!—
Michele voleva dire cavalleria; ma è già noto ai nostri lettori che
Michele, in materia di lingua, pigliava spesso dei granchi.
—Sta bene,—disse sorridendo la fanciulla,—ma appunto per questo negozio della pigione bisognerà parlargliene.
—No, no, padroncina! Lasci fare a me!
—E che cosa potreste far voi, mio povero Michele?
—Io? La non mi conosce ancora. Ci ho un disegno in capo, e chi sa che non n'abbia a venir fuori un costrutto! Ella mi prometta di non dir nulla fino a domattina….
—Ve lo prometto, e il cielo vi assista!
All'insegna degli Amici, buon vino…. e grama compagnia.
Il nostro Michele aveva dunque il suo disegno in capo, e voleva pagar egli la pigione, senza dar molestia a Lorenzo. La pensata era buona e degna dell'ottimo cuore di Michele: ma i nostri lettori, i quali non hanno un grande concetto della sua testa, vorranno sapere in che modo egli s'argomentasse di mandarla ad effetto.
I lettori vengano con noi e lo sapranno. Li condurremo a quest'uopo in una delle tante bettolacce ond'erano ornati, al tempo del nostro racconto, i pressi della via Carlo Felice, bettolacce che si facevano chiamare trattorie.
Erano stamberghe, buie di giorno, a mala pena rischiarate di notte; ma se la luce mancava, c'erano avventori in buon dato e d'ogni risma, i quali si stipavano tra quelle pareti umidicce, su certe pancacce levigate, rilucenti per l'uso continuo, davanti a certe tovaglie largamente chiazzate di vino e d'untume, sulle quali i più schizzinosi facevano stendere un tovagliuolo fresco di bucato.
Là dentro, grossi odori di vivande che si crogiuolavano nelle casseruole, e d'altre che forse da due giorni aspettavano il dente di un meno schifiltoso ghiottone; il tavoleggiante che comandava ad alta voce la pietanza richiesta e lo sguattero che dal fondo della cucina rispondeva il solito «va»; l'ubbriaco che sragionava a tu per tu in un angolo colla sua bottiglia di vino, scambiata per un amico contradditore; i tre o quattro compari già alticci che si accapigliavano per una bazzecola, e la moglie di uno dei tanti che s'industriava a rappattumarli; due spanne più alta su questo guazzabuglio, la padrona carnacciuta che sorrideva agli uni, dava sulla voce agli altri, e rifaceva il resto ad ognuno.
Era un gaio spettacolo, segnatamente dopo l'ora del teatro, quando si fosse fatto il naso a quella mescolanza di odori grossolani e gli orecchi a quel cicaleccio svariato e confuso, nel quale tratto tratto soverchiava una brutta parolaccia, che faceva arrossire sulla sua sedia curule, e in mezzo a' suoi trofei di mandorle e fichi secchi, la pudibonda padrona.
La più pudibonda di tutte, sebbene la sua taverna ci avesse gli avventori più sboccati di tutti i dintorni, epperò la ci avesse dovuto riuscir manco tenera delle altre, era la Piccina, padrona dell'osteria __degli Amici__. Perchè si chiamasse la Piccina non sappiamo; certo quel nome non le era venuto dalla persona, che due uomini avrebbero durato fatica ad abbracciare, se pure si può argomentar che ci fossero due uomini al quali potesse venir quell'estro bizzarro.
Regnava la Piccina su d'una stanzaccia, due bugigattoli e una cucina, che erano al piano della strada, ma non aggiustati al medesimo piano tra loro. Dov'era la sala più grande, anticamente doveva essere stato il vestibolo di una casa, e la colonna maestra del primo giro di scale traspariva ancora dallo spessore di una parete, che si ragguagliava alle altre circostanti. La camera più vicina, cavata com'era da un sottoscala, non aveva finestre, e pigliava aria dall'uscio della sala maggiore e da quello della cucina. Immagini il lettore che aria!
In questa cameretta, dove capiva a mala pena una tavola, sulle undici di sera, veniva a dar fondo una coppia di amici. Uno dei due era il nostro bravo Michele; l'altro, indovinate mo'! era il Garasso, il marito della signora Momina, dottoressa in cartomanzia, vestito con quella attillatura popolesca che arieggia il vestire della gente signorile, senza farsi lecito nè il cappello a staio, nè il soprabito di taglio più lungo, nè i panni di colore più fosco.
La grossa padrona fece da lontano un grazioso cenno del capo al Garasso; ed anche il tavoleggiante lo salutò, come si usa con le buone pratiche.
—Che cosa comanda!—chiese il giovinotto.—Ho da apparecchiare per due?
—Sicuramente, per due. Anzitutto del buon vino, e bada che non abbia ricevuto ancora il battesimo!
—La non dubiti;—rispose l'altro, mentre col lembo del suo tovagliuolo ripuliva il desco di tutte le briciole di pane e d'altri minuti rilievi che testimoniavano l'uso recente della tovaglia.—Ce ne abbiamo del Monferrato, venuto ieri, che risusciterebbe i morti.
—Pur che non sia da avvelenare i vivi, portalo subito!—soggiunse
Michele, andandosi ad impancare nell'angolo, con le spalle al muro.
—E che cosa vogliono mangiare?—chiese il tavoleggiante.
—Il meglio della mostra,—rispose il Bello,—se pure c'è qualche cosa che non sia dell'altra settimana.
—Oh, qui c'è tutto buono, signor Garasso; e tutto fresco di giornata.
—Sentiamo;—disse Michele,—leggici la Gazzetta dello stomaco.—
Michele chiamava con questo nome la lista dei cibi. Il tavoleggiante, che stava alla celia come i suoi pari, sciorinò i nomi di tutte le pietanze che c'erano, ed anche di quelle che già erano state smaltite.
—Basta, basta!—gridò il Bello,—finisci quella tua cantafèra, Bernardo. Io, se l'amico ci sta, ho già posto gli occhi su di un pollo arrosto e su d'un guazzetto di tartufi, tanto per aiutare a bere. Al resto penseremo poi. Che ve ne pare, amico Michele, parlo bene?
—Come un libro. La cena riuscirà un po' troppo copiosa; ma, alla più trista, è meglio cenar molto che non cenare affatto. Chi va a letto senza cena tutta notte si dimena.
—E non basta;—soggiunse, ridendo sgangheratamente, il Bello,—quando s'è ben dimenato, e' si ricorda che non ha cenato.
—Non la sapevo, quest'altra metà dell'__avverbio__!—rispose Michele, che incominciava a dirne delle sue.
—Sentiamo un po' questo vino!—disse il Bello, accostando il bicchiere alle labbra.
Il vino era buono, poichè, dopo averne mandato giù un centellino, egli fe' scoppiettare parecchie volte la lingua contro il palato; segno non dubbio del suo gradimento. Allora, percuotendo il suo bicchiere contro quello di Michele, disse con voce sommessa:
—Alla salute degli amici, e possa andar tutto bene!
—Bravo! alla salute degli amici!—ripetè Michele, e tracannò tutto d'un fiato.
—Mio caro Michele! Come sono contento di vedervi e di passare un'oretta con voi!
—Ed io? che vi pare?—rispose Michele.—Mi sembrava mille anni, sebbene ci siamo veduti stamane.
—Oh, così di passata!—si affrettò a dire il Garasso.—Ma che negozio era il vostro, da non lasciarvi venire a berne un bicchierino?
—Di mattina! che diamine?—rispose Michele.—Bisogna stare in gambe. Se il signor Lorenzo sapesse che comincio così per tempo a bere, mi manderebbe a quel paese; e ne avrebbe ragione, perbacco!
—Ma voi non siete mica un servitore!
—Oh, questo poi è verissimo. Sono un amico, anzi il cane di casa, e non c'è allegria nella quale il vecchio Michele non ci abbia la sua parte. Vecchio, del resto, così per dire; poichè Michele è appena sui quarantotto, e vuole aver mano ancora in molti negozi, prima di farsi mettere a riposo.
—E non istaremo già molto a menar le mani!—aggiunse il Bello.—Suvvia, Michele, il pollo è trinciato; assaggiate quest'ala. Il signor Salvani, del resto, è un ottimo giovanotto e merita che tutti gli vogliano bene come voi. Iersera si parlava appunto di lui, là dagli amici, e si diceva che se ce ne fosse una ventina di pari suoi a capitanarci, le cose andrebbero assai più spedite. Ci abbiamo in cambio certi sputatondo, i quali non vedono altro che malanni e si spaventano delle prime difficoltà. Costoro vorrebbero i pani a picce e le viti legate con le salsicce.
—Come nel paese di Cuccagna, non è vero?—gridò Michele.—Ma il signor Lorenzo non è di quella pasta; egli ci ha il sangue di suo padre nelle vene, e va innanzi badando agli ostacoli come io a questo bicchier di vino. Ma a proposito del signor Lorenzo, sapete che son venuto a chiedervi un servizio?
—Per il signor Salvani e per voi sono pronto a buttarmi nel fuoco. O siamo amici o non siamo. Voi pure saprete quel che vi ho detto una volta….
—Sì, mi avete detto che tra noi la era un'amicizia da Oreste, e…. aiutatemi a dire!
—Da Oreste e Pilade, ve lo ripeto, e sono sempre ai vostri comandi.
—Orbene, vi confido una cosa; ma, intendiamoci, veh!
—Acqua in bocca, non dubitate. Son segreto come la torre del palazzo
Ducale.
—Lo credo, e appunto per ciò m'è venuto in mente di aprirmene con voi. Si tratta dei miei padroni, i quali tuttavia non sanno nulla di ciò che vorrei fare per essi. Hanno fatto tanto bene a me, che se potessi farne a loro, mi parrebbe di restar sempre da meno. Insomma, per farvela breve, da due mesi si è debitori della pigione al padrone di casa.
—Oh povero signor Salvani!—disse il Bello, facendosi innanzi coi gomiti sulla tavola, in atto di affettuosa sollecitudine.—E il padrone sarà un cane dei soliti….
—Peggio di un cane!—soggiunse Michele.—Costui, figuratevi, s'è fitto in capo un suo sconcio disegno…. Ma per l'anima di…. l'ho a conciar io come va, quel villano rifatto!
—Ma che c'è? Io non v'intendo.
—Eh, non avete capito? La padroncina, che, a dirvela di passata, è bella come la madre nostra, l'Italia, gli ha fatto gola. Egli ha saputo che la signorina Maria non è altrimenti sorella del signor Lorenzo; e siccome chi mal fa peggio pensa, s'è posto a molestarla con le sue smancerie e con le sue proposte da chiasso.
—Che cosa mi dite voi mai?—esclamò il Garasso, che non perdeva una sillaba di quel discorso, e andava mescendo di tratto in tratto a Michele, per farlo cantare.—Gli è proprio un mascalzone, costui!
—Ah, Garasso! c'è della gran brutta gente a questo mondo! Il signorino con la scusa della pigione, s'è introdotto in casa. Da principio era più riguardoso; ma questa mane, credendosi solo con la signorina, ha lentate le redini. Gli aveva fatto i conti senza Michele, il poveretto! Io son capitato sul buono, e con queste dita che vedete l'ho afferrato pel collo e gli ho dato certe picchiate che se ne vorrà ricordare per un pezzo.
—Bravo Michele! Questo si chiama ragionare. Io bevo alla vostra salute.
—Ed io alla vostra. Datemi da bere. Non so, ma a parlare di quel marrano, mi si rimescola il sangue, e mi s'inaridisce la gola.
—Segno che si ha da bere!—disse con aria grave il Garasso.—E poi, come l'è andata?
—L'è andata che il signorino è montato in bestia, e se domani non ha il suo denaro, manderà l'usciere e la carta bollata. Io non ne ho potuto dir nulla al signor Lorenzo, perchè lo conosco; è uomo che si riscalda facilmente, e, non avendo la pecunia gli rincrescerebbe troppo…. mi capite?
—Sì, di non avere il denaro per poterglielo dare sul grugno.
—Bravo, così appunto volevo dir io. Ed ecco perchè ho pensato a voi. Il mio amico Garasso, ho detto tra me, è uomo a cui non fa nulla un dugento lire di più o di meno, e poichè conosce il signor Lorenzo, e sa che questi non istarebbe molto a restituirgliele, potrà metterle fuori per amor suo e mio; non è vero?—
A queste parole il Bello fece il muso lungo, e dopo essersi dato un colpo della mano sulla fronte, così parlò con aria malinconica:
—Ah, Michele, Michele! Perchè non dirmelo ieri?…
—Oh bella!—rispose l'altro trepidante;—perchè ieri non eravamo al punto che vi ho detto. Stamane soltanto siamo venuti alle strette.
—Avete ragione; non ci pensavo più. Ma vedete, il vostro guaio mi fa perdere il capo. Ieri, figuratevi, ho giuocato…. Maledetto vizio! Ma vi assicuro che è stata l'ultima volta, e non mi ci colgono più. Intanto mi sono squattrinato, e salvo quel poco danaro delle male spese, non ho più nulla, più nulla.—
S'immagini il lettore come rimanesse Michele a quel racconto del Bello. Gli cascarono le braccia, e non ebbe più la forza di accostarsi alle labbra una infilzata di fette di tartufi che aveva con tanta cura accomodate sui rebbi della forchetta.
—Ma non vi perdete d'animo!—si affrettò a soggiungere il Bello, avvedendosi del cattivo senso che le sue parole avevano fatto sul compagno;—tranne alla morte, c'è rimedio a tutto. Ho ancora degli amici, e domattina vedremo di accomodarvi.—
Michele respirò, e respirò lungamente. Questo gli era tanto più necessario, in quanto che egli aveva tenuto il fiato fin da quel punto che il Bello gli aveva data la brutta notizia.
—Anzitutto,—proseguì quest'ultimo,—di che somma si tratta?
—Ve l'ho detto: di dugento lire.
—Di Genova?
—No: di Piemonte.
—Tra poco,—soggiunse il Bello, a mo' di parentesi,—diremo lire italiane, se ci vien fatto il colpo.
—Sicuramente!—rispose Michele, non molto confortato da quella considerazione.—Ma di Piemonte o d'Italia, quando le si hanno a snocciolare, son come zuppa e pan molle.
—Le caveremo fuori, non dubitate. Io intanto vi ringrazio di aver fatto capo a me. Siete un buon amico; qua la mano!—
Michele fu sollecito a stringere la mano del Bello, di quell'ottimo giovanotto a cui egli chiedeva danaro a prestanza e che lo ringraziava per giunta.
—Ma come farete voi?—gli disse egli, dopo la stretta di mano.
—Non ve ne date pensiero. Andrò da un amico, il quale non vorrà negarmi il servizio. I denari degli amici sono nostri. Che cosa sarebbe l'amicizia, se non fosse così? Beviamo intanto, e vada in malora la malinconia. A proposito, questo padrone di casa, come si chiama?
—È un certo Ceretti, Ceretti figlio, per dirvi tutto, ma fa le veci del padre, ed è egli che s'incarica di molestare la gente.
—Lasciate dunque fare a me;—disse il Bello.—Se l'amico ha il denaro, come io credo, potremo metterlo subito a segno, questo signor Ceretti, e fargli passar la voglia di amoreggiare colle sue pigionali.
—__Amen__!—rispose tra due bocconi il nostro Michele, a cui le buone promesse dell'altro avevano fatto tornare l'appetito.
Il Bello si fermò un tratto, in atto di bere, ma guardando fiso Michele tra l'arco delle sopracciglia e l'orlo del bicchiere. L'aria di tranquillità e di contentezza che sedeva in volto al servitore di Lorenzo Salvani, dovette rassicurarlo senz'altro, perchè si provò a mettere il dito su d'un tasto più delicato, il quale egli non ardiva toccare, se non quando il suo cembalo, che era Michele, fosse inzuppato di vino.
—E quella povera signorina non sa ancor nulla de' suoi parenti?
—E che volete che sappia? Non vi ho già detto?…
—Sì, m'avete detto che il segreto non si potrà conoscere fino a tanto che la ragazza non vada a marito. Ma questo mi pareva più un consiglio che un comando del colonnello Salvani; e per me, caro Michele, se fossi nei panni del signor Lorenzo, vorrei sapere che cosa c'è nella cassettina d'ebano.
—Oh!—interruppe Michele.—I vecchi hanno raccomandato che non si aprisse, e ci avranno avute le loro buone ragioni. Che cosa importa in fin dei conti che la signorina Maria sappia da chi nasce, se lo stato suo non ha da averne miglioramento? Quando la dovesse andare a marito, non dico di no! Bisogna pure che un uomo sappia con chi si ammoglia….
—Avete ragione;—incalzò il Bello;—ma, tant'è, la non m'entra. Il signor Lorenzo potrebbe, se non per dirlo alla signorina, almeno per suo governo, ficcar gli occhi là dentro, in cambio di tenere quella cassettina chiusa nella scrivania.
—Nel cassettone, nel cassettone!—disse Michele.—E sta bene dov'è. Il signor Lorenzo venera la memoria di suo padre, e non sarà mai per contraffare a' suoi ultimi desiderii. Onora il padre e la madre! dice il primo comandamento del __Catalogo__.—
Il Bello sapeva quello che gli premeva di sapere, che la cassettina d'ebano non era stata aperta, e che era sempre chiusa nel cassettone in camera di Lorenzo Salvani; però fece mostra di convenire nella sentenza di Michele.
—Non voglio contraddirvi. Quello che dite è sacrosanto, e mi pare che il fatto torni a maggior lode del nostro signor Salvani.
—E in che modo?
—In quella cassettina,—soggiunse il Bello,—qualunque cosa ci sia, egli potrebbe pur sempre trovare un principio di fortuna. I segreti valgono tant'oro, e talvolta anche più dell'oro. Ora, se il signor Salvani credesse utile pel bene della sua sorella adottiva di aprire la cassettina, a chi farebbe egli danno? Che male ci sarebbe?
—Nessuno certamente!—disse Michele.
—Orbene, egli intanto non pensa a cavar profitto dal segreto, e si contenta, poveretto, di vivere onoratamente alla sera….
—Ahimè!—interruppe il servitore,—voi non sapete che non guadagna più nulla?
—Io no; ma come la è andata?
—Oh, gli è proprio il destino, che ha fisso il chiodo di tormentarlo. Figuratevi che quindici giorni or sono, anzi, se non piglio errore, pochi giorni dopo che io vi avevo parlato di quel poco guadagno che il signor Lorenzo faceva, il bottegaio, senza dirgli nè can nè gatto, lo ha mandato con Dio.—
Il Bello, mentre Michele parlava, si messe a centellare il fondigliolo del bicchiere, spiando con gli occhi il volto del compagno. Il candore di Michele lo rassicurò.—Che diamine?—pensò egli.—Se il bighellone sospettasse di me, non si lascerebbe più cogliere col vino in corpo, e non aprirebbe più becco.—
Fatto questo discorso tra sè, il Bello depose il bicchiere, dicendo con aria di compassione:
—Oh povero signor Salvani. E adesso fame e sete?…
—Sì, certo, fame e sete! Si sta in piedi per quella santa della signorina Maria! Se vedeste come lavora dì e notte, con quei ditini, per aiutar la casa! Vedete, quando ci penso, non mi dà più l'animo di mangiare nè di bere….
—Ottimo Michele! Ma consolatevi; tutti questi malanni debbono finire. Il signor Lorenzo, sebbene non paia, è nato vestito. Dov'è l'uomo che non ci abbia avute mai le sue burrasche? Il sereno presto o tardi ritorna; fateci assegnamento. E poi, se non vi dispiace, a queste necessità del signor Lorenzo ci ho da pensare un tantino ancor io.
—Davvero? Farete questo?
—E perchè no? Uno per tutti e tutti per uno, a questo mondo. Alla salute del signor Lorenzo e della signorina Maria!—
E così dicendo il Bello versò da bere per Michele e per sè.
—Sono brindisi ai quali non mi vedrete mancar mai;—gridò Michele;—ma prima che io beva quest'altro, che sarà forse il ventesimo….
—Eh via! Stiamo a vedere che avrete bevuto tutto voi.
—So quello che dico. E prima che io perda a dirittura la bussola, voglio dirvene una, col cuore in mano. Ma sapete, Garasso, che voi siete un vero amico? Quando dicevano che di voi non c'era da fidarsene!—
Il Bello si turbò fortemente a quelle parole; ma Michele, già alticcio com'era, sebbene non avesse bevuto i venti bicchieri che diceva, non si addiede punto del senso che le sue parole avevano fatto sul compagno.
—Chi ha detto ciò?—proruppe il Bello, aggrottando le ciglia.
—Non date retta;—si affrettò a dire Michele, battendo amorevolmente della mano sul braccio del Bello;—non date retta! sono i soliti invidiosi; perchè vi vedono scialarla nella bucolica e andar vestito come un signore.—
Il Bello respirò, e tanto più largamente, quanto più forte ed improvviso era stato il timore che alcuna delle sue malizie fosse trapelata.
—A dirvela schietta. Michele,—rispose egli allora,—io non giudico gli uomini dai cenci che hanno dattorno, come è costume dei cani. Sotto le vecchie ciarpe c'è quasi sempre un uomo dabbene….
—Certo!—interruppe Michele.—Bandiera vecchia fa buon brodo…. Cioè, piglio un granchio a secco; volevo dire gallina vecchia onor di capitano.
—Che guazzabuglio fate voi ora?
—No, non volevo dire nemmeno cotesto. Ma dove diamine ho il capo?
Insomma, dicevamo che i cenci….
—Sono rispettabili, Michele mio;—ripigliò il Bello,—ma i cenci vanno a finire a Voltri nelle cartiere; e quando si può farne senza, non intendo il perchè non s'abbia a vestir pulito ed avere i buoni bocconi in quel concetto che si meritano. Spendo forse qualcosa d'altri? Oh, Michele, guardate un po'! La vita politica è piena di amarezze. Coloro che vi gridano la croce addosso saranno poi certuni per i quali vi sarete cavato, sto per dire, la camicia!…
—Può darsi anche questo!—rispose Michele.—Costoro vi pettinavano con le unghie, ed aggiungevano ancora, come un grosso delitto, che andavate a giuocare nelle bische. Ma io v'ho difeso, veh! Ce ne va tanti a sdanaiarsi in que' luoghi, senza che s'abbia a dirne corna! È un guaio, lo so; ma alla stretta de' conti non è la morte Domini.
—E poi, giuoco così poco!—soggiunse il Bello,—Non si sa che fare, in queste lunghe serate. I compagni vi tirano, e voi sapete che in compagnia anco il prete prende moglie. Ma vi so dir io che non mi ci colgono più, dopo che m'hanno strinato in modo da non poter più fare servizio a un amico come voi!
—Garasso, sentite una cosa!—disse Michele.—Oramai vi ho conosciuto; e chi ardirà sfringuellare sui fatti vostri l'avrà a fare con me. Michele, il veterano, il legionario d'America, si sente ancora in gambe, come a venticinque anni, e giurammio?…
—Proviamole dunque un tantino, le vostre gambe!—soggiunse il Bello, levandosi da sedere.—È ora di andarcene.
—E perchè mo'?
—Non vedete? Si chiude la bettola. È già il tocco dopo la mezzanotte, e se passano i sergenti della Questura, pigliano l'ostessa in contravvenzione ai regolamenti.
—Peccato!—rispose Michele, senza muoversi ancora.—Si stava così bene! Maledetti regolamenti! Ma che cosa ha da farsene la Questura, che la gente ne beva un gotto di più? La si occupi dei ladri, lei, e lasci stare i galantuomini a far la digestione!
—I sergenti della Questura,—disse il Bello,—vogliono andarsene a dormire, e bisogna pure contentarli.
—Ah, quando è così, non parlo più. Un ultimo bicchiere almeno, alla salute di Oreste e Come diamine si chiama quell'altro?
—Pilade.
—Sì, alla salute di Oreste e Pilade. Benedetto vino! L'ultima goccia è sempre migliore della prima. Basta, leviamo la seduta; ed ora vi farò vedere come vado ritto al banco della padrona.—
Ciò detto, il nostro Michele si mosse; ma per quanto si studiasse di tenersi ritto, le gambe, che forse si erano avvedute di un peso soverchio, lo portavano a sghimbescio contro la parete.
—Ah! Michele! Giuochiamo forse a mosca cieca? Badate al muro.
—Avete ragione; le gambe mi fanno fico. Per fortuna la testa è salda.
—Venite qua a braccetto; Oreste e Pilade non usavano fare diverso in simili casi.
—Credete? Allora son qua. E a proposito abbiamo pagato il conto?
—Non ve ne date pensiero; qui faccio a credenza.
E così, tolto Michele a braccetto, il Bello lo condusse all'aria aperta; nè ebbe a sudar poco per metterlo all'uscio di casa.
—Bravo Garasso! ottimo amico!—andava balbettando Michele.—Non so che diamine io ci abbia nelle gambe, che non vogliono star ritte. Ma tant'è, vi voglio bene. Siamo Oreste e…. aiutatemi a direi Questo benedetto nome non vuole mai venirmi in mente. Oreste e…. Oreste e….
—E pilastro!—soggiunse ridendo il Bello.—Eccovi infatti a casa vostra.
—Sì, è proprio casa mia! Cioè…. di mastro Ceretti. Se fosse mia, l'avrei già venduta…. per pagar la pigione…. Ma, a proposito, e quella faccenda?… Mi avete promesso…. Sapete pure!…
—Non dubitate. Domattina andrò dall'amico. Alle due vi aspetto sotto i portici del teatro Carlo Felice, per darvi la risposta. Andate dunque, da bravo!
—Sotto i portici?… Sta bene;—proseguì Michele con quella cascaggine di discorso e di gesti che è propria degli ubbriachi.—Vi aspetterò sotto i portici, accanto al primo pilastro. Pilastro! A proposito. Oreste e Pilastro, non è egli vero? Pilastro, sicuro; amici come Oreste e Pilastro. Bravo Garasso! Vi voglio un gran bene.—
Al Bello ci volle di molto per liberarsi dalle strette di Michele; e certo, se non era il ricordo di tutte le cose che gli aveva cavate di bocca e la speranza di cavargliene ancora, quello squassaforche avrebbe perduto la pazienza e avrebbe mandato il suo Pilade a quel paese.
—Andate, suvvia, andate, e soprattutto badate a non dar del naso per le scale. Tenetevi al muro!
—Oh, non dubitate. Non sono mica ubbriaco, io. Ho le gambe un pochino impacciate…. ma la testa è salda, la testa! Bravo Garasso! Amicone! Buona notte, e il cielo vi guardi dalle cattive disgrazie.
—Sì, state sano; buona notte!—
E così dicendo, il Garasso, per non aver più tempo a perdere con
Michele, se ne andò via difilato verso Soziglia.
Michele si provò a dargli ancora la buona notte; ma, non udendo risposta, si inerpicò al buio fino all'ultimo piano; viaggio che durò una buona mezz'ora, con tutte le fermate, con tutte le peripezie dei viaggi, e con un monologo scucito per giunta alla derrata.
Come fu all'ultimo piano, il nostro Michele trovò faccia di Legno. Stette un po' come smemorato, ora tastando l'uscio per cercare la corda del campanello, che pure ci aveva ad essere, ora le tasche della giubba, per cercare la chiave, che non c'era per fermo; finalmente, traendo una giustissima conseguenza da due premesse ignote, uscì in queste parole:
—Non c'è che dire; sono un po' brillo.—
Dalla confessione alla penitenza non c'era altro che un passo. E Michele, per fare la penitenza, si lasciò andare sul pavimento, si accoccolò alla meglio col capo sulla soglia di casa, e non passarono cinque minuti che egli aveva già legato l'asino a buona caviglia.
La dimani d'una brutta giornata.
Ognuno s'immagina come avesse a stare delle membra e dell'animo il nostro Michele la mattina vegnente.
Soltanto il cane, quando ne ha fatto qualcheduna delle sue e nella sua testolina da bestia più ragionevole di tante altre accorgendosi di aver meritate le busse, mette la coda fra le gambe e non trova un angolo abbastanza buio per nascondersi, soltanto il cane, diciamo, potrebbe darci un'immagine di quello che fu il povero veterano d'America, quando i primi raggi del sole furono venuti a svegliarlo.
Intirizzito dal freddo, indolenzito per tutte le giunture, si alzò sui gomiti e, guardatosi dattorno, si avvide di aver dormito sul pianerottolo di casa. Sulle prime non voleva aggiustar fede a' suoi occhi; però, credendo di sognare, se li stropicciò più e più volte con le ruvide dita. Ma non c'era verso che lo spettacolo mutasse: egli era proprio sul pianerottolo, e lì presso al suo capo era l'uscio di casa.
—Che diamine!…—esclamò egli allora, cercando di richiamare i suoi pensieri a capitolo, come tanti canonici.
E i pensieri vennero, e il nostro Michele allora si risovvenne di tutto, e perfino della corda del campanello ch'egli aveva inutilmente cercata.
Corda del malanno! Essa era là, pendente dalla girella, con le sue fila di lana intrecciata, colla sua nappa in fondo, grazioso lavoro della signorina Maria, e pareva beffarsi del povero Michele.
Egli la guardò un pezzo, come trasognato, e stropicciandosi gli occhi da capo, disse tra sè, ma a voce alta e con piglio malinconico:
—Dovevo esser proprio ubbriaco fradicio, per non ritrovarla!—
Michele era di buon conto a stomaco digiuno, e chiamava le cose pel loro nome, senza rigiri o dimezzature. La sera innanzi ammetteva di essere un po' brillo; ma la mattina dopo diceva apertamente: ubbriaco, mettendoci anche di costa l'epiteto.
—E adesso come si fa ad entrare?—seguitò egli a dire.
—Che cosa penseranno de' fatti miei?—
La vergogna di Michele era grande; e fu più grande ancora, quando gli risovvenne di tutti i discorsi fatti col Bello nell'osteria __degli Amici__.
Le sue ciarle e le faccende domestiche spiattellate al Garasso, non gli parevano la cosa più bella del mondo. Egli non sapeva perchè, ma in fondo al cuore gli doleva di aver detto tanto, e, come dicono a Genova, gli prudeva la coscienza.
—Alle strette,—disse egli, dopo aver meditato un pezzo,—ho parlato a fin di bene. Il Bello è dei nostri, sta come pane e cacio con tutti gli amici, e pel signor Lorenzo si butterebbe nel fuoco. Che male c'è a dirgli come stanno le cose? Oggi intanto avrò i denari della pigione. To', se non avessi cantato, i fringuelli non sarebbero calati.—
I fringuelli di Michele erano quelle dugento lire che aspettava dal Bello. Questo pensiero gli rimesse il sangue nelle vene; ond'egli si fece animo a tirare, sebbene dolcemente, la corda del campanello.
Poco stante un leggiero mutar di passi e il fruscìo di una gonna lo avvisarono dell'avvicinarsi della signorina Maria. La chiave girò adagino, adagino nella toppa e, apertosi l'uscio, comparve la giovinetta che teneva un dito sulle labbra, per fargli cenno che non parlasse troppo forte.
—Siete voi, Michele?—bisbigliò la fanciulla.
—Oh, signorina!—rispose egli, arrossendo.
—Zitto, zitto, per carità, che Lorenzo non v'abbia a sentire!—
Così dicendo. Maria fece entrare il servitore e richiuse l'uscio con le stesse precauzioni: poi precedette Michele, camminando sulla punta dei piedi, fino all'andito della cucina.
—Orbene, Michele,—disse ella, come furono giunti,—dove siete andato stanotte?
—Oh, signorina!—rispose tutto turbato il nostro Michele.—La mi perdoni…. Anzi no, la mi bastoni, che lo merito. Un amico….
—Vi ha fatto passar la notte fuori,—soggiunse la fanciulla, per compire la frase.
—Oh no, la notte fuori. Ho dormito sul pianerottolo.
—Bravo! E perchè non avete suonato?
—Non ho ardito…. anzi, a dirla schietta, non ho potuto. Ho cercato un pezzo la corda del campanello, e non ne sono venuto a capo. Ero un po'…. mi capisce?
—Sì, vi capisco. Andatevene a letto, povero Michele. Lorenzo non si è avveduto di nulla.
—Andate a letto? No, certo, padroncina. Ho da andare per la spesa.
—Che! avete tempo più tardi, e busserò io all'uscio per risvegliarvi tra un paio d'ore. Andate, Michele, da bravo! Avete gli occhi così gonfi!—
Michele, tra spinte e sponte, se ne andò su per la scaletta fino al soppalco del tetto, dov'era la sua cameruccia, e si pose a letto. Ma non gli venne fatto di prender sonno. Il rammarico di avere alzato un po' troppo il gomito, il rimorso di aver chiacchierato e l'ansietà di andare al convegno del Bello per le dugento lire, non gli lasciarono chiuder occhio.
Però egli udì Lorenzo alzarsi dal letto, e più tardi uscire di casa. Suonavano appunto le dieci all'orologio delle Vigne. Allora egli, che, se non aveva dormito, s'era almeno levato il freddo dalle ossa, balzò dal letto a sua volta, e volle uscire per la spesa consueta.
La padroncina era più contenta quando egli discese, e si fece anzi a dargli cortesemente la baia per la sua scappatella notturna; la qual cosa gli parve di buon augurio e gli fece andar fuori del capo tutta la malinconia.
—Rida, rida, la mia buona padroncina!—diceva egli in cuor suo.—Ella sarà due volte più allegra quando tornerò a casa coi denari della pigione, e li snocciolerò sulla tavola. Ma che dico sulla tavola? O non sarebbe meglio portarli a dirittura giù a quel brutto muso del padrone di casa? Gli ha già sentito il peso delle mie dieci dita, e non sarà forse male che io gli metta fuori un marenghino per dito, a mo' di consolazione. Sì, certo, farò così; se non gli garba, mi rincari il fitto, che intanto non s'ha voglia di rimanerci molto, nella sua casa!—
Questi pensieri lo tennero in aria fino alle due dopo il mezzodì. Era quella, se i lettori rammentano, l'ora del ritrovo col Bello; e il nostro Michele, per non far aspettare l'amico, s'era andato ad appostare mezz'ora prima sotto i portici del teatro Carlo Felice.
Ma aspetta, aspetta, il Bello non veniva. Michele ad ogni tratto si affacciava alla invetriata della bottega da caffè del Teatro per misurare sull'orologio, che era presso il banco della padrona, il cammino del vecchio alato che ha la falce e la clessidra in mano. Il tempo passava; erano già le due e un quarto, e l'amico non si vedeva spuntare da nessun lato.
Aspettare e non venire è una cosa da morire; così dice il proverbio. Ora, se Michele non moriva, certo era in agonia, e se non mandava pel prete, si votava per contro a tutti i diavoli dell'inferno. Vennero le due e mezzo, ed egli era ancora a recitare sotto i portici il paternostro della bertuccia. Ma allora andò fuori dei gangheri, e dopo aver dubitato dell'amicizia in genere e perfino di quella esemplarissima di Oreste e…. e aiutatelo a dire, si mosse per tornarsene a casa. Se egli avesse saputo dove stava di casa il Bello, sarebbe andato a cercarlo; ma non sapendone nulla, pensava di ricattarsi la sera in qualche sala da biliardo, o in qualche osteria, dove bazzicava l'amico.
Il nostro Michele non si sarebbe doluto tanto di non vedere il Bello, se avesse saputo perchè la sua padroncina era contenta, quando egli s'era alzato da letto.
Abbiamo narrato nel capitolo precedente che Lorenzo Salvani, uscendo di casa, era andato a' Banchi per salutare l'Assereto. Quello non era un amico dei soliti, un amico del buon tempo, e Lorenzo poteva dire di lui come Beatrice di Dante: «__l'amico mio e non della ventura__». L'Assereto aveva notata la tristezza di Lorenzo, e lo aveva tanto incalzato di affettuose domande, che questi gliene aveva detta finalmente la cagione.
L'amico non era ricco; ci correva anzi di molto! Sudava le intiere giornate per tirarla innanzi onestamente, e non aveva i gruzzoli di monete, da far comodo altrui. Ma egli era, come i lettori sanno, un ottimo giovanotto ed aveva molti e schietti amici, in quella classe dove abbondano gli onest'uomini, i cuori larghi tanto, sebbene il nome di mercatanti, di gente da traffichi, sia quasi tolto in mala parte dagli ignari delle costumanze del mondo.
Ad uno di questi amici pensò l'Assereto di chiedere a prestanza il denaro che poteva occorrere a Lorenzo, e frattanto lo confortò a star di buon animo, che la mattina vegnente egli avrebbe accomodato ogni cosa.
E tenne la promessa. Aveva avute nella sera trecento lire, e quando Lorenzo tornò a' Banchi nella mattina, il buon Assereto si procacciò la consolazione di far da banchiere all'amico.
Le cose narrate spiegano il perchè Maria apparisse tanto gaia a Michele, quando egli scese dalla sua cameretta. Lorenzo, prima di uscire di casa per andare a prendere il danaro, aveva narrato alla sorella del cortese aiuto proffertogli dall'Assereto; e la buona Maria s'era dimenticata di tutti i suoi dolori, per partecipare alla contentezza del giovine. Essa non gli aveva detto nulla dell'insolenza del Ceretti e de' suoi ardimenti ingiuriosi. Però il Salvani, appena fu tornato dalla piazza de' Banchi, salì tranquillamente al primo piano, in casa Ceretti.
Il biondo Arturo era seduto alla sua scrivania, in mezzo a fasci di carte bollate e non bollate, scritte di locazione, atti di citazione, conti di capomastri e va dicendo. Impallidì, come vide Lorenzo entrar nella camera, e pensò che fosse venuto a chiedergli ragione della scena del giorno innanzi; laonde stette con l'animo sospeso, aspettando che parlasse.
—Signor Ceretti,—disse Lorenzo,—vengo a pagarle la pigione. Ella vorrà tenermi per iscusato, se l'ho fatto aspettare.—
Il biondo Arturo rispose con un cenno del capo che pareva significasse una cortese condiscendenza, e non era altro che effetto del suo turbamento.
—Che egli non sappia nulla?—chiese tra sè, cominciando a ricogliere il fiato.
—Ecco dunque le dugento lire; che a tanto ascende il mio debito, se non m'inganno.
—Sta bene!—rispose il Ceretti, e si fece a contare il denaro, che
Lorenzo gli aveva posto dinanzi.
Ma lo contava con le dita, e la sua mente non vigilava il conto. Egli infatti temeva che, saldato il debito, Lorenzo Salvani uscisse fuori con qualche sfuriata, e a questo pensiero i polsi gli davano le battute doppie.
La commozione non gli impedì tuttavia di notare che Lorenzo Salvani, quello spiantato, com'egli lo chiamava, ci aveva le sue brave monete d'oro (usavano ancora, a que' tempi!) e dopo aver date a lui le dieci che entravano nel conto della pigione, gliene rimanevano ancora parecchie nel cavo della mano. Ora notar questa cosa e sapergli male fu tutt'uno.
Ma gliene sapesse male, o no, il denaro della pigione era lì sulla scrivania, e il biondo Arturo non potea farci un bel nulla, salvo la ricevuta, che infatti egli scrisse e diede a Lorenzo senza aggiunger parola.
Egli s'aspettava sempre che dopo il pagamento venisse la sfuriata. Ma Lorenzo, messa in tasca la ricevuta, si congedò dal Ceretti, dopo avergli stesa la mano, che questi si affrettò a stringere, più turbato che mai.
—Non ne sa nulla!—disse il Don Giovanni tra sè, appena Lorenzo fu uscito.—Tanto meglio. È stato un brutto quarto d'ora. Per buona sorte l'innocentina non ha parlato. Ma, tant'è, mi debbo vendicare di costoro.—
Vendicarsi! Era presto detto; ma in che modo? Qui stava il busilli. Così pensando, Arturo s'era alzato dal banco e passeggiava per la camera, con le mani raccolte dietro le spalle e contando con gli occhi i quadrelli del pavimento. Ma i quadrelli non gli insegnavano nulla. Lo spediente di mettere quello spiantato fuori di casa gli era parso il più acconcio; ma era anche l'unico al quale egli avesse potuto appigliarsi. Intanto quello spiantato era venuto fuori col denaro; la pigione era pagata fino all'ultimo giorno di giugno, e non c'era neanche da fare assegnamento sulla disdetta, perchè il contratto di locazione andava fino all'ultimo di settembre.
Mentre egli stava, o, per dir meglio, andava ruminando a quel modo, senza poter cavare un costrutto da' suoi proponimenti feroci, udì un timido picchiar di nocche nella invetriata che gli teneva luogo d'uscio nelle ore di giorno.
—Avanti!—diss'egli, non senza un po' di dispetto per quella improvvisa seccatura.
L'invetriata si aperse, e gli si parò davanti un giovinotto biondo, che i lettori conoscono.
—È qui il signor Ceretti?—chiese costui.
—Per l'appunto. Ceretti padre e figlio. Chi cerca dei due?
—Il figlio. E sarà Vossignoria….
—Sì, sono io. In che cosa posso servirvi?
—Ho da dirle due parole a quattr'occhi. Posso parlarle?
—Parli pure; qui non c'è altri. Ma chi è Lei?
—Oh!—rispose il nuovo venuto;—il mio nome importa poco. Vengo da parte del signor Bonaventura Gallegos.
—Io non conosco questo signore!—soggiunse il Ceretti.
—Lo so,—si affrettò a dire quell'altro,—e appunto per ciò il signor Bonaventura mi ha incaricato di dirle queste due paroline all'orecchio.—
E si accostò al biondo Arturo, il quale, incerto com'era, lo lasciò fare. Ma appena quelle paroline gli furono bisbigliate, il Ceretti rizzò il capo, e arrossendo esclamò:
—Ma chi è questo signore? Come sa egli?…
—È un signore che sa molte cose,—rispose l'altro,—e che può aiutarla ne' suoi disegni. Egli dimora in via Nuova, palazzo Torre Vivaldi, ultimo piano, e l'aspetta in casa fino alle otto.
—Sta bene, ci andrò.—
Ciò detto, Arturo si diede da capo a passeggiare. L'altro se ne andò via, dopo avergli fatto un inchino.
—Che cosa vorrà da me questo signore? Il nome mi sa di forestiero. Sarà forse qualche usuraio, il quale avrà delle cambiali del Salvani, e penserà di appiopparmele! Ma in che modo ha egli da sapere i fatti miei? __Vendicarvi del Salvani__! Sono parole magiche, e cascano proprio in taglio. Andiamo dunque, e vedremo di che si tratta.—
Intanto che il biondo Arturo si disponeva ad andare in casa del padre Bonaventura, il messaggero scendeva le scale sollecito. Pareva non vedesse l'ora di esserne fuori.
Ma eccoti, in quella che era per mettere il piede dalla soglia sulla strada, s'imbattè nel nostro Michele, che aveva già alzato il suo dalla strada alla soglia.
—Michele!—esclamò il primo, con aria d'ingrata meraviglia.
—Garasso!—esclamò l'altro.—Ed io che vi ho aspettato finora sotto i portici del Teatro!—
Per andare dal Ceretti a far l'ambasciata del padre Bonaventura, il Bello aveva scelto appunto quell'ora ch'egli aveva stabilita pel suo ritrovo con Michele, sotto i portici del Teatro. Egli era sicuro per tal modo che Michele non lo avrebbe incontrato.
Infatti Michele, che stava ad aspettarlo, non lo aveva veduto entrare: e il Bello era per farla netta, quando nell'uscire dal portone di casa, s'imbattè nell'unico uomo che avrebbe voluto non trovarsi tra' piedi.
Se Michele odorava la trappola, il Bello potea dire per fermo d'aver rotte l'ova in sull'uscio. Ma Michele non poteva aver sospetto di nulla, e l'amico non era uomo da affogare in un bicchier d'acqua.
Egli però, correggendo il suo primo atto d'uomo colto sul fatto, si fece ad esclamare:
—To'! cercavo appunto di voi.
—O come?—rispose Michele, fresco ancora della sua aspettazione e de' suoi paternostri.
—Sì; che volete?—soggiunse il Bello.—Ero un po' in cimberli, iersera, e questa mane non son venuto a capo di ricordarmi dove diamine vi avessi dato appuntamento.
—Anche voi?—disse Michele.—Dovevate esser proprio più fradicio di me, poichè io non ho dimenticato nè le due dopo il mezzodì, nè il primo pilastro dei portici del Teatro.
—Ah, per Diana! L'avrei giurato io, che s'aveva a vederci sotto i portici; ma quel maledetto Monferrato m'aveva messo il cervello a soqquadro.
—Ed ora,—ripigliò Michele,—venivate a cercarmi?
—Sì, ma giunto all'ultimo piano, e mentre stavo lì per dare una strappata al campanello, ho pensato che non era prudente farmi scorgere dai vostri padroni. Il signor Lorenzo poteva vedermi, e voler forse sapere che negozi io ci abbia con voi.
—E non avete suonato?
—No. Garasso, dissi tra me, non facciamo sciocchezze! Scendiamo in istrada, ed aspettiamo Michele. È un uomo casalingo; se è fuori per cercare di noi, non istarà molto a ritornare.—
Michele non poteva trovar nulla a ridire nel discorso del suo Oreste. Egli trovava il Bello nella sua scala, e questo era segno che l'amico non lo aveva punto dimenticato. Il vino gli aveva fatto uscir di mente il luogo del ritrovo: ma che perciò? Quel liquido malaugurato aveva pure impedito a lui di trovare la corda del campanello!
—Avete ragione;—diss'egli adunque.—Ritorno infatti dal luogo che mi diceste ier sera. Perdonatemi ora, se ho pensato un po' male di voi.
—Oh, Michele!—esclamò l'altro, con aria dolente.—potevate voi
credere che dimenticassi l'amico?
—L'ho creduto, ho fatto male, e vi prego di perdonarmi. Ma veniamo al buono; i cum quibus?…
—Ho fatto l'impossibile per averli e portarveli; ma la m'è andata male. Giornata infame, caro Michele, giornata maledetta! Già, dicano pure che è una superstizione; ma in martedì non s'avrebbe mai da far nulla, perchè tutto va alla peggio.
—Ahi! ahi!—disse Michele, facendo il muso più lungo della quaresima.—Siamo fritti, dunque?
—No, no; quello che non s'è fatto oggi può farsi domani. C'è un tale a cui ho fatto capo, il quale mi ha detto che tornassi domani, e m'avrebbe dato la risposta. In quanto all'altro, sul quale facevo assegnamento, m'ha girato nel manico. Oh, Michele! che mondo! Come son fatti gli uomini! Tutti per sè, tutti fradici d'egoismo.
—Piove sul bagnato!—rispose Michele, il quale era filosofo in certi casi.—Sono storie che io so a menadito. Ma se domani gira nel manico anche l'altro?…
—Oh, non voglio crederlo! E poi, c'industrieremo tanto, che troveremo quel che vi occorre. La vedremo, perdio! Vedremo se due galantuomini come voi ed io, hanno a limosinare dugento lire e non trovarle da nessuna banda. Io (vedete, Michele?) fo già conto di averle in saccoccia.
—Amen!—conchiuse Michele.—A domani, dunque. E dove ci vedremo?
—Nello stesso luogo. Oggi son sano, e non lo dimenticherò certamente.
Ma, a proposito, non andiamo a bere un bicchierino?
—Acquavite? No!—rispose Michele, aggrottando le ciglia.—Nè acquavite, nè altro. Ho deliberato di non ber più altro che acqua di pozzo, fino a tanto non sia condotto a fine questo negozio.
—Michele, badate! L'acqua rovina i ponti. Per buona sorte il vostro voto non ha da durare se non ventiquattr'ore.
—Diceste il vero! Ed io vi prometto per domani di far con voi a chi beve di più.
—E birba chi manca!—rispose il Bello, stringendogli la mano.—
Poco dopo questo dialogo di Michele col Garasso, Arturo Ceretti andava dal padre Bonaventura.
Costoro s'intesero per bene, quantunque il primo non sapesse le ragioni del secondo. Il padre Bonaventura non era uomo da lasciarsi leggere nell'animo; e il Collini medesimo, tanto più addentro di ogni altro nelle segrete cose, era a mala pena al frontispizio.
Arturo, del resto, non cercava d'indovinar nulla. Aveva capito che c'era uno, il quale voleva male al Salvani, e non gli premeva punto di sapere il perchè, sebbene quest'uno sapesse il suo. Di questo modo si accordarono presto.
Il padre Bonaventura, messo al chiaro di ogni cosa dai racconti solleciti del Bello, aveva veduto d'un subito il gran profitto che si poteva cavare da un Don Giovanni scornato e picchiato, desideroso di vendetta e corto d'ingegno per giunta. Poi che lo ebbe giudicato di veduta, si raffermò nel proposito, e in quella che l'altro si lasciava andare a lui come la biscia all'incanto, nacque in mente al padre Bonaventura quel disegno infernale che vedremo uscir fuori tra breve.
In quanto ai denari che Michele chiedeva a prestanza dal Bello, questi avrebbe pure voluto darglieli subito. Ma il padre Bonaventura, anco ammettendo, giusta il parere del Bello, che quell'imprestito gli avrebbe reso Michele più maneggevole, aveva saviamente notato che i denari potevano migliorare lo stato di casa Salvani, e che anzitutto occorreva abboccarsi col Ceretti. Aspettasse dunque, e facesse aver pazienza a Michele.
Ma dopo aver parlato col biondo Arturo, entrava anche meno nei disegni del gesuita di metter fuori le dugento lire. La pigione era stata pagata; nè Arturo, ne il padre Bonaventura, per quanto si stillassero il cervello, potevano indovinare donde fosse caduta a Lorenzo Salvani quella pioggia di Danae.
Degli apparecchi che fece la contessa Cisneri per andare ad una festa da ballo.
Le necessità del nostro racconto ci conducono da capo in casa della contessa Matilde Cisneri.
Era lo stesso giorno in cui Lorenzo aveva pagato il suo debito al padrone di casa, e sebbene fossero già scoccate le nove di sera, la contessa Matilde era nel suo spogliatoio; santuario della bellezza, dove non era penetrato altri che il gran sacerdote, o vogliam dire il parrucchiere. Ma già il gran sacerdote era partito, dopo aver acconciato mirabilmente i biondi capegli della diva, e sottentrava la sacerdotessa, anzi diciamo la cameriera Cecchina, che disponeva in bell'ordine le sottane insaldate, il crinolino, una magnifica gonna di seta azzurra, ed altri arnesi, i quali aspettavano d'essere stretti intorno alla persona della bella contessa.
Matilde intanto, coperte le spalle da un bianco accappatoio, stava di profilo dinanzi ad uno specchio a bilico, ma guardando di sbieco in una piccola spera che aveva tra mani, la quale, come il lettore ha già indovinato, le faceva vedere tutta l'acconciatura del capo, già riflessa una volta dallo specchio più grande. Così, guardandosi per tutti i versi, la bionda contessa sorrideva; segno che era molto contenta della sua testolina.
Ma perchè e per chi la contessa Matilde si faceva così bella, alle nove di sera? Il sullodato lettore ha già indovinato anche questo. La contessa Matilde si metteva in assetto di guerra per una festa da ballo, alla quale era stata invitata, in casa Torre Vivaldi.
Con quella gran festa i Torre Vivaldi chiudevano la loro stagione di città, pochi giorni innanzi di andare in campagna. Ora, siccome il lettore avrà ad udir molto di quella famiglia, che è già comparsa una volta nel nostro racconto, non sarà inutile che ci fermiamo un tratto a parlarne.
La famiglia Vivaldi, o, per meglio dire, quel ramo della famiglia, di cui la bella marchesa Ginevra era l'ultimo rampollo, non si dipartiva mai dalle sue consuetudini. Da parecchie generazioni era costumanza di tutti gli anni andar presto in villeggiatura e tornare tardissimo.
E i Vivaldi non avevano il torto ad osservarla fedelmente; perchè nel palazzo di Quinto era un magnifico stare, quasi meglio che nel palazzo di Genova, dove gli affreschi, le dorature, le sculture e le tele di valenti pittori d'ogni scuola, facevano sempre un viavai di forestieri, che era una molestia da non dirsi a parole, quantunque tornasse a maggior lustro della casa.
La villa di Quinto era un luogo incantato, una dimora di Alcina, con questo di meglio che la fata regina si chiamava Ginevra, e le grazie della sua persona non erano effimere come quelle della vecchia strega immaginata dal divino Ariosto. Colà era il palazzo, edificato coi disegni di Galeazzo Alessi; il giardino stupendo, piantato con gusto italiano innanzi che i forestieri ci rimpastassero e ci imbandissero come nuova la nostra invenzione; i viali ombrosi, i prati verdeggianti, il laghetto, la __Corte di amore__, e finalmente il teatro, acconcio alla recitazione di drammi pastorali e commedie villerecce, fatto con erbosi rialzi di terra, siepi di bosso e __quinte__ di alloro. Colà gli opulenti abitatori non avevano certo da rimpiangere la città, e la presenza degli amici consolava della mancanza di tutti quei visitatori, spesso molesti, che tira ai fianchi la consuetudine del vivere cittadino.
Un'altra usanza, stabilita in casa Vivaldi dalla marchesa Tullia, bisavola di Ginevra, e famosa nelle memorie nostrane per la sua stupenda bellezza e per l'ingegno che ebbe grandissimo su tutte le donne ed anco su molti uomini colti del suo tempo, era quella delle due feste da ballo.
Le sale di casa Vivaldi erano aperte ai visitatori consueti in tutte le sere di martedì; ma la gran sala, la sala massima, era illuminata soltanto due volte all'anno, la prima sul cominciare del carnevale, la seconda in primavera, e in quelle due occasioni si facevano inviti formali.
Erano quelle feste come il primo saluto e l'addio, l'__ave__ e il __vale__ della famiglia agli amici suoi e a tutte le sue aderenze cittadine. E in quella guisa che erano solenni, così attiravano tutta la nobiltà mascolina e femminile, e l'alta borghesia mascolina della città. Le signore della borghesia non erano invitate, salvo il caso che fossero nate nobili, o avessero trentasei quarti di bellezza e ricchezza, che possono ben tener luogo di stemma gentilizio.
Delle due feste da ballo di casa Vivaldi si usava parlare per tutta Genova molte settimane innanzi. Erano solennità a cui bisognava prepararsi, i mariti con un esame di borsa, le mogli con una conferenza dalla sarta. In quelle sere poi che si ballava in casa Vivaldi, i palchetti del teatro Carlo Felice erano quasi tutti deserti delle solite deità femminili. Le signore che andavano al ballo dovevano acconciarsi; quelle che non ci andavano, dovevano far credere che ci andassero. Le feste di casa Vivaldi erano eventi strepitosi; nè una gran dama, nè un giovanotto elegante, nè altra persona per la quale, potevano ignorarne impunemente i più minuti particolari.
Il marchese Antoniotto della Torre, marito della Ginevra, aveva rispettata la consuetudine della famiglia, e la considerava come un canone appiccicato a quella grossa eredità che era venuta in sue mani. Però faceva le cose da gran signore, sicchè molti vecchi dimenticavano il fasto dell'ultimo marchese Vivaldi, che pure, in quelle due solennità dell'anno, era splendido al pari de' suoi antenati.
Ora noi chiediamo a tutti quei lettori che si ricordano delle feste di casa Vivaldi: poteva la contessa Matilde Cisneri, poichè aveva la fortuna invidiabile di essere stata invitata, resistere a quella gran tentazione? Tutti, e prime le nostre lettrici, grideranno di no.
Infatti, come si è già veduto, ella si disponeva ad andare, ed era impaziente di giungervi. Quanto mutata, in breve spazio di tempo! Quanto mutata da quella Matilde che sentiva profondo il tedio della vita di conversazione, dei teatri, delle feste, e loro annessi e connessi! O dove era andato quel santo orrore delle vanità mondane, quell'amore della solitudine, e quel divoto rifarsi alla solitudine dell'amore? Era svanito, andato in dileguo, come la nuvola di fumo, sua sorella germana.
Povero Lorenzo! dirà taluno. Ma anche a questo vanno fatte le debite restrizioni. Anch'egli non ci aveva il suo tanto di colpa? Non era egli l'artefice del suo disinganno? Lorenzo Salvani, con tutto il suo ingegno, con tutta la sua gravità e l'esperienza delle sventure, era ancora un fanciullo. Non volle, e non seppe fermarsi un tratto a considerare l'argomento della sua passione; epperciò non gli venne in mente che certe donne, sebbene mostrino di desiderarli, a lungo andare non patiscono gli amori profondi, gelosi, prepotenti delle anime forti.
E poi, è legge dell'amore, che esso vada sempre dal basso all'alto. Ed anco se vedete un uomo ed una donna ricambiarsi in giusta misura, dite pure che quella legge è osservata a puntino; perchè la donna per un verso, l'uomo per l'altro, si riconoscono scambievolmente tali perfezioni, da far sì che uno dei due creda sempre essere da meno dell'altro. Ora Lorenzo, il quale era sembrato molto alto da principio alla contessa Matilde, non le sembrava più tale. Fu un ragguardevole uomo allorquando ebbe dato una botta nel fianco ad Aloise di Montalto; ma poi non seppe cavar profitto dalle sue gesta, acciuffar l'occasione e pigliarsi un buon posto innanzi alla gente.
Matilde non istette molto ad accorgersi di avere ai fianchi un semplice innamorato; e d'innamorati una donna bella ne trova ad ogni uscio, se pure ella non li trova tutti affollati al suo. Era ricco d'ingegno, e avrebbe potuto salire a grande rinomanza; ma la contessa non era donna da indovinare il futuro, o, quando anche l'avesse indovinato, da legarsi ad un uomo per quella celebrità e per quella potenza che era di là da venire.
Pensava in cambio che Lorenzo era un ignoto. Andasse dalla Clelia, dalla Fanny, dalla Caterina (le dame d'alto affare si chiamano col loro nome di battesimo, come per stabilire una differenza tra esse e il volgo di tutte le altre), ella non udiva mai parlare di Lorenzo Salvani. Si lodava il cavallo di un giovanotto, si chiacchierava degli amori di palcoscenico di un altro, e tutti quanti erano, per una cosa o per l'altra, passati in rassegna. Di Lorenzo mai una parola. Per tutta quella gente che, stando un po', in alto, finisce col reputarsi ogni cosa, Lorenzo Salvani era un nulla e non metteva conto discorrerne.
E qui parliamo di coloro che lo conoscevano, e sapevano anche degli amori della Matilde con lui. Il parlare di tanti altri e raccontarne vita e miracoli, era come un rimprovero a lei che era andata a cercarsi un amante fuori di quella cerchia appariscente dove nascono belli e fatti, che non c'è da desiderare più altro.
Lorenzo dal canto suo, oltre che non aveva cavato profitto dalle sue imprese, andava ogni giorno scemando di pregio, come le cartelle del debito pubblico in tempi burrascosi. Da lunga pezza il suo vestire era trasandato anzi che no. Il suo eterno vestito nero, che di sera poteva passare, in grazia dell'adagio: di notte ogni gatto è bigio, mostrava maluccio alla luce del sole, essendo già un po' spelacchiato sulle costure. Ora una donna, sia che ne tragga argomento di onore o di vergogna, si accorge sempre di questi nonnulla.
Per dirla in poche parole, l'amore di un uomo come il nostro povero amico Lorenzo, non era uno di que' romanzetti che una dama galante potesse mettere in mostra e farsene bella al cospetto della gente. Ed oltre tutto ciò, l'umor geloso del giovine stava per vietarle ogni maniera di passatempi; della qual cosa ella avrebbe avuto a dolersi tanto più, in quanto che non amava più abbastanza.
La contessa era dunque ad uno di que' punti, nei quali si sta per prendere una forte deliberazione. Ella non voleva incatenarsi e pensava a protestare col fatto, innanzi che la piaga si facesse più fonda.
Tutte queste cose contrastano invero coi lieti cominciamenti che il lettore conosce. Ma noi non inventiamo nulla, e Iddio ci guardi così dalla stolta pretensione di mutare il cuore umano, come dalla pericolosa manìa di dipingerlo a nostro talento.
Metteremo fine a queste considerazioni con un aforisma che non ci ricorda di aver mai letto in nessun trattato sull'amore e che però daremo nuovo di zecca ai lettori. «Quando una donna non ama più un uomo, o ne sopporta l'amore come una grande molestia, il che torna lo stesso, si può giurare che ci abbia già un altro all'uscio del cuore.»
Ora, chi era l'altro della contessa Cisneri? Per non tener a bada oltre il bisogno i lettori, diciamo che da un mese appena le era stato presentato Edmondo Alerami, conte palatino; un bel giovinotto sui trentadue, il quale aveva due occhi assai belli, sebbene dintornati da certe grinze che accennavano una vita scapigliata anzi che no, naso aquilino, baffi folti che gli scendevano sugli angoli delle labbra per rialzarsi superbamente in due punte attorcigliate, e un'ariona da principe indiano, a cui dava maggior risalto il suo viso abbronzato.
Questo signor Alerami non si sapeva donde venisse. Il suo titolo di conte palatino non chiariva nulla, perchè poteva averlo ereditato da' suoi maggiori, oppure ottenuto egli stesso, poniamo, dal Papa. Egli si diceva nato fuori, di parenti italiani; parlava tutte le lingue, ed era stato dappertutto, ma nell'India più a lungo che altrove.
Che cosa avesse fatto in India non diceva. Da' suoi discorsi si poteva qualche volta trapelare che avesse guerreggiato contro gli Indiani, o che avesse passato il suo tempo alla caccia delle tigri e degli elefanti, od ancora che avesse sfruttato una miniera di diamanti. Il conte Alerami parlava molto; ma, con tutte le sue chiacchiere, stava sempre chiuso come un nocciolo di pesca.
Questo signore s'era messo ai fianchi della bionda contessa; era sempre in sua casa, e la accompagnava sovente a teatro e a passeggio per le vie della città. La qual cosa non è a dire come tornasse molesta a Lorenzo Salvani.
Il nostro Lorenzo aveva avuto la poca accortezza di dolersene; di modo che la contessa potè rispondergli di trionfo come a lei fosse impossibile disfarsi del conte Alerami; il mondo aver le sue leggi, le quali nessuno poteva impunemente violare, e una donna assai meno di un uomo; la gelosia essere poi una brutta bestiaccia che bisognava soffocare nel suo covo innanzi che crescesse, tanto da divorarvi; alla perfine doversi aver fede nella donna amata, e va dicendo.
Dopo questi discorsi, Lorenzo non seppe più che cosa rispondere, e passò ancora per un uomo di poca fede, come l'apostolo Pietro sul lago di Nazaret; per un orso, per un nemico giurato delle costumanze civili; per un ribelle alle leggi della convenienza, e peggio. La contessa Matilde, quando scendeva a ragionare, non ci si metteva per poco, e voleva, come suol dirsi, vederne l'acqua chiara.
E fin qui non sarebbe stato gran male, se il cuore della contessa avesse durato nell'antico affetto. Ma il peggio si fu che le gelose smanie del povero Lorenzo non fruttarono altro che qualche sorriso di più al conte palatino.
Costui l'aveva ammaliata col suo sfarzo, co' suoi diamanti, colle sue nuvole indiane, col suo parlare alla spiccia di tutte le parti del mondo, col suo usar dimesticamente con tutti i gran signori forestieri. Non c'era infatti milordo inglese, o principe russo, o barone tedesco, il quale venisse a Genova e non fosse, un giorno dopo il suo arrivo, il fido Acate del conte Alerami. Tutti parlavano di lui, dei suoi modi eletti, de' suoi diamanti che venivano direttamente da Golconda, del suo cavallo arabo che era dono del pascià d'Egitto, ed era della razza medesima del cavallo di Maometto. Egli sapeva dir cose gentili alle signore; perdeva allegramente il suo denaro ad una tavola di __whist__ o d'altro giuoco signorile; nessuna meraviglia adunque che fosse lodato e accarezzato da tutti. Che più? Era stato ammesso nelle case più ragguardevoli, dopo che la vecchia marchesa Jolanda Pedralbes, detta più comunemente Violante, la quale nasceva dai __Monrion de Saint-Hubert__, prima nobiltà francese, e che era schizzinosa anzi che no nel fatto delle sue attinenze, gli era andata a braccetto nella prima festa invernale in casa Torre Vivaldi, e lo accoglieva nella ristretta cerchia de' suoi visitatori, tutta gente la cui nobiltà scendeva in linea non interrotta dai superstiti del diluvio universale.
Il bel cavaliere che tutti di qua e di là si strappavano, non aveva occhi se non per la contessa Cisneri, e la corteggiava con tutte le formalità prescritte dal codice della galanteria. Ciò solleticava l'amor proprio della signora, ed era per lei una rivincita su tutte le nuove bellezze che erano venute a sopraffarla, inspirandole quel tedio della vita che i nostri lettori hanno veduto a suo luogo, e che ella aveva combattuto coll'amore del giovine Salvani.
Ma il tedio era sparito, dopo le prime visite del conte Alerami. La contessa Cisneri moriva dal desiderio di farsi scorgere in trionfo, bella della sua nuova conquista, e l'unico tedio che ancora sentisse era quello del povero giovine, il quale era innamorato più che mai, nè voleva capire che il suo regno era finito.
Le cose erano dunque a questo segno. L'amante di casa, o per dir meglio il tiranno, era tuttavia Lorenzo Salvani. L'amante di fuori, il cavalier servente, quello per cui si indossava una nuova veste, per cui si meditava una notte sul colore più acconcio di un cappellino, era già il conte Alerami; il conte Alerami che quella sera doveva venirla a cercare, per accompagnarla alla festa da ballo, in casa Torre Vivaldi.
Adesso riuscirà agevole intendere perchè la bionda contessa stesse così a lungo ritta di profilo contro lo specchio a bilico, guardandosi doppiamente riflessa, in quello e nella piccola spera che aveva tra mani.
Era la sua grande serata, la festa trionfale che aveva sospirata così lungamente, e la contessa, bella naturalmente della persona, bella della sua contentezza, voleva essere inappuntabile nella terza bellezza della sua acconciatura. Donde si vede che Matilde si atteneva fedelmente al vecchio dettato: __omne trinum est perfectum__.
In quella che essa così amorosamente si guardava per tutti i versi, udì suonare il campanello all'uscio di casa. Quella scampanellata la scosse assai più che non paresse dicevole per un suono così naturale, e voltandosi alla cameriera, disse con molta speditezza queste parole:
—Cecchina, andate voi stessa ad aprire. Se è il conte, fatelo entrare nel salotto, e ditegli che mi aspetti. Se è l'altro, ditegli che sto per vestirmi, che debbo andar fuori e che non posso riceverlo.—
L'altro, per chi non l'intendesse, era il nostro amico Lorenzo.
—Vado;—rispose Cecchina, muovendosi verso l'uscio.
—Accomiatatelo, in ogni modo. Ditegli che domani sto in casa, e che lo aspetto;—aggiunse la contessa, con un sospiro che somigliava maledettamente ad uno sbadiglio.
La vispa Cecchina corse, per ubbidir la signora; ma il servitore aveva già aperto l'uscio, ed ella non aveva anche posto il piede fuori del salotto verde, che si trovò dinanzi Lorenzo Salvani.
Il giovine era molto scombuiato nel viso, e gli si leggevano negli occhi tutti i tristi presagi del cuore. Cecchina, che lo aveva nel suo calendario assai più del conte Alerami, quantunque da lunga pezza il giovine non le facesse più sdrucciolare gli scudi nella tasca del grembiale, si sentì stringere il suo cuoricino da cameriera, e rimase turbata innanzi a lui, senza trovare una parola da dirgli.
—È in casa la contessa?—chiese Salvani.
—No…. sì…. cioè….—rispose impacciata la cameriera.—La signora contessa è nel suo spogliatoio, e si prepara ad uscire.
—E dove va ella?
—Alla festa da ballo in casa Torre Vivaldi;—rispose Cecchina.
Lorenzo stette un tratto sovra pensiero; poi, scuotendo il capo, come se volesse discacciare una immagine molesta, soggiunse:
—Sta bene; l'aspetterò.—
Ciò detto, andò a sedersi sul canapè, pigliando sbadatamente in mano un giornale parigino ch'era posato sulla tavola.
Cecchina, ritta in mezzo al salotto, non sapeva che dire per farlo andare via, e non le dava l'animo di congedarlo con quelle asciutte parole che le aveva detto la signora.
—Signor Salvani!—si provò finalmente a dire la buona ragazza.
—Orbene?—disse egli.—Andate pure dalla vostra signora che avrà bisogno di voi. Io rimango ad aspettarla.
—Oh, l'andrà per le lunghe!—soggiunse la cameriera.
—Non importa; ditele che faccia pure il comodo suo. Io ho tempo da aspettarla finchè non abbia finito.
—Ma….—ripigliò Cecchina, che non sapeva più cosa dire.—Ella ha da sapere che la signora, appena vestita, dovrà uscire in compagnia del conte Alerami.
—Ah! il conte Alerami!—esclamò Lorenzo, deponendo giornale e balzando in piedi.—Cecchina, io debbo parlare a Matilde.
—Oh, non vada in collera, signor Salvani!—disse Cecchina, indietreggiando dinanzi al giovine, che le si era avvicinato impetuoso.—La signora non può dispensarsi dall'andare a questa festa, e mi ha raccomandato di avvertirla che domani rimarrà in casa ad aspettarla. Veda che testa! avevo già dimenticato di dirlo.—
Cecchina nel suo turbamento aveva dimenticato le parole della contessa; ma, come i lettori vedono, correggeva la dimenticanza dei primi momenti, ripetendole con quella buona grazia che la contessa non avea posto a proferirle.
—Domani!—esclamò con accento di amarezza Lorenzo.—C'è qualcuno di là. La signora è già vestita per uscire, e il conte Alerami è già venuto. Ecco perchè mi dite di andarmene.
—Oh, signor Salvani! Le giuro che la s'inganna.
—Orbene, andrò io stesso a sincerarmene.
—No, no, si cheti!—si affrettò a dire la cameriera.
—E che cosa, direbbe la signora contessa, se io lasciassi entrar Lei, mentre essa sta per vestirsi?
—Avete ragione, ed io sono un pazzo. Buona Cecchina, andate dalla vostra signora,—ripigliò il giovine con voce più tranquilla, ma con evidente fermezza di propositi,—andate, e ditele che non mi muovo di qui. Se ella non vuole per nessun conto che io la veda, è segno che in quella camera c'è qualcheduno. Andate, aspetto la risposta.—
Non c'era più nulla da opporre a quelle parole; e Cecchina, chinando il capo, rientrò nelle stanze della signora.
Frattanto Lorenzo si pose a passeggiare, poco cortesemente invero, ma molto umanamente, su e giù pel salotto della contessa. In quel momento egli aveva la mente ad altri pensieri che a quello delle buone creanze. Anche la sua sfuriata innanzi alla cameriera troverà scusa, speriamo, presso le signore, se porranno mente che la cameriera sapeva ogni cosa per filo e per segno, e che Lorenzo era fuori di sè.
—Donne! donne!—diceva egli, ripetendo le eterne considerazioni di tutti gli uomini scottati dall'amore.—Ben disse Francesco Primo: __Donna non tien mai fede, e matto è chi ci crede__. Esse non hanno gradazioni nei loro affetti. Là miti ed austere come la mia buona sorella Maria; qui vanitose e volubili come Matilde. Ed io l'ho amata, costei! E l'amo ancora, questa donna che si getta nelle braccia di quell'avventuriero del conte Alerami, che ama e disama ad un tempo, che ha il cuore…. Dove lo ha, il cuore? Oh, perchè mi sono lasciato prendere il mio da costei? E quell'altro bellimbusto che mi si mette tra' piedi, e ci ha ancora l'aria di proteggermi!… Già, un omaccione pari suo, che ha girato mezzo mondo, che è stato come pane e cacio coi sovrani, che ha già freddato i suoi quattro uomini coll'aggiustatezza de' suoi colpi…. Che diamine, aver paura di me? Certo, egli ha da essere molto addentro nelle grazie della signora, per assumere quel piglio da barba Giove! E' vogliono farmi andare fuori dei gangheri, costoro! Il conte Alerami non accetterà la disfida…. La sua perizia conosciuta…. e da chi? e poi la generosa sollecitudine pel buon nome della contessa…. il timore di farla correre su tutte le bocche, gli daranno ragioni da vendere. E sarò io il tristo, l'ingrato; io il nemico di Matilde; egli il grand'uomo, il suo salvatore. A te Lorenzo! A te, cialtrone! In questo modo tu sarai messo di punto in bianco fuori dell'uscio.—
Il giovine Salvani ragionava dirittamente. Non era quella la prima volta che l'ira, contro il consueto aiutasse a indovinare la verità.
Egli era a quel punto delle sue considerazioni, quando l'uscio per cui era scomparsa Cecchina, si riaperse, e la cameriera si affacciò al salotto, dicendo:
—Entri pure, signor Salvani.—
La collera di Lorenzo svaporò a quell'invito, o per dir meglio sbollì; e il giovine non si ricordò più di que' tristi pensieri che essa gli aveva destato nell'animo. Un solo concetto rimase, e fu l'amore; quell'amore che consiglia tante e poi tante corbellerie ai miseri mortali.
Lorenzo si gettò sulle orme della cameriera, ed entrò nelle camere della contessa, fino allo spogliatoio, dove la trovò ancora vestita in quel modo che i lettori sanno, ma seduta dinanzi allo specchio.
Nel quale si racconta come una gentildonna congedasse un innamorato che l'aveva seccata.
Appena Lorenzo fu entrato, Cecchina si allontanò. La contessa avrebbe potuto tenerla presso di sè, col pretesto assai naturale della sua acconciatura, e cansare in tal modo il pericolo di una spiegazione a quattr'occhi. Ma, a quanto sembra, ella voleva finirla, e indovinando col suo accorgimento donnesco che quello sarebbe stato un dialogo critico, dal quale ella avrebbe potuto cavar profitto, aveva accennato ella stessa a Cecchina che uscisse.
Rimasero soli; ma per un tratto fu scena muta. Lorenzo era come inchiodato presso l'uscio, e sopraffatto da una commozione fortissima. Allora la contessa si volse, ed accennandogli con la mano un piccolo sofà che era daccanto a lei, incominciò ella stessa il discorso.
—Orbene?… Non debbono esser di molto rilievo le cose che avete a dirmi, se, giunto qui, non mi dite una parola.
—Matilde!—ruppe finalmente a dire Lorenzo, con accento di rimprovero.—Perchè mi parlate voi così? Sapete pure che ho da parlarvi, e se ho resistito al vostro desiderio di non essere disturbata nella vostra acconciatura è segno che ho da ragionare di cose gravissime.
—Gravissime? Udiamo dunque; ma, ve ne prego, spicciatevi,—disse la bionda contessa, levandosi dallo specchio, e andando a sedersi su d'una poltrona dirimpetto a Lorenzo,—poichè non ho tempo, stasera.—
Salvani aveva il cuore gonfio di amarezza. Non erano poche, nè lievi, le accuse che gli facevano tumulto nell'animo; e tuttavia stette dubbioso, pensando al modo più acconcio di cominciare. Sentiva dentro di sè tutte le furie d'Averno, come dicono i classici; ma quella donna era così bella, ed egli l'amava tanto, ch'egli non ardiva prorompere, e tremava come un colpevole, egli, l'accusatore!
—Avete tanta fretta?—disse egli, col medesimo accento malinconico.
—Sì,—rispose la contessa, facendosi deliberatamente incontro al pericoloso argomento di quella conversazione.—A momenti sarà qui il conte Alerami, e non sono anche vestita.—
Lorenzo si pose una mano sotto la giubba, quasi volesse andare a cercare il cuore e soffocarlo nella stretta. Poi, mettendo ogni sua possa a frenarsi, guardò pietosamente la contessa e temprò la voce più dolcemente che gli venisse fatto, per dirle:
—Matilde, mi amate voi sempre?
—Stiamo a vedere che gli è tutto qui quello che avete a dirmi di grave. Perchè questa domanda, di grazia?—
E così dicendo, la contessa, con un moto grazioso delle membra si strinse nel suo accappatoio e si rannicchiò nella poltrona, sorridendo a Lorenzo. Nel cuore, tuttavia, si struggeva dal dispetto.
Lorenzo non vedeva, non indovinava nulla.
—Mi amate voi sempre, Matilde?—ripetè egli incalzando con aria supplichevole.
—Ma sì; lo sapete pure!—rispose la contessa.—Ma perchè, vi ripeto, perchè questa domanda?
—Per avere il diritto….—soggiunse esitando il Salvani,—per avere il diritto….
—Di che cosa!
—Di volgervi una preghiera.
—Udiamola, questa preghiera.
—Matilde! per l'amor di mio, per l'amor vostro, che non avete rinnegato, non è egli vero?… non andate a quella festa!—
La contessa finse di cader dalle nuvole a quella conclusione di Lorenzo, che ella pur si aspettava. Giunse le palme in atto di maraviglia, e dopo avere alzato gli occhi al soffitto, esclamò:
—Ma davvero siete un fanciullo! E perchè?
—Perchè…. Ve ne prego, ve ne supplico, non andate!
—Ma, di grazia,—ripetè spazientita la contessa,—sappiamone prima la ragione. Non è mica una cosa da nulla usare una siffatta scortesia ai Torre Vivaldi; e perchè io mi disponessi ad usarla, bisognerebbe pure ci avessi una ragione…. e che ragione!—
Lorenzo Salvani stava per essere sconfitto dalla logica della contessa. Se la ragione suprema dell'amore non bastava più a persuadere Matilde, tutte le altre erano contro di lui, ed egli non poteva distruggerle.
Però non rispose all'argomentazione della contessa, e con accento di profonda malinconia, si fece a dirle:
—Matilde! Come siete bella, stasera!
—Davvero?—rispose la contessa, guardandosi le dita che scherzavano coi nastri del suo accappatoio.
—Oh sì! Siete troppo bella!
—Stiamo a vedere che vi dispiace anche questo!—proseguì ella, con la stessa aria sbadata.
—No,—rispose Lorenzo, riscaldandosi;—ma voi sarete tale per molti. Molti vi ammireranno, colà dove andate. Sapete pure Matilde; una donna che ama, non deve parer bella a tanti. I desiderii del volgo sono come una profanazione della sua bellezza e dell'amor suo.
—Ah, ah!—esclamò la contessa, dopo una brevissima sosta—siamo nella metafisica, a quel che sembra. Ma anco a voler stare sulle nuvole con voi, signor poeta, io penso che vi si possa rispondere di trionfo.—
Lorenzo fece un cenno del capo che voleva dirle: non credo.
—Sì certo! Quanto più io potessi parer bella a molti, il che non è punto vero,—soggiunse ella con quell'accento d'ipocrisia che sanno metter fuori le donne quando abbiano a parlare della loro bellezza,—tanto maggiore dovrebbe essere l'orgoglio di chi mi ama.
—Oh, lasciate queste gioie meschine al conte Alerami, che per lui saranno forse il colmo della felicità!—interruppe Lorenzo.—Io v'amo ben diversamente, v'amo assai più, o Matilde!—
La bomba era caduta, la gran parola di quel dialogo era detta: e la contessa, punto turbata, si fece arditamente ad affrontare il pericolo.
—Ma se lo dicevo io, che siete un fanciullo! Adesso salta in ballo il conte Alerami.
—Egli vi ama!—proruppe Lorenzo.
—E questo vi spiace? Vi piacerebbe forse di più che egli mi odiasse?
—Forse. Ma perchè stiamo noi qui a schermir le parole?—disse Lorenzo, armandosi di coraggio.—Appunto del conte Alerami io volevo parlarvi…. e chiedervi un sacrifizio….—
La contessa rizzò il capo, e guardandolo con un piglio, in cui non si sarebbe potuto dire se fosse maggiore il disdegno o la compassione, lo fulminò con queste parole:
—Signor Lorenzo! siete voi così dappoco?
—Perdonatemi, Matilde,—gridò egli allora, gettandosi ai piedi della contessa ed afferrando la sua mano che non istette molto a bagnare di lagrime;—ma io soffro, vedete?… Io penso che questa sera andrete a quella festa appoggiata al braccio del conte Alerami, che egli vi farà ridere con le sue arguzie, che il vostro petto palpiterà sopra il suo, nell'ardore della danza. Non vedete voi queste lagrime, Matilde? Il mio cuore si strugge, a questo pensiero maledetto!…
—Perchè pensare a queste fanciullaggini?—chiese la contessa, guardando in aria.
—Perchè sono geloso, Matilde, geloso di chiunque vi parla, geloso perfino della vostra ombra. Non ve ne siete anche avveduta?
—Rifaremo dunque la vecchia storia di Otello?—ripigliò la contessa, cercando di sciogliere la mano dalle strette di Lorenzo.
—Oh Matilde! Voi non volete capirmi!—esclamò il povero innamorato.—Quando vi vedo, quando sono daccanto a voi che mi sorridete, poco m'importa di tutte quelle farfalle che vi aleggiano dintorno. Ma, lontano da voi, penso che esse ebbero la virtù di abbagliare i vostri occhi, e che il povero Lorenzo è dimenticato da voi. Sono geloso, Matilde, sono geloso, perchè sento che voi mi sfuggite di mano, che ogni giorno che scorre, mi allontana dal vostro cuore.—
Un affetto vero e profondo ha questo di efficace, che commove, poniamo pure per un momento, il cuore della donna più fredda. Non è egli vero, o lettrici? In mezzo alla noia che v'inspira l'assidua presenza e il piangere di un uomo che non amate e il pensiero di un altro che vi soggioga, s'infiltra pur sempre uno zinzino di compassione per lo sventurato che è a' vostri piedi e vi esprime con tanto ardore di parole la grandezza de' suoi patimenti.
La contessa non seppe resistere a quell'onda di passione disperata; epperò rispose a Lorenzo:
—E chi vi dice che io non v'ami più?
—Oh grazie!—esclamò il giovine, a cui balenò negli occhi il primo lampo di gioia;—grazie di questa cortese parola che vi è piaciuto lasciarvi sfuggirei Ma compite la vostra bell'opera; non andate a quella festa; rimanete in casa, stasera. Fate questo grande sacrifizio al povero Lorenzo, che vi ama come un dissennato. Vedete? Noi rimarremo qui seduti, a parlare del nostro amore, de' miei disegni pel futuro. Faremo un bel castello in aria, di quei tali che vi piacevano tanto, e che ci facevano star le ore intiere dimentichi del mondo, inebbriati di amore. Vi ricordate, bionda Matilde? Non c'era cosa bella nel creato, che le anime nostre non si facessero sollecite a spiccare dal suo luogo, per abbellirne il nostro sogno, e le più graziose pensate non erano certamente le mie….
—Sì, Lorenzo, ma è impossibile adesso che io vi contenti. Che volete? Sono pure disgraziata! Ho promesso al conte Alerami…. ho accettato ch'egli venisse ad accompagnarmi dai Torre Vivaldi; e senza mettere in conto che io fallirei alle buone creanze verso la Ginevra, il rimanere a casa sarebbe una vera scortesia, usata, senza una ragione al mondo, a quel povero conte.
—Quel povero conte! E perchè non dite invece questo povero Lorenzo che soffre? Oh, maledetto quest'uomo che si pone tra me e la mia felicità!…—
Matilde, giunta a quel segno, doveva farla finita. Ella s'era alzata un tratto, per virtù della rimembranza, sulle ali di Lorenzo; ma l'altezza sterminata del volo la spaventava. Vide da lungi sulla terra il conte Alerami, bello, guardato e vagheggiato da tutte le donne, sfolgoreggiante di diamanti, caracollare superbamente sul suo cavallo arabo, e non seppe tenersi dal sospirare. Si guardò dattorno, e non vide altro che lo spazio muto e freddo; nè valeva a custodirla Lorenzo, che la teneva fra le braccia, Lorenzo, il povero giovine senza speranze, brutto della sua gelosia, e male in arnese per giunta. Sì, fu questo il pensiero che venne in mente alla bionda contessa: male in arnese! Matilde ebbe paura di trovarsi lassù, e fece come una delicata signora che salita in barca rabbrividisce al primo ondeggiare del legno e grida di voler scendere a terra.
—Ed eccovi da capo con le frasi sonanti!—rispose ella, cogliendo la palla al balzo.—Il conte Alerami è un cavaliere garbato, e voi avreste il torto a credere che io….
—Voi lo difendete!—interruppe Lorenzo.—Ma lo costringerò ben io a cedermi il passo, e se egli si ostinerà ai vostri fianchi, tanto peggio per lui; lo ucciderò.
—Signor Lorenzo, finiamola! Voi non sapete quello che vi diciate, ora. Perchè dovrei io chiudergli l'uscio di casa mia? Per fargli capire ch'egli è un uomo pericoloso, e che voi lo temete? In quanto ad ucciderlo, sarà un'altra faccenda non troppo facile. Voi siete animoso; ed egli non meno. È schermidore valente, e tutti vi diranno che con un colpo di pistola coglierebbe in aria una moneta.
—E qualcheduno potrà aggiungere,—rispose Lorenzo rattenendosi a stento,—che egli si schermisce anche meglio dal pericolo di un duello….
—Oh, questo, poi!
—Oh, questo, poi, lo so di buon luogo. Egli è vile quanto spavaldo. Ma a me non fanno senso quei suoi modi da gradasso, e la mano son certo gli tremerà quando abbia a scendere sul terreno.
—Ma non avete voi detto dianzi,—interruppe la contessa sorridendo ironicamente,—che egli si schermisce da cosiffatti pericoli?
—Sì,—rispose Lorenzo, senza badare al piglio sarcastico della contessa,—quando abbia da fare co' dolci di sale, e possa dar loro a credere ch'egli è un uomo generoso; ma io lo trascinerò pe' capegli, il conte Alerami, e gli dirò la gran parola che lo metta a segno per sempre…. Avventuriere!—
La contessa Cisneri si alzò dalla poltrona, e guardando Lorenzo dal capo alle piante, gli disse con voce sottile ma ferma:
—Voi insultate un uomo che io accolgo in casa mia!—Se la nostra lingua italiana consentisse l'uso di certe metafore, diremmo che quella voce sottile ma ferma della contessa Cisneri poteva rassomigliarsi ad una lama di pugnale, che appare così fine, e va diritta nelle carni; che fa un buco da nulla, e tuttavia vi s'immerge nel cuore.
Intanto per Lorenzo Salvani le parole di Matilde furono come una trafittura, e il primo atto del giovine fu quello di recarsi una mano sul cuore, come se appunto colà fosse andato a ferire il dispregio della bionda signora, che stava ritta in piedi dinanzi a lui, guardandolo con piglio sdegnoso.
Egli tuttavia non disse parola. L'assalto era stato così repentino e violento, che egli non seppe che cosa rispondere. A volte anco il silenzio è sublime, e Lorenzo fu sublime tacendo, in quella che guardava la contessa con aria di doloroso stupore.
—Signor Salvani,—proseguì la contessa,—siete voi dunque disceso così in basso, da calunniare i gentiluomini che vi danno molestia?—
Lorenzo impallidì a quella seconda percossa; quindi per naturale contrasto, gli divampò il volto, all'improvviso rifluire del sangue alle tempia. Si cacciò una mano ne' capelli, e strinse così forte, come se volesse strapparseli.
—Calunniare! calunniare!—ripetè egli con una terribile progressione di accento.—Oh, voi lo amate, signora…. Voi lo amate! Adesso vi porreste invano a negarlo.—
Matilde rispose crollando le spalle, e stringendo le labbra; quindi si mosse per andare allo specchio.
Era quello uno stato di cose difficilissimo per ambedue. Lorenzo aveva già posto mano al cappello per andarsene, quando si udì il fruscio d'una veste, e subito dopo un batter di nocche sull'uscio.
—Avanti!—disse la contessa, rivolgendosi da quel lato. L'uscio si aperse, ed entrò la cameriera ad annunziare l'arrivo del conte Alerami col marchese De' Carli.
—Ah! lo sapeva che non sarebbero stati molto a giungere!—esclamò la contessa.—Signore, eccovi dunque contento! Il marchese De' Carli è la lingua più lunga di tutta Genova, e si piglierà certamente una satolla de' fatti miei.
—Signora,—rispose Lorenzo, facendo ogni sua possa per rattenersi,—perdonatemi! Me ne andrò.
—Sì, ve ne andrete adesso, perchè vi vedano uscire, e tutti abbiano a risapere che eravate qui solo nel mio spogliatoio.—
Il giovine Salvani chinò gli occhi, e si morse le labbra, per non rispondere altro.
—Che cosa avete detto a que' signori?—chiese la contessa a Cecchina.
—Ho detto che la contessa non aveva anche potuto por mano a vestirsi.
—Sta bene. Andate, e fateli entrar qui. E voi intanto, signore, sedetevi e ricomponetevi.
—Non temete, signora!—rispose Lorenzo con piglio modestamente contegnoso;—i miei occhi si sono rasciugati, e spero non avrete ad arrossire più oltre per cagion mia.
—Tanto meglio!—soggiunse la contessa, e andò per sedersi allo specchio; ma poi, pensando che quella positura avrebbe potuto parere studiata, corse al sofà dov'era già seduto Lorenzo, col suo cappello in mano, e gli si pose daccanto, in atto di chi prosegue un discorso.
In quel punto entrarono i due signori annunziati da Cecchina, l'uno il conte Alerami, che i lettori conoscono per quel tanto che ne abbiamo già detto, l'altro il marchese De' Carli, un vecchio sui sessanta, o in quel torno, tutt'e due in falda e coi guanti paglierini.
—Ah! ah!—esclamò il marchese, che rideva sgangheratamente ad ogni tratto, e tartagliava per giunta;—entriamo dunque nel santuario?
—Sì, per l'appunto; entrate, Onofrio,—gridò allegramente la contessa,—e non vi spaventate, per carità, se troverete la dea vestita ancora da casa. Stavo qui domandando il parere del signor Salvani sull'abbigliatura che debbo indossare; ma egli non ha voluto dirmi nulla; di guisa che pregavo il cielo che mi mandasse qualche buon consigliere. Ed ecco, capitate voi, che siete il buon gusto incarnato.—
La scaltrita contessa voleva con tutti que' vezzi accattarsi la benevolenza del vecchio marchese, e la sua perorazione era tale da farlo andare in brodo di succiole.
Era un ridevole personaggio, quel marchese Onofrio De' Carli, o marchese Tartaglia, come gli si diceva alle spalle da certi burloni. Da giovine aveva fatto il vagheggino, e perseverava ancora, come se gli anni non fossero venuti. Si tingeva baffi e capegli, avendone l'aria di un vecchio Cupido rimpennato e ritinto. Quando parlava, era necessario tenersi alla larga; se no, con la sua lingua impacciata, vi schizzava addosso le bollicine di saliva. Sapeva la storia di tutti, e faceva il gazzettiere nei salotti, dettando anche sonetti e madrigali per ogni occasione, come un vecchio Arcade. Le signore lo mandavano ogni tanto a cercare, e tra perchè temevano la sua linguaccia e perchè si pigliavano spasso de' fatti suoi, non potevano stare un giorno senza di lui. Questo sapevano tutti, epperò si faceva a chi gli desse più argutamente la baia intorno alle sue avventure galanti; ed egli a gongolare, a ridere più sgangheratamente che mai, ed aspergervi della sua eterna rugiada.
—Il signor Salvani ed io,—disse egli, andando a sedersi nella poltrona accanto a Matilde,—possiamo darvi ottimi consigli, ma il vostro specchio ve li darà migliori. Sarete la regina della festa, o ce ne saranno due. Quella pettinatura, poi, vi sta a meraviglia. A cavalcioni su que' biondi cernecchi se ne stanno gli amori, saettando vicini e lontani….
—Basta, basta, Onofrio! Siete un vero diluvio.
—Nel quale la vostra bellezza va incolume come l'Arca.—
E detta quest'arguzia, il marchese Onofrio arrovesciò il capo sulla spalliera della poltrona, ridendo a crepapelle e sfrombolando l'aria co' suoi eterni sbruffi.
Lorenzo non aveva ancora aperto bocca. Egli stava rannuvolato guardando il conte palatino, il quale, dopo aver baciato la mano alla contessa, si era fatto in disparte, e taceva, come un innamorato in ufficio.
—Suvvia, non ci perdiamo in chiacchiere!—disse Matilde.—Sarà tardi, io credo.
—Sono le dieci!—soggiunse l'Alerami, cavando dalla tasca del panciotto il suo orologio contornato di brillanti.
—Orbene,—proseguì la contessa,—poichè mi avete detto il vostro parere, andatevene nel salotto, ch'io mi vestirò in fretta.
—Oh, non istate a darvi tanta premura,—disse il marchese.—Purchè andiamo alle undici, giungerete sempre in tempo, anzi comparirete sul più bello, come una dea di Omero nel più forte della mischia.
—Benissimo; lasciatemi dunque indossar l'armatura. Se volete giuocare, aspettandomi….
—Vi obbediremo, contessa;—disse il conte Alerami.—Signor Salvani, vuole Ella fare una partita?
—Non giuoco, signore.
—Giuocheremo una partita innocente. Appena una piccola posta, tanto per tener vivo il giuoco.
—Tanto meglio per Lei, signore;—ripigliò Lorenzo con asciutta cortesia;—la sua borsa non ne patirà danni troppo gravi, nel caso che il marchese De' Carli fosse il fortunato.—
Matilde, avvedutasi della brutta piega che stava per prendere la conversazione, si affrettò a soggiungere in quella che volgeva un'occhiata severa a Lorenzo:
—Il proverbio dice: chi ha fortuna in amor non giuochi a carte.—
Il marchese Onofrio fece un inchino e una risata, per ringraziar la contessa. Lorenzo, dal canto suo, stette saldo, aspettando che il conte palatino gli dicesse qualche altra impertinenza. Egli, in fin de' conti, non aveva fatto altro che respingere, con modi cortesi, sebbene asciutti, un assalto del suo fortunato rivale.
Ma questi, che si sentiva punto sul vivo dall'accento sarcastico di
Lorenzo, volle aver la rivincita, e rispose con aria burbanzosa:
—A me non fa caso il perdere.
—E nemmeno a me,—disse di rimando Salvani,—fa gran caso sapere se il giuoco sia innocente, o no. Ogniqualvolta potrò aver la ventura di giuocare con Lei, non sarà certo la posta che mi metterà in pensiero.
—Ella parla come un Creso, signor Salvani!—rispose l'Alerami, impaniandosi sempre più.
—Non c'è bisogno d'essere un Creso per parlare come io faccio, e tutti i tesori del famoso re di Lidia non varrebbero la posta che il più meschino degli uomini potrebbe giuocare. Ella che è stato in India, signore—(Lorenzo non diceva mai signor conte)—conoscerà certamente la posta che mettono talvolta gli Indiani su d'una partita a scacchi.
—Non la conosco, in fede mia!
—Orbene, la servirò io: si giuocano gli occhi.
—Diamine!—esclamò il marchese Onofrio, che non capiva un'acca di tutto quel battibecco.
Matilde, pallida, sbigottita, si era accasciata sul sofà, aspettando la fine di quel dialogo ch'ella s'era inutilmente industriata a sviare.
—Sicuro, gli occhi!—proseguì Lorenzo, guardando sempre fissò l'Alerami.—Ad ogni partita che un giuocatore vince, cava un ferruzzo leggerissimo, e fa con gran maestria saltare un occhio all'avversario. Ella capirà benissimo che non si possa far più di tre partite, a questo bel giuoco; e l'ultimo occhio che rimane incolume all'uno dei due, gli serve per andarsene pe' fatti suoi, dopo avere accompagnato il perdente fino all'uscio di casa. Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre ai suoi riveriti comandi.
—Eh! chi sa che non me ne venga la voglia!—disse il conte Alerami, che la rabbia aveva fatto diventar bianco come un cencio lavato.
—Si accomodi, signore! E adesso,—conchiuse Lorenzo volgendosi con un grazioso sorriso ai muti spettatori di quella scena,—signora contessa, signor marchese, loro servo divoto!—
Con queste parole si accomiatò, lasciandoli tutti sbalorditi.
Grama vittoria, nondimeno! Il povero Lorenzo si sentiva schiantare il cuore, uscendo da quella casa, che era stata la culla ed era la tomba dell'amor suo.
Nel quale si parla di molte stelle del cielo ligustico.
Quella sera il palazzo Vivaldi era magnificamente illuminato. I grandi finestroni sfolgoreggianti facevano impallidire le scarse fiammelle del gasse negli scarsi fanali della via Nuova, e gli sfaccendati, i musoni, stavano a contemplare quello spettacolo, senza sapere il perchè. I curiosi si stringevano intorno agli sfaccendati; e i viandanti, rattenuti da quell'ostacolo, intorno ai curiosi; di guisa che al vedere tutta quella calca di gente, si sarebbe potuto credere che fosse avvenuto in quel luogo un fatto grave, un alterco, una rissa, un'uccisione, uno insomma di que' fatti che il giorno appresso dànno agli strilloni il diritto di assordare le genti.
—Che è? che non è?—Non sapete?—È la gran festa da ballo in casa
Torre Vivaldi.
—Quella sì, è gente per la quale! Guardate che sfoggio di dorature!
Come splendono, attraverso i vetri delle finestre!
—Hanno illuminato tutto il palazzo. Vedete? Anche dalle finestre che dànno sui vicoli c'è la medesima luce.
—Eh! le cose si fanno, o non si fanno. Ci saranno forse quattrocento invitati!
—Che quattrocento? Dite pur mille. Io conosco lo scritturale di casa, e so che le lettere d'invito salgono oltre al migliaio.
—Ve l'avrà data a bere, lo scritturale. O come volete che ci capiscano mille persone là entro?
—Che sfarzo da principi! Già, costoro vogliono andare a finir male con tanto lusso….
—Finir male! Siete pazzo? O non sapete che ci hanno dai dodici ai quattordici milioni, senza contare i quadri, e quei due leoni di marmo nella scala, che non hanno voluto vendere a un Inglese per cinquecento mila lire?
—Ah! ah? bella, la storia dell'Inglese!
—O che? non lo credete?
—Sì, credo tutto, ma so ancora che a Genova, dovunque c'è un capolavoro, c'è pure la sua brava leggenda dell'Inglese che voleva comprarlo a peso d'oro.
—Sia come vi garba; intanto è sicuro che ci hanno molti milioni.
—Oh, non lo nego. Ma poichè sono ricchi sfondati, dovrebbero pensare anche un tantino ai poveri.
—Ai poveri? Oh, non aspettano consigli, per pensarci, e si conta che facciano per centomila lire di limosine all'anno, oltre le opere pie nelle quali hanno mano.
—Davvero?
—Certo; sono gran signori, e amici della povera gente. Avrebbero ad essere otto o dieci di quella fatta, in Genova, e la vedreste cambiare dal nero al bianco.
—O dal bianco al nero!—soggiungeva un altro.
—E perchè dice questo, Lei? Non le par forse che io dica la verità?
—Dio me ne guardi! Ma chi le distribuisce, tutte queste limosine?
—Oh, fior di galantuomini; ottimi ecclesiastici, ed altre religiose persone.
—Sta bene; ma sono accorte egualmente?
—Come sarebbe a dire?
—Che la limosina fatta alla cieca, non è altro che uno sfoggio superbo, epperò avvilisce l'uomo, senza migliorarne lo stato. Oltre di che, mentre se la spartiscono i raccomandati, la vedova muore di fame con la sua figliuola, dopo avere inutilmente bussato all'uscio signorile, e l'onesto bracciante è cacciato dalla casupola perchè non ha pagato la pigione, e non ha lisciato acconciamente il fattore di Sua Eccellenza.
—Sarà; ma intanto dove mi trova Ella un uomo che spenda centomila lire in elemosine, come il marchese Antoniotto?
—Eh, non dico già questo per levargli il merito. Alla stretta dei conti son sempre uomini commendevoli, e degni, d'esser fatti consiglieri e sindaci della città.
—Ahi questa che Ella dice è una gran verità! Costoro almeno amministrerebbero a dovere il danaro del comune, e non ci sarebbe risico….
—Certo!—soggiungeva un altro.—Non ci sarebbe risico che rubassero essi, ma che lasciassero rubare gli altri. A costoro basterebbe di poter fare i prepotenti.
—Ohi ecco un'altra carrozza. Chi è quella signora che scende?
—È la marchesa Pellegrina Bracelli. Bella donna a' suoi tempi! Adesso sua figlia è più bella di lei.
—Che novità! E probabilmente tra cento anni saranno morte ambedue.
—L'ha da essere una festa, ma di quelle!—diceva un altro.—Questa gente si ricorda d'essere sangue di dogi.
—Ci sono stati dei dogi nella casata Vivaldi?
—Nella casata Vivaldi, e anche in quella dei Torre.
—Peccato che non ne nascono più, dei dogi!
—Ma! è davvero un peccato. Essi valevano assai più dei vostri __governatori e intendenti__ moderni.
—Oh, qui poi ci avete ragioni da vendere. Quando non ci fosse altro, basterebbe notare che erano animali domestici.
Erano questi i discorsi che la gente faceva sulla via.
Il popolo genovese è pieno di questi capi ameni, i quali si dànno pensiero d'ogni cosa, pel solo ed unico gusto di disputare; ciceroni da dozzina e curiosi di ogni risma, i quali sanno tutte le minuzie del passato, frugano tutte quelle del presente e vorrebbero anche indovinar quelle del futuro; la più parte avventori costanti del __caffè della Liguria__, in via Luccoli, o del __caffè di Napoli__ in Soziglia; filosofi peripatetici dei portici del Teatro; speculatori del bel tempo sulle mura delle Grazie; uditori attentissimi alla Corte d'Assise, e alle parlate del Consiglio comunale.
Intanto giungevano le carrozze stemmate, e, mandando un po' indietro la calca dei curiosi, si fermavano dinanzi al portone. Lo staffiere saltava giù da cassetto, apriva lo sportello, e, col cappello gallonato in mano, distendeva i gradini ripiegati dello smontatoio. Il cavaliere scendeva sollecito, e porgeva la mano alla dama, che, tutta ravvolta nella sua mantellina, non lasciava veder altro che l'acconciatura del capo e la noce del piede.
Era già molto pei riguardanti, se il viso era bello, sottile il piedino e ben tornito il fùsolo.
—È la tale!—No, è la tal altra!—E lì commenti, aneddoti, vita e miracoli della signora che passava.
La carrozza della nobile Ottavia Scotti, vedova Belmosti, si fermò a sua volta, e ne scese la vecchia dama, con Matilde Cisneri, il marchese De' Carli e il conte Alerami.
Il lettore ricorderà che nei primi cenni intorno alla bionda contessa, abbiamo parlato d'una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto. Era costei la Belmosti, ottima donna in fin dei conti, la quale con la sua nobilissima compagnia dava assai più che non ricevesse da altri. E la Cisneri lo sapeva benissimo, che, la mercè della sua vecchia amica, cugina del marchese Antoniotto dal lato materno, era stata invitata alla festa dai Torre Vivaldi.
Il nostro conte palatino si affrettò, con savio accorgimento, ad offrire il braccio alla nobile Ottavia. Il marchese Tartaglia si dinoccolò per offrire il suo alla Matilde, e tutti e quattro, gloriosi e trionfanti, salirono le scale.
Lorenzo Salvani, nascosto nella folla, ebbe agio di vedere tutta la scena e udire per giunta le chiacchiere degli sfaccendati, che tagliavano i panni addosso a quelle nobili persone.
Colla falda del cappello aggrondata sugli occhi, il colletto del pastrano alzato fino all'orecchio, egli era andato ad appostarsi colà, per vedere anche una volta la bella Matilde. Ultimo guizzo d'una lucerna che si spegne, ultima ubbìa d'un povero amante lasciato in asso!
Il cuore gli si strinse, quando vide Matilde, saltar leggiera e contenta dallo smontatoio sulla soglia del portico; gli occhi mandarono lampi, quando scorse l'Alerami.
—Domani;—borbottò egli tra sè.—Domani, se non siete un codardo….—
Matilde era sparita col marchese De' Carli, e Lorenzo vide ancora la vecchia gentildonna che le teneva dietro, appoggiata al braccio del conte palatino.
Su per le scale marmoree del palazzo Vivaldi era una luce vivissima. Numerosi servi in livrea e guanti bianchi stavano nella sala d'ingresso, che era pittorescamente ornata di fiori e piante tropicali, come le stufe dei nostri giardini.
Di là s'entrava in una fila di sale stupende, le quali giravano tutto intorno il piano nobile del palazzo, ricche delle tele, degli affreschi e degli ornati dei più famosi artisti.
Quelle sale, giusta l'antico costume dei signori italiani, portavano il nome delle divinità pagane che la fantasia del pittore aveva effigiate nella volta. Epperò in quella sontuosa dimora dei Vivaldi si notava il salotto di Cerere, dell'Aurora, di Diana, delle Muse e di Flora; divinità tutte rappresentate in altrettanti medaglioni a buon fresco, e accompagnate dai loro emblemi; storie particolari e scene simboliche negli altri scompartimenti e lunetti della sala.
Per tal modo gl'intendenti di cose artistiche potevano ammirare le opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d'altri buoni frescanti della scuola genovese, le quadrature dell'Adrovandini, le prospettive degli Haffner, e gli ornati recenti condotti con finissimo gusto e accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso Michele Canzio.
Che diremo noi delle tele d'ogni misura, le quali arricchivano quelle magnifiche sale? Erano dipinti del Caracci, dell'Albano e del Rubens, battaglie del Bourguignon e di Salvator Rosa, madonne del Dolci, ritratti di Tiziano, di Paris Bordone e del Vandyck. In un salottino, che era il pensatoio della marchesa Ginevra (diciamo italianamente pensatoio il francese __boudoir__, che ha una etimologia meno cortese) regnava solitaria ma splendida una Danae di Guido Reni, la quale aspettava la pioggia d'oro, e faceva sospirare tutti coloro che non si sentivano da tanto di contenderla a Giove. Alla luce dei doppieri i capegli d'oro e gli occhi desiosi della bella prigioniera sfavillavano; il molleggiare delle carni dava immagine di donna viva, e quella bianca cortina che di consueto nascondeva il quadro, tirata discretamente sui lati, faceva credere al riguardante che egli fosse davvero il furtivo testimone dei voluttuosi segreti di un'alcova pagana.
Le modanature d'oro, gli affreschi, gli ornati, le tele, gli arazzi antichi, insuperbivano le sale del palazzo Vivaldi, e tanto più degnamente in quanto che la luce, in ogni parte profusa, faceva risplendere ogni cosa in apparenza di freschezza e di novità. Le grandi masserizie mirabilmente intagliate e indorate con recente accuratezza, le tavole incrostate di marmi preziosi, i velluti di Utrecht orlati di frange e nappe d'oro, i damaschi azzurrini, rossi e gialli, i tappeti storiati, le larghe cortine rabescate, tutto attestava l'opera dei secoli più largamente magnifici; e tutto del pari era fresco, rilucente, sfolgoreggiante, come se tutti gli artefici che avevano arricchito il palazzo Vivaldi delle opere loro, avessero dato l'ultima mano ad ogni cosa il giorno innanzi la festa.
Mirabile su tutti gli altri era il salone di Flora, dove si facevano le danze. Quel salone che, se i lettori rammentano, non si illuminava se non nelle grandi occasioni, risplendeva per le opere di Pierin del Vaga, discepolo di Raffaello, che vi aveva fatto prova del suo mirabile ingegno, lavorando la volta con la vivezza de' suoi colori e adornando in tal guisa le pareti, da sbandire anticipatamente i profani arazzi di seta e di carta felpata, i quali fanno testimonianza del lusso gretto e piccino dei tempi nostri.
Erano poi notevoli nei quattro angoli del salone quattro fauni del Montorsoli, stupende statue sul fare michelangiolesco, che sostenevano canestri di fiori e candelabri. Su questi erano piantati in gran numero i torchietti di cera che aggiungevano la loro luce a quella di un grande lampadario sospeso nel mezzo, e scintillavano, non sappiamo bene quante volte, nei molteplici riflessi de' grandi specchi che pendevano dalle pareti. I canestri poi erano colmi di fiori freschi, che parevano raccolti alla rinfusa ed erano in quella vece le più accorte mescolanze immaginate dalla più sapiente tra tutte le sacerdotesse di Flora che mai profumasse della sua variopinta merce un portone della via Nuova o della via Carlo Felice.
Ma a gran pezza più splendide dei doppieri, e più belle dei fiori, erano le gentildonne genovesi, che portano il vanto della bellezza su tutte le donne del mondo (ogni scrittore o cortigiano d'altro paese potrà dire lo stesso di casa sua, che noi non ce ne recheremo più che tanto) e che, vestite in gala, ornate di perle, luccicanti di gemme e diamanti, apparivano stelle di prima e di seconda grandezza nell'azzurro del cielo, o Dee dell'Olimpo, che torna lo stesso per chiunque ricordi l'origine astronomica di tante umane idolatrie.
Mollemente adagiata su d'un ampio sofà, coperto di velluto verde scuro, stava la bella Usodimare, il cui nome non si usava mai scompagnare dall'epiteto, per modo che quest'ultimo era diventato necessario a far capire che si parlava di lei. Sebbene la marchesa Giovanna Usodimare avesse già contate le sue trentasei primavere, appariva pur sempre giovane, e non cedeva la palma ad altre parecchie di più recente splendidezza. Il naso, superbamente fermato senza incavatura al basso della fronte, la faceva rassomigliare alla Venere di Milo, della quale ci aveva pure la bocca disdegnosa e i capelli increspati: ma un diadema di conchiglie mezzo nascosto nelle ciocche rivoltate alla foggia greca verso le tempia, e un vezzo di perle che rompeva i magnifici contorni delle spalle ignude, ricordavano più agevolmente Anfitrite, la regina del mare. Perciò voi potete giurare, o lettori, che il marchese Onofrio De' Carli, da quell'ostinato cultore del madrigale ch'egli era, non tralasciasse l'occasione di bisticciare tra la dea del mare e il casato della marchesa, e di paragonare i cavalieri che la ci aveva dintorno ad altrettanti Tritoni, sebbene non facessero tanto sprazzo di schiuma com'egli, quando gonfiava le gote.
Nè meno risplendeva per eleganza di forme la sua parente Erminia Lercari, sebbene la bellezza di costei derivasse da un tipo al tutto diverso. Era una svelta ed aggraziata persona, con una testolina che avrebbe potuto servir di modello al Canova, tanto ne erano fini e delicati i lineamenti. Ma se il Canova era morto, viveva il Dupré, che nel busto della marchesa Erminia aveva saputo dar vita ad un vero capolavoro, quantunque il marmo non avesse potuto ritrarre tutta la profonda virtù di quegli occhi, che parevano metter scintille. Certe movenze del capo e della mano asciutta e sottile, accennavano una donna d'animo forte, nata per comandare altrui. Ma quanto più robusta era la tempera, tanto più era fine; e perchè il gusto era eletto, cortese il pensamento, il comando riusciva dolcissimo, come quello che si volgeva sempre alle cose buone e gentili. La Lercari era colta e studiosa, e cotesto appariva facilmente, senza che ella pure il volesse, in una società come la nostra, dove le donne di consueto sono così poco addestrate nelle severe discipline, e gli uomini (diciamolo a nostra vergogna) anche meno. Però si sarebbe potuta paragonare a Minerva, come cento e dugento anni innanzi una di quelle mogli di dogi e senatori, le quali dettavano versi e prose, disputavano coi dotti, ed erano del pari ottime madri di famiglia, savie e cortesi matrone, che con la schietta bontà dei modi temperavano l'alterezza dei loro accigliati mariti.
Chi di noi vorrebbe oggi tornare a quei tempi in cui il popolo era servo, o poco meno, di quelli ottimati, e la repubblica stessa altro non era che un cadavere coperto di seta? E tuttavia que' tempi si ricordano con affetto, la mercè di quelle belle e colte marchesane che il pennello del Vandyck ha tramandate alla nostra ammirazione, buone e pietose, con tutta la durezza che conferiva ai loro volti la gorgieretta insaldata a cannoncini e il taglio delle vesti spagnuole. Non altrimenti le Corti di amore, i colori della dama valorosamente portati in Palestina e l'ambito premio del torneo, ci rappattumano colle feroci memorie del Medio Evo. __Quid foemina possit….__
Ma torniamo alle nostre gentildonne in casa Torre Vivaldi. La signora Maddalena Torralba era anche essa degna di ammirazione, per quei suoi grandi occhi azzurrognoli, per le carni del color del latte, per la soavità del volto. Era una di quelle donne che si dicono molto acconciamente impastate di bontà, tutta dolci pensieri significati con dolci parole da una voce melodiosa, sebbene un tal po' gutturale. Un cercatore di contrasti, ne avrebbe trovato uno bello e fatto, considerando la Torralba, seduta accanto all'amica sua, la Fulvia Cassana, che era la marchesa più bruna di Genova, che aveva gli occhi e le sopracciglia di un'Andalusa, e le fattezze e il portamento di un'antica Romana.
Un viso di Erigone, poichè siamo a capo fitto nei paragoni, era quello della marchesa Giulia Monterosso, dalle labbra tumide e coralline, dalle guance vivide come le pesche duràcine (lettori, per carità, non vi salti il grillo di mordere!) e dagli sguardi accesi che avrebbero rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della Tebaide.
—Tutte marchesane? null'altro che marchesane?—Sissignori; non è colpa nostra, se nella festa da ballo dei Torre Vivaldi ce n'erano tante, le quali portassero il pregio di un tocco in penna. E si noti che ne lasciamo nel dimenticatoio parecchie, le quali ci vorranno un mal di morte, perchè non abbiamo tessuto loro uno zinzino di panegirico.
Ma v'erano anche le signore senza corona, quelle tali che, come abbiamo detto, portavano alteramente i loro trentasei quarti di bellezza, e non li avrebbero barattati con altrettanti di nobiltà.
Tra queste era allora donna e madonna la Enrichetta Corani, il cui sguardo derivava tanta efficacia da certi occhi d'indaco, mezzo nascosti da lunghe ciglia. Era alta della persona, e non fu mai più acconcio il dire __collo di cigno__, che pel collo svelto e morbido della signora Enrichetta. Il colorito non aveva nè bianco, nè rosso, nè pallido, sibbene opalino, se ci è consentito di foggiare ad epiteto il colore bianco azzurrognolo latteo senza lucentezza di quella pietra che chiamano opale; colorito che sanno indovinare i grandi pittori, e per cui sovente i grami non fanno altro che impiastrare inutilmente la tela.
Era la signora Enrichetta che teneva in onore le cascate, o ricci a lunghe spire, che sbucavano da dietro gli orecchi e pendevano intorno al collo, per dar maggiore risalto alle carni. La chiamavano a Genova la signora dei tulipani, per una ghirlanda di questi fiori che ella s'era posta un giorno nella nerissima capigliatura. Tulipani simbolici! Molti erano gli innamorati che stavano intorno alla bellissima donna; ma neppur uno di que' tulipani era voluto cascare a terra, per farsi raccogliere, come una tacita promessa d'amore.
Tra tante graziose dame, la bionda Cisneri non poteva esser dunque regina, come le aveva pronosticato tra due sbruffi il lezioso marchese De' Carli. Ella poteva forse forse comparire come una stella di seconda grandezza in quel firmamento femminile; e soltanto la sua vedovanza, insieme con una maggiore libertà, le attraeva dintorno una maggior copia di adoratori.
Certo, se Lorenzo Salvani fosse stato in quelle sale, Matilde non gli sarebbe più sembrata la regina delle donne: poichè, senza pur mettere in conto che talune di quelle dame erano più appariscenti di lei, la bellezza raffigurata in tanti volti e persone diverse, adorna di tutte le incantevoli malìe che procaccia la ricchezza (anche Venere derivò la sua maggior possanza dal cinto miracoloso), è tal cosa che innebria come la copia molteplice dei vini.
Egli, verbigrazia, non avrebbe durato fatica a notare che il tipo di Matilde era un nulla al raffronto della Corani o della Usodimare, e che tra le donne a lui note, soltanto Maria, la sua sorella adottiva vestita da gran dama, avrebbe conteso il pomo della bellezza a tutte quante, e perfino alla regina della festa, alla Ginevra dagli occhi verdi.
Ci siam giunti, alla perfine, a questo gran nome!—dirà il lettore, che ha una voglia spasimata di conoscere la regina della festa. E la sua impazienza è ragionevole, dappoichè egli ha inteso che la bella Ginevra ha da essere gran parte di questa storia che gli andiamo narrando, e, come avviene in cosifatte letture, egli vorrà vedere se la gentildonna rassomigli a quel tipo di perfezione ch'egli ha immaginato, e se la ci abbia tutta quella virtù, quell'incognito indistinto di soavi fragranze, che sogliono tramandare le eroine da romanzo.
E noi, i quali l'abbiamo fatta sospirar tanto al cortese lettore, siamo impacciati a dipingerla, temendo forte che la grande aspettazione da noi prodotta non faccia torto ai grami colori della nostra tavolozza e alla imperizia del nostro pennello.
La bella Ginevra dagli occhi verdi.
Le danze erano già incominciate e i piedini delle signore scivolavano agilmente su d'un tavolato di legni preziosi vagamente intarsiati, superficie levigata e lucente, che era con molto buon gusto surrogata alla consueta tela giallognola stirata sul tappeto e fermata negli orli al pavimento.
I Torre Vivaldi facevano splendidamente ogni cosa, e tra l'altre belle novità della festa si notava quella della musica, parte composta di suonatori e parte di coristi, i quali alternavano i canti e i suoni, siccome si usa in certe eleganti feste da ballo d'altri paesi. Un __Waltzer__ di Strauss, così suonato a vicenda e cantato, faceva ricorrer la mente alla strofe, all'antistrofe e all'epodo dell'inno greco, producendo effetti mirabili di voluttuosa dolcezza e di gagliardia turbinosa.
La marchesa Ginevra non aveva ancora danzato. Già parecchi nomi erano scritti sul taccuino dalle carte gemmate, che raffiguravano le ali d'una farfalla, e che aprendosi lasciavano scorgere i fogli sottili di avorio, disposti a ventaglio dintorno al lepidòttero, la cui testolina, formata da uno smeraldo, era la capocchia di una elegante matita.
Ma ad ogni nuovo nome scritto, il taccuino ricadeva penzoloni dalla sua catenella, e la marchesa Ginevra non si muoveva ancora dal primo salotto, accanto alla sala d'ingresso, dov'ella stava a ricevere i suoi invitati, da vera padrona di casa che sa il debito suo.
Qualche dama meno vogliosa di ballare stava a tenerle compagnia, e non mancavano i satelliti del genere maschile, tra i quali ci par degno di una menzione particolare un vecchio mastodonte, il nobile signor Demetrio Salvi o De' Salvi, siccome egli si faceva chiamare.
Chi non ha conosciuto il De' Salvi, quello stecchito personaggio, il quale visitava almeno trenta palchetti ogni sera al teatro Carlo Felice? la cui voce di basso profondo infreddato si faceva udire e zittire dalla platea, allorquando infastidiva le povere signore, raccontando a questa e a quella la cronaca quotidiana di tutte le altre, gazzetta ambulante scritta a caratteri gotici su di una vecchia cartapecora?
Costui aveva tenuto un ufficio importante nella Intendenza (oggi bisogna dir Prefettura); ma da alcuni anni era messo a riposo; laonde ci aveva tempo da spendere, e con le sue visite eterne non lasciava riposare nessuno. I capi ameni gli davano settant'anni suonati, ma egli non voleva dimostrarne neppure cinquanta, e prestava con mirabile assiduità i suoi servigi alla milizia cittadina, lasciando di tratto in tratto trapelare un po' di amarezza contro il Consiglio di ricognizione, che non voleva farlo cancellare dall'albo dei militi.
Credeva di avere la scienza infusa, e parlava a diritto e a rovescio d'arti liberali, di politica, di araldica, e d'ogni altra cosa che venisse in discorso. Diceva roba da chiodi della musica moderna, e sospirava i tempi beati del suo amico Paulucci, che sapeva mettere a segno i rompicolli. Tra tutte le sue ubbíe, la più grave era certamente quella di credersi un gran maestro di cerimonie, di guisa che taluni gli avevano imposto il soprannome di gran ciamberlano, e parecchie famiglie, pigliando la sua scienza sul sodo, lo consultavano sulle formalità del cerimoniale domestico e su cento altre minuzie di quella fatta.
Il nobile De' Salvi era stato a' suoi tempi uno dei cavalieri serventi della madre di Ginevra, e pareva ne avesse derivato il privilegio di dar molestia alla figlia, standole sempre a' fianchi, e offrendole consigli, che essa non chiedeva punto e accoglieva sorridendo.
—Vedete,—le diceva egli,—bisogna diportarsi in questo modo. La Clelia non è venuta a vedervi da un pezzo; ma avete fatto bene ad invitarla, perchè io so che la poverina è stata giù di salute. Ha voluto allattare il suo bambino, e le sue forze non erano da tanto. Sta benissimo che non vi diate pensiero dell'Amalia. Suo marito s'è posto su d'una mala via, e tra tutti e due non badano punto al decoro della famiglia, accogliendo in casa loro ogni maniera di gente. Vi so dir io che in quella casa non ci si può stare….—
Ed era verissimo. In quella casa non ci poteva star egli, poichè tutti que' capi ameni in mezzo ai quali si trovava, volendo fare lo sputatondo, avevano l'aria di metterlo in canzone.
Nè va dimenticato com'egli fosse tenero del buon costume, fino a segno di volere che le ballerine portassero le brache lunghe fin sotto il ginocchio. Forse per questa sua tenerezza il nostro Solone, al cominciar del ballo, correva sempre nel palchetto della deputazione comunale, seguace in codesto della massima che certi mali molto gravi bisogna studiarli da vicino.
E poi piombava in casa delle signore quando meno avrebbero voluto vederlo; e se notava due o tre volte la presenza di qualche giovanotto, egli subito con bel garbo ne toccava al marito. Non già per metter male, nè per vederne dove non ce n'era punto, chè la signora era una Lucrezia e il giovanotto un Giuseppe; ma perchè il mondo era tristo, chiacchierone, pronto a giudicare: insomma, diceva tanto e tanto, che bisognava fare a modo suo, e la signora comprarsi la sua pace domestica usando una scortesia a quel tale che non piaceva al nobile De' Salvi.
—Adesso,—diceva costui alla marchesa Ginevra,—potete andar liberamente a ballare. È già un'ora che state qui, e quelle che sanno il debito loro sono già venute. Le altre che si fanno aspettare oltre il bisogno, debbono a loro volta aspettare che voi le salutiate. Se non conoscono le buone creanze, tanto peggio per loro.—
Poi, di tratto in tratto, andava nel salone di Flora a vedere il ballo; si accostava con un piglio di affettata dimestichezza a questa e a quella, dicendo all'una che non ballasse troppo, a cagione del suo stato (sapeva perfino queste cose, il nobile De' Salvi!), all'altra che non ballasse il __waltzer__, perchè le faceva girare il capo, e via discorrendo. Era insomma una molestia da non dirsi a parole.
In quanto alla Ginevra, che egli voleva ad ogni costo mandare a ballare, ella non gli dava retta, e non si muoveva dal suo posto. Ciò dispiaceva fortemente al gran ciamberlano. Perchè? Per la stessa ragione che consigliava all'Emma o alla Clarice di non ballare; perchè non voleva lasciare in pace nessuno. D'uomini cosiffattamente stucchevoli è abbondanza nel mondo, e noi ne conosciamo parecchi, senza punto saperci capacitare del perchè si sopportino.
Ora intanto che la marchesa Ginevra aspetta, e graziosamente accoglie i nuovi venuti, alzandosi per le donne e porgendo loro la mano, lasciando giungere gli uomini e dicendo cortesi parole ai noti amici che fanno atto di sudditanza e ai nuovi che le presenta il marchese Antoniotto; intanto che procaccia qualche conoscenza alle dame forestiere, o raccomanda questa o quella ai cavalieri più compiacenti che si butterebbero nel fuoco per obbedirla; andando a venendo insomma con una grazia da regina, noi ci proveremo a farvi questa benedetta dipintura della bellissima donna.
Enrico Pietrasanta aveva ragione: i capegli della marchesa Ginevra erano castagni, fini ed abbondanti, e, rischiarati in diverse guise dai riflessi della luce, componevano quasi un'aureola intorno ad un bel viso bianco perlato, alle carni stupende, senz'ombra di rosso o di giallo, senza soverchio di grassezza, che vincevano al raffronto la celebrata carnagione della Enrichetta Corani.
Si poteva dir quasi che di quelle chiome copiose ella non sapesse che farne, dacchè era costretta a serrarle in lunghe trecce, le quali, tuttochè ravvolte in giri molteplici, le scendevano pur sempre sul collo più giù che non comportasse la moda.
Ma questo non era poi un difetto, e ognuno, al vedere quell'ampio volume di capegli, avrebbe potuto argomentar di leggeri che se Domineddio ne avesse fatto copia ad Eva, la madre del genere umano non sarebbe andata a limosinare le foglie di un albero per coprirne la sua nudità vergognata. Si aggiungeva che quella necessaria acconciatura faceva portare alla marchesa Ginevra il capo mollemente chino: il quale atteggiamento, tra per l'alta statura e per la sciolta eleganza del collo, le conferiva maggior leggiadria.
Le ciocche al sommo del capo, lievemente increspate, si stendevano sulle tempia e si ripiegavano in due lisce staffe un po' sopra gli orecchi, senza coprire gran parte della fronte, dove spaziava l'arco maraviglioso delle sopracciglia, ombreggiando gli occhi verdi, grandi e dolcemente allungati, i quali, dando anche essi ragione al Pietrasanta, assumevano tutti i riflessi. Il naso, sottile senza dar nello smilzo, diritto e giustamente riciso, lasciava al tutto scoperto il labbro superiore, voluttuosamente rilevato, il quale sorridendo infossava leggiadramente le guance e faceva apparire per quel breve spiraglio due file di bianchissimi denti, che si potevano più acconciamente paragonare al candore della madreperla che a quello dell'avorio. Il mento ovale, severamente scolpito, significava saldezza di propositi, in rispondenza col diritto profilo della fronte.
Da quel mento e dagli orecchi, piccini ed aggraziati che parevano una miniatura, nè avevano voluto essere forati nè profanati dalla selvaggia costumanza dei ciondoli, scendiamo al collo svelto e tondeggiante, che portava tutto intorno disegnata quella ruga sottile, simbolico cinto della bellezza, di cui le nostri Veneri insuperbiscono più assai che di un vezzo di gemme. Gli omeri, non molto rilevati, scendevano dalle radici del collo con una curva delicata che dava alla persona un'aria di somma dolcezza, in contrasto col mento reciso e colla fronte diritta. Ma appunto da simili contrasti scaturisce l'armonia di una bellezza suprema.
Così il seno, che un poeta classico avrebbe battezzato acerbo, non dimenticando il solito paragone con le fragranti mele appie, era un miracolo di casti contorni, e la sua bianchezza non appariva punto sopraffatta da una collana di perle a cinque filze, dall'ultima delle quali pendevano altre perle più grosse, allungate a forma di gocciola, dai bei colori iridescenti.
Quel viso e quelli ornamenti, le carni, le labbra, gli occhi, la collana, tutto era una perlagione, tutto si disposava armonicamente, tutto concorreva a produrre un effetto profondo, a far pensare e sospirare il riguardante. A compiere l'acconciatura di quella testa perfettamente ovale, si aggiunga una corona di fiori di lilla, bianchi e violacei, lavoro della Nattier, quella parigina che, in materia di fiori, poteva dare dei punti alla madre natura. Parecchi diamanti alternati con amatiste si attorcigliavano a quella corona di fiori, e tremolando scintillavano, mettevano baleni intorno alla testa divina.
I fiori di lilla bianchi e violacei, i diamanti e le amatiste, erano in rispondenza coi due colori del vestimento della marchesa Ginevra. La bellissima donna indossava un'ampia veste di raso color di lilla tenero, e una sopravveste di merletto finissimo, sopravveste da duchessa, se pure è vero che le duchesse vestano più sfarzosamente delle altre donne.
A' dì nostri, infatti, tutte le signore, a marcio dispetto della legge suntuaria che temperava il lusso delle dame romane, fanno uno sfoggio di abbigliature, che costano un occhio del capo ai mariti, e per mostrarsi attillate agli occhi degli altri, farebbero, stiamo per dire, carte false. Affrettiamoci tuttavia a soggiungere che non tutte, anco se avessero potuto fare carte false, e spacciarne, sarebbero venute a capo di portare una sopravveste come quella della marchesa Ginevra. Era di merletto, ma di quel tal merletto antico che chiamano punto di Venezia, lavorato sottilmente a rilievi di fiori a rabeschi, con lo stemma dei Vivaldi ripetuto più volte sui lembi; la qual cosa significava che quella veste, a cui si poteva dare il prezzo di forse dugentomila lire, era stata trapunta a bella posta per una dama di quella casata.
Rialzata un tratto in due punti sul dinanzi, quella sopravveste faceva uno sgonfio, fermato sugli angoli da mazzolini di fiori di lilla bianchi e violacei, con una rosetta di diamanti nel mezzo. Un mazzolino somigliante, acconciamente posto su d'un cappio di merletto, ornava le due attaccature della vita al sommo delle braccia, donde si dipartivano larghe striscie dello stesso merletto, correndo intorno alle spalle e giungendo poi sul dinanzi a chiudersi sotto un largo fermaglio, o pettorina di filo d'oro, reticolato a rabeschi, che si adattava al garbo del seno e dei fianchi. Abbiamo detto filo d'oro, ma il filo non si vedeva, non essendo altro che la nascosta armatura di un fitto di diamanti d'ogni misura, disposti in modo da raffigurar rose e foglie, che amorosamente s'inerpicassero intorno al petto della signora. Questa immagine ci pare a gran pezza più acconcia di quell'altra che mise fuori il marchese De' Carli, allorquando, veduto il fermaglio della Ginevra, lo disse una corazza adamantina. Ma forse potranno stare ambedue. Quello che non può stare per nessun modo si è il conto fatto da un banchiere, il quale, noverati così alla grossa gli ornamenti della marchesa, scese a dire ch'ella poteva sottosopra valere un milione e mezzo.
Quello era forse il prezzo de' suoi diamanti, delle sue perle e de' suoi merletti di Venezia; ma la Ginevra dagli occhi verdi non aveva prezzo. Tutti i tesori di Golconda e dell'arcipelago indiano non valevano quel miracolo di natura che era la sua persona; nè tutti quei giri di perle che le stringevano i polsi, valevano un dito mignolo di quelle mani sottili, dalle venature trasparenti, che solo Fidia avrebbe saputo modellare, ma senza infonder loro la vita.
La marchesa, come le nostre lettrici hanno veduto, era magnificamente vestita, e mettiam pegno che taluna di esse si è già mattamente inuzzolita di uno sfarzo così strabocchevole. Ma se questa lettrice avesse veduto la Ginevra in persona, avrebbe più facilmente invidiato la grazia eletta con cui erano portate tutte quelle dovizie femminili. In fatti, a vederla, ella era molto più semplice di quello che non appaia da una dipintura necessariamente frondosa, quantunque pur sempre manchevole. Ogni cosa era a suo posto, ogni ornamento rispondeva per modo da non potercisi vedere una stonatura, e quel che più monta, il bianco splendore delle carni non ne era punto sopraffatto.
Un ventaglio con le stecche di madreperla e una scena di amorini che ruzzolavano festosamente sul prato, dipinta su d'una sottil pergamena dal Rubens, non era il meno prezioso di tutti quelli ornamenti, sebbene il banchiere anzidetto avesse dimenticato di metterlo nel conto.
Ora, sarebbe quasi inutile il dire che parecchie altre di quelle gentildonne invitate alla festa facevano pompa di tesori consimili. Le grandi famiglie genovesi avranno poderi e palazzi che fruttano a mala pena il due per cento; capolavori d'arte che non fruttano nulla; ma vedrete pur sempre le signore sfolgoreggianti di gemme come altrettante regine. E questo s'intenderà di leggieri, chi consideri che le gentildonne della festa erano le discendenti di quelle antiche dame, le quali tutte alla loro volta avevano portato diadema di dogaressa, nello spazio di quasi cinquecento anni, da Simon Boccanegra a Gerolamo Durazzo.
O bellezza! o forma sensibile della divinità, come risplendi tu mai, circondata dai tesori della natura e dell'arte! Omero, il nostro gran padre, non ha saputo altrimenti dipingerci la regina dei Numi, Giunone, che vestendola di tutto punto come una dama de' suoi tempi. Secondo lui, la diva dalle bianche braccia, doveva adornarsi con sottil magistero di elette vesti e pietre preziose, farsi bella, insomma, per innamorare il suo augusto marito. Ricordate con che arte ella si acconciasse, innanzi di andarlo a cercare sul monte Ida, dov'egli stava a bearsi lo sguardo delle busse che i Trojani davano ai Greci? È forse l'unico esempio di apprestamenti leggiadri che mai donna facesse per piacere al marito, dopo alcuni anni di matrimonio.
«La diva si avviò al regale suo talamo, a lei fabbricato dal figlio Vulcano con salde porte e una tal serratura segreta che nessun Dio sarebbe venuto a capo di aprire. Ella vi entrò, e chiusosi l'uscio dietro a doppia mandata, si terse dapprima l'amabil corpo d'ambrosia, e lo irrigò di una certa essenza oleosa, che, agitata nel cielo, riempiva l'universo di inneffabili fragranze.
«Poi commise al pettine le chiome bellissime, e di sua mano le compose in vaghi ricciolini ondeggianti intorno al capo immortale. Quindi, toltosi l'accappatoio (Omero non lo dice, ma s'intende di leggieri), indossò il peplo divino, tessuto da Minerva, e lo assicurò al petto con un fermaglio d'oro. Si cinse i bei fianchi d'un cintiglio a molte frange, e sospese agli orecchi ì suoi ciondoli gemmati a tre gocce.
«Si ravvolse intorno alla fronte una fulgida benda, e legatisi al piede i bei coturni, uscì pomposa dalla celeste dimora, dopo aversi posto in seno il cinto di Venere, sua figliastra, ben trapunto cinto nel quale erano raccolte tutte le lusinghe, la voluttà dell'amore, il desiderio segreto e la dolce favella degli innamorati.»
E sapete che facesse Giove, appena l'ebbe veduta? Non le diede neanco il tempo di infilzar quattro parole, e senza dir nè due nè quattro, le pose le braccia al seno e lasciò che i Greci, i prediletti di Giunone, suonassero a loro posta i guerrieri di Troia.
Questo faceva Giove, il re dei celesti. Ora quale dei mortali non avrebbe dimenticato ogni cosa per un sorriso della bella Ginevra, per uno sguardo solo di quelli occhi marini? E quale di loro non avrebbe affrontato di grande animo la morte, per respirare un solo momento la divina ambrosia, o per parlare più umanamente, l'eletta fragranza di quella regina delle donne?
Eppure, cosa incomprensibile ma vera, tutte queste dolcezze si possono avere a straccia mercato, nel secolo in cui viviamo. Solo che siate un uomo da poter essere presentato in un geniale ritrovo, vi è dato sovente di respirare per due o tre ore quell'aria che un povero amante pagherebbe con dieci anni di vita, e mettere una mano profana intorno alla vita di quella donna, e bere, stiamo per dire, il suo alito, in un giro di __waltzer__ o di __mazurka__.
Non ci faremo più oltre a dipingervi la marchesa Ginevra, nè a dirvi partitamente delle sue bellezze. Vorremmo aggiungere che aveva un piedino bello come la mano; ma voi sareste tali da voler sapere di che tessuto fosse la calza, di che colore il legaccio, a noi da volervelo dire. Lascieremo dunque alla vostra mente immaginosa l'ufficio di finire la descrizione, e tanto più volentieri, in quanto che con tutte le nostre parole non ci è venuto fatto di darvi ad intendere con quali giuste proporzioni rispondessero l'una all'altra tutte le parti di quel corpo bellissimo.
E la mente? Oh, questa era bella del pari. La marchesa Ginevra aveva un ingegno vivissimo e colto sopra tutte le altre. Trattava con garbo la matita, e il cembalo con agile maestria. Parlava con una voce melodiosa quasi tutte le lingue d'Europa, l'italiana e la francese, la spagnuola, l'inglese e la tedesca, di guisa che poteva leggere nel loro testo, il Petrarca, il Byron, il Goethe, l'Hugo e Garcilasso de la Vega. Il dialetto genovese che tanti trovano aspro, bisognava sentire che musica fosse diventato sulle labbra coralline della marchesa Ginevra!
E il cuore? Ahimè! Al tempo del nostro racconto il cuore della marchesa non aveva anche dato segno di vita. Molti le stavano attorno, sospirando, dicendo le più tenere cose; ed ella li stava ad udire, ma senza rispondere mai in quella chiave. Però il Cigàla, il più ameno filosofo che mai calzasse guanti paglierini, la metteva nel novero di quelle belle meditabonde, le quali nelle soavi parole e nei rapimenti di un uomo che le ama, stanno libando l'arcana dolcezza delle parole che potrebbe dir loro un altro che amano esse.
Ma, anco ammettendo la massima del nostro povero amico Cigàla, che è andato a seppellire la sua filosofia sui campi gloriosi di Montebello, noi dobbiamo aggiustar fede alle nostre notizie particolari, giusta le quali la marchesa Ginevra non amava nessuno. Era, a dir vero, una donna della quale non si capiva un bel nulla. Vi agitava le tempeste nel cuore, e non le calmava; vi sorrideva leggiadramente e vi guardava a volte con certi occhi che parevano promettervi il paradiso; ma che? Ella non pensava punto a voi. Era in lei natura il farvi udire la musica de' suoi sorrisi e delle sue cortesi parole, ma non vi consentiva niente di più, e vi teneva pur sempre lontani. In questa guisa dicono gli astronomi che i pianeti del nostro sistema sono attratti verso il sole e respinti ad un tempo, per modo che non possano nè avvicinarsi nè dilungarsi, oltre l'orbita che l'astro maggiore consente ad essi di descrivere. Ma tutto questo che ognuno avrebbe inteso di leggieri trattandosi del sole, non s'intendeva ugualmente trattandosi di una donna nel fiore della bellezza e della gioventù, maritata ad un uomo cupo, freddo, ambizioso, sempre circondato di parrucconi, assiduo lettore di Giuseppe De Maistre, come il marchese Antoniotto.
Che volete? Pareva quasi che la Ginevra ritraesse molto del marito. Ella infatti era assidua com'egli alle prediche, e andava ogni domenica ad udir messa nella chiesa della Maddalena. Due volte alla settimana la vedevate correre, col suo servo in livrea alle calcagna, fino al convento di San Silvestro, dalle monache di Santa Chiara, dov'era una Vivaldi, sua zia, e dove ella soleva passare due o tre ore alla fila. O come si riscontrava cotesto co' suoi modi in apparenza facili, coll'amore delle feste, delle conversazioni, del teatro, e di tutte le pagane consuetudini del viver signorile? Contrasto incomprensibile! O era forse la marchesa Ginevra una di quelle donne dal cuore muto d'ogni sentimento, su cui le lusinghiere immagini passano, senza lasciarvi orma di sè, come su d'un cristallo opaco? O forse Dio aveva fatta così bella la statua, senza soffiarle per entro il soffio della vita?
I lettori rammenteranno che Enrico Pietrasanta, parlando di lei con
Aloise, aveva detto:
—Dio le fa belle, e poi leva loro l'anima, perchè si conservino meglio, come gli uccelli impagliati.—
Questo che il Pietrasanta aveva detto della Ginevra, a volte pareva verissimo, a volte no. Ma siccome l'esser fredda non è per una donna una colpa al cospetto del volgo, e siccome la marchesa era così stupendamente bella che a molti pareva quasi impossibile avesse potuto mai discendere ad amar qualcheduno, tutti l'avevano facilmente posta tra le eccezioni. Così, mentre delle altre si narrava sempre alcun che, di lei si taceva, non si metteva nemmeno in controversia se potesse o non potesse sentire il mal d'amore come tutte le altre.
Soltanto di tratto in tratto si sarebbe potuto notare che alcune dame, parlando così alla sfuggiasca della marchesa Ginevra, la dicevano una bellezza sciocca, una testa tronfia de' suoi titoli, delle sue ricchezze e delle sue ubbíe forestiere. Gli uomini, a dir vero, non la pensavano così; ma già si sa Che, dalla volpe di Esopo in poi, è costume di chiamare acerba quell'uva che è troppo in alto sul tralcio. Epperò i signori uomini, sebbene in cuor loro riconoscessero i pregi della Ginevra, e sebbene l'assiduità delle loro occhiate dicesse tutt'altro che sciocca la bellezza di lei, a parole poi tenevano bordone alle aspre sentenze delle dame sullodate. Ma lasciamo da banda quello che potessero dire certe dame e certi cavalieri, e ripigliamo il nostro racconto, che preme assai più, scusate la modestia.
Stiamo ora per raccontarvi una cosa strana, e quasi incredibile, una cosa che i lettori non indovinerebbero, se pure la dessimo loro alle mille. Aloise di Montalto saliva le scale del palazzo Vivaldi, in compagnia di Enrico Pietrasanta.
O come mai Aloise, l'uomo che amava da sei anni la bella Ginevra senza avere ardito mai accostarsele, che s'era anzi sbandito da ogni geniale ritrovo per cansare il pericolo d'incontrare la donna de' suoi pensieri, s'era così di punto in bianco mutato, da mettere il piede nel suo palazzo, da andare alla sua festa da ballo?
E questo è ancor nulla, in raffronto a quello che non sapete ancora. Il marchese Antoniotto, il cupo tiranno di Quinto, l'orgoglioso gentiluomo per cui il non essere milionarii era come una fede di povertà, stava anche egli da un'ora nel primo salotto dov'era la moglie, e teneva d'occhio la sala d'ingresso, aspettando l'arrivo di quel nobile senza il becco di un quattrino, come lo diceva il Collini, di quel giovanotto senza importanza, come lo riputavano gli uomini della risma del gran ciamberlano De' Salvi; insomma, avete capito, di Aloise di Montalto.
Come Aloise di Montalto ai avvicinasse per la prima volta alla bella
Ginevra.
Appena Aloise comparve sulla soglia, insieme col suo Pilade, il marchese Antoniotto compose il volto al più lieto sorriso che mai padrone di casa consacrasse all'accoglienza di un ospite ragguardevole, e si affrettò a muovergli incontro e a prenderlo per mano con affettuosa sollecitudine.
—Vi ringrazio, Aloise;—diss'egli,—e permettetemi anzitutto che alla mia età, ed avendo conosciuto il vostro ottimo padre, io vi tratti così alla buona; vi ringrazio dell'essere venuto.
—Signor Antoniotto,—rispose egli, stringendo la mano che gli era offerta,—voi fate troppo onore ad un giovane che non è nulla e non val nulla, se non per l'onorata memoria de' suoi genitori.
—Siete troppo modesto, Aloise. Suvvia! I giovani come voi valgono molti vecchi a mazzo, e dei migliori, perchè hanno la potenza della volontà e il vasto campo del futuro per metterla in opera. Vi ho veduto bambino nelle braccia della marchesa Eugenia, di quella angelica donna che tutti i buoni rimpiangono, e mi doleva di non vedervi in mia casa. Siete un uomo prezioso, voi, e quantunque abbiate ragione a star sulla vostra, io spero che il figlio di Lodovico Montalto sarà amico mio, come era suo padre. Ma anzitutto lasciate che vi presenti alla mia signora.—
Aloise non seppe risponder nulla a quella furia di cortesi parole, che facevano rimaner di stucco il Pietrasanta.—Che novità è questa—pensava egli,—che il tiranno di Quinto mette fuori tanta ed insolita parlantina per la bella faccia del mio amico Aloise?—
Ginevra intanto era seduta su d'un canapè di legno dorato, coperto di raso azzurrognolo, e parecchi cavalieri le stavano intorno, tra i quali il gran ciamberlano, che voleva ad ogni costo mandarla a ballare.
Quel capo ameno del Cigàla dava cortesemente la baia al nobile De' Salvi, dicendo che quella sua ostinatezza a farla muovere di là veniva dal desiderio che aveva di ballare con lei; ma che si desse pace, non essendo egli scritto pel primo sulle ali d'avorio della farfalla.
La marchesa rispondeva ora al Cigàla, ora al De' Salvi, ora ad altri, e trastullandosi col suo ventaglio, guardava il marito colla coda dell'occhio, senza perdere sillaba della sua conversazione con Aloise.
Un sottile osservatore avrebbe potuto notare che la Ginevra s'era fatta rossa in viso, quando il giovine era comparso sulla soglia. Ma questo sottile osservatore non c'era; e quand'anche ci fosse stato, avrebbe dovuto essere molto addentro nei segreti di quella dama, per indagare se fosse il caldo od altra ragione che le colorasse le guance.
—Chi giunge, in compagnia del Pietrasanta?—chiese col solito stento di scilinguagnolo il marchese Onofrio De' Carli, che aveva già lasciato la Cisneri, per mettersi ai fianchi della padrona di casa.
—Non lo conoscete?—rispose il Cigàla.—È Aloise di Montalto.
—Sì;—soggiunse il piccolo Riario, facendo una di quelle mezze giravolte che sono tanto in uso presso certi pigmei forse a cagione degli altissimi tacchi che portano,—gli è il famoso duellista.
—Come, il duellista?—chiese Ginevra.—Non ha altro merito per farsi conoscere?
—Oh, marchesa, egli ne ha altri parecchi;—fu sollecito a rispondere il Cigàla.—È un perfetto cavaliere, ricco d'ingegno e di alto sentire.—
Il piccolo Riario non ardì rifiatare. Egli non poteva patire il
Montalto; ma temeva forte la lingua pronta e sarcastica del Cigàla.
—Ha da esser vero, se lo dite voi;—soggiunse la marchesa.—Voi non mi sembrate uomo di facile contentatura.
—Avete ragione, marchesa, a dirmi ciò; ma ci avreste un gran torto, se voleste farmene una colpa. Amo dire quello che penso, io; ma sono tanto più lieto di poter dire la verità, quando essa è lusinghiera come un complimento. Ora questo, se volete degnarvi di rammentarlo, mi avviene assai di frequente, quando parlo con voi.—
La bella Ginevra volse al Cigàla un'occhiata graziosa, un'occhiata che gli avrebbe fatto dar di volta al cervello, se il Cigàla non avesse saputo che gli sguardi cortesi della bella Ginevra erano la cosa più naturale del mondo, come i raggi sono il naturale accompagnamento del sole, e non significavano mai nulla di particolare.
—Se andiamo di questo passo, signor Cigàla,—disse
Ginevra,—diventerete un ottimista.
—Oh, non temete che ciò avvenga!—diss'egli di rimando;—alla più trista chiuderò gli occhi quando sarò vicino a voi, e vedrò tutto nero.—
Intanto che si dicevano questi nonnulla, il Pietrasanta era venuto ad ossequiare la marchesa, e dietro a lui veniva il marchese Antoniotto, tenendo il braccio di Aloise di Montalto.
Al nostro giovinotto tremavano un poco le gambe. Avvicinarsi alla donna che aveva amata fino a quel giorno da lontano, e chiusa nella sua nube diafana come una dea pagana, esserle poi presentato dal marito, erano in verità due cose così gravi da turbarlo maledettamente.
Egli già, fin da quando aveva ricevuto l'invito dei Torre Vivaldi, era rimasto colpito di stupore. Che vuole, aveva egli chiesto a sè medesimo, che vuole da me il marchese Antoniotto? E poi, quando il marchese Antoniotto gli si era fatto incontro con tanta sollecitudine, la prima domanda si era mutata in quest'altra: perchè tutta questa tenerezza da un uomo che mi conosce a mala pena, ed è in ogni cosa tanto diverso da me?
Un capo scarico avrebbe creduto di trovare l'incognita di quella equazione, correndo a fantasticare che la dama avesse avuto mano nell'invito e nella cortese accoglienza del consorte. Ma Aloise non era uno di que' presuntuosi i quali pigliano per buona moneta ogni invenzione che lusinghi la loro vanagloria; per giunta egli era certo che la bella Ginevra non poteva addarsi di un amore così celato e lontano come il suo, che nemmeno il telescopio (così egli pensava) lo avrebbe potuto scoprire.
Aloise era stato lunga pezza in forse, se andasse o no; ma il Pietrasanta gli aveva detto che sarebbe stata una scortesia grandissima la sua, se non avesse risposto pel suo verso all'invito del Torre Vivaldi.
—Di che diamine hai tu paura? Vivi solo, come un feroce anacoreta della Tebaide, e al cortese desiderio di chi ti si accosta, vorresti anche rispondere col rintanarti sempre più? Tu non intendi perchè il cupo tiranno di Quinto t'abbia posto nel suo calendario, e sta bene; ma non verrai certo a capo di saperlo, ricusando di venire alla sua festa da ballo. E poi, ti ho pur raccontato che una sera, in casa della Pedralbes, quando eri ferito, si parlò molto di te, e il valentuomo si degnò di ricordare che i Montalto erano ascritti all'albergo dei Vivaldi! Ora, se non ti viene altro in mente, poni che egli sia innamorato di te, ed abbia voluto invitarti alla festa per darti una testimonianza di stima particolare, come s'adopera con le persone di rilievo. Suvvia, Aloise, qui non c'è verso di schermirti; bisogna venire di gamba sana; se no, ti rifacciamo lo stemma di casa, e in cambio del leone che va in alto, ci metteremo un orso, e nemmeno di quelli inciviliti, che hanno imparato a ballare.—
Enrico Pietrasanta incalzava cosiffattamente Aloise, perchè lo amava molto, e metteva un po' di ambizione, scusabile invero, a farsi scorgere insieme con lui.
Aloise, senza volerlo, e senza nemmeno addarsene, era il capitano naturale di tutta quella gioventù aristocratica. Vestiva con molta semplicità, e cionondimeno, anzi appunto per ciò, più leggiadramente di ogni altro. Cavalcava mirabilmente; era destro schermidore, siccome è già noto, e parecchi duelli che aveva arditamente sostenuti, lo avevano fatto un mastro di cavalleria, un araldo d'armi, del quale si impetrava l'aiuto o il consiglio in ogni quistione tra' pari suoi. Era poi d'ingegno ornato, e dettava versi che pochi amici avevano potuto leggere, e ne facevano le maraviglie. Per giunta non cercava nessuno; salutava tutti, ma non usava aver dimestichezza che con due o tre, e non andava mai ad accrescere il codazzo della Clarice, della Fanny, della Clelia, o d'altra delle più ragguardevoli dame, allorquando sul tardi uscivano a passeggio. Nè si curava di sapere che cosa si pensasse de' fatti suoi; ignorava perfino che nei ritrovi domestici di tutte quelle gentildonne si parlava sovente della sua ritrosia, e si mettevano fuori di molti sospetti. A proposito dei quali, bisognerà soggiungere che i cavalieri di quelle dame, anco se poco amici del Montalto, col dirne di tutti i colori sul conto suo, non facevano altro che rincarare la merce.
Non è dunque a dire se il Pietrasanta ci si mettesse attorno con le mani e coi piedi, e se credesse di fare un miracolo tirando l'amico a seguirlo. Egli infatti non sapeva che Aloise, con tutte le sue perplessità, ci avesse dentro una gran voglia di accettare l'invito. Il giovine era stanco della sua volontaria ritirata sull'Aventino, e quasi sdegnato contro di sè per quella ritrosia che gli era piaciuta da prima, e che ora gli vietava di avvicinarsi a Ginevra, di guisa che egli era giunto perfino a maledire i suoi diportamenti passati, che gli impacciavano il presente.
Vien sempre il giorno in cui l'uomo si duole di un suo dirizzone, tolto dapprima ed accarezzato come norme del vivere. Quante volte san Simeone Stilita non ebbe a struggersi di quella sua matta deliberazione che lo aveva fatto andare a vivere sull'alto di una colonna?
—Ginevra,—disse il marchese Antoniotto, avvicinandosi alla moglie e tenendo il suo Simeone disceso dalla colonna per mano;—vi presento Aloise di Montalto, mio amico.—
Mio amico! capite, o lettori? Il marchese Antoniotto aveva fatta una lunga appoggiatura su queste due parole; le quali fecero sì che il piccolo Riario inarcasse le ciglia, e il gran ciamberlano De' Salvi, dall'altezza della sua nobiltà, si facesse amichevolmente a sorridere al nuovo venuto.
La marchesa Ginevra dal canto suo si fece un po' rossa in viso, e con un grazioso cenno del capo disse ad Aloise:
—Il marchese di Montalto è il benvenuto da noi; ed io lo ringrazio dell'onore che egli ci fa.—
Dell'onore che egli ci fai Diamine! queste erano parole che pochi s'erano sentite dire dalla marchesa Vivaldi; epperò gli astanti sullodati, i quali non potevano certo indovinare che la Ginevra le avesse profferite per dare una cortese lezioncella ad un colpevole di lesa maestà femminile, rimasero stupefatti.
—Marchesa….—rispose Aloise, e un profondo inchino fece intendere quello che egli non volle o non seppe soggiungere.
Per la qual cosa ognuno di leggieri argomenta come quella scena riuscisse diplomaticamente contegnosa e fredda.
La bella Ginevra, costretta a proseguire ella stessa la conversazione, si levò prontamente d'impaccio, entrando a parlare del recente duello di Aloise.
—E come state ora, signor marchese, della vostra ferita! Tutti noi, anche senza conoscervi da vicino, ci siamo impensieriti della vostra salute.
—Grazie, marchesa: oramai sono risanato del tutto.—
E non disse altro. Lettrici, che ve ne pare? Era freddino anzi che no, il nostro innamorato.
—È una barbara costumanza questa del duello,—sentenziò il De' Salvi, senza por mente che spacciava una delle solite rifritture,—ed è da condannarsi tanto più, quando espone un gentiluomo a misurarsi con ogni sorta di gente.
—Non debbo contradirvi, signore;—rispose il giovine Montalto, salutando il De' Salvi,—ma in quanto al fatto mio, posso ed amo mettere in sodo che ho avuto a fare con un perfetto cavaliere.
—Questa dichiarazione fa fede della vostra lealtà,—disse la bella Ginevra.—Ma a proposito di cavalieri perfetti, volete essere il mio, signor di Montalto?—
E così dicendo si alzò per andar finalmente nella sala da ballo.
Il nobile De' Salvi che aspettava d'esser lui, come mastro di cerimonie volontario, il cavaliere della marchesa, allungò tanto di muso, e gli altri suoi degni colleghi del pari. Già tutti aspettavano per sè quella grazia prelibata che la marchesa avrebbe pur dovuto fare a qualcheduno, entrando con lui nel salone di Flora. Epperò, quantunque fosse la cosa più naturale del mondo che questa grazia cadesse su d'un nuovo venuto, il gran ciamberlano non poteva mandarla giù, nè il marchese Tartaglia, nè il piccolo Riario, il quale ci aveva egli pure le sue pretensioni.
Il Cigàla che aveva seguito da capo a fondo tutta quella scena muta, ma eloquente, di aspettazione, se la rideva sotto i baffi. Il Pietrasanta, che era giunto più tardi, fu il solo che non ponesse mente a tutte quelle speranze deluse, e si rallegrò in cuor suo che l'amico Aloise comparisse nella sala da ballo a fianco della bella Ginevra. Era il gaudio dell'artefice quello che gli splendeva sul volto, poichè gli pareva d'essere stato egli l'operatore di quel miracolo che conduceva Aloise in mezzo alla gente.
In quanto al nostro eroe, egli non parve molto contento di quell'atto di preferenza notevole. Lo era tanto e poi tanto nel profondo del cuore, che rimase impacciato, non seppe cavare una parola, e si mostrò quasi distratto.
—Marchesa,—disse il Cigàla a Ginevra, come furono giunti nel salone di Flora,—ricordatevi del vostro debito.
—E quale, di grazia?
—Il mio __walzer__. Lo attaccano per l'appunto, ed io sono il primo inscritto nel vostro taccuino.
—Davvero?—rispose ella con aria astratta.
—Sì, marchesa, e quantunque mi dolga di rubarvi subito al mio ottimo amico Aloise…. il quale tuttavia….
—Tuttavia!… Stiamo a vedere, signor Cigàla, che voi diventate tanto clemente da offerire al marchese di Montalto quello che egli non vi ha nemmeno chiesto.
—No, marchesa; volevo dire che egli avrebbe potuto dimandarmelo, ma che io, con tutta l'amicizia che ho per lui, non avrei potuto accordarglielo.—
Aloise era turbato. Si accorgeva di aver fatto male a non chieder subito, e si pentiva di non esser più in tempo.
—Marchesa,—disse egli allora,—io non ardivo certamente chiedere una grazia somigliante al mio amico Cigàla; ma se c'è sul vostro taccuino una pagina bianca….
—O che, mio buon Aloise, vorresti riempirla tutta?
—No, certo; non chieggo tanto; ma se vi rimane un po' di posto pel mio nome….
—Orbene, vedremo di contentarti;—rispose il Cigàla, con una comica gravità che fece ridere la bella Ginevra.—Marchesa, il vostro libriccino?
—Eccolo; volete far da segretario?
—Sì; non voglio che il mio ottimo amico m'abbia in concetto d'un tiranno, perchè sto per rapirgli la dama al primo giro di __walzer__.—
E presa dalle mani della marchesa quella magnifica farfalla tempestata di gemme, che i lettori conoscono, l'aperse e scrisse il nome del marchese di Montalto per una __mazurca__.
Aloise s'inchinò per ringraziare la bella Ginevra.
—E adesso, marchesa, udite? Gli è tempo di venire con me.
—Con che aria me lo dite, Cigàla! Lo spirito del male non parlerebbe diverso ad un'anima che avesse sottoscritto un patto col sangue.—
Ciò detto, la bella Ginevra si alzò da sedere, e poco dopo Aloise la vedeva aggirarsi con elegante compostezza in braccio al Cigàla nel turbine della danza.
Ritto in piedi, contro lo spigolo della strombatura di un finestrone che era accanto alla porta, egli era rimasto a contemplare la dama, pensando. A che cosa?
Dapprima cercò di ordinare tutti i suoi concetti, cosiffattamente ingarbugliati e tumultuati nell'anima. Pensò che aveva veduto Ginevra, udito il suono della sua voce, bevuto i raggi che sprizzavano que' grandi e profondi occhi verdi, che aveva respirata la sua aria, che era penetrato insomma e s'era inebbriato in quell'aureola di luce tiepida e di arcani effluvii che circonda una donna gentile. Ma egli non era contento di sè medesimo, e ricordava di essere stato taciturno, impacciato, poco manieroso.
E poi, che cosa gli avevano detto quelle labbra di corallo? Parole cortesi, ma nulla di particolare, nulla che gli dimostrasse aver ella sentito la presenza di un amore profondo, veemente. Strana logica degli innamorati! Dopo essersi chiarito scontento di sè, riusciva scontento di lei. Avrebbe voluto che ella avesse indovinato su due piedi l'amor suo; ma in che modo? S'era egli mai fatto innanzi? O poteva ella vederlo sul belvedere dell'Acquasola, quando egli stava le ore intiere amorosamente speculando i comignoli del palazzo Vivaldi? O poteva in teatro avvedersi dell'affetto di un uomo, il quale non la guardava mai? E poteva intendere che quel suo continuo girar degli occhi, in aria di sbadataggine, era un sottile accorgimento adoperato per veder lei? E in quella sera stessa, vedendolo e parlandogli per la prima volta, che poteva dirgli di più, se egli era rimasto così senza parole? Che cosa concedergli, se egli non aveva chiesto nulla? Quel poco che aveva ottenuto, egli non l'aveva neppur guadagnato con la sua fatica; ne era debitore all'amicizia, al fare spigliato e gaio dell'ottimo Cigàla.
Mentre tutte queste cose gli tornavano in mente e si schieravano lì dinanzi a lui, armate di quelle minacciose falci che sono i punti interrogativi, egli sentiva la sua logica tapina a disagio; ma tant'è, non sapeva gettar via quella sua arma spuntata e darsi vinto; correva pur sempre a pensare che una donna ha da capire, da indovinare ogni cosa. E poi, a che approdavano tutte quelle buone ragioni, se egli si sentiva stringere il cuore?
Com'era bella ed elegante! Quanto più elegante e più bella in quel punto, e da vicino, che non per lo innanzi, quando gli era dato appena, e raramente, vederla da lontano! Nel contemplarla che faceva, attratta dal braccio del Cigàla in que' giri vorticosi del __walzer__, egli pensava alla ebbrezza che lo avrebbe sopraffatto, quando la sua mano avesse stretta la mano di Ginevra, il suo braccio ricinto quella vita svelta ed aggraziata; e così pensando, tremava. Come sarebbe rimasto sulle gambe? I piedi non gli sarebbero rimasti inchiodati sul tavolato?
Ognuno di noi, una volta almeno in sua vita, ha provate queste dubbiezze. Ognuno di noi ha dovuto raccogliersi in quel modo, microcosmo solitario di gioie e di dolori, di rapimenti e di angosce, di desiderii e di timori, frammezzo al turbine di una danza, alle bellezze sfavillanti, ai mille riflessi della luce, alle fragranze dei fiori.
In quel tumulto di pensieri, Aloise era rimasto là ritto, in atto di smemorato. Era solo; il Pietrasanta, l'amico suo, che con qualche celia delle solite avrebbe potuto scuoterlo, mutar l'indirizzo malinconico della sua mente, aveva già trovato il bandolo in quel laberinto di splendide tentazioni, e ballava allegramente con quella magnifica baccante della marchesa Giulia Monterosso.
—Enrico almeno è contento!—pensò Aloise, vedendo l'amico affaccendato intorno alla marchesa Giulia.—Egli ha forse ragione a non lasciarsi cogliere da quella brutta malattia. Dio le fa belle, e poi leva loro l'anima, perchè…. Ma via che bestemmie son queste?—
In quella che Aloise così parlava tra sè, una mano gli posò sulla spalla, e una voce gli disse:
—Orbene, mio bel filosofo, e come va che non ballate?—Aloise si volse, e si vide innanzi il marchese Antoniotto che lo guardava con aria sorridente. I lettori, che conoscono appena questo gentiluomo pel nome di tiranno postogli dal Pietrasanta, si meraviglieranno un poco di tutti questi sorrisi coi quali egli si presenta alla loro attenzione; ma noi non sappiamo che farci. Quella sera il marchese Antoniotto era proprio un zucchero.
—Oh, signor marchese….—disse il giovine, còlto così alla sprovveduta.
—Che marchese! Qui siamo in due, di questa fatta. Chiamatemi pel mio nome, come io faccio con voi. E ora ditemi un po', come va che non vi vedo al fianco di qualche bella signora?
—Signor Antoniotto,—rispose il giovane, sorridendo dolcemente,—è cosa facile ad intendersi. Io non sono un gran ballerino, e poi, vivendomene quasi sempre solo, non ho molta dimestichezza con tutte queste graziose dame.
—E state qui meditabondo. Aloise, Aloise, voi covate qualche alto disegno nel profondo dell'anima.
—Io?…
—Sì, voi; ma non ve ne faccio un delitto;—proseguì con voce quasi melata il Torre Vivaldi, in quella che metteva dimesticamente il suo braccio sotto quello di Aloise, e lo tirava fuori dalla strombatura della finestra per condurlo in giro nelle altre sale.—Voi non siete come tutti gli altri della vostra età; io già me n'ero avveduto da un pezzo. Voi avete capito che la vita di un uomo pari vostro ha uno scopo più grave di quello che non si pensi dalla comune dei nostri giovanotti, e ve ne lodo. Ma di ciò parleremo a lungo, perchè avete da essere amico mio, non è vero?
—Signor Antoniotto….
—Bene, bene siamo intesi. Frattanto bisogna che facciate qualche cosa, che danziate, e vi mettiate a conversare con qualcheduna delle nostre signore. Voi saprete meglio di me che le donne non sono disposte a patire l'autorità degli uomini, se questi in alcune cose non si adattano alle loro frivolezze. Volete che vi presenti alla Torralba, che è là seduta?—
Come la bella Ginevra non avesse ad essere molto contenta dei fatti di
Aloise di Montalto.
Aloise avrebbe voluto ringraziare il marchese Antoniotto della sue cortese profferta, e rispondergli destramente come non gli andasse punto a' versi essere presentato alla marchesa Torralba. Ma non era più tempo. Il marchese Antoniotto, senza aspettare la sua risposta, lo aveva già condotto così dirittamente verso quella signora, che non c'era più modo di dare indietro.
I lettori conoscono già per un breve cenno la marchesa Torralba, quella gentildonna dalle carni del color del latte e dai lineamenti soavi, tutta impastata di bontà, tutta dolci pensieri significati con dolci parole da una voce melodiosa, sebbene un po' gutturale. Per rammentar loro quel tipo, non facciamo altro che copiare a un di presso le nostre parole.
La marchesa Maddalena accolse benissimo il nostro Aloise, che si presentava a lei sotto gli auspicii del grave marito della Ginevra, e il vecchio cavaliere, Cupido scadente, dai capegli brizzolati e dalla faccia grinzosa, che le faceva compagnia, approfittò della loro venuta per svignarsela e correre attorno.
Un giovine, a dir vero, non si sarebbe diportato in quel modo. Ma i giovani non sono vecchi, e questo nessuno vorrà mettere in dubbio. Ora è noto che i vecchi Ganimedi, pigliando per buona moneta quelle cortesie profumate che ad essi usano le signore, perchè sono utilissimi e fanno le veci di mariti custodi, senza essere mariti e senza usare una vigilanza del pari sospettosa, montano in gran superbia, e farfalleggiano quinci e quindi, come se avessero venti o trent'anni di meno; si affrettano a cogliere il fiore di questa pianta e di quella, come api le quali non abbiano tempo da perdere: danno guizzi sfavillanti, come la lucerna che è presso a spegnersi per mancanza d'alimento.
Aloise, non sapendo come meglio incominciare, pregò la marchesa Maddalena d'un giro di __valzer__. Ma ella ricusò, dicendogli schiettamente come fosse quello l'unico ballo che non le piaceva, perchè le dava il capogiro, e come già avesse dovuto rispondere con un rifiuto ad altri parecchi.
Era naturale che Aloise la richiedesse di un altro ballo, e appunto egli fece. Ma anche qui c'erano parecchie difficoltà; che la __mazurka__ era promessa al Riario, la __polka__ al Pietrasanta (briccone d'un Pietrasanta! egli non era stato con le mani alla cintola!) la __scotish__ poi ad un altro, di cui essa gli fe' leggere il nome sul suo libriccino di avorio.
—Sono pur disgraziato!—disse Aloise, poichè ebbe veduta quella filza di nomi.—E la quadriglia?
—Per questa,—rispose la marchesa Maddalena,—mi sembra che non ci sia proprio nessuno.
—Orbene, signora, vogliate concedermi questa.—
La Torralba acconsentì di buon grado, e Aloise scrisse il suo nome nel libriccino; quindi fece atto di accomiatarsi. Ma aveva fatto i suoi conti senza il marchese Antoniotto, il quale era già andato più oltre, lasciandoli soli.
—Signor Montalto,—disse la Torralba, ridendo dello stupore di
Aloise,—vi hanno lasciato solo.
—Accanto a voi, signora; il che vuol dire molto bene accompagnato.
Voi in cambio non potrete pensare lo stesso.
—Volete un complimento?
—No, in fede mia, signora marchesa. Ho detto quello che pensavo, e nulla più.—
Di questo modo incominciò tra la bianca signora Maddalena e il nostro Aloise una conversazione, rotta dapprima, poi facile e tranquilla, qua e là condita di motti graziosi, ma in ogni parte affabile e misuratamente sdolcinata, come sempre occorre tra un uomo e una donna, anco se la donna e l'uomo siano lontani le mille miglia da quel paese del __Tenero__ che fu così acconciamente scoperto e misurato a palmi da madamigella di Scudéry.
La signora Maddalena non era una di quelle donne di pronto e sottile ingegno, nate per offrire ad un romanziere novellino il tipo delle sue perfette eroine. Ella era tuttavia un'ottima pasta di donna, e la bontà dell'animo, la dolcezza dei modi, in quella che richiamavano alla mente l'immagine della colomba, facevano dimenticare ch'ella non era un'aquila.
Timida appunto come quel leggiadro animaletto domestico, la nobiltà del cui ufficio risale ai tempi del diluvio, modesta come la mammola, la signora Maddalena non era fatta certamente per risplendere su tutte le altre sue pari, e avrebbe avuto il gran torto chiunque l'avesse posta a raffronto della Ginevra, della Erminia, o della Usodimare. Era dolce, era pietosa, ed appariva tanto più dolce, tanto più pietosa, in quanto che dolcezza e pietà erano le sue virtù culminanti.
Però la conversazione della signora Maddalena, se non era splendida, riusciva sommamente gradevole, con tutte le debolezze, con tutte le storte opinioni che le erano derivate da quella gretta educazione che si dà di presente alle donne, e dal consorzio continuo di donne e d'uomini la più parte educati alle medesime frivolezze.
Aloise, come già avranno notato i lettori, era molto più sciolto nel conversare con la Torralba, che non fosse stato con la bella Ginevra. E in ciò non era nulla di strano, essendo egli posto così di punto in bianco nella necessità di parlare, e l'amore non facendogli nodo alla lingua. Laonde potè mostrarsi disinvolto, com'era veramente, e ragionare con assai garbo di cento nonnulla.
La signora Maddalena lo ascoltò volentieri. Egli non era quell'orso di cui gli amici caritatevoli le avevano fatta una così fosca dipintura. Però in dieci minuti di conversazione, lo spirito della bianca gentildonna aveva già fatte cento miglia, e già pensava che nessuno di que' giovinotti, i quali portavano il vanto della cortesia e dell'arguzia, potesse mettersi in paragone con Aloise di Montalto.
Il quale dal canto suo rendeva larga giustizia alla signora Maddalena, notando la delicatezza de' pensieri e la grazia de' modi, che rispondevano perfettamente alla soavità del suo viso. Ma fermiamoci qui, non corriamo a dare uno storto giudizio del cuore di Aloise, che pure s'avrebbe oramai a conoscere un tantino.
S'erano fatti dapprima a parlare della festa, poi di musica, e dalla musica erano saltati a ragionar di pittura. Egli era un dialogo che andava da sè, piano, scorrevole, come avrebbe potuto farsi fra due uomini, anzi no, tra un uomo e una donna; imperocchè nel dialogo di due uomini si ficca pur sempre lo spirito aspro della controversia, e tra Aloise e la signora Maddalena il ragionamento correva limpido e cheto come…. come…. Cercatelo voi, un paragone che calzi.
Il __valzer__ finì, ed Aloise si profferse ai servigi della marchesa per accompagnarla alla credenza. Segno questo, per ogni osservatore di buon conto, che egli non pensava punto al bel viso della signora. Il cuore che comincia a intenerirsi non profana le sue gioie delicate colla immagine di una donna che mangia.
Così dicono i fisiologi dell'amore, intendiamoci bene. In quanto a noi, non rifuggiamo punto dalla immagine della donna che mangia; pure, non ci faremmo mai lecito di invitarla a mangiare, quando fossimo seduti accanto a lei, ragionando di cose più spirituali.
Sebbene la signora Maddalena non avesse ballato, e però mancasse la ragion sufficiente dell'andare alla credenza, ella nondimeno accettò l'invito di Aloise, ma forse più per il desiderio di muoversi un tratto, che non per centellinare una chicchera di __tè__.
Nella credenza era una folla di dame e di cavalieri che avevano finito di ballare, e andavano a rinfrescarsi l'ugola o a rafforzarsi lo stomaco. Tra gli altri, Aloise notò l'amico Pietrasanta, il quale stava discutendo colla marchesa Giulia se fosse meglio un poco di __tè__ o un poco di __lei__, e cavalcava il bisticcio così agevolmente come il suo leardo moscato pei viali dell'Acquasola.
E v'era anche il Cigàla con la marchesa Ginevra. Aloise tremò per tutte le membra, appena la vide. Fino a quel punto egli non aveva pensato a quel che si facesse; era andato ad occhi chiusi: ma al cospetto di Ginevra, i suoi atti innocentissimi gli apparvero pieni di colpa. E infatti, dopo forse venti minuti che l'aveva lasciata, mostrandosi così freddo e contegnoso verso di lei, farsi scorgere con un'altra dama al braccio, lasciar argomentare il desiderio di un'altra presentazione e il naturalissimo accompagnamento di molte sdolcinature, era certamente tal cosa da dare alla marchesa Ginevra un gramo concetto de' fatti suoi, da farle credere, alla men trista, che egli non fosse innamorato di lei.
Ora, quantunque ella non dovesse saper nulla dell'amor suo, questo pensiero appariva orribile ad Aloise. Mentire in una sera a sei anni continui di affetto, farsi stimare tal uomo che potesse vicino a lei innamorarsi di un'altra, ecco il rischio a cui correva incontro il nostro giovine amico. E il pensare a questo risico gli ingarbugliò il cervello per modo, che non seppe rispondere nulla al Pietrasanta, il quale allegramente lo chiamava giudice nella sua controversia.
Uggioso, impaziente nell'animo, ma misurato nei modi, anzi stecchito con la tesa del suo __gibus__ appoggiata alla coscia, egli rimase là, rispondendo a spizzico e stentatamente alle cortesi domande della marchesa Maddalena.
In quel mentre la bella Ginevra si accostò alla Maddalena, e le chiese con piglio amorevole:
—Orbene, hai ballato?
—No, mia buona amica;—rispose la signora Maddalena,—tu sai che il __valzer__ mi dà il capogiro. A te ha fatto bene; guardati nello specchio, come sei bella.
—Ah, Maddalena! E che cosa diranno questi signori, ai quali si ruba la parte?—
Aloise, a cui la Ginevra si era rivolta, dicendo quelle parole, stette muto; ma il Cigàla colse la palla al balzo, e fece una stupenda volata.
—Diremo,—rispose egli,—che fate benissimo a dirvi tra voi delle cose gentili, ma che, con tutto il vostro ingegno, non giungerete mai a dirvene tante, quante ne pensiamo noi. Non è il tuo parere, Aloise?
—Sì, certo,—rispose il giovine, che si studiava di correggere, con qualche frase a modo, il cattivo senso de' suoi diportamenti,—noi pensiamo di molte cose; pensiamo tra l'altre che la bellezza è la bontà del corpo, e la bontà è la bellezza dell'anima, e l'una si specchia nell'altra. Avventurose quelle donne che possiedono il talismano di questa doppia bellezza e di questa doppia bontà.
—Bravo, signor di Montalto!—esclamò Ginevra, con un sorriso che rallegrò il cuore ad Aloise.—Non si potrebbe, io penso, dir meglio una bella verità; ed io, con vostra licenza, la farò mia, per ripeterla alla gentil Maddalena. Eccoti vinta, Maddalena, arrenditi a discrezione!—
La marchesa Torralba arrossì, non seppe che altro rispondere, e ringraziò timidamente degli occhi Ginevra ed Aloise.
Ma questi, che già s'era fortemente turbato in udire quel discorso della bella Ginevra, non fu molto grato alla signora Maddalena del suo ringraziamento. Che diamine ho detto mai (pensava egli tra sè) che la marchesa Vivaldi abbia potuto voltarlo a lode della Torralba? Non certamente per questa m'ero fatto a parlare.
Con quest'altra spina nel cuore, il povero Aloise divenne più inquieto, più uggioso che mai.
La credenza intanto s'era spopolata delle dame, e il Montalto ricondusse fuori la marchesa Maddalena. Si stava per cominciare la __mazurka__, che ella aveva promessa al piccolo Riario. Ma il nostro vagheggino non si vedeva, e la __mazurka__ cominciò senza ch'egli fosse venuto a cercare d'ella signora.
Che ne era avvenuto? La marchesa lo seppe dal Pietrasanta, il quale raccontò gravemente come, sul più bello del __valzer__, il piccolo Riario, volendo fare il giro a rovescio, fosse caduto disteso, trascinando la dama sul tavolato. Era uno di quegli episodii che sono così frequenti nelle feste da ballo, e mettono un po' d'allegria in quelle contegnose brigate. Il Pietrasanta, raccontandolo con molta gravità, faceva ridere due tanti di più. La marchesa Maddalena, che, d'indole pietosissima qual era, non aveva aperto bocca, non seppe più tenersi le risa, allorquando il Pietrasanta, venendo a dire di quella gran caduta, uscì fuori con queste parole:
—Vogliono alcuni che ciò sia avvenuto per l'altezza forse soverchia dai tacchi del nostro ottimo Riario, e desumono questa loro opinione dal fatto, che io riferirò col massimo riserbo, non volendo menomamente __intaccare__ la fama del calzolaio, di uno di questi tacchi male attaccati, che fu, dicesi, rinvenuto staccato sul pavimento.—
Era vera questa storia del tacco, o non era che un'arguta giunterella del Pietrasanta? Non abbiamo mai potuto sincerarcene: ma il fatto si è che al piccolo Riario fu da quella sera in poi appiccicato il soprannome di __senza tacchi__, che ognuno seguita a dargli, sebbene ne abbia un paio di molto ragguardevoli.
Per dire soltanto di quella sera, fu un continuo ripetersi dei bisticci del Pietrasanta, sui tacchi, perchè male attaccati, e via dicendo. Il disgraziato eroe di quella scena era scomparso, o, se vi garba di più, aveva battuto il tacco; e fuvvi un bell'umore il quale asserì di aver veduto nella sala d'ingresso un signorino che se la svignava zoppiconi, tirandosi il cappello sugli occhi, dinanzi alla mazza d'argento del guardaportone.
La conseguenza inaspettata del ridicolo episodio fu questa, che Aloise si profferse alla marchesa Torralba per ballare con lei la __mazurka__ in vece del piccolo Riario, e che la signora Maddalena accettò.
Per tal modo Aloise era più affondato che mai, senza speranza di cavarsene. E intanto la marchesa Ginevra, che aveva ballato il __valzer__ col Cigàla, ballava una __mazurka__ con un altro amico d'Aloise, il Nelli di Rovereto, che i lettori hanno veduto nella chiesuola diroccata di San Nazaro.
La bella Ginevra vide il Montalto giungere nel salone con la signora Maddalena, e parve ad Aloise di scorgere in quelli occhi verdi un tal po' di maraviglia de' fatti suoi, Cotesto, che non sappiamo se fosse vero, lo turbò di bel nuovo, e cosiffattamente, che egli perdette addirittura la bussola. Vedendolo astratto e non sapendo che dirgli in uno di quelli intermezzi che occorrono frequenti dove son molto numerose le coppie dei danzatori, la marchesa Maddalena incominciò un discorso intorno alla conversazione fatta pur dianzi.
—Che angelica creatura è la Ginevra!—disse ella con molto candore, pensando davvero quel che diceva.
Aloise non rispose. Il nome di Ginevra, messo fuori così repentinamente, gli fece dare una scossa al capo, che alla signora Maddalena parve un mero segno di risveglio naturalissimo in chi è sovra pensieri e si sente richiamato in carreggiata.
—È buona,—proseguì la Torralba,—buona e cortese quanto è bella, e volere o non volere bisogna ammirarla ed amarla.—
V'è egli mai avvenuto, o lettori, di udire a parlare di cosa o di persona, che vi premesse moltissimo, e non potervi tenere che non diceste l'animo vostro, contro tutte le norme della prudenza? Orbene, ciò avvenne ad Aloise di Montalto.
—Sì,—esclamò egli, stringendo inavvertitamente il braccio della marchesa, come se fosse stato quello della bella Ginevra,—ella è buona, cortese, bellissima; e l'uomo che, vedutala una volta, non l'amasse con tutte le forze dell'anima, meriterebbe di perdere gli occhi.—
Egli disse ciò con un piglio così concitato, e strinse così forte il braccio della dama, che ella volse rapidamente il capo, guardando in volto Aloise, come trasognata. Lo stupore della signora Maddalena era tale, che ella non badò neppure alla scortesia, del resto involontaria, di quella pazza sfuriata del suo cavaliere.
La signora Maddalena era donna, e le parole di Aloise erano così chiare, che l'uomo più corto d'ingegno le avrebbe capite. Però ella non durò fatica ad intendere il segreto del giovine, e fu come un velo che si squarciasse d'improvviso davanti a lei.
Aloise amava la bella Ginevra, e tanto più fortemente, tanto più profondamente, in quanto che egli appariva un uomo di tempra vigorosa e di pensamenti severi. Quella era dunque la riposta cagione della sua astrattezza, de' suoi modi impacciati. E allora le tornarono a mente quelle poche parole dette dal marchese di Montalto in risposta al Cigàla. Ella capì che erano state dette per Ginevra, sebben costei le avesse voltate ad elogio dell'amica. Ma perchè la Ginevra aveva mostrato di non accettarle per sè? V'era egli forse una segreta ruggine tra lei e il Montalto? Ginevra aveva forse voluto punzecchiarlo?
La signora Maddalena non poteva adattarsi a questa opinione. Ginevra era nobilissima d'animo, ed ella non si ricordava d'averla udita mai usare scortesia ad alcuno, o dir parola che sapesse d'amaro. Ella poi non poteva indovinare fino a che punto fossero inoltrate le cose. Rammentava d'aver udito poc'anzi che il marchese di Montalto metteva il piede quella sera per la prima volta in casa Torre Vivaldi; ora come si poteva credere che tra la Ginevra e lui ci fosse alcun che? E d'altra parte, perchè mai Aloise era turbato a quel modo? Insomma, la signora Maddalena si stillava il cervello senza indovinare la verità. Ma una cosa era certa, e le ultime parole del giovine l'avevano posta in chiaro. Aloise amava Ginevra; Aloise era fuori di sè.
Simiglianti scoperte riescono sempre argomento di riso o di rammarico, secondo l'indole di chi ne è venuto a capo. Però il primo pensiero di quella affettuosa gentildonna fu di pietà. Aloise le apparve come un povero ferito, che ella avesse raccolto sul campo di battaglia. E nondimeno dover tacere, non potergli dire che lo aveva inteso e che s'impietosiva a' suoi patimenti! Fu questo un nuovo rammarico per la marchesa Torralba, la quale poteva dire come Bidone: __Non ignara mali, miseris succurrere disco__.
Intanto com'era ben custodito il segreto di Aloise! Francava la spesa di tenerlo sei anni, sei lunghi anni celato, se in una sera di vicinanza egli doveva spiattellarlo a quel modo! Ma purtroppo l'amor fa come le selci, che, fino a tanto le si tengano divise, vi appaiono mute ed inerti come debbono esser i sassi; ma fate tanto di percuoterle l'una sull'altra, e subito vi sprigionano scintille.
Con questi cominciamenti, pensate voi che allegra __mazurka__! Aloise era sdegnato con sè medesimo per quelle sue sconsiderate parole, e non ardiva aggiungerne altre. Alla marchesa Maddalena poi, quella scoperta era cosiffattamente feconda di molesti pensieri, ch'ella non aveva tempo a dir nulla. Ella inoltre con quel fine accorgimento che è della donna, notava che il suo malinconico cavaliere, ogni qual volta i giri del ballo lo riconducessero presso Ginevra, si faceva rosso in viso, e il cuore gli dava le battute doppie.
Come a Dio piacque e all'orchestra, la __mazurka__ ebbe fine. Aloise accompagnò, sempre muto e contegnoso la signora Maddalena a posto, e poco di poi, cogliendo il momento opportuno, si allontanò, andando difilato nella sala più remota del palazzo, dove si buttò su d'un seggiolone, e vi rimase corrucciato, facendo a pezzi i suoi guanti paglierini, che non ci avevano colpa.
—Che fo io qui? Il mio cuore è pieno di amarezza. Amo quella donna come un dissennato, e non so mettere insieme quattro parole da dirle, sicchè ella m'avrà in conto di uomo noncurante, o scemo come tanti altri. E suo marito che viene a mettermi tra l'uscio e il muro, presentandomi alla marchesa Torralba! Ed io che non so cavarmi d'impiccio! Ma come fare? Era debito di cortesia lo stare accanto a quella donna gentile…. E intanto, chi sa? con tutta la mia sollecitudine intorno a lei, avrò forse dato molestia ad un povero diavolo che rama. Ed ella stessa a prima giunta avrà creduto…. sì certo; ma adesso non avrà a temer nulla; sebbene avrei potuto tenere una strada diversa, e non esser villano per mostrarmi sincero. Ora, quel che è peggio, ho lasciato trapelare il mio segreto. La signora Maddalena saprà che amo Ginevra, e Ginevra non ne sa ancor nulla; io non mi sono certamente diportato in modo che ella potesse avvedersene. Qual concetto si sarà fatto di me? Le sue parole non mi hanno fatto scorgere ch'ella mi crede invaghito della Toralba? Oh, in fede mia, che è stato un bel cominciamento! Ella almeno s'è ingannata; mentre io ho veduto che a lei non ne importa un bel nulla. Ma che donna è costei? Che pensieri girano per quella testa? E che so io? È bella, stupendamente bella, ed io darei dieci anni di vita per poterle parlare con quella disinvoltura che avevo accanto a quell'altra. Suvvia, Aloise….—
Così dicendo si alzò, mettendosi a passeggiare per quella sala, dove la luce dei doppieri era più mite e dove giungeva più fiocco il rumore della festa.
—Suvvia, Aloise! Bisogna superare questa ritrosia bambinesca, farsi animo, ed essere con lei quello stesso che sono con altre. Che dirà ella, alla perfine, vedendomi sempre così asciutto e freddo come un giorno di febbraio?—
L'immagine del giorno di febbraio lo fece sorridere, sebbene mestamente, e la sua fantasia proseguì su quel metro.
—Sì, bisogna ch'io mi scaldi, e scaldi a mia volta la statua di ghiaccio. Ella non ama nessuno, e questo mi è noto. Per bellezza di forme e nobiltà di pensieri ella appare troppo alta ad ognuno di questi adoratori pedestri, ed è giusto. L'amore soltanto, l'amore sconfinato, può levarsi all'altezza di quella donna. E per questo, Ginevra, voi non istarete molto a saperlo, non c'è chi mi vinca.—
In quella che Aloise dallo sconforto correva alla fede, e cavando di tasca un altro paio di guanti si rifaceva verso la porta della sala deserta, udì nella camera attigua alcune voci di uomini e donne che dicevano:—La quadriglia! suonano la quadriglia.—
E allora gli sovvenne della quadriglia che doveva ballare colla marchesa Maddalena. Giungeva proprio in mal punto, quel ballo cerimonioso!
Quando Aloise fu presso alla marchesa Torralba, vide accanto a lei Enrichetta Corani e il Nelli di Rovereto, suo cavaliere per la quadriglia, il quale chiedeva alla marchesa se ella avesse già scelto una coppia di riscontro.
—Io no;—rispose la signora Maddalena.—Chiedetelo al mio cavaliere, che giunge a proposito.
—Che c'è?—disse Aloise al capitano.
—Chiedevo alla marchesa se non avesse coppia di riscontro per la quadriglia, ed ella si rimette a te. Perciò ti prego…. ed anzitutto ti presento alla mia dama.—
Aloise fece un profondo inchino alla Corani, e fu stabilito il riscontro fra le due coppie, che andarono nel salone di Flora a mettersi in figura.
La Ginevra non era tra quelle coppie di danzatori; di guisa che il giovine Montalto apparve più tranquillo, e non perdette la tramontana, come sarebbe certamente avvenuto se la marchesa dagli occhi verdi fosse stata colà. Ma se Ginevra non c'era, il suo nome fu ricordato. La signora Maddalena, che sapeva il segreto di Aloise, ed era una pietosa creatura, gli parlò sempre della bella Vivaldi, narrandogli per filo e per segno, negli intermezzi del ballo, come fossero amiche, e come fossero state in educazione nello stesso convento. Al qual proposito la signora Maddalena non si peritò di raccontare al suo cavaliere com'ella uscite dal convento poco dopo l'entrata di Ginevra; dond'era agevole argomentare una differenza di parecchi anni d'età, e tutta a scapito della gentil narratrice.
Il giovine rimase intento ad ascoltarla, e chiunque li avesse veduti, senza udire una parola dei loro discorsi, avrebbe creduto Aloise di Montalto innamorato cotto della marchesa Maddalena, e in atto di libar la dolcezza delle parole che le uscivano di bocca. «Vedi giudizio uman come spesso erra!» Di ben altra donna il povero innamorato si dava pensiero; e la signora Maddalena, vedendolo così attento, tornava sempre a dirgliene; laonde, tra tutti e due, nel parlar che facevano della bella Vivaldi, furono errate più volte le figure della quadriglia, proprio come sarebbe avvenuto tra due innamorati.
Ottima signora Maddalena! Ella godeva in cuor suo della consolazione che recava altrui, e ad Aloise parve assai breve quella quadriglia che egli s'era fatto così di mala voglia a ballare.
Ma zitti! La quadriglia è finita, e già si è ballato un altro __valzer__, durante il quale Aloise di Montalto andò di bel nuovo a ragionare con sè medesimo nella sala remota. Siamo giunti alla __mazurka__, a quella tal __mazurka__ che il nostro giovine ha da ballare con la marchesa Ginevra, e per la quale ha scritto il suo nome sulle ali della farfalla gemmata.
Ad Aloise tremarono le gambe, allorquando fu per entrare nel salotto dov'era seduta la marchesa Ginevra, centro d'un circolo, o, per dir meglio, fuoco di un elisse, sulla curva del quale si notavano i soliti corpi opachi, come il nobile De' Salvi, il marchese Tartaglia ed altri di quella risma.
—Marchesa,—le disse egli, accostandosi, con quella scioltezza che gli venne fatta maggiore,—rammentate di essermi debitrice d'una __mazurka__?—
La marchesa Ginevra sorrise, ed alzandosi per andargli a fianco, rispose:
—Signor di Montalto, io non dimentico mai i miei debiti.—
La frase parve un po' asciutta ad Aloise, e noi non sapremmo dargli torto.
—Come?—si provò egli a dire, vincendo la natural timidezza;—non è altro che un debito?—
A quelle parole, dette con accento di mestizia, la Ginevra rizzò il capo, guardando fiso il suo malinconico cavaliere. In quelli occhi verdi parve ad Aloise di scorgere un po' di stupore; e infatti, dopo averlo guardato, la marchesa gli chiese di rimando:
—Che vuol dire questa dimanda, signor di Montalto? Sarebbe egli in quella vece un debito per voi? Veramente, dovrebbe pesarvi, che avete ballato già molto.—
Era un rimprovero? Certo le parole ignude potevano averne l'aria, ma il piglio sorridente e l'accento scherzevole della marchesa Ginevra davano a quelle parole il colore di una di quelle frasi di nessun conto, che si mettono fuori tanto per barattar parole. E così dovette intenderla Aloise, sebbene a prima giunta gli fosse sembrato che la bella Ginevra volesse dargli una trafittura.
—Io, marchesa?—rispos'egli, con aria di candore, a guisa d'innocente che stupisca d'essere accusato;—ho fatto un giro di __mazurka__ e una quadriglia; tutto il rimanente del tempo l'ho passato nella galleria, a vedere i vostri magnifici quadri.—
Stando seduto in quella sala, Aloise aveva notato alla sfuggita che c'erano dei quadri; ma, turbato com'era, non aveva nemmanco pensato a guardarli. Era dunque una bugia innocente, e necessaria d'altra parte a colorire la sua lunga fermata. Doveva egli forse raccontare alla marchesa che era stato un'ora laggiù a ruminare i suoi dolori, dopo aver fatto a pezzi un paio di guanti?
—E così,—soggiunse Ginevra,—i morti vi hanno fatto dimenticare i vivi?
—Lo credete voi, signora?
—No, certo! Io non potrei pensare sul serio che voi, cavaliere perfetto, aveste usato una simile scortesia alle belle dame che adornano la mia festa. Che ne dite della Maddalena Torralba? Non vi par ella una delle più belle signore di Genova?
—Signora marchesa, io non so…. Sono un cattivo giudice.
—Come? E chi ha da sentenziare in materia di bellezza, se non un giovine come voi, signor di Montalto? Io non ho tanti dubbi, e penso che la mia amica Maddalena ne superi molte delle più decantate.—
Aloise si provò ad interromperla; ma ella indovinò quello che gli stava per dirle.
—Badate!—fu sollecita a soggiungere;—ho detto questo perchè lo penso, e voi non avete a rispondermi con un complimento. Non siete del resto un cattivo giudice?—
Aloise chinò il capo senza dir altro. Che cosa avrebbe egli potuto rispondere? Che la signora Maddalena era brutta e gli era in uggia? Avrebbe detto due grosse bugie, e la Ginevra non l'avrebbe creduto. Poteva dire in quella vece come non gl'importasse punto che fosse bella o brutta; ma non gli venne fatto di raccappezzare una frase meno sgraziata, per dirlo.
Per buona sorte l'orchestra venne a levarlo d'impaccio. Senonchè, levata di mezzo la necessità del parlare, sopraggiungeva quella del ballare a modo; e qui fu davvero un cascar di male in peggio. Aloise, come potete argomentar di leggieri, era turbato, e la terra gli traballava sotto i piedi. Non si stringe impunemente per la prima volta fra le braccia la donna che si ama, e il povero giovine aveva a sperimentarlo in quel punto. E mai ballo fu più contegnoso, più freddo, tra una bella dama e un bel cavaliere che a vederli, parevano fatti l'uno per l'altro.
A dirvela schietta, non c'era unità in quella coppia; Aloise andava spesso fuor di tempo, epperò erano costretti a fermarsi ad ogni tratto. Finalmente la marchesa Ginevra, o fosse stanca di quel martirio, o mossa a pietà delle angustie del suo cavaliere, mise un eloquente sospiro.
—Siete stanca, signora!—le chiese il giovine, rosso in volto e tremante.
—Sì, un poco. Non so…. forse il valzer di poco fa….
—Venite a riposarvi, signora.—
E così dicendo, la condusse a sedere in quel medesimo salotto dov'era andato pur dianzi a cercarla.
Nel quale si conosce il buon onore di Enrico Pietrasanta, e della marchesa Maddalena.
Giova alla nostra vanità di narratori sperare che il cortese lettore non s'infastidisca di tutte queste minute scavazioni psicologiche. Son cose verissime, e noi, giusta il consueto, vogliamo narrarle per filo e per segno, come le abbiamo notate, rammentando le più sottili e riposte cagioni d'ogni atto, e facendo, stiamo per dire, la diagnosi di quella malattia che s'era appiccicata al cuore del nostro amico Aloise.
Lasciata la marchesa Ginevra nel salotto, dove le si era rifatto intorno un crocchio di cortigiani, Aloise si allontanò, per ritornare nella galleria che aveva già accolto i suoi malinconici soliloqui. Ma in quella che stava per uscire dal salotto, s'abbattè nel Pietrasanta, il quale gli pose una mano sul petto, come avrebbe fatto un solerte carabiniere al malandrino, del quale fosse per l'appunto andato in traccia.
—Orbene, Aloise, che c'è? che cos'hai?—
La domanda non era inopportuna, dappoichè il giovane appariva cupo e con gli occhi stravolti.
—Ho….—rispose egli,—ho tal cosa che ti prego a non chiedermi qual sia.
—Così parli ad un amico, Aloise? Tu hai un dispiacere, ed io devo saperlo.
—E quando lo sapessi?
—Diamine! Lo terrei in corpo, e cercherei intanto di darti un buon consiglio. Suvvia, Aloise, non stiamo qui ad armeggiare di sentenze, come due personaggi da tragedia. Sei tutto scombuiato nel viso, ed io voglio saperne il perchè.
—Ma che cosa credi ch'io abbia?—disse Aloise, schernendosi.
—Vieni laggiù in quella galleria, dove io t'ho veduto già entrare due volte, e ti dirò quello che penso de' fatti tuoi.—
Aloise lo seguì, sebbene a malincuore. Come furono giunti (e non fu cosa agevole pel Pietrasanta, il quale ebbe a fare il viso ilare per due, correndo in mezzo alle brigate colla mano dell'amico sotto il braccio), il dialogo ricominciò.
—Eccoti dunque quello che penso. Sei innamorato.
—Io?—esclamò Aloise, scuotendo il capo in atto d'impazienza.
—Sì, tu, innamorato! E non mi crollar le spalle, come se io fossi le mille miglia discosto dal vero. Hai ballato colla Ginevra in modo da farla cadere almeno una dozzina di volte.
—Orbene, e che inferisci da ciò?
—La più naturale delle conseguenze. Vedi, Aloise; io ho ragionato di questa conformità: Il mio amico non è un bambino a cui occorrano le dande e il carruccio per star ritto in piedi, e il suo maestro di ballo non gli ha rubato i denari. Basti sapere che dianzi colla Maddalena Torralba s'è fatto il nome di ballerino esercitato e valente: pregio che, a dirla di passata, conduce molto innanzi nelle buone grazie del sesso debole. Anche la Ginevra balla a modo, e sto per dire meglio della Torralba, la quale in fin de' conti tira sempre in ballo il suo capogiro, quando si tratti di ballare il __valzer__. O come mai Aloise, che era così destro colla Maddalena, mi diventa colla Ginevra un pulcino nella stoppia? Perchè, sappilo, Aloise, tu non andavi nemmeno in tempo; e per questo ti posi gli occhi addosso. Avevi il viso smorto come un moribondo, le membra aggranchiate…. Insomma mi avevi aria di un collegiale, e il parer tale soltanto allora, mi ha dimostrato che fiamma t'avesse accesa nel cuore la marchesa Ginevra. Ed ora che cosa fai? Il tuo atteggiamento non mi dice egli forse che ho colto nel segno?—
Aloise, durante il discorso dell'amico, non aveva detto parola, nè fatto un gesto che accennasse a diniego. Era in quella vece andato a sedersi, o, per dir meglio, era caduto sopra un divano, rimanendo mezzo arrovesciato, come una nave che mostri il fianco scoperto, con un braccio penzoloni, il capo chino e gli occhi sbarrati che guardavano il pavimento.
—Orbene,—proseguì il Pietrasanta, sedendosi a fianco dell'amico e pigliandolo amorevolmente per mano,—orbene, Aloise, io ti compiango. È una sirena, costei, che ne ha già adescati di molti, quantunque senza volerlo, e soprattutto senza curarsene più che tanto. Non è una lusinghiera, e guai a chi togliesse i suoi sorrisi, le sue cortesi parole, per una dolce promessa, o per un invito a farsi avanti. Ella è più facilmente da paragonarsi ad una di quelle fortezze, cinte tutt'intorno di verzura, che ti sembra di poter salire dolcemente fino alle cannoniere; ma non è che un errore di prospettiva, e giunto sul ciglione dello spaldo, trovi quaranta metri di fosso, a dir poco. Però mi duole di te, Aloise, mi duole di te, che, vedutala appena, hai perduto il cervello.
—No, Enrico; t'inganni!—rispose finalmente, con accento malinconico, Aloise di Montalto;—non è stato un errore di prospettiva, come tu dici, nè fresco di questa sera, il mio! Già da lunga pezza ero preso.
—E da quando, ch'io non ne ho saputo mai nulla?
—Da sei anni.—
Aloise non poteva più nascondere cosa alcuna al Pietrasanta, poichè questi aveva indovinata la cagione del suo dolore. Nè il Pietrasanta era di quei tali amici da dozzina, i quali non sono degni che si confidi loro un segreto. Innocente segreto, alla perfine, quello di Aloise, che amava Ginevra da sei anni, e le si avvicinava quella sera per la prima volta.
—Da sei anni? e come mai?—esclamò stupefatto il
Pietrasanta.—Appunto da sei anni è maritata.
—Sì;—rispose Aloise;—e il tuo povero amico è da quel tempo innamorato. L'ho amata fin dal primo giorno che l'ho veduta. Destino! Vederla e sentir la ferita nel cuore, fu un punto solo. Da quel giorno ho imparato a tacere, a tener segreti i miei patimenti. Credi tu forse, Enrico, che non mi avesse a dolere di nasconderli a te, al migliore de' miei amici? Dapprima sperai che fosse una cosa da nulla, una passioncella fugace, come tante altre che ti colgono a diciott'anni, e, dopo aver chiuso gli occhi piangendo, ti svegli un bel mattino risanato del tutto. Ma che? era in quella vece un amore sterminato, che vinceva il tempo e la lontananza, e, tacente per lunga pezza nel profondo del cuore, si rifaceva più forte al ricomparire di quella divina bellezza; un amore, insomma, che io, pauroso, ho tentato di spegnere nella solitudine, che tuttavia si è nutrito di sè medesimo, ed è cresciuto tanto da soggiogarmi.
—Ed ella?
—Ella non si è mai avveduta di nulla. Tu sai che ha sempre fuggite le occasioni di venire in questi ritrovi di gente, a tal segno che tu spesso m'hai accusato di umor nero, di misantropia e che so io. Ora tu intendi il perchè. Era come un'avversione, una riluttanza ad imbattermi in quella donna, che stava in cima a tutti i miei pensieri. Perchè, dicevo tra me, perchè andrei ad accrescere la schiera de' suoi corteggiatori? Che cosa posso io sperare, io, scarso di que' pregi che fanno risaltare un uomo al cospetto della donna amata? O non si prenderà giuoco costei di un amore che, quanto più è forte, riesce altrettanto più impacciato e ridicolo? Infine, che ti dirò di più? Mi rattenevano tante altre ragioni, che io medesimo non ho indagate in tutti i loro rigiri, in tutte le loro sottigliezze. Tu stesso, Enrico, rammenterai che mi ero ostinato a non volerla guardare, quando ella comparve per la prima volta in teatro, e tutto il pubblico della platea s'era rivolta a contemplarla.
—Sì, perdio, mi ricordo! Non si vedeva altro che la tua bionda cuticagna superbamente voltata contro il palchetto della bella Ginevra. Mi pare di vederti, ritto e duro come un piuolo, poco lontano dal palchetto, senza voler mai piegare d'un punto a destra o a manca, in quella che tutti, intorno a te, davano le spalle alla scena, e gli amici non rifinivano dal dirti: ma guarda Aloise, che viso stupendo! guarda che occhi splendidi, e che spalle meravigliose! E tu, duro, peggio di sant'Antonio…. quello delle tentazioni, s'intende. Oh Aloise! Come fingevi!…
—Sì; vedi come so fingere adesso!—
Il Pietrasanta non disse verbo, rispettando il dolore di Aloise. Questi, intanto, la cui mente proseguiva a fantasticare, ripigliò spontaneamente il discorso, rispondendo a un rimprovero che il Pietrasanta non gli aveva neppur fatto, ma che egli sentiva in cuor suo di aver meritato.
—Scusami,—disse dunque Aloise,—io non credo che l'amore sia una canzoncina, come nelle opere in musica, da doverla schiccherare ad una moltitudine di spettatori, attenti e disattenti. È uomo dappoco chi non sa tenersi in corpo la sua malinconia. Senonchè, giunti una volta alle strette, non è più dato nascondere i propri mali ad un amico provato….
—Sei dunque contento che io t'abbia letto nel cuore?
—Sì, perchè tu non vorrai rider di me.
—Figurati se ne ho voglia! Ma che cosa intendi ora di fare?
—Lo so io, forse?—esclamò il Montalto, levandosi da sedere.—Amo fieramente questa donna; e, vedi maledizione, sono impacciato accanto a lei, contegnoso, freddo come un pezzo di marmo. Come se ciò non bastasse, debbo per cortesia stare mezz'ora accanto alla Torralba, ballar due volte di fila con lei, quasi che io fossi venuto per la marchesa Maddalena. E questo, se pure s'è curata un tratto de' fatti miei, questo avrà potuto pensare la marchesa Ginevra.
—A dirti il vero, Aloise, sulle prime l'ho pensato ancor io. Mi pareva una corte __in formis et modis__.
—To', vedi? Pure non c'era ombra di vero. Ma che cosa avrà ella creduto di me, che, avvicinandomi a lei per la prima volta, non so dirle quattro parole, e non ho disinvoltura, nè grazia, fuorchè accanto ad un'altra?
—Sì, questi sono pur troppo i contrassegni dell'amore; sebbene io penso che la natura avrebbe fatto meglio a darcelo senza tanti fastidii. E il peggio è che la donna, quando ci abbia il cuore tranquillo, non bada alla eloquenza delle nostre contraddizioni. Dico nostre, così per dire, che in quanto a me, soglio amare con parsimonia, tanto da non perder mai la tramontana.
—Il che vuol dire non amar punto;—interruppe Aloise.
—Come ti garba, ma essere amati di più. Vedi tu il bel guadagno che hai fatto a perderti d'animo. E nota che a correr diritto ci avevi proprio trovata la strada fatta!
—O come? che vuoi dir tu?
—Che eri stato cercato e pregato. Il marchese Antoniotto che t'invita, e mi raccomanda di farti venire ad ogni costo, perchè t'ha in grandissima stima ed è stato amico stretto di tuo padre, lo dimentichi tu? Sulle prime io non ci avevo badato, a questa novità del tiranno di Quinto; ma poi mi è tornata a mente quando l'ho veduto usarti tante cortesie e farti tanti salamelecchi sull'uscio. Eri nato vestito, Aloise, e non hai saputo agguantar la fortuna.—
Aloise non rispondeva nulla, e si poteva credere che non ascoltasse già più le parole del Pietrasanta.
—Ma vedi,—proseguì,—che sto qui a farti il predicozzo, come se dovesse giovare a qualcosa! Ora è fatta; sei innamorato cotto, e non c'è verso di uscirne. Mio povero Aloise, che farai tu?
—Che fare? Non lo so. Mettendo l'animo ad una cosa, non ho mai badato al bene o al male che me ne potesse derivare, nè pensato quello che avrei fatto il giorno appresso.
Una sola cosa io so, che quella donna ha da sapere che l'amo, anche se debba poi riderne. E poi…. e poi…. c'è sempre un modo onorato di uscire di pena.—
Questa volta era il Pietrasanta che andava a cascar sul divano.
—Aloise, Aloise! Questo non si chiama ragionare; e c'è di peggio, che non approda a nulla.
—Orbene, sentiamo!—proruppe Aloise, piantandosi dinanzi all'amico.—Che cosa faresti tu nel caso mio?
—Io…. farei…. Insomma, non tremerei tanto; parlerei come sapessi meglio…. e farei istessamente un buco nell'acqua. Credimi, Aloise; quella è una stupenda camelia. Donna senza amore, e camelia senza odore.—
Aloise si strinse nelle spalle.
—Credi di no? Orbene, vedremo. Io t'ho detto l'animo mio, da amico schietto, che ti conosce impetuoso e magnanimo, e non vorrebbe vederti troppo impegnato. Ma poichè hai deliberato di non dare indietro, io non ti lascerò. Un amico è sempre buono a qualche cosa. E per dar principio, balli più con lei questa sera?
—No.
—Perchè?
—Perchè non le ho chiesto altro che quella malaugurata __mazurka__.
Vorresti forse che fossi andato a chiederne un'altra?
—Ora sarebbe tardi; ma c'è il __cotillon__. Non avevi pensato ad invitarla pel __cotillon__? Or bene, sappi che l'ho invitata io, e per me. Ti parrà strano, ma è proprio così. Ero andato a pregare la Monterosso, che, a dirtela schietta, mi va a genio; ma ero stato precorso da un altro, fin da ieri mattina. Allora mi volsi alla marchesa Ginevra, la quale non aveva data la sua fede a nessuno; ed eccomi il cavaliere di quella bellissima dama. Per me, che non cerco fragranze arcane, la camelia è già molto, e son certo che parecchi mi vorranno un mal di morte, per averla levata loro di mano. Ora vedi se io sia o no un buon amico! Ti offro la metà della mia preda.
—Enrico!—esclamò Aloise, piantando gli occhi addosso al
Pietrasanta.—Enrico, se tu fai tanto per me….
—Sì certo, che lo farò; ma prima di tutto ci vorrà l'assenso della dama, che andremo poi a chiedere in compagnia, e non lo negherà, voglio sperare. Suvvia, animo, e non morirmi di tenerezza prima del tempo.
—Grazie, Enrico! tu sei il migliore degli amici!
—Benissimo; intanto,—soggiunse il Pietrasanta,—segui il migliore de' tuoi amici fuori di questo deserto.—
E si mossero per uscire dalla galleria, come coloro che non avevano più niente da fare là dentro.
—Ma, che diamine? il deserto si popola!—soggiunse di subito il Pietrasanta, facendosi rispettosamente da un lato per lasciar passare la marchesa Ginevra e la marchesa Maddalena, le quali entravano nella galleria tenendosi per mano.
Le due dame non s'aspettavano di certo quell'incontro, e, colte alla sprovveduta nel loro andare, misero un grido sottile, effetto di quella nervosa sensibilità che è naturalissima nelle donne. È tuttavia necessario soggiungere che il grido si mutò in una bella risata, non sì tosto le dame riconobbero i due amici; e la marchesa Ginevra, da padrona di casa, stimò conveniente aggiungere due paroline cortesi.
—Il signor di Montalto,—disse ella,—mi aveva narrato di esser rimasto a lungo in questa galleria contemplando i quadri. Debbono in verità essergli andati molto a genio, poichè ci è tornato.—
Aloise s'inchinò arrossendo, senza risponder nulla; ma per lui rispose il Pietrasanta, che poteva a ragione vantarsi di non perdere mai la tramontana.
—E che quadri miracolosi, signore mie, dappoichè si spiccano dalla cornice per muoverci incontro!
—Ah, ah, Pietrasanta! Siamo po' poi tanto stecchite, da parervi due quadri?
—No, certamente;—rispose il Pietrasanta, cavando accortamente profitto dall'impaccio in cui l'aveva posto quell'arguta considerazione della marchesa Ginevra.—Ma vogliate condonar qualche cosa al nostro turbamento. Eravamo venuti qui…. per saldare un debito di gratitudine….
—Che dite mai?
—Sì, davvero; ci correva obbligo di ringraziare la signora Tullia, quella bella gentildonna che ci guarda dall'alto di quella parete, di aver stabilita in casa Vivaldi la costumanza di queste splendide feste, alle quali voi ci convitate con tanta gentilezza. Nè certo, venendo qui a pagar questo tributo all'antica regina, pensavamo che ci fosse dato di ringraziare ad un tempo la nuova. La regina Tullia è morta; viva Ginevra prima ed unica!
—Questo,—rispose Ginevra,—è un complimento più bello, e meritereste che Ginevra prima ed unica, come voi dite, vi desse da baciare la sua regia mano.
—Fatelo, signora; io m'inginocchio.
—No, no, più tardi; quando avrò la corona.—
E con un sorriso, con quel sorriso che i lettori conoscono, la bella
Ginevra si congedò dai due amici, seguita dalla marchesa Maddalena.
Aloise stette a guardarla, mentre ella correva leggiera verso il fondo della galleria, e sospirò profondamente quando l'ebbe veduta sparire dietro una portiera di velluto cremisi gallonato d'oro.
—Animo, Aloise! Non mi fare il bambino, che in questo modo non si rimedia a nulla!
—Hai ragione; andiamo!—
Ora noi non terremo dietro ai due giovani, i quali non hanno più a dire niente di nuovo per noi; e seguiremo le due dame, che hanno abbandonata la festa, avendo sicuramente gran cose da dirsi.
Passarono esse per una fuga di stanze, fino al pensatoio della marchesa Ginevra, dov'era quella tal Danae di Guido Reni, che ha già turbata la fantasia a parecchi dei nostri lettori. Colà giunte, e poste a sedere, Ginevra entrò __ex abrupto__ in materia.
—Suvvia, Maddalena, sentiamo che cos'hai da dirmi.—La Torralba stette un poco sovra pensiero, come se cercasse le parole con cui dar principio alla sua narrazione.
—Ginevra,—diss'ella finalmente,—tu sai pure se ti amo….
—Sì, Maddalena; siamo amiche fin dal monastero, e queste amicizie durano.
—Oh, ti ricordi di quel tempo? Io ero più grandicella di te; ma ti ho subito amata, come se fossimo entrate nel medesimo giorno. E quando ho dovuto partire, come ho pianto!
—Cara Maddalena, abbracciami! Tu sei sempre stata un'angelica creatura. La madre Scolastica (ti rammenti?) che per dir la verità, ci ha un poco guastate con le sue carezze, ti chiamava il suo pan di zucchero; e non avea mica torto.
—Dolci memorie!—esclamò la Torralba.—Ma veniamo al buono.
—Sì, veniamo al buono. Sono curiosa di sapere che cosa tu abbia a dirmi.
—Oh, non correre tanto con la fantasia. Si tratta di una cosa che saprai già da un pezzo.
—Come? che cosa?
—Ginevra,—disse la Torralba, accostandosi all'amica e parlando a mezza voce,—c'è qui un uomo che t'ama.—
A questa improvvisa uscita, la bella Ginevra si scosse, non sapendo ancora se avesse a ridere o a corrucciarsene, guardò trasognata la Torralba.
—Maddalena! che significa ciò?
—Sì, lasciami dire, poichè m'ha dato l'animo di cominciare; c'è qui un uomo che ti ama fortemente, e che s'è lasciato sfuggire il suo segreto di bocca.
—Tu non parli da senno, mia buona Maddalena;—disse di rimando Ginevra, in quella che pur si studiava di sorridere.—Se quello che mi vai fantasticando fosse vero, se quest'uomo esistesse, non metterebbe neppur conto parlarne. Un uomo così dappoco che si lascia sfuggir di bocca i suoi segreti…. che il cielo ne scampi te e me!
—Oh, se tu sapessi in che modo!…—soggiunse Maddalena, non badando al piglio di infinita gaiezza che la Ginevra aveva assunto, per non aversi a mettere in contegno.
—Suvvia, poichè si celia, udiamo in che modo!
—Ginevra,—proseguì la pietosa Torralba,—io non parlo per secondi fini, puoi crederlo: ho notato un dolore, e vengo a dirtelo perchè ti riguarda.
—Ma insomma, di chi si tratta?
—Di Aloise di Montalto!—
E pronunziando questo nome, la signora Maddalena si fece tutta rossa, pensando alla impressione che avrebbe fatto sull'animo dell'amica. Ma non fu nulla.
—Ah, ah! lasciami ridere!—esclamò Ginevra, ridendo infatti, e di cuore;—e tu credi proprio….
—Io? ne son certa. Ma come? tu non sai….
—Nulla.
—Nulla?—ripetè meravigliata la signora Maddalena.
—Nulla! proprio nulla. E questo s'intende da parte mia. Per ciò che riguarda il Montalto—penso che tu ti sia ingannata egualmente.
—Oh, qui poi, no!
—Oh, qui poi, sì, mia gentil Maddalena! Come vuoi tu che il signor Montalto abbia a darsi pensiero di me, se oggi mi ha parlato per la prima volta, e non certo con aria di molta sollecitudine, te lo giuro!
—Mi fai stupire, Ginevra! E tuttavia….
—E tuttavia, che cosa?—
Facendo questa dimanda con un piglio tra beffardo ed Amorevole, Ginevra dimostrava chiaramente di volersi tenere sulla sua, aspettando la fine di quella conversazione che l'aveva molto turbata. Ma di questo turbamento non ne traspariva pur ombra sul viso. Le sue labbra vermiglie sorridevano; i suoi grandi occhi verdi brillavano, guardando argutamente la signora Maddalena, povera colomba smarrita, la quale aveva stimato debito suo di parlare di un fatto che la risguardava, e, dopo aver cominciato, non si sentiva più l'animo di proseguire.
—E tuttavia….—soggiunse ella, ripigliando le parole di Ginevra, come Ginevra aveva ripigliate le sue,—e tuttavia avrei giurato che tu sapessi ogni cosa. Ma ora ti credo, Ginevra; sebbene gli atti del signor di Montalto mi riescano due volte più strani.
—Udiamo, dunque; che cosa ha fatto il signor di Montalto?
—Sì, poichè ho incominciato, e quantunque non debba premerti punto, ti narrerò tutto quello che ho notato.—
Qui, confortata da un amplesso della sua bellissima amica, la Torralba le raccontò divisatamente ogni cosa. Parlò dei modi eletti e disinvolti di Aloise, quando le fu presentato dal marchese Antoniotto; del suo improvviso mutamento appena fu entrato nella credenza, dov'era Ginevra; della sua trepidanza, dell'arrossire, del balbettare, e di tutti gli altri segni d'angustia morale, di cui le parve indovinar la cagione, quando il discorso cadde sui pregi della Ginevra, ed egli uscì in quelle parole infiammate che i lettori già sanno; della muta e svogliata quadriglia; dell'attenzione con cui il giovane si era fatto ad ascoltarla quando ella ritornava a parlare dell'amica sua e infine di cento altre minuzie che a lei erano sembrate altrettanti argomenti di un amore profondo.
—Se tu avessi veduto, Ginevra, com'egli arrossiva, quando mi usciva di bocca il tuo nome! Se tu avessi sentito come la mano gli tremava, quando nei giri della __mazurka__ noi ci avvicinavamo a te! Una volta le nostre mani sfiorarono il tuo braccio, ed egli a turbarsi, a tremare, a perdere i tempi, per modo che io levai gli occhi, stupita, osservandolo. Si avvide del mio stupore, arrossì, e fu costretto a fermarsi. E poi, bisognava vederlo, con che occhi amorevoli e pieni di gratitudine egli mi guardasse quando io parlavo di te! In fine, che dirti di più? Mi parve che patisse del mal d'amore, e del più forte che si possa immaginare. Però, non sapendo…. scusami, sai!… temendo di qualche malinteso…. di qualche lieve screzio, nel quale potesse tornar utile una parola amichevole, sono venuta a chiederti un colloquio.
—E t'eri ingannata, mia gentil Maddalena!—disse la Vivaldi, che era stata ad ascoltarla con molto maggiore attenzione, che non occorresse per cosa che non le premeva punto, com'ella diceva;—t'eri ingannata, perchè io ho parlato oggi per la prima volta col signor di Montalto.
—Sì, ma intanto egli ti ama!—soggiunse la pietosa Torralba, seguendo il filo della sua logica femminile.
—Eh via!—interruppe Ginevra, stringendosi nelle spalle.
—Tutto quello che tu hai veduto, o creduto di vedere, non prova un bel nulla. Alla fin fine, che il signor di Montalto sia o non sia innamorato di me, non ha da premermi punto. E se fosse tale davvero,—conchiuse,—che cosa ci potrei far io?
La marchesa Maddalena non rispose nulla. Quella soave creatura era rimasta sovra pensiero.
—Ma no,—riprese Ginevra,—è impossibile. Vedi, Maddalena; notando io pure alcuni atti del signor di Montalto e riscontrandoli con la sua assiduità presso di te, ero anzi giunta ad una conseguenza opposta. Pensaci, Maddalena; egli è innamorato di te.
—Di me?—esclamò trasognata la Torralba.
—Sì, certo, di te. E che ci sarebbe di strano? A me pare una cosa naturalissima.
—Ginevra!—disse la signora Maddalena con accento di dolce rimprovero.—Non sarebbe più naturale che fosse innamorato di te? Povero giovane! Era così malinconico!…
—Tu sei la pietà fatta donna, mia gentil Maddalena. Or dimmi, che faresti tu? Senza parlare di tant'altre cose, che pur vanno messe in conto, ameresti tu un uomo, per la sola ragione che egli è invaghito de' tuoi begli occhi?
—Io….—balbettò Maddalena, grandemente impacciata, poichè non s'era proposta una questione di quella fatta, e non aveva considerato il caso sotto quel nuovo aspetto;—che dimanda mi fai? A voler stare sui generali, no certo; ma ci sono dei casi…. Io penso insomma che una donna ha cento modi di mostrarsi grata ad un uomo dell'affetto che egli nutre per lei, se questo affetto è grande e lo mette davvero in gran pena. Una cortese pietà….
—Oh, lasciamola stare, la cortese pietà! È come un burchiello a due remi, che fa conto di non discostarsi molto dalla spiaggia, e la corrente lo porta Dio sa dove.
—È vero, Ginevra, è vero!—disse la Torralba, sospirando e chinando malinconicamente lo sguardo a terra.—Io m'avvedo che non si possono dar consigli ragionevoli, in queste faccende, e che il dolore del signor di Montalto mi ha fatto correre troppo oltre. Poverino! Due o tre volte sono stata sul punto di dirgli: signor di Montalto, non vi pigliate il fastidio di proseguire a ballare; e se non era il timore che egli l'avesse per una scortesia, certamente glielo avrei detto….
—Orbene,—interruppe Ginevra,—anch'io ho veduto che stava a disagio ballando con me, e mi è venuto lo stesso pensiero, ma non mi sono fermata a mezza strada.
—Come hai fatto, dunque?
—Non gli ho già detto dì smettere, ma ho fatto le mostre d'essere stanca, e a lui non parve neppur vero di farla finita. Mi condusse a posto, e se ne andò.
—Sì, ma tu hai pure veduto testè,—disse di rimando la signora Maddalena, a cui la bontà del cuore inspirava la logica,—che egli non aveva colto il destro di quella tua infinita stanchezza per correre presso un'altra. Egli era nella galleria, solo col Pietrasanta, che credo sia il suo unico amico.
—Non ci sarebbe mancato altro,—rispose Ginevra,—per essere buttato a mazzo con tutti questi vagheggini che ci stanno attorno per loro capriccio, e che noi faremmo assai bene tutte quante a trattare secondo i meriti loro.
—Ah, noti dunque un divario tra lui e tutti gli altri?
—Sì, a primo aspetto mi è sembrato migliore di molti e molti che conosciamo. Ma chi sa che vedendolo più da vicino, e indagando meglio i suoi portamenti, non mostri come tutti gli altri il suo lato maschile?…
—Il lato maschile? Che cosa vuoi dire?…
—Non l'hai tu mai notato, Maddalena? Non t'è mai occorso di stimar molto un uomo, e di aver poi a ravvisarlo per qualche verso manchevole? Quel nuovo lato che tu vedevi allora, e che ti guastava il buon concetto di prima, era il lato maschile. E tutti l'hanno, sai? L'uno è bello e cortese di modi, ma vanaglorioso; l'altro è affettuoso, ma fiacco; altri è di forte ingegno, ma ambizioso ed egoista; altri è sdolcinato, ma vile, invidioso e malvagio; tutti poi cercano al nostro fianco il piacere, l'appagamento della loro vanità, l'aiuto ai loro disegni di autorità e di potenza futura, e nulla dànno in ricambio. Che vuoi? Ci considerano come cose utili ai loro disegni, bellissime cose, amabilissime cose, ma sempre cose, nient'altro che cose. Però quando abbiano preso in queste cose tutto quello che ad essi giova, quando si siano fatti abbastanza invidiare per la loro assidua presenza accanto a noi, non li vedi più, sono altrove. E di noi dice la gente, quando ci vede passare: o come? Il tal di tale non c'è più? E' non sapete? N'era stufo. Sì, certo, la più bella cosa a lungo andare…. e via di questo piede. Mia gentil Maddalena, tu l'hai pur voluto, il mio sermone sugli uomini! Io non voglio già che le altre la pensino a modo mio, ma sono contenta della mia opinione; stimarli tutti ragionevolmente, essere cortese co' miei amici, non rinunziare alla mia qualità di donna, ma altresì non perdere la mia pace per alcuno.
—Hai ragione, Ginevra!—disse la signora Maddalena;—l'esperienza dovrebbe portarci tutte a questa conclusione.
—Non correre tanto, Maddalena!—gridò la bella Ginevra, ridendo.—Non credere che tutte queste belle cose me l'abbia insegnate l'esperienza. Ho pensato molto, ho raffrontati molti casi, e molti ne ho indovinati. Ma vedi dove ci ha condotto questo signor Aloise di Montalto! Certo gli fischiano gli orecchi, per questo lungo discorso che s'è fatto di lui.
—Poveraccio! Ed è proprio quello che a parer mio dovrebbe sbugiardare la tua cattiva opinione sugli uomini.
—Coll'esempio di una eccezione? Tanto meglio per lui, se sarà una eccezione. Ma via, abbiamo già troppo chiacchierato di lui, e gli altri tutti, che non ci vedono da un pezzo, avranno ragione a protestare.
—Andiamo!—disse malinconicamente la signora Maddalena, a cui pareva che Aloise di Montalto meritasse un po' più di compassione.
Quando le due amiche tornarono nel salone di Flora, la prima parte delle danze era finita, e Ginevra, prendendo il braccio del più ragguardevole tra tutti i suoi convitati, diede il segno di entrare nella credenza, dov'era imbandita la cena.
È un assai brutto momento, quel della cena, in una festa da ballo. E sebbene molti non converranno in questa sentenza, a noi non mette conto mutarla, poichè ella piacerà di sicuro a quanti non pensano col ventre.
Brutta cosa, perbacco, il vedere tutte quelle dame graziose, che erano pur dianzi così leggiere, e stiamo per dir così diafane nel vortice della danza, sedute a mensa, che mangiano come uno sciame di cavallette! I Greci di Omero, i quali pur brancicavano con le mani i quarti di vitello arrostiti sullo schidione, immaginavano il nettare e l'ambrosia, per non guastare colla grossolana copia del cibo il degno concetto che avevano degli Dei d'Olimpo. Ora le nostre Giunoni non si peritano di farsi scorgere con un'ala di fagiano ai denti; le Ciprigne sbocconcellano alla lesta i pasticcini e li inaffiano col vin di Bordò. E gli uomini? Appaiono forse meno sgraziati? Guardateli, que' teneri Adoni, che testè saettavano le languide occhiate e si struggevano in lunghi sospiri. Costoro si appigliano alle bottiglie, fanno man bassa su d'ogni cosa, brodo ristretto, selvaggina, salse, savori, tartufi, ostriche, canditi, e va dicendo; non la perdonano nè a prime mense, nè a seconde, nè a tornagusti d'antipasto, nè ad intramessi di pospasto; pregiano egualmente la bottiglia di Bordò ritta sulla base e la bottiglia di Borgogna sdraiata sul tovagliuolo; tuffano i baffi nella spuma dello Sciampagna e nei liquidi topazii del vecchio Reno.
Non venga in mente ad alcuno di coglierci in contraddizione manifesta con quello che abbiamo detto più su, che non rifuggiamo punto dall'immagine della donna che mangia, e con quello che si può sottintendere rispetto all'uomo. Ha da essere pioggia e non gragnuola; ed anco a voler stare nella pioggia, c'è spruzzo ed acquazzone. Epperò noi, se in una festa da ballo non riputiamo grave offesa al senso poetico, all'aureola divina della bellezza, un sorso di tè o qualche dolciume, non possiamo egualmente menar buono il mangiare e il bere, nella loro più grossolana apparenza. Che la cena ci sia, sta bene; se prelibata e suntuosa, prova la liberalità dell'Anfitrione. Ma una bella dama seduta a tavola in atto di sgranocchiarsi un petto di pollo, fosse pur coi tartufi, che orrore!
Quella che si poteva guardare senza tema di guastarci il sangue era la marchesa Ginevra. Ella faceva mostra di mangiare, assaggiando, ed ogni sua cura si rivolgeva al ragguardevole personaggio che le sedeva daccanto. Costui del resto non aveva bisogno di esortazioni; macinava a due palmenti, e trovava buona ogni cosa. Le altre dame, sedute tutt'intorno alla tavola, oltre l'aiuto de' servi, accettavano i grati uffici dei loro cavalieri, i quali s'inchinavano sulla spalliera delle seggiole, pascendo loro gli orecchi di dolcissimi nonnulla, mentre esse confortavano lo stomaco di cibi più sostanziosi. Di questa guisa, altro non si udì per un pezzo che l'acciottolìo de' piatti, il cozzar de' bicchieri, lo zampillare delle bottiglie, e il dimenar delle mascelle.
Aloise non c'era; neanche il Pietrasanta; neanche il Cigàla. Il primo aveva altri pensieri in capo; il secondo voleva tener compagnia all'amico, ed aveva perfino lasciato che un altro gli rapisse la marchesa Giulia. Non si creda tuttavia che fosse un grave sacrifizio sull'ara dell'amicizia, il suo; poichè il rapitore era il vecchio De' Salvi.
In quanto al Cigàla, egli avrebbe potuto andare a cena come tutti gli altri; ma quell'arguto chiacchierone era schiavo di una sua arguzia, s'era messo in trappola con le sue mani. La signora Enrichetta Corani gli aveva chiesto se non andava a cena; ed egli, vedendo che la ci aveva già un altro cavaliere ai fianchi, anzi due addirittura, s'era lasciato andare a risponderle:
—No, signora Enrichetta. Un Cigàla ha da tener fede alla cara bestiuola di cui porta il ricordo nel nome e l'effigie nello stemma.
—E non si pascerà d'altro che di rugiada!—aveva soggiunto la signora
Enrichetta.
—Certo; così ha sentenziato Anacreonte.—
Ed ecco per che modo il Cigàla era rimasto insieme col Pietrasanta e con Aloise. Ma se non era andato a dimenare i denti, si ricattava esercitando la lingua.
Mollemente adagiato su d'un canapè accanto ad Aloise, ragionava di cento cose col Pietrasanta, che s'era sdraiato su d'una poltrona, e a voler ripetere tutto quello che dissero tra due (poichè Aloise stava silenzioso ad udirli, ora sorridendo, ora accennando del capo, e non andando mai più oltre del monosillabo), ci sarebbe da fare un altro capitolo, laddove noi non pensiamo ad altro che a finir questo, il quale è ormai troppo lungo.
Basti sapere che il Cigàla ne disse di tutti i colori, e tra l'altre cose, passando in rassegna alcune delle dame, si fe' lecita una glossa lunga anzi che no sui nuovi amori della bionda Cisneri, e sulla nobiltà del conte Alerami, che era a cena accanto a lei, e che gli era parso molto turbato.
—Non avrà forse ricevuto le sue rimesse dalle Indie;—diceva egli.
—Ma dimmi, e il Salvani?…—chiedeva il Pietrasanta.
—Il Salvani ha durato poco. È la storia delle belle cose.
—È davvero un ottimo giovane!—interruppe Aloise.—Mi duole di non averlo veduto quasi più, e soprattutto che non mi abbia creduto così degno della sua intimità da confidarmi le cose sue. Io gli avrei aperto gli occhi in tempo.
—Baie! E che male c'è? Ha amato; è stato piantato in asso; ma alla fin fine non è egli che ci ha avuto da perdere.
—È facile a te, Cigàla, il parlare così; poichè tu prendi…. come diamine è il tuo proverbio?
—Vuoi forse dire che prendo gli uomini come sono, le donne come vengono, e gli scudi a cinque lire? Sì certo, e me ne vanto contro ogni maniera di disinganni.—
Questi erano i ragionamenti della triade, e durarono fino a tanto che durò la cena. Ma quando al Pietrasanta parve udire che i convitati si alzavano da tavola, si mosse per andare in traccia della marchesa Ginevra.
—Marchesa,—diss'egli, appena ebbe modo di rimaner solo con lei,—chiedo una grazia.
—Parlate, di che si tratta?
—Una grazia…. cioè, dovrei dire una disgrazia.
—Una disgrazia, Pietrasanta? E la chiedete a me?
—Sì, pur troppo! Ma che non si farebbe egli mai per l'amicizia?—soggiunse Enrico sospirando.
—Per l'amicizia? Non vi capisco. Suvvia, parlate chiaro.
—Ecco qua…. Aloise di Montalto voleva offrirsi per vostro cavaliere nel __cotillon__….
—Ah, capisco finalmente!—esclamò ridendo la bella Ginevra.—E voi venite a rassegnarmi la vostra rinunzia.
—No, mi guardi il cielo dal perdere il capo a questo modo. Se avessi per caso da impazzire, vorrei andar diritto allo spedale, che nessuno mi vedesse farne di così gravi, come questa che voi pensate di me.
—Ma che volete voi dunque? Qual altra…. disgrazia chiedete?
—Di poter tagliare l'errore a mezzo; di contentare il mio migliore amico, senza scontentar me; di essere in due, dove avrei voluto esser solo.—
In quella che Enrico Pietrasanta faceva questo allegro sproloquio per aiutare il suo Oreste, la marchesa Ginevra pensava:
—Ma che cos'hanno in mente tutti costoro? La Maddalena, Montalto; il Pietrasanta, Montalto; perfino quel pazzo di Cigàla, Montalto, non sa parlarmi d'altro che di Montalto!…. Che siano tutti pazzi, o che costui li abbia tutti stregati?…
—Orbene, marchesa,—disse Enrico,—pronunziate la dolorosa sentenza?
—Sì, se pur la volete tale.
—Se la voglio!… Ve la chiedo con rammarico profondo, ma l'aspetto da voi.
—Ed io,—rispose la Ginevra, imitando la comica mestizia del Pietrasanta,—con profondo rammarico vi condanno…. ad avere un compagno di catena.—
Una doppia risata, ma di cuore, pose fine ai dialogo della Ginevra col suo cavaliere.
Il marchese Tartaglia si avvicinò, chiedendo di che cosa ridessero; ma
innanzi ch'egli avesse articolata e sputata la sua dimanda, il
Pietrasanta era già fuori del tiro; tanto gli premeva di recare ad
Aloise la buona novella.
Nel quale si comincia a conoscere che uomo fosse il marchese
Antoniotto.
Uno dei personaggi più importanti della nostra storia, sebbene altro non abbia fatto ancora che una breve comparsa in queste pagine, è senza dubbio il marchese Antoniotto Torre-Vivaldi.
Intanto che i suoi convitati ballano, cenano, passeggiano e dicono che le sue feste sono le più belle e le più suntuose di Genova, intanto che i forestieri, ammessi in grazia dei loro titoli in casa Vivaldi, si fanno un ottimo concetto, se non al tutto vero, dell'umor socievole delle grandi famiglie genovesi, teniamo un po' d'occhio il padrone.
Quando egli ebbe fatto tutto quello sfoggio di cortesie, che i lettori sanno, con Aloise di Montalto, e ricambiate alcune parole colle persone più ragguardevoli dei due sessi, il marchese Antoniotto chetamente disparve. Ma noi che abbiamo in mano il filo di quel labirinto, gli terremo dietro, e se il lettore vorrà lasciare in pace per un tratto la bella Ginevra, la bianca Maddalena, Aloise, e tutti i suoi simpatici personaggi, non avrà a pentirsi d'essere venuto con noi.
Il marchese Antoniotto, coll'aria sbadata di chi va a zonzo, ora conversando con questi ed ora con quelli, giunse fino al pensatoio della sua signora, che era in quel momento deserto. L'uscio che metteva nella stanze di Ginevra era chiuso: ma il marchese Antoniotto non se ne diede pensiero.
Andando ad un'altra parete, premè col pollice un nascosto congegno, e una porticina che era dissimulata dai fregi continuati della tappezzeria, si aperse per dargli il passo nello spogliatoio della marchesa, e di là fino al suo quartierino particolare. Colà giunto, salì il piano di sopra, dov'erano le camere dei servi.
Ma lassù non era anche finito il viaggio del marchese Antoniotto, il quale, infilata un'altra scala più stretta della prima, salì fino ad un pianerottolo cieco, dov'era agevole immaginare che un tramezzo vietasse di andare più oltre. Egli, nondimeno, a cui l'oscurità non faceva impedimento, trovò il catenaccio di una porta ferrata, e lo fece scorrere sugli anelli; quindi bussò due o tre volte con le nocche delle dita.
Un rumore di passi si udì poco dopo dall'altro lato dell'uscio; un altro catenaccio scorse sugli anelli, e l'uscio si aperse. Era il padre Bonaventura in persona, che si faceva ad accogliere il suo ospite.
I lettori non avranno certamente dimenticato che, per essere più vicino al padre Bonaventura, il marchese Antoniotto lo aveva allogato in un comodo quartierino, all'ultimo piano del suo palazzo; e vedono ora che per maggior comodità di ambedue, era stato rispettato l'uscio di comunicazione, sebbene raffermato da una parte e dall'altra con due catenacci. Di questa guisa, ognuno se ne stava tranquillo in casa sua, mentre riusciva agevole ai due amici il vedersi e lo stare a colloquio, senz'altra molestia che quella di rimuovere que' due impedimenti.
I sullodati lettori vorranno adesso sapere il perchè di tanta intrinsichezza, e noi vediamo giunta l'occasione di dirlo. Era un'intrinsichezza fondata sulla comunanza dei propositi, e sul profitto che ognuno dei due cavava dall'autorità e dall'aiuto dell'altro.
È noto per che modo il marchese Antoniotto Della Torre fosse venuto a nozze con la bella marchesa Vivaldi. La giovinetta, rimasta orfana in piccola età, sotto la tutela di un suo parente materno, era uscita dal monastero del Sacro Cuore di Parigi, per diventar moglie del marchese Antoniotto. La Ginevra, unico avanzo dei Vivaldi del ramo di Valcalda, portava, insieme con un bel nome ed una stupenda bellezza, dieci milioni di patrimonio, e l'accorto tutore, tra le molte famiglie che lo chiedevano di quel parentado, aveva prescelto i Della Torre. Antoniotto era uno dei più operosi e dei più benemeriti caporioni del partito clericale; era ricco egli pure, e per giunta uomo da non star sul tirato nella faccenda dei conti, uomo da contentarsi del capitale, senza lesinare troppo sui frutti; epperò, detto fatto, si stabilirono le nozze. Non c'era altro che una piccola difficoltà per mandarle ad effetto; che l'Antoniotto era un po' consanguineo della Ginevra; ma quella provvidenza della Curia di Roma non istette molto a venire in aiuto con una brava dispensa, e il Della Torre diventò facilmente il Torre-Vivaldi, a maggior gloria di Dio, o, per dire più esattamente, della setta gesuitica.
Era egli mai stato giovane, il marchese Antoniotto? Quei generosi concetti, que' baldi rapimenti, che provano il bollore del sangue e il rigoglio della gioventù, non avevano mai persuasa la mente di quell'asciutto gentiluomo? Certo, a voler stare sui generali appare difficile e quasi impossibile che un uomo, poniamo anche il più freddo del mondo, non abbia percorso le sue fasi di ardore e di tiepidezza. Il medesimo Napoleone, che fu tipo straordinario della moderna tirannide, e a cui non mancò altro che il sangue regio per essere salutato gran mastro della reazione europea, ne' suoi primi anni era stato un poeta, un sognatore, un rivoluzionario; insomma, era stato giovine.
Non così il marchese Antoniotto. Egli era nato vecchio, e tutti i suoi coetanei rammentavano di averlo sempre veduto lo stesso, fin da quando proseguiva lo studio delle leggi nella Università genovese. Già da quel tempo appariva contegnoso e severo, chiuso dell'animo, e nimico d'ogni cosa che sapesse di novità; di guisa che, tra per l'autorità del nome, e per l'inflessibilità de' propositi, facilmente capitanava quella generazione di vecchi bimbi, detti allora i giovani sodi, che facevano contrapposto a quella coorte di giovani ingegni, forse soverchiamente innamorati delle teoriche forestiere, ma vogliosi di cose nuove, devoti al culto della patria e della libertà, i quali prendevano indirizzo dal loro condiscepolo Giuseppe Mazzini.
Il marchese Della Torre si vantava d'essere classico in letteratura, e condannava con Vincenzo Monti __l'audace scuola boreale__; ma nel fatto non poteva patire i poeti di nessuna scuola. Il suo classicismo non era altro che un arnese di guerra, nel campo della politica; e ciò trapelava anche dalla compiacenza con cui il giovine sodo si faceva a notare come i signori liberali, gli scapigliati, offendessero la purezza della lingua e delle tradizioni letterarie, non meno che della filosofia italiana.
Egli poi s'era chiuso nello studio delle cose economiche e di tutti i rami dell'arte di governo; si andava armando di tutto punto per comandare altrui, quando l'occasione gli si fosse offerta. Càrdini della sua politica erano i libri __Du Pape e Les soirées de Saint-Petersbourg__, che Giuseppe De Maistre, il gran propugnatore della teocrazia e della autocrazia, il panegirista del carnefice, aveva gettati come una protesta e una minaccia del passato moribondo, contro la rivoluzione rinnovatrice. L'umor severo, la ricchezza e la nobiltà dei natali avevano posto in rilievo questo discepolo dei Gesuiti, che avrebbe potuto giunger davvero al governo della cosa pubblica, se l'apostolato continuo e gagliardo del suo avversario coetaneo, conducendo dal martirio al trionfo il concetto dell'unità italiana, non avesse spinto il Piemonte ad afferrar la bandiera tricolore, e guasti i disegni, sgominate le fila della reazione.
In que' tempi che tutti gli animi cominciavano a risvegliarsi e si preparavano alle prime battaglie, il marchese Antoniotto si era posto deliberatamente a capo dei nemici d'ogni novità. Però era stato dei primi a biasimare i grilli liberaleschi di Pio IX, e ora struggendosi per le vittorie dei rivoluzionari, ora rallegrandosi delle loro sconfitte, era giunto finalmente a vedere il trionfo della sua causa. Allora corse giubilante ad ossequiare al Vaticano quel pontefice che dapprima lo aveva fatto tanto tremare; allora accettò d'essere nominato senatore da quel governo a cui aveva augurate le busse austriache per farlo rinsavire.
Certo, restava ancor molto a fare, innanzi di mettere a segno i rompicolli; nella cenere covavano ancora di molte faville; il governo non faceva prova di bastevole energia contro i ribelli, e peggio ancora, ne' suoi diportamenti verso i degni ministri della chiesa, non si mostrava troppo tenero della santa causa. Ma a questo avrebbe portato rimedio il tempo; le ire sarebbero sbollite; uomini di buona tempera andando man mano in alto, avrebbero rimutato l'indirizzo della cosa pubblica. Intanto le file del partito si ristringessero, non perdonando a fatiche, non dispregiando nessun argomento, anco il più modesto e lontano dallo intento comune, che desse modo di operare. Si facessero vivi, insomma, e sapessero usare di una certa larghezza d'animo, per raccattare que' fuorviati della parte loro, capi scarichi i quali s'erano un bel giorno scaldati per le riforme e per la indipendenza italiana, e dopo aver scritto inni a Carlo Alberto, arringato il popolo plaudente e messo un tratto il berretto frigio sulla parrucca incipriata, s'erano spauriti del loro ardimento, doluti delle loro pazzie, a guisa di chi si svegli in quaresima, e si vergogni della baldoria fatta in carnevale. Queste pecore matte erano in buon numero, e ogni giorno facevano un passo verso l'ovile. Bisognava non disprezzarle, accoglierle anzi a braccia aperte, non tanto per il pregio delle persone, ch'era nulla, quanto per la opportunità dell'esempio.
Erano questi i consigli del marchese Antoniotto, e ognuno intende di leggieri che fossero ascoltati, sebbene taluni più irosi e più ostinati tra' suoi colleghi non avessero voluto dapprima acconciarsi alle sue ragioni sottili. Nè questo era il solo lato per cui il Della Torre si mostrava accortamente più largo degli altri suoi pari.
Figlio ad uno di que' parrucconi della oligarchia del Consiglietto, egli aveva dovuto da principio partecipare un tal poco a quella dispettosa opposizione, non già d'opere, ma di parole, che il patriziato di Genova faceva al governo piemontese, al quale la sua città, il teatro delle sue pompe senatorie, era stata regalata dal Congresso di Vienna. Ma il marchese Antoniotto non era uomo da inutili rancori. Ricco di ambizione e di volontà, sentiva che i suoi milioni e la sua corona di marchese erano due armi potentissime a farlo giungere in alto, e che dovevano restarsi inoperose, pel magro diletto di fare il broncio al re di Sardegna, il quale po' poi era in quella parte della penisola il rappresentante della teocrazia di Roma e della autocrazia di Germania, il gran vassallo del papa e dell'imperatore, que' due càrdini della società, quelle due dighe opposte dalla Provvidenza ai malvagi disegni della rivoluzione.
In cotesto adunque egli era già più innanzi di molti altri; ma saldo com'era ne' suoi propositi, non correva neppure alla cieca, non si lasciava accalappiare dalle lusinghe del governo, i cui atti, diceva egli, non davano ancora quella sicurtà che potesse persuadere un gentiluomo a prestargli l'opera sua. Voleva insomma che il suo partito soverchiasse; e in quella stessa guisa che nel suo partito gli pareva di non dover essere secondo a nessuno, così non poteva immaginar possibile un governo apertamente reazionario, senza esserne a capo egli stesso.
Ed era proprio un uomo fatto per comandare altrui, il marchese Della Torre. Il nome, le ricchezze, le aderenze, l'ingegno, erano un nulla al raffronto del carattere, di solito asciutto e severo, ma che sapeva convenevolmente piegarsi, assumere quella grazia di modi che venuta dall'alto è sempre una lusinga pericolosa per chi sta in basso, e signoreggia di sovente gli animi più generosi.
Larghe testimonianze del suo ingegno sempre volto al comando, offriva il vasto podere di Quinto, dove egli passava i sei mesi caldi dell'anno, e dove ogni cosa procedeva ordinatamente giusta il suo concetto. Colà il marchese Antoniotto aveva tentato con frutto parecchi esperimenti di riforme agrarie, nella quale materia era versatissimo, di guisa che, alla più trista, egli avrebbe potuto riuscire al governo della cosa pubblica per la scorciatoia di un portafoglio di agricoltura e commercio. Ognuno ricorda che parecchi degli odierni uomini di Stato entrarono per questa viottola nei consigli della Corona.
Nelle letterarie discipline era valente del pari, sebbene dispettasse i poeti. Conosceva il latino e lo scriveva con quella eleganza che potevano ai suoi tempi insegnare i Gesuiti o gli Scolopii. Un suo volgarizzamento di Sallustio aveva fatto andare in brodo di succiole Tommaso Vallauri, e il teologo Margotti non aveva potuto beccarvi per entro nessun farfallone; della qual cosa aveva fatto un gran parlare sull'__Armonia__. Un suo trattatello __Degli elementi dell'arte di governo__ lo aveva fatto salir in gran rinomanza presso i parrucconi di tutta Italia, e i legittimisti di Francia citavano «le marquis Torre Vivaldi» come uno «des hommes politiques les plus éminents de son temps, qui réunissait un esprit éclairé à un sentiment profond des droits du pouvoir légitime, en dehors duquel il n'y a point de garantie pour la vraie liberté et pour la civilisation du monde».
Tutti costoro, poi, quando per alcun loro negozio avessero a passar da Genova, erano gli ospiti del marchese Antoniotto, il quale, nelle lusinghe di una splendida accoglienza diventava due volte più ragguardevole al cospetto dei forestieri, e, non si muovendo da Genova, otteneva facilmente una fama europea.
Ma torniamo alla villa di Quinto. Colà Ginevra dagli occhi verdi accoglieva il fiore della civil compagnia, e colle grazie della sua persona e del suo conversare aiutava inconsapevolmente e mirabilmente ai disegni ambiziosi del marito. Intorno alla vezzosa gentildonna spirava come un'aura di medio evo, nella sua parte più bella, che allettava i più schivi. Si radunavano colà i discendenti di quelle grandi famiglie che avevano operato tante cose cinquecento anni innanzi; e all'udir conversare di belle imprese, o recitar versi, al veder corti d'amore, giostre di schermidori, corse di bei palafreni, gite sul mare ed altri simili passatempi, al sentirsi ad ogni tratto ferir l'orecchio da que' nomi che avevano risuonato in Soria, alla Meloria, a Curzola, chi non avrebbe creduto ad un miracolo, il quale, sconvolgendo gli ordini del tempo, l'avesse ricondotto parecchi secoli indietro?
Gli uomini, veramente, apparivano vestiti secondo le brutte fogge dei nostri tempi. Non si potevano notare nè le calze divisate, nè il farsetto, nè la cappa, nè il lucco, nè la berretta di velluto; ma chi avrebbe badato più che tanto al vestimento degli uomini, pur sempre ingentilito dalle fogge campestri, dov'era una dama come Ginevra? Costei era bella come una di quelle superbe castellane che talvolta, a vederle dipinte, ci fanno desiderare di esser vissuti a' tempi loro, anco a patto d'esser morti e sepolti da secoli e secoli. Si consideri inoltre che il vestir delle donne non è stato mutato così da non consentir l'illusione, e che la marchesa Ginevra non la guastava davvero con le rigonfiature soverchie, essa che, alta della persona e fatta a pennello, poteva romper guerra al crinolino e meritarne lode dagli intendenti.
Riviveva adunque il medio evo, intorno alla bella Ginevra. Il marchese Antoniotto, poi, da vero marito della castellana, faceva in ogni cosa il suo talento, esercitando, stiamo per dire, alta e bassa giustizia nelle sue terre. E basti questo fatto ad esempio. Egli aveva fatto chiudere in una camera sotterranea del suo palazzo un servo, figlio di uno dei suoi fittaiuoli, perchè esso gli aveva data una mala risposta, e in quella camera umida e buia lo aveva fatto rimanere quattro dì, senz'altro cibo che pane e acqua.
Come? griderà il lettore stupefatto. Questo egli ardiva di fare, a mezzo il secolo decimonono, sotto un reggimento di libertà? Sicuro, lo aveva osato, e non se n'era neanche pentito, poichè gli pareva la cosa più naturale del mondo. Nè il povero servo si era lagnato di quell'arbitrio padronale; e si fosse anco lagnato, chi gli avrebbe dato ascolto? Le leggi sono state molto acconciamente paragonate alle ragnatele, nelle quali le mosche incappano, ma che i mosconi strappano colle ali, passando pel rotto. E poi non vi sono esempi d'altri gran signori, che hanno fatto anche peggio?
Il povero Menico (che così si chiamava il servitore malcapitato) non aveva a lagnarsi molto della prigione, se altrove ad altri era toccato un carico di busse che li avea fatti andare allo spedale, o un colpo di pistola che li aveva freddati. Il marchese Antoniotto non era manesco; pregiava abbastanza le sue mani, da non insudiciarle sul viso o sul groppone della bordaglia, e si contentava di mettere in prigione.
Quella sua prepotenza del resto gli era passata liscia. Il marchese Antoniotto era padrone del paese, a cui recava tanto profitto colla sua villa, colla gente che vi attirava di continuo, colle limosine, coi donativi ond'era liberalissimo alla chiesa, al comune, e simili. I pochi che giunsero a risaperlo, non ne rifiatarono, e per certuni della sua pasta egli ebbe anzi fama d'uomo che voleva e sapeva farsi rispettare in casa sua, come fuori. Solo i giovani come il Pietrasanta e il Cigàla notarono che quello era un brutto arbitrio; ma essi per fermo non potevano farsi vendicatori della libertà offesa, e si contentarono di appioppare al marchese Antoniotto il soprannome di __tiranno di Quinto__.
In casa, tuttavia, quell'atto da medio evo non era stato compiuto senza un po' di contrasto. La marchesa chiedendo grazia pel Menico, era giunta perfino a rammentare che la terra di Quinto era patrimonio dei Vivaldi, da lei portato al marito. Ma egli tenne fermo; rispose alla signora che un esempio era necessario, che la bordaglia bisognava farla stare a segno, e cento altre cose di quella fatta, dette con aria di molta deferenza alle preghiere di lei, ma che pure mostravano com'egli non volesse lasciarsi smuovere. Quando poi ne ebbe abbastanza, fece restituire il Menico in libertà, ma a patto andasse a ringraziar la marchesa, che aveva intercesso per lui.
E il pover uomo andò; rese grazie con le lagrime agli occhi; e il marchese Antoniotto, che era stato a vedere, gli disse con piglio amorevole:
—Andate, Menico, e non vi avvenga più mai di alzare la voce. Per quest'oggi intanto la marchesa vi concede di andarvene dai vostri parenti, ai quali ella v'incarica di dire che condona loro la pigione di quest'anno.—
Si trattava di un migliaio di lire e qualcos'altro; ma il marchese Antoniotto era largo signore, come tutti i despoti, e dopo averle negata la grazia di Menico, amava usare quella galanteria alla castellana di Quinto. Galanteria tanto più fine, in quanto che il perdono e il regalo erano concessi per modo che paressero venuti da lei.
Lasciamo argomentare a voi se il Menico fosse contento, e se corresse di buone gambe a casa per annunziare quella benedizione. Gli parve anzi che il castigo fosse stato troppo lieve, e segnatamente meritato; laonde egli fu più ligio ai Torre-Vivaldi, più obbediente che mai. Natura umana!
Il marchese Antoniotto aveva inteso per bene che profittevole alleanza fosse per lui quella del padre Bonaventura. Era costui l'anima del partito; per domare tutte le ambizioni, per contentare tutte le vanità, per vincere tutte le riluttanze, per chetare tutte le diffidenze, non c'era spediente migliore di quello. Il gesuita sfratato, che curava in Genova le faccende della Compagnia, gli guarentiva l'aiuto di quel potente sodalizio; il gran capitano della reazione in Genova lavorava a pro' della sua ambizione, proprio come un generale a pro' di un re, o di un pretendente in esilio.
Ma se il padre Bonaventura rendeva di passata questo servizio al marchese Torre-Vivaldi, a ben più alto segno mirava l'opera sua. L'Antoniotto non era per lui che un ottimo strumento, un magnifico arnese di guerra, a cui molto volentieri concedeva la parte più bella del suo sistema. La frase costituzionale del re che regna e non governa, significava a puntino quello che il marchese Antoniotto doveva essere nei disegni del padre Bonaventura. Il quale teneva tutte le fila del governo in sua mano, nobili e ignobili, dorate e sozze. A quella mano facevano capo i tristi, i vanitosi, e gli stolti di tutte le classi sociali; usurai che volevano arricchire; ladri e furfanti che non volevano andare a marcire in prigione; avvocati senza clienti, medici senza ammalati, maestri senza discepoli, che volevano annaspare qualcosa; giovani che andavano a caccia di grasse doti e d'illustri parentadi; uomini da nulla che volevano parere d'assai; cervelli di gatto che s'industriavano a parer di leone; già s'intende, per averne la parte proverbiale nella spartizione delle prede.
Broglioni d'ogni fatta e d'ogni misura, lombrichi viventi nel limo, scorpioni allogati nelle sfaldature dei vecchi palazzi, Archimedi del malanno a cui non mancava altro che il braccio di leva per muovere e inabissare la loro parte di mondo, tutti, qual più, qual meno, per un verso o per l'altro, avevano bisogno del padre Bonaventura. Gli uni celati, gli altri palesi, secondo quel tanto di oneste apparenze che avevano i loro raggiri, davano mano all'opera del gesuita, e il lettore già ne conosce parecchi, contando dall'umile Garasso fino all'eccelso Torre-Vivaldi.
Abbiamo lasciato quest'ultimo sull'uscio, la qual cosa non parrà segno di cortesia. Ma si chetino i lettori cerimoniosi; il padre Bonaventura gli ha fatto accoglienze convenevoli, e non ha aspettato noi per farlo entrare nel suo studio.
—Signor marchese, è davvero un sommo onore per me, ch'Ella abbia lasciato la sua splendida festa per venirmi a visitare.
—Eh via, padre Bonaventura! Lasci la modestia in un angolo, come io ho lasciato le noie della mia festa sull'uscio. I miei convitati si dànno bel tempo, com'Ella ode di qui. Che farci? anche queste cose ci vogliono.
—Sì, certo, signor marchese. Gli uomini come Lei, che sono rari pur troppo, debbono serbare il decoro del loro illustre casato, e non disavvezzare la gente da quelle larghezze che tengono vivo il culto delle grandi memorie. Ella sa il proverbio francese: __noblesse oblige__. Il volgo poi ha bisogno di queste pompe esterne, in quella che gli uomini colti hanno in gran pregio il suo ingegno e la fortezza dell'animo.
—E che faceva Ella, mio ottimo padre?—chiese il Torre-Vivaldi, dopo essersi inchinato per ringraziarlo di quella incensata.
—Io? Me ne stavo là sul terrazzo ad ascoltare quella buona musica che si suona in casa sua, e non pensavo certamente ch'Ella fosse per venire quassù a rallegrare la mia solitudine.
—Gli amici come lei, padre Bonaventura, valgono assai più di tutte le feste del mondo, senza mettere in conto che queste non mi fanno nè caldo nè freddo. E che cosa abbiamo di nuovo?
—Nelle cose nostre nulla che Ella non sappia, signor marchese. Ah, mi dimenticavo…. Ho ricevuto lettere del visconte di Roche Huart, il quale m'incarica di salutarla tanto e poi tanto.
—Grazie, e che cosa fa quell'ottimo visconte?
—Non si è mosso da Parigi. Egli si lagna della gotta, che incomincia a dargli molestia.
—Pover'uomo! In così fresca età!… E da Torino non ha avuto notizie?
—Sì, ma di nessun rilievo. Ella saprà meglio di me che domani in
Senato avrà fine la discussione sulla libertà dell'interesse.
—Dica in cambio della libertà dell'usura. A me è doluto grandemente che questa festa di consuetudine in casa mia mi vietasse di andare in Senato, dove avrei pur voluto correre una lancia contro quest'altra invenzione del mugnaio di Collegno.—
Il mugnaio di Collegno, come tutti rammentano, era il conte Camillo Cavour. A quel tempo l'audace ministro torinese non aveva anche operato nulla che gli amicasse la parte liberale; ma i partigiani del regresso aveva già fiutato l'uomo che si scioglieva dai loro abbracciamenti per correre al lato opposto e mettersi come addentellato tra la rivoluzione italiana e la monarchia piemontese.
Però incominciavano a dirne roba da chiodi, e facevano lor pro' di tutti i più satirici soprannomi che la sospettosa vigilanza dei democratici gli andava di giorno in giorno appioppando, secondo l'opportunità degli assalti.
—C'è ben altro da fare,—rispose il padre Bonaventura,—che andare al
Senato per tenere un discorso contro la libertà dell'usura.
L'indirizzo dei nostri è buono, ma non mi sembra che sia proseguito
molto efficacemente finora.
—Ella ha ragione pur troppo, padre Bonaventura. In verità, io non intendo tutte queste lentezze. Il tornaconto della monarchia è di ripulire i gradini del trono da tanti grami senatori che la tradiscono, che ne accarezzano le ambizioni per condurla a mal partito. Non vi sarà mai pace nè sicurezza per lo Stato, fino a tanto che tutti questi arruffoni di emigrati ci stanno a loro bell'agio; e quel cencio di bandiera tolta ad imprestito dalle società segrete….
—Che vuole, signor marchese?—interruppe ghignando il gesuita.—Dicono che sia necessaria come uno sfiatatoio.
—Oh, se ne avvedranno,—gridò il marchese Antoniotto, mettendo fuori le sue frasi dogmatiche,—se ne avvedranno! L'eccletismo dà così gramo frutto in politica, come nelle discipline filosofiche. Non pare a Lei?
—Lo dico io pure, signor marchese, e il mal frutto non vuol farsi aspettar molto. Esso intanto matura qui in Genova….
—Come? Che altro malanno c'è in aria?
—La congiura…. Non sa?
—La congiura! Siamo già a questo segno? Ed Ella mi diceva poc'anzi che non c'era nulla di nuovo….
—Mi pareva di averle già toccato….
—Sì, me ne ricordo, ma in aria, e senza scendere a particolari. Ma davvero si vuol venire ai ferri corti?
—Sicuro, e so ancora quando pensano di smascherare le batterie. Volevano far subito, nel qual caso ci avrebbero còlti alla sprovveduta, o quasi; ma poi ha prevalso il consiglio di pigliar tempo. Insomma, l'ha da scoppiare verso gli ultimi giorni di giugno.
—Ma stiamo per entrarci, nel mese di giugno!—esclamò turbato il marchese Antoniotto.—E il governo che fa?
—Non sa nulla.
—Possibile?
—Certo! Costoro hanno lavorato di fine, e il governo è ancora al buio di tutto.
—Ed Ella…. come ha potuto?…
—Io? Ella non ignora, signor marchese, che il padre Bonaventura dorme poco, e quando dorme non chiude mai tutti e due gli occhi.
—È verissimo, e bisogna darlene lode; ma per iscoprire tutto ciò che Ella mi dice, il vigilare non basta. Ella, sicuramente, non è stata nei conciliaboli della setta mazziniana….
—No, certo; ma altri c'era per me, il quale sa tutto a menadito, e viene a darmene ragguaglio.
—Davvero? Ella è un uomo prezioso, padre Bonaventura.
—Eh, fo quel che posso. Ma torniamo ai nostri polli. Costoro hanno lavorato alla cheta; hanno tirato armi in quantità dentro le mura; si sono ordinati a drappelli, con incarichi particolari: preparano una spedizione sul Napoletano e in Toscana….
—E la Questura?
—E la Questura non sa nulla, proprio nulla.
—Bisogna avvertirla subito.
—Sì,—rispose il padre Bonaventura col suo risolino consueto,—perchè si faccia bella della scoperta e guasti le uova nel paniere! Io, con sua licenza, signor marchese, non penso che s'abbia a far ciò.
—Che altro, dunque?
—Tal cosa che salvi la società dai criminosi disegni dei rivoluzionarii, e torni nel medesimo tempo profittevole alla parte nostra. Però m'è venuto in mente di mandar la nuova al governo di Francia, il quale già comanda a Torino come in casa sua. L'imperatore sarà grato ai cattolici dell'avvertimento che essi gli dànno, e il governo di Torino, avvertito da Parigi delle congiure che si tramano sotto i suoi occhi, si chiarirà ancora una volta impotente a frenare i rivoltosi, poichè non si mette nelle nostre mani. Ella ha detto una profonda verità, signor marchese, dando a questo governo il nome di eccletico. Ora crede Ella che il suo eccletismo possa durare più a lungo, dopo che vengano in chiaro questi maneggi dei mazziniani? L'Europa minacciata da queste macchinazioni continue, chiederà a questo governo una miglior guarentigia pel futuro, ed esso non potrà darla se non mutando il registro. Allora, signor marchese, verrà il nostro giorno, o, per ragionare più dirittamente, verrà il suo; perocchè Ella non è uomo da tenersi in disparte, dove occorra una mano di ferro al timone dello Stato.—
L'incensata, questa volta, giungeva troppo diritta; ma non era altrimenti sgradita. Certuni pensano che debba riuscire molesto ad un valentuomo il vedersi rompere quasi il turibolo sul naso; ma costoro, a nostro credere, non pongono mente che l'incenso è sempre incenso, comunque si dimeni il turibolo, e che non v'ha uomo così ottuso di nari che non senta nel fumo il profumo.
Qui poi non era il caso di un incensatore da dozzina. Però il marchese Antoniotto si pigliò quelle cortesi parole come roba sua, e tirò innanzi.
—Ma, di grazia, su che gente fanno assegnamento costoro?
—Oh, non è la gente che manchi; ce ne hanno d'ogni risma. Ella incominci a metter nel conto tutti gli emigrati.
—Maledetti emigrati!—esclamò il marchese Antoniotto.—E il governo vuol sempre tenersi in casa tutti quegli avanzi di galera! E poi?…
—E poi gli artigiani di Genova.
—Ah, anche costoro?
—Sì, certo, e sono il grosso dell'esercito. Ella non ignora, signor marchese, che tutta questa bordaglia è salita sul trèspolo, come se il mondo fosse fatto per loro. Hanno inventato una nuova maniera di blasone, colle squadre, i compassi, le mani strette, il berretto frigio, e la nuova impresa della __eguaglianza__ e d'altre simili parole che accennano a socialismo pretto. È il diritto di associazione, che ha portato questi bei frutti! Ora il tumulto che stanno maturando, mira a mandar sossopra ogni cosa.
—Vogliono dunque regalarci un altro Novantatrè?
—Per l'appunto. Io so che nelle loro conventicole si va dicendo che il popolo ha diritto a goder la sua parte come i signori; che ne' passati rivolgimenti non s'è dato unto che bastasse alle macchine, e che s'ha da rinnovare anche ora, in casa nostra, la mareggiata di sangue.
—È il solito ragionamento dei rivoltosi. Ma qui ci bisognerà pigliare provvedimenti solleciti….
—Non tema, signor marchese. Veglia Bonaventura, che li metterà tutti a segno. Ho gente fidata che li vigila, e taluno fra gli altri che ci ha le sue brave rivincite da prendere.
—Rivincite! E chi mai?
—Il dottor Collini. Quello è un uomo che si metterà all'opera colle mani e coi piedi.—
All'udir quel nome, il marchese Antoniotto fece un tal verso colle labbra che voleva dire: non mi parlate di costui.
—Ella non vede di buon occhio il Collini?—chiese il padre
Bonaventura, che si era avveduto dell'atto.
—Io no, lo confesso schiettamente;—rispose il Torre-Vivaldi.—Sarà un mio dirizzone, un pregiudizio, e quanto Ella vorrà di peggio; ma, tant'è, io non posso mandarlo giù. I miei maggiori furono gentiluomini e prodi soldati, che non temettero di offendere la fede dei loro padri sguainando la spada per difendere l'onore, quando credettero che fosse in pericolo.—
E così dicendo il marchese Antoniotto, alla baldanza dello sguardo e dell'accento, mostrava chiaramente che un po' di buon sangue lo aveva pure nelle vene.
—Nè io potrei darlene biasimo,—soggiunse il padre Bonaventura, la cui religione si piegava facilmente a tutti i rispetti umani, a tutte le debolezze, come a tutte le tirannidi;—ma che vuole? Chiedere forse la prodezza dell'animo a chi non l'ha ereditata col sangue? Il Collini non è un leone; ma per contro è accorto, operoso e fedele….
—Sì, perchè si strugge d'ambizione; perchè vuole arricchire a ogni costo.
—Questo poi è verissimo; ma noi dobbiamo pigliare gli uomini come sono, e contentarcene, purchè giovino all'intento comune.
—Ma non stimarli punto!—interruppe il gentiluomo.—Ed ora mi dica su chi ha da pigliarsi la sua rivincita costui.
—O come, non l'ha indovinato? Sul giovine Salvani, quel tale che è sceso a combattere invece del Collini col marchese di Montalto. Costui è uno dei capi, come in altri tempi suo padre. Già, chi di gallina nasce convien che razzoli.
—Ah, ah, capisco;—disse con piglio ironico il marchese Antoniotto.—Il dottor Collini non può menargli buono di essersi mostrato più animoso di lui. Benissimo. Queste cose del resto non mi riguardano punto; ognuno la pensa a suo modo, e noi finalmente caviamo il bene dal male.
—È una gran massima, signor marchese! Ma, a proposito del Montalto, lo ha veduto Ella?
—L'ho veduto; egli è in casa mia, mentre parliamo. Un giovine garbato, in fede mia, quantunque assai malinconico! Dalle poche parole che abbiamo barattate, mi è sembrato che debba avere molto ingegno ed altrettanta alterezza di mente.
—Lo credo; è di buona schiatta. Ed Ella, signor marchese, gli avrà fatto buon viso….
—L'ho accolto come il più ragguardevole de' miei convitati.
—Benissimo! Questo giovanotto ci riuscirà di molto giovamento. Senza mettere in conto che i milioni del Vitali….
—Altro briccone!—esclamò il Torre-Vivaldi.
—Sì, Ella ha ragioni da vendere; altro briccone. Senza mettere in conto che i milioni di costui appartengono alla Compagnia di Gesù e, spinte o sponte, bisognerà che li snoccioli, il giovane Aloise sarà un buon acquisto per noi. Egli è animoso, colto e nobilmente ambizioso per giunta.
—Lo crede Ella?
—Lo so, e penso d'aver trovato il modo di stimolarlo.
—Quale?
—È un mio segreto, perdoni!—rispose, ridendo del suo noto risolino a fior di labbra, il gesuita.—E poi, il giovanotto è probo e magnanimo. Basterà narrargli il furto di suo nonno, perchè egli s'impegni a restituire il mal tolto.
—E le prove?
—Le prove? Le troverò;—rispose il padre Bonaventura con quello istesso piglio con cui avrebbe detto: le fabbricherò.
Ma il marchese Antoniotto non si avvide di quella sottigliezza. Quel negozio non lo risguardava punto, ed egli non poteva già indovinare che pensieri girassero in capo al gesuita.
—Sta bene;—diss'egli.—Io pure fo grande assegnamento sul Montalto. La nostra gioventù è un po' fiacca e generalmente inetta. Si direbbe che questi vagheggini non siano neppure i nostri figli. Non hanno nerbo di volontà, sibbene arroganza inutile; non ambizione stimolatrice, ma vanità contenta di sè medesima. Soltanto quell'Aloise mi pare abbia ad essere uno del vecchio stampo, e tutto sta a tirarlo dei nostri, perchè diventi un ottimo arnese di guerra. Crede Ella, padre Bonaventura, che pieghi già da qualche altro lato?
—No, no, è impossibile!—rispose il gesuita.—Egli è libero d'ogni vincolo, e la sua alterezza lo ha tenuto discosto fino ad ora da ogni commercio di pensieri e di propositi con altri. Non so se le ho detto che egli si tiene grandemente del suo nome e della sua nobiltà. È questo il suo lato debole, ma fortunatamente è dalla parte nostra; noi soli possiamo cavarne profitto.
—È vero; lasci dunque fare a me. Il Montalto sarà con noi, ed io sono veramente superbo di tentare l'impresa.—
Bonaventura a queste parole del marchese Antoniotto non potè rattenere un sorriso. Ma i sorrisi del padre Bonaventura erano come i suoi pensamenti, e non uscivano fuori se non quando a lui paresse dicevole. È dunque da credere che quel sorriso di compiacimento, misto a un tal po' d'ironia, non gli increspasse neanche le labbra. Quanto al marchese Antoniotto, egli non si addiede neppure di quest'altra parentesi mentale del suo degno collega.
—Ora,—proseguì il marchese,—per quanto risguarda la congiura….
—Sarà sventata a tempo,—disse il gesuita,—e per modo che torni profittevole ai nostri fini. Io del resto la terrò ragguagliata d'ogni cosa, a mano a mano che ne verrò in chiaro.
—Glie ne sarò grato, mio ottimo padre, e non dimenticherò mai di quanto utile alla buona causa torni l'opera sua avveduta e la sua dimora preziosa tra noi. Adesso, poi, ritorno ai miei ospiti, per lasciarla dormire; perchè, dopo una così lunga veglia. Ella avrà pur bisogno di riposo.—
Con queste ed altre parole di cerimonia, il marchese si accomiatò, accompagnato fino all'uscio di comunicazione dal padre Bonaventura, che tirò il catenaccio innanzi di tornarsene alle sue stanze.
Ma il gesuita non andò già a dormire, siccome il suo ospite credeva. Egli entrò nel suo studio, dove fece due o tre giri, stropicciandosi le mani in segno di molta soddisfazione; poi andò ad un armadio che era scavato nella parete; lo aperse e ne trasse fuori uno dei ventiquattro libroni che vi stavano entro disposti.
Erano le opere di Sant'Agostino: così diceva la scritta d'inchiostro nero sul dorso della cartapecora di cui erano coperti quegli smisurati volumi. Il padre Bonaventura recò il suo librone sullo scrittoio, e dopo averlo sfogliato un tratto per cercare la pagina, intinse la penna nel calamaio e al lume della sua lampada, si mise a scrivere.
Sulle opere di Sant'Agostino? Sicuro. Il volume era interfogliato; il che vuol dire, per coloro che non sono pratici del negozio, che tra i fogli stampati erano cuciti altrettanti fogli bianchi, siccome si usa in certi libri importanti, ad uso di scrivervi giunte, annotazioni, ed altre simili cose.
Che diamine scriveva egli, il padre Bonaventura, a quell'ora inoltrata della notte? Annotava forse le opere del gran vescovo di Ippona? No certo, e il lettore, anco se volessimo dargliela a bere, non la manderebbe giù, e ci vorrebbe un mal di morte della canzonatura.
Diciamogli dunque ogni cosa, per non tenere a bada chi è stato tanto cortese da seguirci fin qua. Ma anzitutto finiamo questo capitolo, che è ormai troppo lungo.
Della relazione che c'era tra le opere di Sant'Agostino e la "Società del Parafulmine".
Egli fu nell'anno di grazia 1834, che ebbe principio in Genova la __Società del Parafulmine__, fiorentissima società anonima, la quale, sebbene non avesse avuta la sanzione del governo, tirava innanzi senza paura, come il cavaliere Baiardo, ma non già senza macchia.
Che cos'era questa società, e a che razza di negozi s'applicava? Non era una società politica, quantunque fosse segreta; coloro che ci avevano mano non congiuravano contro alcuno dei poteri costituiti, e il signor Governatore non li teneva d'occhio. Non era una società di buontemponi, quantunque tutti amassero mangiar bene e ber meglio, e convenissero di sovente a geniale convito. Che diamine di società era dunque cotesta del Parafulmine? Una brutta società, veramente; diciamo anzi bruttissima.
Ecco in che modo essa ebbe principio, e nome, e tutto quello che bisogna per la fondazione di una società.
Una notte di carnevale, una brigata di giovanotti, usciti dalla veglia delle maschere, s'erano radunati a cena in una sala remota di una delle migliori trattorie che ci fossero allora tra porta Pila e porta San Tommaso. Scorreva il Bordò e lo Sciampagna, perchè i giovanotti erano ricchi e potevano spendere; ma non scorreva neppure un filo di vera gaiezza, perchè quei dodici (chè tanti erano colà convenuti) non avevano nessuna avventura galante da raccontare, ed erano, qual più, qual meno, tutti adirati colle signore donne, che non s'erano punto curate dei fatti loro.
La qual cosa si chiariva dai loro discorsi; i quali avrebbero potuto essere raccolti e messi alle stampe come il più fiero trattato contro il bel sesso. Ma se non furono stampati i discorsi, altra cosa ne venne fuori, e di molto rilievo, che siamo per raccontare.
I ragionamenti del nuovo cenacolo volgevano su questo punto: le donne esser più facili ad amare gli scemi che non gli uomini di vaglia; concetto adulatorio che rispondeva alla vanità offesa dei dodici commensali, e sul quale ognuno di loro si faceva a ricamare ogni sorta di ghirigori, secondo i consigli della propria esperienza.
Costoro certamente sragionavano; chè pur troppo le signore donne son condotte ad amar uomini d'ogni risma, e fortuna vuole che più facilmente abbiano a dolersi poi degli uomini di vaglia anzi che degli scemi. Gli uni e gli altri arrecano disinganni; ma gli ultimi hanno questo di meno cattivo, che non lasciano eredità di rimpianti.
Un tale, per cavar qualche costrutto dalla discussione, aveva proposto che si dovesse trovare uno spediente per domare quelle creature ribelli. Costui era stato più sventurato di tutti, poichè giungeva sempre tardi all'assedio, quando altri aveva già condotte le parallele fino agli spaldi della rocca.
—Lo spediente!—gli risposero.—Si fa presto a dirlo; ma come trovarlo, che giovi a tutti i casi? La tattica è una sola, ma pur troppo bisogna temperarla, rimutarla, secondo le forze e gli accorgimenti del nemico.—
Queste considerazioni erano giustissime, e la discussione risicava di non approdare a nulla, se non era uno dei colleghi, il quale aveva parlato poco fino a quel punto, e che, percuotendosi la fronte colla palma della mano, si alzò e disse con piglio d'oratore inspirato:
—Signori, ho un'idea, la quale provvede a tutti i casi, e non ha mestieri di mutarsi mai. Quelle armi, di cui patiamo difetto, le avremo; saremo potenti, e le ribelli ci cascheranno ai piedi, implorando misericordia.
—Ottimamente! Le armi! Mostraci le armi!—gridarono, quasi ad una voce, undici curiosi.
—Anzitutto, signori, mettiamo le fondamenta; cominciamo dal principio. Siamo tutti giovani, agiati, non brutti, nè stolidi; e tuttavia abbiamo tutti cagione di lagnarci del bel sesso. Perchè? Qui bisogna cercar le ragioni del male. Io, con vostra licenza, le trovo nella educazione troppo gretta e difettosa delle donne. A Genova, lo sapete, trionfano ancora il provinciale cugino, il cavaliere servente, __il patito__; animali pazienti che non si scuorano dei dinieghi, che mandano giù i sarcasmi e i rimbrotti, che aspettano le occasioni, e approfittano dei momenti di noia, dei dissapori domestici, di ogni cosa che li aiuti a inoltrarsi d'un passo. A costoro non paiono gli anni più lunghi che a noi le settimane; la loro servitù diventa come un'appendice del matrimonio, e riesce del pari beatamente noiosa, o noiosamente beata, come vi torna meglio. Nè vuolsi dimenticare che la più parte delle donne sono oche….
—Oh diamine!
—Sì, che c'è da ridere? Belle, bianche, fatte a pennello, ma oche. Però queste lungaggini non le disamorano; tutto ciò che diventa consuetudine di anni non le turba, non le spaventa. E di questa guisa, senza sale nè pepe, in un guazzetto d'olio, si condisce e galleggia la più insipida delle passioni.
—È vero! è vero!—gridarono gli ascoltatori, battendo delle mani.—Ma come vincere queste oche? Come entrare in Campidoglio?
—Attenti!—proseguì l'oratore.—L'esordio e l'esposizione sono finiti; ora vengo al buono. Avete voi mai pensato, o signori, all'utile che si può cavare dai segreti del prossimo?—
A questa improvvisa dimanda, gli undici rimasero silenziosi e turbati. Dopo una breve pausa, uno di loro che era il più giovine, si provò a dire che l'approfittarsi de' segreti altrui non era la più bella cosa del mondo.
—Verissimo,—ripigliò l'oratore, senza turbarsi punto,—ma intendiamoci bene, o signori; qui si tratta di segreti donneschi.
—Oh, la cosa cangia d'aspetto!—
E in questa sentenza del giovine convennero tutti gli altri. Si trattava di segreti donneschi, cose da nulla, come vede, graziosi peccati, e non c'era più nessun male a scrutarli; la moralità era largamente custodita. Però tutti quanti respirarono, come uomini che si fossero levati un peso dallo stomaco, e non badarono più ad altro fuorchè allo svolgimento della nuova teorica.
—__In primis et ante omnia__,—disse l'oratore,—e considerando che qui non si tratta di politica nè d'altri importanti negozi, voi potrete ammettere con me che il fine giustifica i mezzi.
—Lo ammettiamo….
—E poi, è certo ugualmente che non si vuol far male a nessuno. Noi non miriamo ad altro che a domare le creature ribelli, a diventar terribili, e metter fuori di sella gli scemi.
—Sì certo! Ma come?
—Aspettate; ho appena cominciato. Ognuno di voi saprà che il conoscere il segreto di taluno vi rende in certo qual modo padrone di lui.
—Sì,—gridarono tutti,—è cosa nota.
—Adagio, signori! La massima è vera, ma non riesce sempre sicura nella pratica. Molte volte, anzi il più delle volte, questa padronanza non è intiera, epperò non torna efficace. Perchè? Ve lo dirò io. Perchè di questo tale non conoscete interamente il segreto. Vi pare di averlo colto, e non ne scorgete che un lato. Il segreto, o signori, è come un poliedro, figura geometrica, che offre molti lati allo sguardo, e ogni riguardante ne vede uno, o due, o tre, ma non tutti veramente se non andandogli in giro; la qual cosa non tutti possono, o non credono utile di fare. Ora questa utilità nel caso nostro è provata, e per evitare il pericolo del non potere, bisogna che ciò che molti vedono e sanno dei segreti di una tale, sia messo in comune. Uno per tutti e tutti per uno, è l'impresa del progresso in ogni cosa. Se ognuno di noi avesse a farsi le sue camicie, i suoi stivali, i suoi vestiti, e anzitutto farsi la tela per le camicie sullodate, conciar la pelle per gli stivali, tessere il panno pei vestiti, e via di questo passo fino alle prime preparazioni della materia, io penso che andremmo tutti nudi come all'uscita del paradiso terrestre. Uniamoci, o signori; facciamo un potente sodalizio a nostro vantaggio particolare.—
Gli ascoltatori tutti erano rimasti ammirati per tanta saviezza dell'oratore, e in cuor loro già lo avevano nominato presidente della nuova società, di cui metteva così profondamente le basi.
—Avete dunque capito;—proseguì egli, pigliando ansa a ragionare della impressione che il suo discorso faceva,—qui bisogna lavorar tutti per modo che i segreti delle belle, delle loro famiglie, dei loro aderenti, siano studiati, vagliati, e notati sul libro mastro della società, e ogni giorno la mèsse delle nostre scoperte si accresca, formando come un vasto granaio pei tempi di carestia.
—La pensata è buona,—interruppe uno degli undici,—ma vedo molto difficile il mandarla ad effetto. Per giungere a quello che tu dici, in una sola città, ci vorrebbero centinaia di compari, e allora dove n'andrebbero gli utili, divisi e suddivisi tra mille?
—Tu hai bevuto troppo, e non capisci nulla!—disse a lui di rimando l'oratore.—Qui bastiamo in dodici, e uno di più guasterebbe il negozio. Ognuno di noi conosce un lato dei segreti di cento e più donne. Vi par troppo? Pensateci un tratto; ricordatevi; frugate nei ripostigli della vostra memoria! Talvolta, in un crocchio di amici, non avete udito dire chi fosse l'amante della tale, e della tal altra? Un piccolo scandalo avvenuto, e commentato per cinque o sei giorni dall'universale, non vi ha egli messo sulla traccia di molte cosette ignorate? O non avete, passeggiando per una via fuori mano, veduto una coppia d'innamorati? A teatro, mentre il tenore stuonava una dichiarazione d'amore, non avete colto uno sguardo tra un palchetto e un punto della platea? Di questi fatterelli ognuno di noi ha certamente udito e veduto le migliaia. Ma pur troppo il difetto di unità nelle osservazioni, la sbadataggine, la noncuranza per una cosa che direttamente non ci risguarda, fanno sì che tanti preziosi aneddoti, tante ghiotte considerazioni non approdano a nulla, poi si dimenticano, e quando verrebbero a taglio non si sa più cavarne un costrutto.
—È vero! verissimo!—gridarono gli altri in coro.—Tu parli come un savio della Grecia.
—Grazie tante! Ma andiamo innanzi. Pensate un poco voi altri, di quanta efficacia sarebbe il mettere tutto questo contingente di appunti quotidiani a pro' del nostro consorzio, e scriverlo sul gran libro per ordine alfabetico. Non passa un anno, e la storia di una bella signora si trova là dentro, scritta da cima a fondo, come se ci avesse posto mano Plutarco. E adesso veniamo all'utilità del negozio. Uno dei colleghi è innamorato della tale; s'è posto a corteggiarla, e non sa come venirne a capo; risica, per poca conoscenza del suo umore, di fallire la strada, di pigliar la più lunga, o di pigliarne una che lo conduca in un ronco. Che fa egli, essendo dei nostri? Apre il libro mastro a quella tal lettera dell'alfabeto; legge e rilegge il capitolo che narra la vita e i miracoli della dama; vede che cosa ella abbia fatto in suo vivente; quali affetti l'abbiano consolata o desolata; quali argomenti di tristezza ella abbia avuti, o abbia tuttavia in casa; in quali aneddoti, in quali storielle sia stata protagonista; di quali persone si fidi, e di quali no; che piccoli fatti ci siano che ella crede ignoti al mondo, e che la vigilanza assidua di taluno ha scoperti e la malevolenza propalati. Vestito, anzi catafratto di questa armatura, il Don Giovanni scende in campo, combatte e vince, poichè conosce il lato debole della sua bella nemica.—
Un applauso universale soverchiò le ultime parole del discorso, e un brindisi proposto al valente oratore fu accolto da tutti con una sollecitudine degna di miglior causa.
—Bello! sublime!—gridavano.—È un profondo concetto, e merita che ti s'innalzi un monumento.
—Ha da essere più duraturo del bronzo;—gridò il più giovine, quel degli scrupoli,—Orazio lo insegna. Il monumento degno dell'amico sarà dunque nel mandar prontamente ad effetto la sua buona pensata. Cominciamo subito dal poco, e andremo facilmente al molto. Il presidente lo abbiamo; io mi profferisco come segretario per la compilazione delle note, e domani potremo tenere una prima seduta.
—Dove?
—In casa mia. Per domani dunque, e ognuno prepari la sua parte di note.
—Sì, sì,—gridarono tutti,—per domani!—
Era un ignobile spettacolo, in verità! Quei giovanotti avevano sulle prime arrossito un tantino al pensiero di cavar profitto dai segreti del prossimo; ma udito poscia che si trattava soltanto di donne, la loro coscienza non aveva più sentito un rimorso. E tutti avevano madre, sorelle, ed un sacrario di affetti domestici, gelosamente custoditi!
Ma così allora si educavano i giovani spensierati. In tal guisa cresceva una generazione di malveggenti, i quali, come in gioventù si disponevano a commettere bricconate amorose, si preparavano per l'età matura a commetterne in ogni ragione di cose, e sempre in apparenza di galantuomini.
La società, come è agevole argomentare, fu fatta, e s'intitolò del __parafulmine__, per guardarsi dai tradimenti, o dalle malizie femminili. Poverini! Erano essi che si guardavano.
Nel giro di pochi mesi, il libro della società del Parafulmine divenne doppiamente nero, e certo il più nero non fu l'inchiostro col quale erano scritte tutte quelle prelibate notizie. I dodici compilatori cavavano profitto da ogni cosa; scandali grossi e piccoli, segreti gelosi, induzioni, raffronti, tutto andava a rimpinzare la loro raccolta.
E venne giorno che, maravigliati dell'opera loro, se ne accesero a tal segno da lavorare pel solo piacere di lavorare, la qual cosa nel campo letterario fu significata col famoso precetto: __l'arte per l'arte__.
L'incentivo era grande; perchè infatti lo scandalo risponde assai bene ai gusti dell'uomo, e tale che si addormenta se vi fate a svolgere un teorema filosofico, sta poi ad udirvi con tanto d'orecchi se gli narrate del più veniale tra tutti i peccati di una graziosa donnina. Ora i soci del Parafulmine mettevano in quel loro negozio tutte le forze dell'ingegno, facendo a chi recasse maggior copia di note. Non c'era storia che rimanesse dimezzata o manchevole, poichè non usavano porsi attorno ad una donna, senza piluccarne ogni minuzia, e in breve ora gli appunti dell'uno confortavano e supplivano nelle lacune gli appunti dell'altro.
Intanto, cosa che parrà strana, non ci fu alcuno di loro che violasse il segreto della combriccola. I messeri del Parafulmine erano vincolati della comunanza della vergogna, in quella istessa guisa che i galeotti sono appaiati dalla catena. Ma per essi, in famiglia, non c'era vergogna; e ci fosse anco stata, l'utile che ne derivava ad ognuno l'avrebbe fatta tacere. Perchè infatti, come già i lettori avranno argomentato, le note biografiche della società non si tenevano più nei ristretti confini delle avventure galanti. Le indagini erotiche avevano posto i nostri cacciatori sulle tracce di miglior selvaggina, e v'ebbero uffizi parecchi ed onori che ripetevano la loro origine da quelle note acconciamente sfruttate.
Nel 1844, cioè dieci anni dopo l'instituzione della confraternita, i socii s'erano ridotti a cinque. Qualcheduno, ammogliato, aveva preso un nuovo indirizzo; qualchedun altro era andato in America; due erano morti. Ma intanto il libro era cresciuto a dismisura per notizie d'ogni fatta, nelle quali tutta la società più o meno elegante era passata in rassegna; sicchè poteva dirsi una vera enciclopedia dei sette peccati capitali, ad uso dei compilatori superstiti.
Ma ohimè, ogni bel giuoco dura poco; e anche la società del Parafulmine doveva morire. Egli avvenne che il segretario della confraternita ammalò gravemente, e bisognò mandare pel medico, il quale a sua volta mandò pel confessore. Il più saldo sostegno del Parafulmine non istette saldo egualmente contro la morte, e il pensiero della vita eterna lo assalse, lo soverchiò, con tutte le sue immagini paurose. La confessione fu ampia, e grande il pentimento; ma l'assoluzione costò salata, perchè il confessore, saputo del libro, orribile fattura di dodici scapestrati, volle fosse dato alle fiamme innanzi che l'infermo ricevesse il conforto della manna celeste.
Ma come fare per darlo alle fiamme? Il buon confessore si tolse egli quel grave incarico, ed anzitutto portò via i dodici volumi, i quali (così egli diceva) davano odore di zolfo.
E tuttavia quel cattivo odore non tolse che il reverendo personaggio
rimanesse grandemente ammirato per la novità e il pregio dell'opera.
Egli era un uomo di senno, il confessore, e si chiamava padre
Bonaventura Gallegos, __de Societate Jesu__.
Da quel giorno ne passarono quaranta; e il buon padre Bonaventura non uscì quasi mai dalla sua camera, dove aveva riposto il suo bottino, senza darsi pensiero dell'odore di zolfo, che avrebbe potuto mettere in sospetto i suoi santi colleghi. Egli forse aveva pensato che bastasse non dirne parola ad alcuno, tenendo il libro sotto chiave, quando per qualche negozio fosse costretto ad uscire. In quanto alle lunghe ore che passava nel silenzio e nella solitudine, c'era una buona ragione da chiuder la bocca ai curiosi. Il padre Bonaventura meditava un commento alle opere di Sant'Agostino; perciò non doveva sapere di strano ch'egli rimanesse volentieri nella sua camera, assorto nello studio dell'autore suo prediletto.
E per studiare con maggior profitto, mandò le __Opera omnia__ del vescovo d'Ippona al legatore, perchè le rilegasse a nuovo, inframmettendovi i fogli di carta bianca consacrati alle sue dotte annotazioni teologiche; le quali in buona sostanza non erano altro che gli appunti biografici della società del Parafulmine. Sant'Agostino fu per tal guisa rilegato in ventiquattro tomi, che parevano fatti a bella posta per dare alloggio alle ventiquattro lettere dell'alfabeto; e l'arguto lettore intenderà il rimanente; come, ad esempio, l'erede universale del Parafulmine, da quel savio uomo ch'egli era, facesse fruttare e crescere il patrimonio ad interessi composti. Da dodici anni scriveva, scriveva sempre, conducendo a perfezione il suo commento; sicchè, giunto al 1857, cominciava a pensare che la carta bianca gli sarebbe indi a non molto mancata. Però gli era venuto in mente di lasciare Sant'Agostino, per commentare gli scritti di Tertulliano, già acconciamente interfogliati in anticipazione.
È noto adunque che cosa scrivesse il padre Bonaventura, a che studi profondi si desse, in cambio di andarsene a dormire, dopo la partenza del marchese Antoniotto. Egli aveva squadernato sullo scrittoio il volume decimonono di Sant'Agostino, o, se più vi garba, la lettera T della sua preziosa enciclopedia, e stava facendo qualche giunterella alla biografia dei Torre Vivaldi.
Là entro potevate leggere vita e miracoli del marchese Antoniotto, della madre di lui, del padre e d'altri aderenti alla famiglia. Veniva quindi la storia della bella Ginevra dagli occhi verdi, a gran pezza più lunga di quella del marito. E non era già perchè ci fosse molto a dire della bella marchesa, ma perchè, rispetto alle donne, il padre Bonaventura diventava più facilmente prolisso. Degli uomini notava i fatti, stringendoli in brevi parole; delle donne poi o, per dir meglio, di certe donne, notava le opere, i pensieri e perfino le ommissioni. Egli a ragione pensava, la vita delle donne essere una trama così sottile e delicata di nonnulla, da non doversi dimenticare la più piccola cosa. Se la bilancia degli imponderabili non fosse stata trovata dai fisici, certo il padre Bonaventura l'avrebbe scoperta egli, per adoperarla in quelle biografie femminili.
Ora, se il tempo non stringesse, e le fila del dramma, fatte più numerose, non ci persuadessero della necessità di badare anzitutto a raccoglierle, vorremmo esporre ai lettori ciò che ha spigolato il padre Bonaventura intorno alla vita ed ai più riposti pensieri della bella Ginevra. La quale, a dir vero, quantunque sia tra le più spiccate figure del quadro, non ci ha ancora lasciato scorgere una parte del suo cuore, rimanendo per tutti enigmatica come la sfinge egiziana.
Ma questo si rechino in pace i lettori, condonando la passeggera molestia alle ineluttabili necessità del racconto. Una cosa già sanno; che l'entrata di Aloise dai Torre Vivaldi era un accorgimento del padre Bonaventura. Un'altra ne diremo loro: che il gesuita, aperto il volume decimonono delle Opere di Sant'Agostino, si pose diligentemente a notarvi il ricevimento del giovine, come gli era stato narrato dal marchese Antoniotto, aspettando che una lettera di Ginevra, alla viscontessa della Roche-Huart di Parigi, venisse a chiarirgli tutti i minuti particolari del felicissimo evento, ingrossando così la biografia dei Torre Vivaldi. Molt'altre ce n'erano già, debitamente trascritte, che la bella Ginevra andava scrivendo da sei anni alla sua amica di collegio, e che una mano misteriosa andava a sua volta ricopiando e rimandando a Genova, in quel medesimo palazzo dond'erano uscite.
Ginevra adunque, quell'anima chiusa, commetteva i suoi pensieri alla carta traditora? Sì veramente, questo era il punto debole di una armatura per tanti rispetti fortissima. Fin dai primi giorni del suo matrimonio, la bella vittima delle consuetudini aristocratiche e delle arti gesuitiche collegate, aveva per costume di svelare, di raccontar sè medesima alla compagna d'infanzia. Il cuore della gentildonna, stretto dalle leggi della fredda cerimonia, gelato dalle catene, a gran pezza più fredde, del talamo, si schiudeva alle ricordanze dell'amicizia lontana, prolungava nella vita adulta le libere e dolci confessioni della spensierata adolescenza. Ed erano lettere minuziose, delibazioni d'ogni cosa udita o veduta, scavazioni d'ogni più lieve affetto sentito, giudizi intorno alle costumanze della civil compagnia, donne ed uomini passati in rassegna; infine che vi diremo? debolezze umane considerate dall'alto, e considerate da un angelo; ma da un angelo il quale non si peritava di rasentarle col sommo delle piume e intingervisi un pochettino. Poichè, se la donna è un angelo, e tuttavia rimane in terra, bisogna dire che sia un angelo a cui qualche peccatuzzo faccia tarde le ali e impedisca il ritorno a casa.
E adesso, per farvela breve, lettori umanissimi, vi diremo che in quel carteggio della bella Ginevra si leggeva un nome, che, per essere quello di un uomo non mai avvicinatosi a lei, appariva troppo spesso ripetuto; il nome di Aloise Montalto.
Come ci fosse scritto, e perchè, sarà detto più oltre.
Nel quale si racconta dell'uomo vestito di nero e degli apprestamenti che fece per una giornata campale.
La mattina del 28 giugno, chi avesse potuto vedere il padre Bonaventura nel segreto della sua camera da studio, avrebbe durato fatica a riconoscerlo. Era vestito di nero, come sempre; mostrava le guance e il mento accuratamente rasi di quel giorno medesimo; non era insomma nè più bello, nè più brutto di quello che i nostri lettori sanno; ma ne' suoi occhi sfavillanti si leggeva qualcosa d'insolito, come la gioia di una vittoria ottenuta, o la speranza di riportarla tra poco. Il che, per gli uomini avvezzi a' grandi disegni, è tutt'uno.
Inoltre, il padre Bonaventura (cosa strana a vedersi, quando era nel suo studio) non leggeva, nè scriveva. Le opere di sant'Agostino non erano squadernate sullo scrittoio; la penna, povera vittima della sua feroce alacrità, si riposava un tratto nel calamaio, e forse andava col suo compagno di sventura facendo le meraviglie di questo non mai sperato giubileo che loro concedeva il padrone.
Questi, intanto, passeggiava concitato dall'una all'altra parete, o, per dire più veramente, dall'una all'altra scansìa, come un uomo a cui dolgano i nervi. Ad ogni tanto andava stropicciandosi forte le mani, poi le tornava a raccogliere dietro le spalle, senza punto smettere del suo passo breve e spedito, che lo costringeva a frequenti giravolte sui tacchi.
Finalmente si fermò un istante; e fu per guardare una ventesima volta il suo orologio.
—Ancora pochi minuti!—borbottò egli tra i denti.—Sia lodato il cielo! Signora Marianna!…—
E siccome non gli parve che la chiamata fosse efficace, fatti altri due giri, andò verso l'uscio e tornò a gridare:
—Signora Marianna! signora Marianna!
—Vengo, Padre, vengo,—rispose una voce dall'anticamera.
E poco stante comparve sull'uscio quella vecchia governante che i lettori conoscono, col naso bitorzoluto e il mento fiorito di peli, tutta chiusa nella sua gonnella di lana nera, nella sua cuffia e nel suo grembiale di pannolino.
—Non è ancora venuto nessuno?—chiese Bonaventura.
—Padre, no.
—Appena verrà qualcheduno, faccia entrare.
—Padre, sì.—
E la signora Marianna fece per andarsene e richiuder l'uscio, in quella che Bonaventura ripigliava la sua passeggiata.
—Signora Marianna,—diss'egli ad un tratto, come un uomo che si risovvenga di qualche cosa,—e il caffè?
—Domine!—esclamò ella voltandosi, e giungendo le palme in atto di maraviglia.—O non l'ha anche bevuto?
—E come vuole che io l'abbia bevuto, se non l'ha ancora portato?
—Ma sì, ma sì, Padre! Eccolo appunto, là, sulla scrivania. Sono venti minuti che l'ho portato, ma Lei pensava, e m'ha fatto cenno di lasciarlo là e di andarmene.
—È vero, è vero; l'avevo dimenticato. Grazie tante!—rispose in fretta Bonaventura, andando verso la scrivania.
—Ma sarà freddo, ora;—proseguì la signora Marianna.—E Lei che lo ama caldo….
—Non importa, non importa!—ribattè Bonaventura; e fosse per castigarsi della sua smemoratezza o per farla finita colle considerazioni della governante, mandò giù d'un tratto il caffè, rimettendo tra le mani di lei il vassoio e la chicchera.
La signora Marianna non disse altro; ma recandosi in mano il vassoio, notò la zuccheriera che non era stata neanche scoperchiata; segno che padre Bonaventura aveva trangugiato il suo caffè amaro (egli che lo amava inzuccherato per bene) e non se ne era accorto neppure.
—Quest'oggi è molto astratto;—disse ella tra sè.—Il sant'uomo lavora troppo, e non vuol sentirselo a dire. E sì, ch'egli non è più di primo pelo, e non fo per dire, ci ha tre anni più di me.—
Con questi pensieri, la governante dalle cinquanta primavere uscì dallo studio. Bonaventura frattanto avea ricominciato a passeggiare, a stropicciarsi le mani, a raccoglierle dietro le spalle, a guardar l'orologio. Pari al Cerbero dantesco, egli «non avea membro che tenesse fermo».
Una scampanellata si udì finalmente, dieci minuti più tardi, all'uscio di casa, e Bonaventura tese l'orecchio. La signora Marianna era lenta di soverchio nello andare ad aprire. Benedetta donna, sempre a tu per tu coi paternostri! O non aveva tempo la sera, a mettersi in grazia con Domineddio? Quasi quasi andava egli in persona, a far da portinaio! Ma, lode al cielo, la signora Marianna s'era mossa; si udiva il suo passo da sergente invalido nella sala d'entrata. A Dio piacendo, ella giungeva all'uscio; lo schiudeva un tantino per vedere chi fosse di fuori; finalmente, raffidata dalla sua ispezione, faceva uscir la catena dal gancio, e un passo mascolino suonava sul pavimento. Pochi secondi dopo, la signora Marianna apriva l'uscio dello studio, e si tirava da un lato, per lasciar entrare il nuovo venuto.
—Alla perfine!—non potè trattenersi dal dire Bonaventura, quando ebbe visto dinanzi a sè la faccia scialba del Bello.
Era per l'appunto il Bello, che padre Bonaventura aspettava; il Bello, che quel giorno mal rispondeva al suo nomignolo; colla zazzera bionda, ma un po' scarmigliata; le guance rosee come le mele cotogne, ma come cotogne avvizzite. La cascaggine delle membra, gli occhi rossi, cerchiati di giallo e male avvezzi ancora alla luce, dicevano chiaro che il Garasso aveva passata la notte fuori di casa, con grande rammarico della signora Momina. Del resto, sempre vestito colla sua popolesca attillatura; una giacca di panno del colore di fava secca; un fazzoletto di seta rossa sprezzatamente annodato al collo; i calzoni a quadrelli, anticamente del color del latte, ma ingialliti dall'uso; insomma, quell'Adone da quadrivio che i lettori rammentano.
—Signor mio,—disse egli, per rispondere alla esclamazione dell'altro,—sono appena suonate le dieci….
—Sì, sì, sta bene; non dicevo per questo;—ripigliò Bonaventura.—Mi sapeva mill'anni di vedervi a giungere, perchè il tempo stringe. Veniamo a noi; che cosa avete fatto?
—Non tutto; il Guercio non l'ho veduto.
—Dovevate trovarlo ad ogni costo;—rispose asciutto il gesuita.—Garasso, badate; ne va la vostra riputazione….—
Pareva che celiasse, il padre Bonaventura, con quella sua frase. Ma così non parve al Bello, che conosceva con chi avesse da fare, epperò sudava già freddo.
—Perdoni, illustrissimo,—diss'egli,—io non potevo fare il miracolo di…. non potevo essere in dieci luoghi ad un tempo. Vossignoria sa benissimo che iersera dovevo andare nella combriccola…. per pigliar lingua…. e penso che trattandosi d'una faccenda, la quale ha da esser finita domani a sera….
—Sì, sì, domani a sera;—interruppe Bonaventura;—ma intanto, se non m'industriassi io, non ci sarebbe mai nulla di fatto. Siete stato dal Ceretti?
—Illustrissimo, sì. Le sei divise son pronte in casa sua. Mastro Nicola se n'è andato ieri a Molassana; così il suo figliuolo, rimanendo solo in casa, avrà le mani più libere. Del resto, come ho già detto a Vossignoria, il Guercio è contentissimo, e non gli par vero di dover fare quella stupenda figura.
—Lo credo io!—sclamò Bonaventura.—Si piglia anche una bella moneta, per farla. E ditemi, la cassettina d'ebano?
—Sempre a posto, illustrissimo. Iersera ho veduto Michele, che ha trincato con me, e l'ho mandato cotto fradicio a casa.
—Vi rimarrà egli, domani a sera?
—Ah, credo di sì, perchè il Salvani non vorrà lasciar sola, in così grande trambusto, la sua sorella adottiva.
—Bisognerà farlo uscire con qualche pretesto;—notò Bonaventura.
—Sarà difficile, illustrissimo; tanto più che io dovrò essere al mio posto.
—Ah, ah!—disse Bonaventura.—Al vostro posto! voi? E dove sarà il vostro posto, di grazia?
—Sulla piazza della Nunziata. Il quartier generale è laggiù.—
Qui il padre Bonaventura si atteggiò dentro di sè ad uno di que' sorrisi invisibili che erano la sua consolazione, sorrisi dei quali c'è già occorso notarne parecchi nei suoi dialoghi col dottor Collini e col marchese Antoniotto, sorrisi somiglianti alla parentesi dei personaggi da tragedia, che l'interlocutore può indovinare, se è accorto, ma che non ode nè vede.
—Garasso,—diss'egli,—bisognerà che per domani il quartier generale rimanga senza di voi. Uno di meno nel gran numero non farà sconcio, voglio sperare, e non ci si baderà più che tanto.
—Oh, non è per questo;—rispose timidamente il Bello, che ben vedeva come il gesuita lo canzonasse, mostrando di pigliarlo sul serio;—è pel timore di quello che potranno dirmi poi, se non m'avranno veduto in compagnia.
—Ma dunque,—esclamò spazientito Bonaventura, piantando in viso al Bello i suoi occhi grifagni,—avevate proprio fermo in mente di andare a farvi accoppare anche voi? Bravo, Garasso, me ne congratulo colla vostra prodezza. Ma andiamo per la più breve, che in queste ciarle non si guadagna nulla, nemmeno il gusto di trovar chi le creda. Voglio darvi un consiglio da padre. Voi non siete mai stato alla guerra…. Neppur io, ma ve ne parlo d'udita. Fate domani a sera come tanti e tanti usano fare alla guerra. Statevene rannicchiato in qualche buco, fino a tanto che tuona il cannone e fischiano le palle. Poi uscite fuori e vi fate scorgere qua e là nei crocchi, dove ognuno ci ha da raccontare la sua. Qui tenete bordone a chi le sballa più grosse. Egli vi piglierà tosto per testimonio, e farà a sua volta testimonianza onorevole per voi. Una mano lava l'altra e tuttedue lavano il viso.
—Ella ci ha sempre la sua celia per tutti, illustrissimo!—disse il
Bello, ridendo.
—Perchè conosco un tantino gli uomini, Garasso, e conosco voi come tutti gli altri;—rispose Bonaventura.—Ora torniamo al fatto vostro; voi rimarrete domani a sera dal Ceretti, per invigilare il negozio, e al momento opportuno trarrete fuori di casa il Michele, con qualche frottola di vostra fattura. A voi queste alzate d'ingegno non mancano….
—Ha altro da comunicarmi?—chiese il Bello, inchinandosi a quella lode meritata.
—Sì, che troviate il Guercio, per dargli l'appuntamento ed esser sicuro di lui e de' suoi compari. Fino a domani, poi, cercherete di stargli a' fianchi, perchè non vi giri nel manico. Perciò vi consiglio, per questa sera, a lasciare in disparte anche la Violetta.
—O come!—esclamò il Bello, trasognato.—Ella sa?…
—So tutto, io. So che passate troppo di frequente la notte fuori di casa, e alla signora Momina, a quella santa donna—(Bonaventura disse proprio: santa donna)—fate veder lucciole per lanterne: che gli amici vi hanno trattenuto, che avete dovuto adoperarvi per me, eccetera, eccetera; e a me, poi, tocca rappezzare le vostre bugie presso quella megera innamorata. Basta, questa notte vi voglio veder di ritorno, a ragguagliarmi d'ogni cosa. Le due mila lire pei vostri compari le avrete a colpo fatto. E badate a non lasciarvi fuggire di bocca il nome di chicchessia; se no, metto fuoco alle polveri…. m'intendete?
—Oh, la non dubiti!—si affrettò a dire il Bello.—Ci ho troppi debiti con Vossignoria…. E poi, so bene come s'abbiano a maneggiare queste faccende.
—Benissimo, ora andate con Dio, e a rivederci stanotte.—Con queste parole il gesuita accomiatò il suo aiutante, e se ne tornò a passeggiare per la camera, stropicciandosi le mani.
—Ah, la vedremo!—andava mentalmente dicendo.—Domani a sera tenteranno la grande impresa per la liberazione d'Italia…. L'avranno, sì, l'avranno, l'Italia! L'avranno a Genova, a Livorno, a Napoli, e dovunque salterà loro il grillo di muoversi. E dire che se Bonaventura non era, se non li teneva d'occhio uno di questi poveri frati che i messeri del governo, per far cortesia alla plebaglia ubbriaca, hanno cacciato fuori come tanti lebbrosi, domani, sì davvero, sarebbero stati colti all'impensata! Che cime d'uomini! Ma vegliano per essi i lebbrosi, i reietti, e la Dio mercè comandano e comanderanno ancora un bel pezzo, a marcio dispetto dei libertini….—
Il monologo fu interrotto in questo punto da un altro de' sorrisi invisibili di padre Bonaventura. Il sarcastico uomo, non sapendo con chi pigliarsela, scherniva sè stesso.
—Adagio, Biagio! Tu vai mulinando una predica, come se si trattasse ancora di parlare ai fedeli nella chiesa di Sant'Ambrogio, o di tener bordone ai colleghi Curci e Bresciani sulla __Civiltà Cattolica__. Quegli arruffapopoli hanno la loro parte di ragione…. cioè intendiamoci, l'avrebbero, se venissero a capo de' loro disegni. __Post factum lauda__. Ora comandiamo noi ed abbiamo ragione noi; questo è il punto. Branco di pecore matte, che non s'avvedono del lupo! E più matti quei giovani presuntuosi che s'attentano di tenere il campo contro di noi. Il Salvani, il colonnello in erba, l'avrà domani, la sua, e più salata che forse non pensa. Quanto all'altro…. Oh ecco! questi ha da essere proprio il Collini; sono infatti le undici.—
Era una nuova scampanellata (i lettori già l'indovinano), che interrompeva ancora l'allegro monologo del gesuita.
Il dottor Collini, che infatti era egli, entrò nello studio del suo antico maestro.
—Oh, buon giorno; capitate proprio a tempo;—gli disse Bonaventura.
—Mi avevate detto di esser da voi a quest'ora, e sono puntuale;—soggiunse il Collini;—la puntualità è la cortesia dei principi, e dei medici.
—E qui poi, dove non c'è nè un suddito nè un ammalato,—ripigliò il gesuita,—bisognerà darvene lode due volte. Sedete e ragioniamo.
—Domani a sera, dunque,—incominciò il Collini ex abrupto,—metteranno il fuoco….
—Lo so.
—Il Mazzini è in Genova da parecchi giorni, e….
—Lo so.
—Il Salvani s'è riserbata l'impresa della Darsena….
—Lo so.—
Il dottor Collini, interrotto da tutti questi monosillabi, ammutolì.
—Orbene, non dite altro?
—Che ho più da dir io, se ad ogni capoverso delle mie notizie rispondete: lo so?
—E sta bene; so per l'appunto tutte le cose che volevate accennarmi; ma non c'è proprio altro, e di più rilevante, che pure avevate da dirmi?
—Non v'intendo, padre mio.
—Ah, vedo che bisognerà rinfrescarvi la memoria. Il negozio del vostro banco…. Come si chiama il vostro banco? Cardi e….
—Cardi Salati e compagni.
—Benedetto nome! Cardi Salati e compagni; me lo dimentico sempre. Or dunque, vi siete già intesi?
—Ma…. non ancora. Credevo che fosse un negozio poco urgente, da parlarne poi, a bell'agio e a mente riposata.
—No, no, v'ingannate, figliuol mio. È urgentissimo, anzi, e mi sta a cuore.
—Vi sta a cuore!—notò a denti stretti il Collini.—Io del resto ne ero già entrato, ma così alla grossa, e senza conchiuder nulla. Sapete che siamo cinque socii, che anzitutto a trovarci tutti insieme, e poi a persuaderci scambievolmente…. D'altra parte, si tratta di una somma ragguardevole, e di questi giorni non credo ci sia tanto danaro in cassa da poterne cavare tutto questo in una volta.
—Pretesti! ragazzate!—sentenziò Bonaventura. Queste cose s'hanno a poter fare in mezz'ora. Quanto al danaro, ne entrerà tutti i giorni. E poi, perchè lo tenete, se non per darlo a prestito e guadagnarvi su? Ora, questo negozio è d'oro, e così buone occasioni non capitano mica ogni giorno!—
Il Collini non rispose nulla a queste considerazioni; ma, con accento da cui trapelava un tal po' d'amarezza, ne fece egli un'altra al maestro.
—Avete una gran voglia di aiutarlo, questo nobile spiantato!
—Sì, non lo nego, gli ho posto amore;—rispose Bonaventura, facendo ballar tra le dita la stecca che aveva tolta dallo scrittoio; segno che incominciava a perder la pazienza.
—E perchè, in tal caso…. Scusate, padre, se vi parlo alla libera….
—Sì, dite, dite; c'è sempre qualcosa da imparare, a sentirvi.—
Il Collini fece una smorfia; ma proseguì:
—Perchè, in tal caso, non gliele date voi ad imprestito, le trentamila lire?
—Io non le ho.
—Potete fargliele imprestare dal suo nonno, che ha tanti conti da saldare!—incalzò il Collini.
—Ragazzo!
—Ragazzo! Me lo avete già detto troppe volte.
—Perchè siete tale, e non volete mutarvi mai. Uomini nati ieri, che v'impancate coi vecchi, e non sapete ancora l'abbiccì della vita! Sentite, Collini; siete stato mio scolaro, e non avete fatto mala prova. La gente vi ha stima, come medico, lo concedo. Ma voi dovreste pur ricordare che tutto ciò che siete ora, non è merito del vostro ingegno, sibbene di chi ha preso a proteggervi.
—E l'ho io mai negato?—chiese il giovine, non giungendo ancora ad intendere dove volesse andare il gesuita.
—No,—soggiunse questi,—ma col fatto mostrate di volervi ribellare a quando a quando. E ciò non va bene. Lasciamo stare la gratitudine, santa che non è sul vostro calendario; lasciamo stare anche il vostro tornaconto, che io serberò per le frutte; parliamo da amici, da gente che si conosce, e che ha da stare insieme come pane e cacio. Queste vostre ribellioni mi seccano. Siete fidato ed operoso ma nella vostra fedeltà e nella operosità vostra recate troppi difetti. E i vostri difetti, figliol mio, se durano, leveranno il pregio ai vostri servizi.
—Difetti….—si provò a dire il Collini.
—Sì, e non lievi. È il vostro vecchio maestro che ve lo dice, e che vuol darvi un insegnamento. Sarà l'ultimo. Volete che io vi dica quel che siete? Un cervello piccino. Ecco, voi eravate nulla, e da fanciullo, in collegio, portavate invidia ai più ricchi, ai più svegliati, ai più belli di voi. Una penna dorata, un calamaio, un astuccio di matite, messo in mostra da uno de' vostri fortunati compagni, vi facevano stare in broncio per intiere giornate. Non eravate ricco di biancheria, nè di quei gingilli con cui si adorna la gioventù, ed eravate lì sempre a tirarvi i manichini, a rassettarvi allo specchio. Sono inezie, scusate, ma dalle inezie del fanciullo fanno capolino i vizi dell'uomo fatto. Vi ricordate la scena col Pedralbes? Amore della nettezza, direte voi, e sarà; ma intanto, quando il Pedralbes, vostro vicino allo studio, nella camerata, ebbe a farvi schizzare per caso una macchiolina d'inchiostro sulla vostra camicia di lino, gli metteste rabbioso i pugni sotto il naso, e minacciaste di richiamarvene al rettore, se egli non vi dava in cambio una delle sue belle camicie di tela battista, che guardavate da un pezzo con tanta malinconia di desiderio.
—Ma Padre, queste piccolezze….
—Abbiate pazienza; ora vengo al buono. All'università non vi siete mostrato punto dissimile da quello che eravate in collegio. Eravate assiduo alle lezioni, sempre a capo della prima panca, perchè i professori vi vedessero pigliar note di continuo, far tesoro dei loro insegnamenti. Ed anzi, per non averne a perdere un ette, imparaste anche la stenografia, e notaste ogni cosa, perfino gli spropositi. I vostri compagni vi chiamavano lo sgobbone; ma voi non ve ne davate per inteso, e tiravate innanzi a studiare. Ciò tornava ad elogio vostro, sicuro; non già il ricusar che facevate i vostri quaderni ai compagni, quando all'avvicinarsi degli esami, taluno di essi faceva capo a voi, perchè gli dèste una mano. Ricordate il Cosmelli, che tenuto a bada dalle vostre mezze promesse, non ebbe poi i quaderni, e fu coperto di palle nere all'esame?
—Voi vi ricordate di molte cose,—entrò a dire il Collini, che s'andava contorcendo sotto i colpi del sarcastico aguzzino,—ma io ricordo altresì che allora voi stesso mi deste ragione, perchè il Cosmelli era figlio d'un liberale.
—Non si tratta di me, ma di voi;—disse Bonaventura di rimando.—Proseguiamo intanto. Più tardi venne il tempo di raccogliere ciò che avevate seminato; venne il tempo degli onori, dei guadagni e degli amori. La vostra passione suprema, l'invidia, si manifestò sotto tutte le forme. Volevate esser ricco, per andar di pari passo coi ricchi; del dotto invidiavate i ciondoli, dell'elegante la sciocca attillatura, del giovinotto più in voga le avventure galanti. Credo che se un giorno passando per via aveste veduto far ressa intorno ad un pagliaccio e ammirarne le capriole, avreste invidiato la gloria del pagliaccio. E le donne, come piacevano a voi? Perchè piacevano ad altri. E quali vi piacevano di più? Quelle che notavate più riverite, più decantate dal pubblico. Corteggiavate la Cisneri perchè attorniata di spasimanti; v'impuntaste ad ottener le sue grazie per soddisfare una smisurata vanità, e ci guadagnaste una briga con Aloise di Montalto. Volevate atteggiarvi da cavaliere, da spadaccino, per non parere, anche in questo, da meno dei più celebrati Don Giovanni; e ne avete riportato il danno le beffe. Nè vi basta; c'è ancora il desiderio di mettere il vostro cuore a' piedi della Torre Vivaldi. Crescono gli anni, la superbia del pari. Che diamine? la più ragguardevole dama, la più bella di Genova; e non ci saremmo un tantino anche noi, inginocchiati sul tappeto? C'è Aloise di Montalto, e noi no? Egli cercato, desiderato, voluto in casa dal marito, e noi no? Egli entrarci di primo acchito, laddove noi da due anni andiamo inutilmente implorando l'onore….
—E voi, padre, da due anni me lo contendete!—interruppe sdegnoso il
Collini.
—Io non vi ho conteso nulla,—rispose Bonaventura, con la sua pacatezza crudele.—In queste cose io non c'entro. Il marchese Antoniotto non può chiamarvi presso di sè come medico, dacchè ci ha il suo, del quale non ha ragione a lagnarsi. Come amico, non vi conosce: non siete della sua sfera, e non può nè deve sapere che voi desideriate tanto di entrare in casa sua. Aloise di Montalto è in quella vece un gentiluomo….
—Senza il becco d'un quattrino.
—Più o meno; certo non è ricco, ma gentiluomo.
—Or bene, se vuol quattrini, li pigli a prestito dai gentiluomini.
—Lasciatemi finire, e glieli darete voi.
—Sì,—gridò amaramente il Collini,—perchè possa pagare il __phaeton__ testè comperato a Milano; perchè si possa cavare il ruzzo di avere i due cavalli inglesi del principe Sobinski, e di sfoggiarla da gran signore sulla strada di Quinto….
—Sicuro, per tutte queste belle cose. Vedete, Collini, qui le vostre solite malinconie vi disaiutano, come sempre, e vi acciecano, come tante altre volte. Se foste un uomo avveduto, come vi dànno vanto di essere, avreste già capito che questo giovanotto manda le cose sue a rifascio; che con sette od ottomila lire di entrata, necessarie a vivere, non si possono far debiti senza mangiarsi il capitale. O che? vedete un giovine sodo, assennato fino al presente, il quale incomincia ad operare da pazzo, e non capite che le pazzie degli uomini sodi sono le più gravi e menano più rapidamente in malora? Per una vostra invidiuzza, per la soddisfazione di un momento, rinunziate ad una contentezza di tutta la vita? Venite qua, e consideriamo la questione da ambedue i lati. Entrate voi in casa Torre Vivaldi? No. Ed anco entrandoci, che fate? Nulla. Ve lo trovate di fronte, lui, sempre lui. Vi dà l'animo di romperla? Nemmeno. Ed anco se il cuor vi bastasse, vincereste il cuore di una donna come la Ginevra? Neppure. Egli ha gioventù, nome, bellezza, e non le ha baciato il sommo delle dita. Che otterreste voi, che non potete entrare in paragone con lui, e che al cospetto di quella avreste il gran torto di farle ricordare l'accaduto di San Nazaro? Ma guardate da quest'altra parte, la vendetta vera, la vendetta piena, la vendetta sicura. Tra un anno, Aloise è sul lastrico….
—Ah!—interruppe il Collini.—Così diceste il vero!
—È in vostra balìa che ciò avvenga. Non vi lasciate sviare dalla piccola invidia e della piccola vendetta; proseguite la grande. Ci guadagnerete voi, e non ci perderanno gli altri, che voi impacciate coi vostri rancori e le vostre imprese piccine. E qui torno al mio primo concetto, dal quale ho dovuto dilungarmi per voi. Obbedite senza disputare. La Compagnia, voi lo sapete meglio di tutti, non ha mai dimenticato i suoi fedeli. Essa ha il suo tornaconto a farvi salire, perchè altro è il servigio reso dal basso, altro il servigio reso dall'alto. Non mi parlavate voi d'un matrimonio? Orbene, io posso farvi contento, quando avremo dipanata tutta questa matassa.
—Ma….—disse il discepolo a cui gli occhi sfavillarono subitamente,—quel nobilume accetterà d'imparentarsi con me?
—Perchè no, se noi lo vorremo? La fanciulla non ha volontà. Il consiglio di famiglia è tutto cosa nostra. Quanto alla nobiltà, siete un uomo per la quale; da due anni cavaliere; tra pochi giorni potrete essere uffiziale, e commendatore al tempo del matrimonio. Vi si farà eleggere deputato, se occorre. Farete una professione di fede costituzionale. Insomma, salirete, e i vostri nemici saranno nel fango.—
Abbacinato da tutte quelle grandezze che il maestro gli sciorinava sugli occhi, il Collini rimase un tratto sovra pensiero; quindi alzando la fronte e scuotendo il capo come uomo che ha pensato il pro ed il contro, rispose:
—Orvia, capisco che bisognerà fare a modo vostro. Il Montalto avrà domani le trentamila lire.
—Ah, così vi voglio!—soggiunse Bonaventura, alzandosi da sedere.—Ma badate; lettere di cambio! lettere di cambio! È vanaglorioso e vorrà pagare alla scadenza; perciò si voterà anco al diavolo, e in cinque giorni venderà per trenta ciò che vale sessanta. Voi mi capite.
—Oh, non dubitate. Padre mio; gli costeranno salate, quelle trentamila lire. Scadenza a tre mesi!
—__Optime, fili mi__; e lasciatevi vedere domani, che oggi s'è lavorato abbastanza.—
Nel quale i lettori non genovesi impareranno chi fossero Barudda e
Pippía.
Noi lasceremo adesso il padre Bonaventura alle sue cure, e terremo dietro al Bello; il quale, dopo aver fatto una lunga sosta nella sala da giuoco della bottega da caffè del Gran Corso, dopo aver salutata la Violetta e chinata pazientemente la testa a tutti i suoi mattutini capricci, dopo essersi bisticciato a tavola colla sua cara metà e aver misurato una mezza serqua di ceffate alle sue guance carnacciute, se n'è uscito zufolando dal tetto maritale, per andarsene a fumare un mezzo sigaro fuori di Porta Pila, tanto per far giungere l'ora di andare dai Servi, dove avrebbe potuto, all'imbrunire, far l'ambasciata di padre Bonaventura.
Gli stava a cuore di render servizio al gesuita. I lettori che ci hanno seguitato fin qui, sanno che legami corressero tra i due. Bonaventura conosceva tutte le marachelle del Bello, e lo teneva come la biscia all'incanto. Talvolta, poi, quantunque non volesse confessarlo al Collini, gli lasciava cadere di bei contanti tra le mani, in premio de' suoi servigi, e segnatamente per quest'ultimo gli aveva promesso un largo beveraggio. Su questo faceva assegnamento il Bello, ed anche sulla metà di quelle duemila lire che il gesuita gli aveva a snocciolare per la magna impresa del Guercio.
I denari non duravano molto nelle tasche del Garasso. Contrariamente a quella tal borsa della favola, dove tanti ne toglieva il felice padrone, altrettanti ne germogliavano dal fondo, quella del nostro Adone, più egli ce ne metteva, più sempre era vuota. Laonde, si sarebbe potuto paragonarla a que' terreni sabbiosi che appaiono asciutti e screpolati mezz'ora dopo il temporale, a cagione del sole che, dardeggiando assiduo dall'alto, li va prosciugando di continuo. E il sole del Bello era la Violetta, quella Violetta che l'aveva stregato, per la quale si metteva sotto i piedi le gioie sacramentali, e torceva gli occhi dalle bellezze stantìe dell'amorosa consorte.
La Violetta era una di quelle donne che non si sa donde siano venute, nè dove vadano a finire; talvolta condotte al male dalla turpe miseria, più spesso dal lusinghevole esempio del lusso delle loro sorelle in Eva; fuorviate qualche volta da Alcibiadi spiantati, presso cui riempiono gl'intervalli (ahi troppo lunghi!) di più superbi amori; più spesso da logori Cresi, che esse consolano della freddezza o del tedio domestico; che poscia, avvezze al mercimonio, passano di mano in mano senza arrossire, come le cartelle del debito pubblico, e, ragguagliate da principio a cento, valgono ottanta da capo, oscillano insomma, oscillano sempre tra il più e il meno, tra il meno e il più, secondo i capricci del caso e la credulità della gente.
Costei ci aveva i suoi trenta suonati; però lasciamo argomentare a voi se non avesse oscillato. Aveva già dato il pretesto ad una separazione di coniugi; mandato due cassieri in Isvizzera ed un mercantuzzo in prigione per bancarotta fraudolenta; spennacchiati cinque o sei figli di famiglia, e messo un tutore al punto di non poter rendere i conti ai pupilli. Il resto si omette per brevità.
Vi basti sapere che da qualche tempo era scaduta un tantino, e aspettava la rivincita dal mondo ingrato, vivendo in un quartierino modesto, che si apriva a pochissimi; andando di rado per le vie, ma sempre contegnosa come una vedovella che non vuol sentir parlare di Cupido se non è accompagnato dal suo collega Imeneo: mostrandosi nei teatri a tutte le prime rappresentazioni, e non accettando, da quei pochissimi che abbiam detto, altro che fiori e cartocci di zuccherini; segno che li teneva a stecchetto. Nessuno sapeva dond'ella cavasse i danari, per menar quella vita; si facevano chiacchiere di molte, e senza dare nel segno. Era ciò che ella voleva; il resto sarebbe venuto da sè.
Questa cartella che s'industriava a crescer di prezzo, in un mondo il quale non cura che il valsente, al cospetto di uomini i quali stimano e ragguagliano tutto a lire e centesimi, virtù, vizio, dolore e piacere, era posseduta segretamente, o, per dir meglio, era lei che possedeva il Garasso. Egli, corto ingegno ed uomo volgare, non sarebbe mai venuto a capo d'indovinare i fini riposti di quella donna, che lo chiamava __biondino__ e lo comandava a bacchetta. Essa lo accoglieva e lo rimandava quando le mettesse conto; gli teneva il broncio, e col broncio la porta chiusa, per intiere settimane; poi lo racconsolava con mezze carezze. Ed egli durava quella vita, metteva fuori quattrini, e gli pareva ancor grazia. Quella fragranza, anche viziata, di donna elegante, era una certa novità che egli non aveva sentito mai, egli stropicciatosi per tutta la sua gioventù con gente da taverna e da bisca. In quella casa si sentiva odor di giaggiolo; colà passeggiava su d'un tappeto di lana, in mezzo a pareti coperte di carta felpata, e sedeva su d'un canapè foderato di velluto, mezzo seta e mezzo cotone.
Qualche volta (e questo era avvenuto per l'appunto in carnevale) la Violetta non aveva reputato disdicevole alla sua dignità di indossare le umili vesti della popolana, e imbacuccata nel mèzzaro far le notturne scappate con lui, gongolante e pomposo, nelle festicciuole della bordaglia. Quella era una degnazione! Se la signora Momina l'avesse veduta, e avesse potuto sollevare la maschera di quella femmina che posava audacemente il suo braccio su quello del suo maritino, certo sarebbe morta d'apoplessia. Ma egli era così felice a sentirlo sotto il suo, quel braccio delicatamente tornito! Quella bocca mezzo nascosta dal pizzo della maschera, sapeva bere con tanta grazia lo sciampagna apocrifo delle trattorie! E quando aveva bevuto, sapeva dirgli tante tenerissime cose! __In vino veritas__, avevano sentenziato gli antichi, e gli antichi la sapevano lunga. Dunque essa lo amava, non amava altri che il suo biondino, essa, corteggiata, desiderata da tanti pezzi grossi, che le recavano inutilmente i fiori e i cartocci di zuccherini!
Da parecchi giorni la maliarda ci aveva delle voglie pazze. Il suo salottino non le andava più a' versi, e bisognava metterlo a nuovo, sacrificando il vecchio velluto rosso ad un fresco ed elegantissimo tessuto verde a cordelloni. Abbiamo dimenticato di dirvi che la Violetta era bionda, epperò il verde le andava a capello.
Il biondino non diceva mica di no; ma in quel mese egli aveva già speso molto per lei, e la vena del giuoco, da cui cavava una parte de' suoi guadagni, dava uno scarso zampillo, a cagione dell'estate che sparpagliava i merlotti fuori del nido. Ora non è a dire se i denari del gesuita venissero a taglio, e se per guadagnarli egli ci andasse di buone gambe.
Con questi pensieri in capo, come gli parve ora da ciò, rifece la sua strada, e giunto ai quattro canti di Portoria tirò da mancina per la piazza di Ponticello e pel borgo de' Lanajuoli fino alla via dei Servi, dove andò ad infilare un buio portone, il quale era sormontato da una nicchia, con entro una Madonna di gesso, tinta di giallo, e onorata di una lanterna dalla pietà del vicinato. Un'altra lanterna splendeva nell'androne, tanto per lasciar leggere, sulla tela trasparente che le stava tesa sul maggior lato, la scritta seguente: «__Teatro del Forte in gamba.—Questa sera si recita.—Entrata: dieci centesimi__».
Il Bello si affrettò per una scala umidiccia e logora dal lungo uso, col passo spedito di un uomo assai pratico del luogo. Al primo pianerottolo una lucerna a riverbero, appiccicata al muro, rischiarava il cartellone dello spettacolo, che diceva così:
DON GIOVANNI BASTARDO D'AUSTRIA
con Barudda padre guardiano e Pippía converso
nel monastero di San Giusto.
Il teatro era al primo piano, e ci s'entrava sollevando una cortina unta e bisunta, proprio di rincontro alla lucerna e al cartellone che v'abbiam detto. Figuratevi un camerone, una stamberga dalle pareti ruvide, disuguali, il cui intonaco, nelle sue frequenti sfaldature, mostrava sei o sette mani di bianco datevi su da altrettante generazioni, con uno zelo degno di miglior causa. Lo zelo dell'ultimo padrone si chiariva altresì da certe strisce di carta tinte di terra rossa, che la pretendevano a simulacri di colonne, e da certi sgorbi d'ogni colore che volevano parer fregi, festoni, fioroni, ed altri consimili ornamenti. Dalle nere travature del soffitto pendeva una specie di lampadario spento, che sembrava piuttosto un arnese da pigliar mosche, e che si accendeva solo nelle grandi occasioni, vogliam dire allorquando la sala diventava una festa da ballo, e il palco del teatrino si tramutava in orchestra. La luce fioca che stenebrava il camerone, si spandeva per consueto dai fungosi lucignoli di due lumi a stella, le cui spere di latta pendevano dalle pareti, l'una di rincontro all'altra, e non venivano a capo di confondere i loro riverberi nel mezzo della sala.
Nè vanno dimenticati due cartellini, scritti a stampatello, l'uno de' quali accennava alla vendita di birra e gassosa, e l'altro significava il divieto di certi servizi che avrebbero potuto danneggiare l'intonaco. I lettori discreti intenderanno la perifrasi. Il pavimento era di mattoni, che, stropicciati un tal poco, svolgevano in aria una finissima polvere rossigna; ma il Forte in gamba li risciacquava diligentemente ogni giorno, per non levare addirittura il respiro al colto pubblico che veniva ogni sera a sedersi e a far baccano sulle dieci panche zoppe e sconnesse della platea.
Il Forte in gamba, così detto per ironia, e contento del suo battesimo per modo che egli stesso s'era pigliato quel nome e messolo per insegna del suo teatro, era un uomo sui quarantacinque, o in quel torno, dal viso buffonescamente arcigno, dal mento sporgente, dai capegli rabbuffati che gli uscivano per tutti i versi da un vecchio berretto della guardia nazionale. E non dimentichiamo, ad onore del suo soprannome, che aveva le gambe fuori di sesta. Era egli il primo attore della sua compagnia di fantocci; suo figlio l'aiutante; sua moglie, od altro che fosse, faceva le parti di donna; in tre parlavano per dieci. Qualche volta l'uditorio strepitava; la ragazzaglia scontenta scagliava sul palcoscenico i turaccioli delle bottiglie stappate e le bucce delle melarance mangiate. Ma allora, bisognava vedere! Il dramma s'interrompeva; la prima donna restava lì, colle braccia in aria; il primo amoroso in ginocchio davanti a lei, ma collo smalto degli occhi verso gli spettatori; e da una cortina di fianco alla scena sbucava il berretto di guardia nazionale colla zazzera scompigliata dell'impresario, e una voce sgarbata tuonava all'assemblea.
—Furfanti! canaglia! Or ora vi accomodo io….
—Forte in gamba! Forte in gamba!—gridavano i ragazzi.—Badate che non vi si rompano gli __esse__.—
Gli __esse__ erano le gambe del nostro primo attore, e non è a dire come gli cuocesse lo scherno.
—Ah, sì, pendagli da forca? Gli esse? Ora ve li do io in quel servizio, gli esse! E tu che ridi, e mi fai le fiche, figlio di…. aspetta a me!
—Non son io. Forte in gamba, non son io che ho tirato!—urlava il ragazzo mal capitato, a cui l'impresario, uscito dalla sua tana, ministrava una correzione esemplare.—È quell'altro…. il figlio della Rossa.
—Sì? il figlio della Rossa? Orbene, tu pagherai per lui e per te!—
E lì una gragnuola di busse, un baccano, un diavoleto. Il Forte in gamba, che era arrogante come tutti i segnati da Dio, l'avrebbe fatta a tu per tu con Sansone, e soleva dire che non aveva paura nemmeno di cento. Bisognava sentirlo, quando, invece di ragazzi, erano uomini fatti che gli davano la baia!
—Malandrini! tagliaborse! Andate in chiesa a fare il vostro mestiere, a guadagnarvi la protezione di Sant'Andrea, che vi farà rivedere il sole a scacchi. Zitto là, mascalzone! È questa la scuola che t'hanno data in Oneglia? Voglion ridere de' fatti tuoi i mùggini della Siberia, quando ballerai la monferrina sul Molo vecchio! Tacete, voi, stradina, giubilata del Laberinto, buona a nulla, nemmeno a far la pappa al diavolo, nella cucina delle streghe!—
Queste gentilezze (delle quali i lettori non genovesi potranno intendere qualcosa, quando sappiano che a Sant'Andrea erano le carceri, sul Molo vecchio le forche, a Oneglia il penitenziario, e al Laberinto, sulle mura delle Grazie, l'infimo ritrovo di…. tutto quel che vorrete) queste gentilezze, diciamo, ed altre simiglianti, non avevano mai conseguenza di busse. Si rideva, si sghignazzava, si faceva rimando d'ingiurie, fino a tanto che il Forte in gamba, sentendosi stracco di lingua, non reputasse miglior partito rientrar nelle quinte co' suoi fantocci e ripigliar lo spettacolo al punto in cui lo aveva lasciato.
E adesso che avete potuto congetturare, dai battibecchi dell'impresario coll'udienza, che razza di gente bazzicasse in quella stamberga, non sarà male che diciamo alcun che delle rappresentazioni. Il teatro del Forte in gamba era celebre, come il suo padrone, in tutto il popoloso quartiere dei Servi, e in altri circostanti, che gli mandavano ogni sera il loro contingente di spettatori. Colà si recitavano drammi stupendi, come il __Guerrin meschino, i Reali di Francia, la Bella Maghelona, Ginevra di Brabante__, ossia il __Trionfo della virtù__, e commedie da sbellicarsi dalle risa, come i __Tre gobbi__, il __Flauto magico__, la __Serva padrona__, ed altre imitazioni di commedie e d'opere buffe dei maggiori teatri, ma sempre, nelle commedie e nei drammi, introducendo per amore o per forza i due personaggi di Barudda e Pippía, senza i quali il dramma non sarebbe stato un dramma, e la commedia non sarebbe stata una commedia, pei frequentatori del teatro. Il Forte in gamba s'era qualche volta arrisicato a calzare il coturno, cioè, intendiamoci, a calzarne i suoi fantocci, rappresentando qualche tragedia, come l'__Oreste__ dell'Alfieri; ma in questo caso Oreste era Barudda, e Pilade, l'amato Pilade, assumeva il nome e le spoglie del collega Pippía.
Chi erano questi personaggi? Oramai s'è indovinato; erano maschere del teatro popolesco di Genova. Ma quello che molti non sapranno ancora, e che bisognerà dire, si è che queste erano, e sono pur tuttavia ignobili maschere, e da non potersi dicevolmente raccomandare ad ogni ragion di lettori.
Barudda, il più notevole dei due, parla continuamente furbesco, e vi accompagna sempre le parole, anzi le sillabe, con suoni sconvenevoli. Gli è un tipo di screanzato. Ha un viso tozzo, avvinato, bitorzoluto, e va quasi sempre in maniche di camicia. Pippía non è altro che un suo scolaro degnissimo; mingherlino, pallido (come il __morticino__ dei vecchi fiorentini) col viso tirato a costa di spatola; va sulle pedate del sozio, quanto a morale, ma in genere non gli contende il privilegio dei suoni anzidetti; del resto parla furbescamente come lui, ma con un vizio di pronunzia che gli fa mettere la lettera Ve dappertutto. Egli, verbigrazia, vi dirà ova in cambio di ora, e per dirvi __vengo__ vi dipanerà un __vvvv….engo__, da non finirla più.
E questi due personaggi senza legge nè fede, quantunque chiusi nella ristretta cerchia d'un quartiere di Genova, hanno tre o quattro stamberghe per sè, dove attirano quella udienza che abbiam detto, e tutti i curiosi più arrisicati di altre classi, i quali volendo guadagnarsi il titolo di «Ligure istrutto nella sua patria» non si peritano di portare in quei luoghi il loro cappello a staio, che non sempre ne esce sano. Il lettore conosce certamente di fama alcuni di questi teatri; quello del Forte in gamba, celebre ai tempi di cui raccontiamo, è chiuso da un pezzo, nè sappiamo il perchè. __Habent sua fata Baruddae__.
La rappresentazione del __Don Giovanni, bastardo d'Austria__ era cominciata da un pezzo, quando il Bello entrò nello stanzone. Le prime panche erano stipate di gente: ma tra perchè tutti erano intenti allo spettacolo e non mostravano altro che la collottola, e perchè una fitta nube di polvere e di fumo ingombrava la sala, il nostro eroe non venne a capo di distinguere alcuno degli spettatori.
Egli era andato verso la parete, dove era vuoto il sommo d'una panca. Colà, messosi a cavalcioni, colle spalle al muro, aspettò che la nuvola si diradasse, o che i suoi occhi, avvezzati alla mezza luce della stamberga, gli facessero servizio migliore.
Una femmina, che stava seduta in un angolo, si alzò come lo vide e mosse alla volta di lui. Costei, che non doveva essere stata brutta alcuni anni addietro, ma che le consuetudini di una mala vita avevano sciupata anzi tempo, male in arnese, discinta, con le trecce rossigne scompigliate dagli atti maneschi della pubblica benevolenza, era la tavoleggiante del luogo, e veniva a chiedergli, con aria di vecchia conoscenza, se volesse da bere.
—Sì,—disse il Garasso, dandole un pizzicotto sulle guance avvizzite,—portami una mezza bottiglia di birra, ma che faccia spuma.
—Non dubitate. Bello,—rispose la femmina, schermendosi destramente dalle sue carezze,—è birra __numero uno__.
—Come il tuo primo amante, che Dio l'abbia in gloria?
—Che? lo fate già morto?
—E seppellito da vent'anni, Maddalena.
—Eh, lo so pur troppo, di non esser più bella, nè giovine! Ma un tempo c'è stato che non parlavate così neppur voi.
—Sì,—soggiunse il Bello,—quando non avevo ancor fatto gli occhi.
Ma, a proposito d'occhi, dov'è il tuo innamorato, ch'io non lo vedo?
—Se li avete ora, cercatevelo! Io non l'ho mica in tasca.—Tra queste chiacchiere, Maddalena aveva presentato al Bello il vassoio di ottone, con suvvi il bicchiere e la mezza bottiglia di birra. Allo scoppio del turacciolo che saltò in aria, parecchi spettatori si volsero, ma tra quelle facce patibolari, il nostro eroe non riconobbe quella del Guercio che andava cercando.
—Che non ci fosse!—diss'egli tra sè.—Per solito egli non manca mai.
Ho fatto male a dar la baia a Maddalena.—
Con questo pensiero in capo egli si volse alla femmina, porgendole il bicchiere con atto di popolesca cortesia.
—Maddalena, bevete.
—Non ho sete, io.
—Bevete, via, non mi tenete il broncio.
—Io non l'ho con nessuno.
—Oh sì, l'avete con me, con un vecchio amico….
—Tutti amici ad un modo, quando mi pagano.
—Orbene, io vi pagherò la mezza per intiera, purchè facciamo la pace. Suvvia, Maddalena; non vedete che ho fatto per celia? Ditemi, quando sentiremo le denunzie nella chiesa dei Servi? Il Guercio vi ha pure promesso di darvi presto l'anello!
—Oh, siete tutti d'una pasta, voi altri uomini! Così non avessi mai dato retta ad alcuno! Non avrei logorata la mia giovinezza, e sarei rispettata un pochino di più.
—Non pensate a queste sciocchezze, Maddalena; il Guercio vi vuol bene. L'altro giorno ancora me lo diceva; se faccio tanto di guadagnare certi quattrini, vo' metter su casa e sposarmi la Rossa.
—Non li guadagnerà mai,—rispose Maddalena rabbonita,—e non metterà su casa, e non troverà mai il giorno nè l'ora di mantener le promesse.
—Voi vedete tutto nero; e se egli sapesse che voi ci avete così poca fede….
—Ohè, da poppa!—tuonò improvvisamente una voce stentorea dalle prime panche.—Fate silenzio!—
Una risata universale tenne dietro al comando. Maddalena confusa volse le spalle, e andò a rincantucciarsi sollecita. Il Bello stette fermo, come se non avessero detto a lui, e poichè non gli era dato saper nulla di ciò che voleva, si fece a guardare la scena.
L'uditorio quella sera non era contento del Forte in gamba, perchè già si era al secondo atto, e Barudda e Pippía non avevano ancora mostrato il grugno. Questi erano tiri non infrequenti dell'accorto impresario, il quale non amava spendere ogni sera i pregi singolari di quella artistica coppia, e di tanto in tanto metteva fuori certi drammi, nei quali Barudda e Pippía non avevano che una particina da nulla. Ma allora l'uditorio, desideroso più che mai di sentirli, faceva baccano, e per la sera seguente si era certi di averli in scena dal principio alla fine del dramma.
Il Bello, come dicemmo, si fece a guardare la scena, dove Filippo II, vestito con quello sfarzo che i lettori potranno argomentare, stava dichiarando l'amor suo alla prima donna. La quale, non volendo saperne di lui, e messa alle strette dalle troppo vivaci espressioni della sua regia benevolenza, gli diceva:—scostatevi, sire; io sono un'ebrea.
—Un'ebrea!—gridava il re, che odorava il Sant'Uffizio. E non potendo impallidire, poichè non glielo avrebbe consentito il colore ad olio, nè la sovrapposta vernice, balzava indietro come uomo che si avveda di aver posto il piede sulla coda d'un serpe.
Ma l'udienza, che non partecipava agli scrupoli nè alle paure del re, gli dette apertamente dell'asino.
—E di che diamine avete paura, signor re?—gridava uno degli spettatori.
—Ve' come gli è sbollita, a quel re!—soggiungeva un altro.
—Ce ne vorrebbe uno che conosco io; e vedere se si tirerebbe indietro come lui!—
Questi ed altri consimili erano i discorsi; ma quinci e quindi uscivano, al ricapito del povero Filippo II, altri suoni, che Dante si sarebbe provato a descrivere con qualche vigorosa terzina, ma che noi non ardiremo neanche accennare in un periodo di umilissima prosa.
Il monarca di quello Stato su cui non tramontava mai il sole (come fu detto nello stile cortigiano del suo tempo) faceva intanto la più trista figura del mondo. Voleva parlare, e le sue parole erano soffocate dal tumulto popolare. Anche la prima donna era sgomentata, e agitava le braccia verso la platea, quasi chiedendo, in nome del rispetto dovuto al bel sesso, un po' di silenzio. Ma sì, altro che silenzio; la burrasca ingrossava.
—Vada via il re, e venga Barudda!
—Sì, Barudda e Pippía!
—Signori, mi avete già rotte le scatole,—rispose dai cieli del palcoscenico la voce dell'impresario.
—Le romperemo a te. Forte in gamba,—ribattè dalle prime panche della platea un'altra voce, che fece rizzar la testa al Bello;—le romperemo a te, se non ci dai Barudda e Pippía. Quelli sono amici che si può starli a sentire, perchè non hanno tante fisime, come il tuo re, che il diavolo lo porti.
—Guercio, un po' di pazienza!—disse il Forte in gamba, senza uscire dal suo nascondiglio.
—La pazienza l'hanno i frati!
—Bravo! e Barudda, che è frate nel monastero di San Giusto, ha la pazienza che manca a voi altri. Aspettate che la scena sia nel convento, e lo vedrete.
—Fatecelo vedere fin d'ora,—interruppe dal suo posto il Bello,—tanto da assicurarci che non l'avete messo in pegno per pagar le tasse.
—Sì, benissimo detto, fatecelo vedere!—
Come i lettori intenderanno, l'attenzione dei tumultuanti s'era un tratto rivolta al nuovo interlocutore. Era ciò ch'egli voleva, poichè in quella occasione gli occhi, o, per dire più veramente, l'occhio buono del Guercio si volse a lui e riconobbe l'amico. E l'amico gli fece un cenno che voleva dire: son qua e mi occorre parlarvi.
Frattanto, a chetare il tumulto comparve Barudda al proscenio, e senza riguardo alcuno per Filippo II e per la prima donna, salutò l'udienza con uno dei soliti suoni, per vibrare i quali egli non aveva neppur bisogno di farsi arco alle labbra col pollice e coll'indice tesi.
Quello era il __quos ego__ di Nettuno ai venti scatenati, e bastò a ricomporre ogni cosa. Un applauso universale accolse il prediletto personaggio, che si affacciava alla ribalta in tonaca da frate; poi fu un silenzio, universale del pari, per starlo ad udire.
Noi non abbiamo la sciocca presunzione di metter qui la predica di Barudda in tutta la sua nativa energia; che a far tanto ci vorrebbero molte cose; verbigrazia la facoltà di scrivere in vernacolo, con tutti i traslati, con tutte le licenze del gergo, con tutte le esorbitanti libertà del trivio, e la potestà di condire ogni frase coi larghi partiti dell'armonia imitativa, che è propria alla maschera di Barudda. I lettori discreti si contentino di un pallido compendio.
—Mascalzoni! screanzati! feccia di furfanti! Non rispettate dunque più nulla? nemmeno il __Sire__, che si è scomodato pei vostri grugni? Badate a voi, __buone voglie__, pendagli da forca! Se la va nell'orecchio all'assessore, vi manda tutti in galera senza processo. Belle cose, bravissimi! Io me ne stavo tranquillo a dire il breviario….
—In cantina,—interruppe una voce dalla platea.
—Ah! mangiate la foglia, birbe matricolate? Orbene, sì, stavo a berne un __nitro__ in cantina, e mi avete fatto perdere il filo del salmo.
—E Pippía?—domandò un altro.
—Pippía sta in cucina, presso i fornelli, a picchiarsi il petto e a pregare per la dannazione delle anime vostre. Il cuoco ha fatto una salsa nella quale vorrei cuocervi tutti, quanti siete, figli di galeotti, nipoti di impiccati, che mastro Nicola abbia presto a darvi la pedata anche a voi! Mi avete visto, ora? mi avete sentito? Andate in vostra malora; quando verrà il mio giro, mi vedrete da capo. __Sire__, Lei continui a dire le sue, e se fanno un'altra volta baccano, faccia calare il sipario. Addio, dunque, mascalzoni! Vi voglio bene. Amo meglio i morti che i vivi.
—__Ovvva__!—sclamò una voce dalle quinte, che fu tosto riconosciuto esser quella del socio Pippía.
Barudda diè fine alla predica con un altro e più romoroso de' suoi amabili suoni, al quale uno spettatore rispose per tutti: «buon pro' vi faccia!» e se ne andò pe' fatti suoi.
Così ebbe fine l'episodio, o, come dicono in Parlamento, __fu chiuso l'incidente__. Intanto il Guercio aveva saltato le panche, ed era venuto di costa al Garasso, che lo aspettava.
—Oh, eccovi qui, buona lana!—disse il Bello.
—Presente!—rispose l'altro.—Volete che andiamo a bagnarci il becco?
—S'intende. Ho da parlarvi a lungo.
—E anch'io, perdinci!
—Che ve ne pare?—disse il Bello.—Andiamo dalla Piccina? Laggiù ci si sta come papi.
—No, non ho tempo da perdere. Andremo qui presso, a dare una scorsa all'Acquasola. Tanto, per me la è tutta strada. E poi, lassù non avremo cattivi vicini. Che cosa ne dite?—
Il Bello, sulle prime, aveva arricciato il naso a quella proposta del Guercio. Ma egli aveva anche posto la mano sulla tasca, come per tastare qualcosa che v'era dentro, e il buon esito della sua ispezione lo aveva raffidato; però rispose al compagno:
—Come vorrete, amicone. Andiamo all'Acquasola.—Sull'uscio della stamberga trovarono Maddalena, a cui il Guercio, passando rasente, diede con garbo popolesco un colpo di spalla.
—Socia, vi saluto.
—Ed io vi contraccambio;—rispose asciutto la femmina.
—Che cosa avete, stasera?—chiese il Guercio, fermandosi sui due piedi.
—Andate là, che siete un bell'arnese!—disse Maddalena.—Mi avevate promesso di venire a casa, e andate già coi compagni.
—Nena, vi ho promesso, ma l'uomo propone e il diavolo dispone. Ho una faccenda per le mani, che mi preme…. e il Bello vi dirà…..
—Sì, sì, il vostro compare bugiardo…. Voi altri uomini vi sapete spalleggiare come va. Una mano lava l'altra….
—E tuttedue lavano il viso;—soggiunse il Bello ridendo.—State di buon animo, Maddalena; quando avremo dato sesto alle cose nostre, il Bastiano vi sposerà, ed io verrò alle nozze.—
Bastiano era il nome del Guercio. Maddalena non rispose altrimenti che con una crollata di spalle, la quale voleva dire: «se dessi retta a voi altri, dovrei credere che adesso è giorno chiaro».
I due compari non istettero più oltre a disputare con lei, ed
infilarono le scale. Noi terremo dietro a costoro, poichè da Barudda e
Pippía abbiamo spremuto quel tanto che si poteva, e colla ganza del
Guercio non abbiamo nulla a strigare.
Nel quale è dimostrato che una ne pensa il ghiotto e un'altra il tavernaio.
Il Guercio era un coso smilzo smilzo, che parea fatto a posta per uscir da ogni fesso, a guisa delle lucertole. Aveva la faccia scura e di poca apparenza, come un fico d'inverno, i capegli neri, ruvidi e corti, come le poche setole che gli ombreggiavano le labbra sottili. Il segreto della sua età era custodito dalle membra segaligne assai meglio che non lo custodiscano alle signore donne i cosmetici, le polveri e tutte le altre diavolerie che si mettono addosso. Lo chiamavano il Guercio, perchè nel dialetto genovese dicendosi guercio non già a chi ha gli occhi torti, ma a chi vede da un solo, egli per l'appunto ci vedeva solamente dall'occhio destro, e l'altro, il sinistro, era imperlato d'una maglia bianchiccia, la quale pur troppo non gli aggiungeva in bellezza quello che gli toglieva in potenza visiva. Cionondimeno, bisognerà soggiungere che il fratello superstite gli facesse un doppio servizio, perchè dov'egli adocchiava, le mani correvano spedite e sicure.
Era questi il peggiore ribaldo che si potesse immaginare. Adolescente, aveva bazzicato più assai nell'ergastolo che non nelle scuole; per contro, sapeva leggere, scrivere, e far d'abbaco, poi, come un provetto ragioniere. Nei ritagli di tempo che gli avanzavano dalle sue faccende, il Guercio leggeva volentieri, e mai di politica. I suoi libri prediletti erano i melodrammi del Metastasio, l'__Aristodemo__ del Monti, le favole del Pignotti, e tutti i romanzi pastorali e cavallereschi che si vendono sui muricciuoli. Tanto per darsi aria di guadagnare onestamente il suo pane, aveva un mestiere visibile, innocentissimo, diremo anzi bucolico; faceva il pollaiuolo. Il vino non gli dispiaceva punto; ma sapeva esser sobrio, come tutti gli uomini che hanno un alto disegno da proseguire, un gran concetto da far trionfare sulla terra.
Ma siccome non c'è niente di perfetto in questo basso mondo, così neanche il Guercio era perfetto, e ci aveva egli pure il suo lato debole come tutti i figli d'Adamo. Ora il lato debole del Guercio era il cuore; il cuore che si sentiva palpitare in seno, ogniqualvolta pensasse (e ciò gli occorreva sovente) ad una modesta casetta sui Gioghi, dove sarebbero bastati al suo bisogno i più famosi alimenti bucolici, mele, ballotte e latte rappreso; una casetta, insomma, un poderetto, nel quale avrebbe potuto ridursi a finire i suoi giorni con Maddalena; con Maddalena, avvizzita, scaduta, ma che lo aveva amato, lui Guercio, per la sua smilza persona, non già per i suoi quattrini, come tante altre; con Maddalena che non chiedeva nulla; con Maddalena che egli percuoteva talvolta, ma che s'era assuefatto a vedere e ad amare. Frattanto, aspettando il giorno che l'avrebbe tirata a stare con sè, stava tranquillamente con lei. La qual cosa non parrà che faccia un gran divario dall'altra; ma noi raccontiamo le cose come sono, senza togliere nè aggiungere un ette.
Nel suo mestiere nascosto (del visibile non rileva parlarne) non aveva ancora fatto roba abbastanza. Da giovine era stato disgraziato, come abbiam detto, e aveva salutato frequentemente il sole a quadrelli; oltre di che, non aveva saputo tener conto del fatto suo, se pure è lecito di chiamar fatto suo il frutto della rapina. Ora egli s'industriava a guadagnare il tempo perduto, ed aspettava molto da un certo colpo che a lui e a cinque compagni avesse dato modo di acciuffar la fortuna.
Ma non ci perdiamo in chiacchiere. I nostri eroi sono giunti presso le porte degli Archi, e barattando alcune parole di nessun conto, sono saliti, per l'erta di Santo Stefano, alla spianata dell'Acquasola, dove non hanno altri testimoni che i radi lampioni a gas confusi tra i filari delle robinie e dei platani, e non sono turbati da altro rumore che quello della vasca, il cui largo zampillo canta assiduamente nel mezzo.
—Eccoci giunti, Garasso!—esclamò il Guercio fermandosi prudentemente presso la siepe della vasca anzidetta, dove il frastuono dell'acqua spegneva la sonorità della voce.—Che cosa avete a dirmi di nuovo?
—Di nuovo, nulla; abbiamo da intenderci chiaramente su quello che sapete. Il colpo è per domani, alle dieci di sera, e bisogna che io possa contare su voi.
—Non dubitate; il Bastiano è puntuale come il banco Parodi. A proposito, e voi, come state a memoria?
—Che cosa volete dire? Ho io dimenticato qualcosa?
—Ma…. mi par bene. __I cum quibus__.
—__I cum quibus__ ci sono.
—Sta bene, ma quanti? Io li amo molto, i __cum quibus__!
—Anch'io;—rispose il Bello, ridendo.
—Appunto perchè so che li amate voi pure,—soggiunse il
Guercio,—vorrei vederli e contarli, prima di fare il colpo.
—Non vi fidate di me?—chiese il Bello.
—Sì e no;—rispose Bastiano.—E non credo già di farvi torto. Vedete, io non mi fido neanche delle mie mani, perchè le conosco, e sto per dire che se potessero, le ingrate, ruberebbero perfino a chi le mantiene da trentacinque anni…. salvo errore.
—Quand'è così,—ripigliò il Bello,—non dico altro. Ma vi ho già raccontato l'altro giorno che l'amico non dà fuori i quattrini se non a colpo fatto.—
Il Guercio crollò il capo, a queste parole, e messe le labbra in moto per masticarsi la saliva.
—Che diamine, Bastiano? Voi non ragionate più, ora!—soggiunse il
Garasso.
—Intendiamoci;—rispose l'altro, dopo un po' di silenzio.—Io ci ho gusto a quel giuoco, e già ve l'ho detto. Indossar l'onorata divisa, figuratevi! questa fortuna non capiterà mica ogni giorno….
—E notate che non c'è risico;—interruppe il Bello.—Avrete da vestirvi nella casa medesima, al primo piano, di guisa che non ci sarà da uscire per via, nè da esser veduti da alcuno. Là, in casa, non avrete da fare con altri che colla ragazza e col servitore, se pure ci sarà. E per questa fatica di salire e di scendere, vi buscate mille lire….
—Ma….—entrò a dire quell'altro, dandogli sulla voce,—e chi mi guarentisce che il danaro verrà?
—Oh bella! vi guarentirà la cassettina che vi ho detto e che dovrete portar via dal cassettone. Da una mano sporgerete la cassettina, dall'altra riceverete le mille lire. E notate che il cofanetto, sebbene non contenga nessuna cosa di prezzo per voi, potrebbe inuzzolirvi; ma noi non abbiamo tante paure, ci fidiamo di voi.
—Grazie!—rispose il Guercio ironicamente.—Dunque, dicevamo, duemila lire?'
—Che duemila? Volevate dir mille….
—Scusate, avevo inteso duemila. E siccome sono un po' duro di comprendonio, così, quando una cosa m'è entrata in testa, non c'è più verso a cavarnela. Ora io ho inteso duemila, e, duro come sono, non mi voglio dar torto.
—Lo avete, Bastiano;—ripigliò il Bello.—Queste cose bisognava dirmele subito, quando mi sono aperto con voi. Ho combinato per mille, e come volete che torniamo da capo?
—Siamo sei, Garasso, non lo dimenticate. Inoltre, perdiamo una giornata di lavoro….
—O che? Sareste uomo da voler fare le parti giuste?
—Come voi, Garasso, come voi!—ribattè il Guercio, ghignando.
—Sentite, Bastiano;—disse il Bello, facendo le mostre di non averlo udito.—Facciamo un po' d'abbaco.
—È il mio passatempo! facciamo d'abbaco.
—Mille lire,—proseguì il Bello,—divise per sei, quanto danno?
—Ho già fatto questo conto più volte,—rispose il Guercio gravemente,—e mi torna sempre centosessantasei lire, sessantasei centesimi, e il resto divisibile all'infinito.
—Male, male! e dove avete lasciato le regole della nuova divisione?
—Della nuova?
—Cioè, nuova no, ma diversa! parlo di quella d'Arlecchino.
—E come divideva Arlecchino?
—Eccovi qui; faceva tanti mucchietti, l'uno daccanto all'altro e contava: questo a me—questo a te—questo a me. Poi si fermava e tornava a contare: questo a me—questo a te—questo a me; poi….
—Basta, basta, ho capito. Ma anche col vostro conto, io non piglierei più di cinquecento lire. Ora nella mia aritmetica c'è scritto che io debba intascare mille lire, innanzi di mettere le altre mille in divisione. Voi vedete che Arlecchino a petto mio, può mettersi la sua aritmetica in tasca. Volete che vi parli da avvocato? Qui c'è un contratto bilaterale; voi vi servite di me, io mi servo di voi. Ragioniamo dunque di duemila lire; la base più larga fa l'edifizio più saldo.
—Non si può;—disse il Bello, che difendeva la sua preda coll'unghie e coi denti;—ho sempre parlato di mille lire, e su mille siamo rimasti. Che cosa direbbe l'amico de' fatti miei, se gli barattassi le carte in tavola?
—Oh, se non c'è che questo di rotto, mio buon Garasso, ve l'accomodo io!—rispose il Guercio.—Ci ho tutto quello che fa al caso vostro.
—Che cosa?—domandò il Bello, tremando. Gli spedienti del Guercio lo facevano sudar freddo.
—Fatemi parlare col principale, e lo capacito io. Eccellenza, gli dico, il Bello non ci ha colpa; sono io, io, il furfante, che dimando le duemila lire. Non mi ero legato nè per mille, nè per cento; mi dia quello che mi occorre, e la servo da buon compare. Sono un galantuomo: il Bello potrà farne testimonianza, e dirle che quando il Guercio ha promesso di fare una cosa, venisse anco il Padre eterno a scongiurarlo, a caricarlo d'oro, sta fermo come un muro maestro. Fede per fede, e qua le duemila lire! Che ve ne pare, collega? non sarebbe un parlar bene?
—Voi capirete che non si può,—disse il Bello, nicchiando;—il principale ha le sue buone ragioni per non darsi a riconoscere.
—Ed altri,—disse il Guercio di rimando,—ci ha le sue per non darmi che la metà.
—Guercio!
—Ohe!
—Voi non ricordate più che io ci ho tanto da farvi andare in galera.
—Accompagnandomi, s'intende!—soggiunse prontamente il briccone.—Ah! il micio mette fuori le unghie? Bravo! questa è l'amicizia? alla larga! Ma voi dovreste sapere, Garasso, che io vi conosco, e a me non l'appioppate di certo. E conoscendovi, ho fatto tra me questo discorso: egli mi offre, per conto d'altri, una lasagna bianca, mille lire. Quant'altre ne sgraffia? Altrettante. Vedete che sono modesto nei calcoli, e forse, chi sa? vi faccio anche onore a credervi meno ladro di quello che sarete. Io sono un galantuomo; potrei sincerarmi del fatto, che forse avrete già il metallo in saccoccia; ma non lo voglio.—
In questo dire il Guercio fece balenare la lama di un coltellaccio che aveva cavato fuori pian piano.
—V'ingannereste, Guercio,—rispose il Bello, balzando rapidamente un passo indietro,—io non ho in tasca altro metallo che questo…. a doppio scatto.—
E trasse fuori, appuntandone le sei canne giranti di acciaio al petto del Guercio, una di quelle rivoltine inglesi che paiono fatte per capire nel pugno.
Il Guercio non si mosse, ne altrimenti mostrò di esser turbato, o maravigliato, da quella novità. Sorrise, in cambio, e disse placidamente al Garasso:
—Ah, ah! la carezzavate tanto, venendo quassù, che finalmente non avete potuto tenervi dal mostrarla agli amici! È belloccia, in fede mia, ma troppo chiassosa. Credete a me; voi non siete altro che un principiante. Arma bianca, arma buona; non fa strepito, ma buco.
—Sarà,—notò il Bello, senza riporre l'arnese,—ma confessate che questa fa buon servizio, quando s'è disposti a risicare ogni cosa.
—Perchè risicare?—proseguì l'altro.—Io, per esempio, senza risicar nulla, con un po' di nero sul bianco, vi mando il negozio in malora.
—Che cosa intendete di dire?
—Intendami chi può, che m'intend'io.
—Siete un furfante di tre cotte.
—Come voi, Garasso, come voi, e non per niente ho imparato a scrivere. Buona notte, dunque, e chi avrà miglior filo farà miglior tela.
—Ve n'andate?—chiese il Bello confuso.
—Oh bella! se m'interrompete quando parlo…. Orvia, capisco che qui s'ha da fare la pace. Ripigliamo il discorso dove l'avevamo lasciato. Noi dunque dicevamo due mila lire.—
Il Bello mise un lungo sospiro, che fu un ultimo vale a quella lasagna bianca (stile del Guercio) che voleva mettersi in tasca.
—Bisognerà passare per dove volete voi!—soggiunse egli.—Non siete un amico.
—Anche gli innocenti vanno alla forca!—rispose il Guercio con aria di compunzione.—Io non sono vostro amico? E quando mi avete voi mai veduto mancare alle promesse? Non vi buscate la miglior parte nei guadagni che faccio? Mi servo io d'altri, per rivendere quel che ho comprato…. coi miei sudori? Andate là, siete un ingrato, e meritereste che non vi volessi più bene.
—Sì, datemi per giunta la baia! Io frattanto dovrò far come l'asino, che porta il vino e beve l'acqua.
—Oh, questo non sarà detto mai, fino a tanto che ci sarò io;—ripigliò il Guercio sul medesimo metro.—Andiamo subito a bere, e sia del migliore che ci ha la Piccina.
—No, grazie, ora non bevo più. A domani, dunque?
—Alle nove sarò coi colleghi al ritrovo; e voi colle due lasagne….
—A colpo fatto.
—Sta bene; se no, vi ammanettiamo come un cane, e vi portiamo in caserma.—
Con queste ed altre ciarle di minor conto, i due compari si accomiatarono scambievolmente. Il Bello rifece i suoi passi verso Santo Stefano, bestemmiando in cuor suo il destino che gli guastava tutti i suoi conti, e lo faceva rimanere colle sole cinquecento lire a lui promesse, come suo beveraggio, dal padre Bonaventura. Ma egli aveva peccato di ghiottoneria, e ben gli stava doverla pagar cara. Già, il proverbio l'ha posto in sodo: una ne pensa il ghiotto e l'altra il tavernaio.
Il Guercio se ne andò dal canto suo, zufolando, verso la Villetta Di Negro. La notte buia, a cagione delle nuvole addensate nell'aria, le quali impedivano alla luna di mostrar le corna, come pure avrebbe dovuto, essendo ella allora ai cominciamenti del primo suo quarto. Ma di ciò non si dava pensiero il Guercio, che conosceva la strada, e che ci vedeva da un occhio, al buio, come gli altri, al chiaro, con tutti e due.
Quello che non vedeva, nè sapeva, era l'ora; imperocchè, tra per lo svago del teatro e il lungo conversare fatto col Bello, egli non veniva più a capo di misurare il tempo perduto.
—Che ora sarà?—andava egli pensando, in quella che infilava il ponte davanti al Teatro Diurno, per salire verso i Cappuccini.—Non ho nemmeno la __cipolla__ in tasca. Se passa qualcheduno, vo' pigliarne una ad imprestito.—
Cipolla (i lettori l'avranno già argomentato) nella lingua furbesca, è sinonimo di orologio.
Giunto colà, dove il bastione della Villetta svolta sulla salita delle Battistine, il nostro eroe udì un mutar frettoloso di passi che venivano in su, e insieme coi passi, alcuni sbrendoli d'una romanza da teatro.
—To'—disse il Guercio,—il cacio sui maccheroni! E come canta col tremolo, il signorino!—
Il viandante, che era già a mezza salita, cantava per modo da lasciare intendere com'egli avesse bisogno di compagnia. Veniva su, a passi brevi ma veloci, belando in falsetto una melodia del __Trovatore__.
—Ah…. che la mor….te o….gnor
È…. tar….da nel ve….nir….—
Intanto il Guercio non era stato tardo a scendere e a mettersi in agguato a piè del bastione. E il viandante, già vicino al luogo dov'egli era nascosto nell'ombra, continuava:
—A…. chi de….sia
A chi de….sia mo….o….rir
Leono….ra add….io add….i….o.
—Che bel tremolo!—disse il Guercio in cuor suo.—Se ti sente l'impresario Sanguineti, hai fatta la tua fortuna!—
E come il viandante gli fu giunto a pari, il nostro eroe si spiccò dal muro.
L'altro vide quell'ombra nera e trasaltò; fu per voltar le calcagna, ma il sangue gli si era gelato nelle vene, e le gambe gli ricusarono il loro ufficio.
—Niente paura, signor tenore!—disse il Guercio.—Sono un povero diavolo….
—Che cosa volete?—dimandò l'altro, più morto che vivo.
—Scusi, lustrissimo; vorrei sapere che ora è.
—Io non so…. saranno le undici…. cioè, le dieci…. a un dipresso….
—Vo' saper l'ora precisa, io, perchè ho da mettere l'orologio a segno. Via, non si scomodi, farò io.—
Così dicendo, gli aveva già posto le mani al panciotto; e quelle mani, sicure del fatto loro, non pure avevano cavato fuori l'orologio dal taschino, ma spiccata ancora la catenella dall'occhiello.
—Ah, vedo che bisognerà aprirlo, perchè ci ha il coperchio d'oro. Basta, non ho tempo; vedrò poi,—proseguì il furfante, riponendo in una tasca dei suoi calzoni orologio e catenella.—Trecento lire dell'orologio, e forse cencinquanta del resto; sono dunque quattrocento cinquanta lire che io metto in salvo per Lei. O come porta di questi arnesi addosso, dovendo star fuori di notte?
—Ma voi….—si provò a dire il derubato.
Silenzio, se no ti faccio freddo!—interruppe il Guercio, mostrandogli, uscito a mezzo fuor della manica, il suo coltellaccio.—Tu non hai cura del tuo metallo, e il primo mascalzone che passa potrebbe rubartelo. Dammi il portamonete, il borsellino, o quel diavolo che sarà. Te lo custodirò io.
—E accompagnando gli atti colle parole, mezzo si fe' dare mezzo si pigliò colle sue mani, il portamonete del malcapitato.
—Benone! E adesso, ara diritto, senza voltarti indietro.—
Quell'altro non se lo fece dire due volte, e pigliò l'abbrivo, parendogli d'uscirne a buon patto. Ma, per quanto si fosse affrettato ad obbedire, non si mosse tanto presto che non gli giungesse ancora un vigoroso calcio del ladro, a raddoppiargli la forza d'impulsione.
Al domani, la cronaca cittadina di un giornale recava, e gli altri colleghi copiavano con poche varianti la narrazione seguente, che noi riferiremo con tutti i suoi fioretti di lingua:
«Un'audace aggressione è stata perpetrata iersera, verso le dieci, nella salita delle Battistine. L'egregio dottor cavaliere Ernesto Collini, mentre si recava, per ragioni del suo ministero, in una casa di quei pressi, venne fermato da un tale che gli domandò bruscamente la borsa o la vita. Per nulla intimorito, il giovine dottore cavò una pistola per difendersi, e certo avrebbe data una severa lezione al malandrino, se altri compagni di quest'ultimo, sbucati non si sa donde, non lo avessero sopraffatto, impedendogli l'uso delle braccia. Per tal modo, egli fu alleggerito dell'orologio, del portamonete e (quasi sarebbe inutile il dirlo) dell'arma che aveva impugnata per propria difesa, e malmenato per giunta, con accompagnamento di orribili imprecazioni. Egli non potè riconoscere i suoi aggressori, che portavano il cappello tirato sugli occhi; però dall'accento, ebbe a formarsi la persuasione che fossero gente estranea alla nostra città. La qual cosa dimostra in quali deplorevoli condizioni sia caduta la sicurezza già proverbiale di Genova, per l'affluenza di tanti ceffi proibiti, ecc., ecc.»
Per alcuni giorni il Collini fu l'eroe delle conversazioni private, dei capannelli di piazza, delle librerie, delle farmacie, delle botteghe da caffè. Il caso suo del 28 giugno diede argomento di chiacchiere, come i casi del 29 giugno, e quasi altrettanto, ad ogni ragione di scioperati e di curiosi. Ci fu anzi chi volle scorgere una certa colleganza tra l'aggressione delle Battistine e il tentativo repubblicano occorso ventiquattr'ore dopo. Infatti, i malandrini non parlavano genovese; erano dunque lombardi, romagnoli, emigrati, insomma, di quelli che volevano mettere a sacco e in fiamme la tranquillissima Genova; e l'audace aggressione patita dal Collini altro non era che un prodromo, una pregustazione di quello che sarebbe capitato a tutti gli abbienti, a tutti i ben pensanti della città, se i rivoltosi fossero venuti a capo della loro scellerata congiura. Don Basilio non avrebbe argomentato diverso.
Il prode ma sfortunato Collini, ricevette un subisso di cartelline da visita, e condoglianze e strette di mano a centinaia. Questo, comunque gratissimo, non era che fumo; ma ci fu anche l'arrosto, perchè il cliente alla cui casa si avviava in quella malaugurata sera il Collini, dolente che il brutto caso gli fosse avvenuto per cagion sua, si recò a debito di mandargli uno stupendo orologio inglese, col suo nome e colla data del 28 giugno incisa nella faccia interna del coperchio, a testimonianza durevole della sua gratitudine. __Sic itur ad astra__.
Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio istruttivo.
Ora seguitiamo le pedate del Guercio, il quale, contento del fatto bottino, non pensa davvero di aver dato argomento a tanto chiasso futuro.
Il destro furfante, poi ch'ebbe veduto il suo uomo correre in su, come se avesse l'ali alle calcagna, se ne discese con passo misurato al crocicchio del Portello, donde si avviò per via Caffaro. La strada era pressochè deserta, e oltrepassato il teatro Paganini era deserta del tutto. I Genovesi sanno che nell'anno di grazia 1857 la via Caffaro non giungeva ancora molto più in là dal teatro anzidetto, e la valle non appariva anche allargata, come ora si vede, per dare ospitalità convenevole a due file di casamenti e alle loro intercapedini rispettive.
Si notavano in quelle vece le vigne sterpate, i camperelli distrutti, le falde della collina sconvolte dalle mine, fondamenta a mala pena gettate di case future, fossi di calce, monti di rena, sterramenti, cataste di pietre da costruzione; insomma un caos, che aspettava ancora il __fiat__ degli architetti e dei mastri muratori.
In mezzo a questo laberinto il Guercio si aggirò destramente, come se fosse giorno chiaro, o come se avesse il filo d'Arianna tra le mani. Per tal modo egli potè giungere in un luogo dove il suolo fangoso mostrava una gran buca, una specie di voragine, e gli addentellati ancora scoperti di un vôlto recente accennavano che là era il cominciamento della chiavica maggiore sottoposta alla via.
Il Guercio diede un'occhiata in giro, e sinceratosi che non ci fosse anima nata in quelle vicinanze, si curvò sulla buca, ne abbrancò gli orli e si calò dentro colla fidanza di un uomo, che già aveva misurato l'altezza del salto. E qui lettori umanissimi,
Qui ci convien lasciare ogni sospetto,
Ogni viltà convien che qui sia morta;
perchè, noi dietro al Guercio, e voi altri con noi, dobbiamo scendere nella buca, e dare una corsa per Genova sotterranea.
Anzitutto, a raffidarvi contro il timore di dover camminare nel buio, vi diremo che il furfante, dopo esser corso un cinquanta passi, seguendo il muro a tentoni, si fermò, diè mano ai cerini e poco stante il lucignolo acceso d'una lanterna cieca rischiarò dinanzi a lui uno spazioso androne, alto forse tre metri, che correva tra due ruvide pareti, su d'un piano inclinato di forma concava, seguendo sotterra l'asse medesimo della via sovrapposta.
Genova sotterranea, che noi sappiamo, non è stata mai particolarmente studiata nè descritta, e mi dicono che fino ad ora il Municipio non ne abbia neppure la pianta. Noi che ci siamo avventurati là dentro una volta, faremo di dirne qualcosa, aiutando i nostri ricordi con alcuni particolari più esatti e minuti che la cortesia d'un vecchio architetto ci ha posti in grado di aggiungere. Come li conosceva bene, il nostro compianto Pedevilla, tutti quegli oscuri meandri! E che Cicerone meraviglioso fu egli, per farne gli onori alla nostra curiosa giovinezza!
I nostri benevoli hanno prima di tutto a notare che noi non li terremo soverchiamente sotterra; che non seguiremo, verbigrazia, l'esempio di tanti famosi romanzieri che hanno fatto vivere i loro lettori, per una infilzata di capitoli, quattro o sei metri sotto la superficie del suolo. Oltre che noi non abbiamo tanto ingegno, nè tanta dovizia di partiti da tenerli a bada, va ricordato che le chiaviche di Genova non possono entrare in paragone coi monumenti sotterranei di Parigi; nè colle catacombe di Roma, nè colle immani cisterne di Bisanzio, nè colle vie dischiuse sotto l'Eufrate dagli antichi re di Babilonia. Genova, edificata a più riprese, secondo le crescenti necessità della sua popolazione, su d'un terreno malagevole, altro non riuscì che un lavoro di aggiunte e di rappezzamenti faticosi, così sopra come sotto, e privo, ahimè, di un concetto ordinatore. Laonde i grandi canali, invisibili seguaci delle grandi arterie cittadine, son pochi; tutti segnati in anticipazione dai letti de' rigagnoli, che separano le une dalle altre le colline digradanti dell'anfiteatro di Genova. Altri canali minori a centinaia, pochissimi de' quali son praticabili, inesplorati tutti, seguono i capricciosi meandri delle vie, viuzze e vicoletti della Superba, e ognun d'essi mette, giusta la sua pendenza, a taluno degli anzidetti canali maggiori.
Questi gran dignitarii della dea Mefite son cinque, i quali scendono, come dicemmo, a piano inclinato dalle alture; ma giunti al centro della città si stendono in linea orizzontale, e qui i topi medesimi, loro abitatori naturali, non ci vanno altrimenti che a guazzo. Se vi pigliasse il desiderio di visitarli, accettate il nostro consiglio di farvi portare in collo dai serventi addetti a que' sotterranei lavori, ed anche d'indossar vestimenta le quali non abbiano più da servirvi sulla faccia della terra.
Il primo di tutti (non già per ordine gerarchico, ma per ordine topografico) ha origine dal fossato di Sant'Ugo, là dalle parti dell'Arsenale di terra, e correndo sotto la piazza dell'Acquaverde e la Commenda di San Giovanni di Prè, attraversa la via Carlo Alberto, per metter foce in mare nel seno di Santa Limbania, di quella santa che ha comune coll'ottimo San Torpete la cittadinanza genovese, e la vergogna di non trovare anima nata che voglia portare il suo nome. Qual è, nella città dei __Baciccia__ e delle __Marinin__, la donna che si chiami Limbania, e l'uomo che si chiami Torpete? I due poveri santi non hanno divoti; ma in forma di compenso, e diremmo quasi di elemosina, San Torpete ebbe una chiesuola e Santa Limbania un seno; seno di mare, s'intende, sulla sponda occidentale del porto.
Il secondo canale nasce alle spalle dell'albergo dei Poveri in Carbonara, e passandogli tra le fondamenta, scende sotto la piazza dell'Annunziata, sotto quella delle Fontane, sotto la porta dei Vacca e va a scaricarsi in mare sotto il magazzino dei Salumi.
Il terzo, nel quale siamo ora avventurati noi, sulle orme del Guercio, dall'alto di via Gambaro, all'ingresso di via Nuova; di là per le viscere di piazza del Ferro, dei Macelli, di Soziglia, di via degli Orefici, di piazza de' Banchi (tutti luoghi ne' quali non raccoglie oro per fermo) va a sgabellare la sua mercanzia sotto il palazzo della Dogana.
Il quarto e il quinto, a dir vero, non la durano a lungo divisi. Scendono da via Assarotti e da via Palestro; si vedono, s'amano e si maritano clandestinamente sotto gli archi dell'Acquasola. Di qui, rasentando le case di via San Giuseppe (più conosciuta sotto il vernacolo nome di __Crosa del Diavolo__) la felicissima coppia scorre sotto il braccio sporgente dell'ospedale di Pammatone, e difilata per Portoria, Rivo torbido, i Lanaiuoli, i Servi e la piazza della Marina, va a nutrire con paterna cura i suoi figli adottivi, che sono (il lettor genovese l'ha già indovinato) i mùggini punto schifiltosi del cosiddetto Seno di Giano: un seno accecato, pur troppo, dal bisogno di una strada a mare, che ha pur sottratto all'amore dei Genovesi l'indimenticabile scoglio Campana.
Genova sotterranea possiede anche la sua storia, se non chiara per avventura come quella della sua sovrastante sorella, certo meno oscura di quello che si potrebbe argomentare dai suoi foschi rigiri. Negli annali di questa storia tenebrosa un'impresa che andava tentando il Guercio con parecchi suoi degnissimi aiuti, non era nuova nè strana, e gli scrittori delle cose nostre ricordano le scoverte fatte, nei secoli scorsi, di audaci furfanti, i quali per lavorare più sicuramente avevano messo dimora nelle chiaviche, e taluni, allogati per l'appunto sotto la piazza della Nunziata, dormivano alla guisa dei marinai su ranci sospesi alla vôlta. Inoltre i contrabbandieri, i frodatori delle gabelle, ebbero sempre per le chiaviche una tenerezza particolare. Parecchi dei loro anditi furono chiusi ai tempi dei nostri vecchi; quello, ad esempio, che di sotto alla piazza di Sarzano metteva al monastero di San Silvestro. E non è molto che un altro (e non certamente l'ultimo) ne fu scoperto ed asserragliato, il quale da un certo luogo della città andava a far capo nel Portofranco.
Se poi da questa geldra c'innalziamo allo stuolo degli illustri orditori di congiure, troviamo più nobili ragioni di celebrità per queste vie nascoste di Genova. Per una di esse il Raggi intese a penetrare dalle sue case nel palazzo Ducale, volendo mutar con ardito tentativo il reggimento della cosa pubblica. Per un'altra, ancora in parte conservata, il conte di Lavagna introdusse il nerbo dei suoi partigiani in città, ai danni del fortunato Andrea Doria. Infine, che diremo di più? Genova sotterranea aspetta tuttavia un cronista volenteroso; la mèsse è abbondante ed intatta.
E intatta e abbondante era quella che il Guercio si riprometteva da certi suoi scavi sotto la via degli Orefici. La sua pensata era questa: sforacchiare il terreno sotto una delle case che fiancheggiano la via, e, la mercè di un buco verticale nel pavimento, penetrare in una ricca bottega d'orefice: quindi in una notte, senza tema dei vigili, al coperto dalle sentinelle (__excubiarum securus__), far repulisti nella custodia e nelle bacheche del mercatante.
I suoi manovali erano da parecchi giorni all'opera, sotto la vigilanza dell'Architetto; che così era chiamato per celia il compare che aveva misurate le distanze e disegnato il luogo dove occorreva aprire la breccia. E quel luogo era appunto al confluente di un cunicolo laterale colla chiavica maggiore. Il cunicolo, che era stretto e quasi impraticabile, rispondeva ad un vicolo sovrastante, e rasentava le fondamenta della insidiata bottega. Ci si lavorava a disagio, e bisognava darsi il cambio; ma il lavoro andava innanzi pur sempre, e in capo a cinque o sei giorni l'impresa poteva essere condotta a buon fine.
Il Guercio, che abbiamo lasciato sul primo tratto del sotterraneo, giunse facilmente sotto la latitudine dei Macelli di Soziglia. Qui, occorrendo la parte piana della città, egli incominciò a diguazzare nel pantano; ma vuolsi notare che, pratico dei luoghi, egli aveva avuta la precauzione di cavarsi le scarpe e i calzoni, per guadare lo Stige. Qua e là per le ruvide pareti scorrazzavano topi dalle lunghe basette e dalle lunghissime code, parecchi dei quali, mal potendo aggrapparsi alle scabrezze dei muri, davano tonfi romorosi nella poltiglia, facendogli schizzare larghe e frequenti pillacchere sul viso. Buio aveva dinanzi a sè, e buio alle spalle; la luce della sua lanterna rischiarava un breve tratto dintorno, e le ragnatele, pendenti dalla bassa volta in larghi festoni, non davano comodità dì riverbero. Egli pareva un punto luminoso, un fuoco fatuo, che errasse frammezzo alle tenebre.
Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli era dinanzi, alla luce d'un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.
—Finalmente!—gridò uno di costoro.—Noi ti facevamo già in catorbia.
—E perchè mo'?—chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna e se la riponeva in tasca.—In catorbia ci vanno i ladri, e non la brava gente come noi.
—Capisco;—soggiunse l'altro,—ma quei del pennacchio fanno errore così spesso!
—La prima causa dell'errore sono quei tali che hanno fatta la legge;—sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli stesso.—Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba; dunque….
—Benone!—interruppe un altro.—Tu parli come il mio avvocato, che, se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a quello che dice un galantuomo, e legano sempre l'asino dove vuole il Fisco.
—O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta! tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera si fa il colpo.
—Impossibile!—gridò l'Architetto, o, per dir meglio, quel che i compagni chiamavano con quel nome.—In quella maledetta buca non ci si può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni….
—E chi ti parla della buca?—ripigliò il Guercio.—Parlo dell'altro colpo, di quello che v'ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri che sembriamo, diventeremo carabinieri.
—Ah sì, ottimamente!—esclamò uno dei cinque.—E in cambio di lasciarci ammanettare, ammanetteremo.
—No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.
—E che diamine ci sarà dunque da fare?—dimandò il Bellavista.—Io non so che facciano altro, quei del pennacchio.
—Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a te;—rispose il Guercio tra le risa della brigata;—ma essi, te lo so dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di metterti all'opera.
—Sentiamo dunque!—disse il Bellavista.
—Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata, s'intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.
—Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo, e non ne ha detto nulla al principale….
—Sì, lui, per l'appunto.
—Ci ha da esser denari a palate, in casa sua!—proseguì il
Bellavista.
—Certo;—disse il Guercio,—ma per questa volta bisognerà sputarne la voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient'altro.
—O come?—dimandò l'Architetto.—Mastro Nicola ci tiene il sacco!
—Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo giovanotto l'abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini, Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, __vestire da angelo__…. mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera scoppia la rivoluzione….
—Parli sul serio?—interruppe il Bellavista, mentre gli altri inarcavano le ciglia.
—Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non c'è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine, andiamo in casa, dove c'è una ragazza sola con un servitore, ci spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che devono trovarsi in una cassettina d'ebano; la qual cassettina è in un cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano, ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe' fatti nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?
—Io dico,—rispose l'Architetto,—che a questa fabbrica mancano le chiavi.
—O come?
—Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto in chiaro, lavoriamo per la gloria.
—Ah, capisco!—disse il Guercio ridendo.—Io avevo dimenticato l'essenziale. Accanto alla gloria c'è una lasagna bianca, di quelle che si fabbricano in via San Lorenzo.
—Mille lire?
—Sì, certo, mille lire; e notate,—soggiunse il Guercio, volgendosi alla brigata,—che le guadagniamo senza risico, a mo' di passatempo, in mezz'ora di mascherata.
—Sta bene, sta bene;—ripigliò l'Architetto.—Ma quando la si vede, questa lasagna bianca?
—Nell'atto di consegnare la cassettina; non sei contento?
—Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un pochino di divisione. Tu, come capo….
—Mi contenterò di cinquecento lire;—disse il Guercio. L'esorbitanza delle sue pretensioni gli fece buon servizio, perchè gli altri diedero tutti nella pania.
—Ah, Guercio!—gridarono in coro.—Tu non sei ragionevole!
—Orbene, quattrocento, e crepi l'avarizia! Io sono un buon diavolo, e voglio farvi vedere che non tengo al danaro.
—No, no!—ripigliarono parecchi.—È troppo.
—Sta bene,—soggiunse il Bellavista,—che tu sia il manipolatore del negozio; ma quattrocento lire….
—No, no;—incalzarono gli altri,—tu vuoi troppo per la tua porzione.
Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?
—Ma io….—si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il capo, io?
—Zitto, là!—gridò l'Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri che volevano rimbeccarlo.—Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.
—Sì, parla tu! parli l'Architetto!
—Benone!—ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora, non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del negozio, abbia qualcosa di più?
—Certamente!—entrò a dire il Bellavista.—E mi pare che centocinquanta lire….
—No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.
—E vada anche per dugento!—disse il Guercio, coll'aria di un uomo che fa un grande sacrifizio.—Io non voglio romper l'amicizia per questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!
—Che maresciallo? chi è questo maresciallo?—chiesero i compagni stupefatti.
—Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza maresciallo?
—Ha ragione, perdiana!—dissero gli altri, guardandosi in faccia.
—Ha ragione, sicuro!—aggiunse il Bellavista.—Ma chi sarà il maresciallo?
—Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che sei mingherlino come una lucertola.
—Mettiamo dunque l'Architetto!—gridò uno della brigata.—Mettiamolo lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.
—Sì, sì, l'Architetto!—risposero tutti, ridendo a crepapelle.
—Sarò io, chetatevi, sarò io!—disse gravemente l'eletto.
—Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento lire; se no, cedo l'onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.
—Il diavolo si porti l'Architetto! Vuol quello che vuole.
—Ma…. io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a modo?
—Come un libro stracciato;—soggiunse il Bellavista.
—Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.
—E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa, e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni giorno, e lavorando un'ora sola, mi parrebbe d'esser più ricco dei Parodi, e vorrei che passando da' Banchi tutti mi facessero largo e si cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi….
—Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque!—interruppero i colleghi.
—E adesso che ci siamo intesi,—soggiunse il Bellavista,—beviamone un bicchiere alla salute del maresciallo.—
La proposta fu accolta all'unanimità. Uno della brigata diè di piglio alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più strani al collega Architetto.
Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto l'orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.
L'Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere all'occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi carabiniere a cavallo. E d'essere carabiniere e di trottare in __corrispondenza__ da una stazione all'altra, sognò veramente un'ora dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto in braccio a Morfeo.
Forse in quell'ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non portar più il pennacchio rosso e cilestro.
Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!
Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima pugna.
Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un'ultima volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un'opera buona. Fu l'ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che fosse l'ultimo pensiero.
Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire quante volte, anche inconsciamente, un'anima aspreggiata dalle ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare impunemente e sorridere?
Il forte animo di Lorenzo s'era chiuso in quella medesima notte; ma la tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia, ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo profano.
Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d'uomo, egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più non significava l'amore; sibbene, e assiduamente, l'angoscia, il disdegno, lo scontento di sè.
Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto che egli non aveva potuto ottener sollievo da un'ora di vendetta. Quel conte palatino, ma così poco paladino, dell'Alerami, egli non aveva potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch'egli aveva detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile spavaldo, era pure avvenuto.
I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri, Lorenzo aveva detto all'avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a' suoi riveriti comandi». Alle quali parole avea risposto l'Alerami, facendosi bianco in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S'accomodi!».
Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s'era accomodato assai meglio non rispondendo all'invito. Non già che ne' suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto come que' tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro alterchi colla frase proverbiale, «tenetemi, se no l'ammazzo!». E la contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s'era chetato, per non mettere (diceva lui) a repentaglio l'onore di una dama, in una contesa con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non era della civil compagnia e che non c'era nè gusto ne gloria a sforacchiargli la pelle.
Così erano sbollite le ire d'Achille; così l'Alerami ebbe al cospetto della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo, il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d'un colpo di pistola, o di spada.
Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue leggi. Ventiquattr'ore dopo quel suo battibecco in casa Cisneri, il nostro Lorenzo, maravigliato di non avere anche veduto i padrini dell'Alerami, era andato su tutte le furie, e s'era aperto coll'Assereto e col Montalto, perchè volessero andargli a chiedere se egli, conte palatino, avesse gl'insulti per celie. Ma Giorgio Assereto avea crollato le spalle, chiedendogli se egli, Lorenzo Salvani, avesse dato il cervello a pigione; e Aloise di Montalto, fior di gentiluomo se altri fu mai, gli aveva soggiunto:
—Se quel conte apocrifo mandasse una disfida a voi, ed io avessi la fortuna di essere vostro padrino, comincerei da non averlo per degno avversario, e sfiderei per conto mio quei due gentiluomini che avessero ardito presentarsi come suoi mandatarii.—
E un'altra volta, a giugno inoltrato, nella affettuosa dimestichezza d'un fraterno colloquio, gli aveva parlato in tal guisa:
—Lorenzo, voi sapete come io vi apprezzi e vi ami. Non so d'uomini i quali possano starvi a paragone, e certo non ce ne sono, ai quali volessi chiedere consiglio od aiuto, siccome a voi. Questa confessione mi darà, spero, il diritto di dirvi una schietta parola, come la direi ad un fratello, come saprei dirla a me stesso.
—Oh parlate, Aloise!—aveva risposto Lorenzo.—Vi ascolto come si ascolta un fratello, come si ascolterebbe la voce della propria coscienza.
—Orbene, Lorenzo, io avevo saputo del vostro amore fin da' primi giorni ch'esso era nato, e fin da que' giorni mi dolse che foste caduto ne' lacci di una donna guasta dalle consuetudini d'una vita frivola e vana. Amavate, credevate, ed io tacqui. Che cosa avrebbe potuto allora la voce di un amico, e, quel che è peggio, di un amico recente? Ora voi stesso vi siete ricreduto; quella donna non amava voi, in quella medesima guisa che non ha amato e non amerà mai nessuno, salvo il piacere. Se costei non fosse ricca e gentildonna, qual nome e quale stato le si converrebbe? Ditelo voi. Or dunque, perchè vi accorate? Rimpiangete forse ch'ella medesima, generosa senza saperlo, vi abbia aperto gli occhi alla luce del vero?
—No, Aloise, v'ingannate; io non rimpiango l'amore di quella donna. Soffro…. ecco tutto! Soffro di esser caduto così stoltamente in errore, di aver commesso altrui così ciecamente il mio cuore. Torno ora in balìa di me stesso; ma basta egli forse? Voi non sapete quanti bei sogni si proseguono, amando; che castelli in aria si edificano; che dolci consuetudini si vagheggiano, e come l'animo confidente, quasi ringiovanito, si schiude agli aliti della nuova vita, e come paion nulla le molestie, le difficoltà d'ogni maniera, e come nasce, come si rinvigorisce il desiderio di adoperarsi in questa battaglia dell'esistenza. L'amore è un liquor generoso che ridesta e centuplica tutte le virtù dormenti o prostrate dell'uomo. E un bel dì, tutto crolla, tutto svanisce! Ma voi, rimanete, pur troppo, voi rimanete, logoro, impossente, disperato, in presenza del nulla. Credetemi, Aloise; da gran tempo infelice, ho imparato a leggere nel mio cuore. Non è l'amore di quella donna che io rimpiango ora; è il mio povero edifizio crollato, la mia speranza morta, la mia vita disutile.—
A render più doloroso lo stato di Lorenzo si aggiungeva che tutto era buio d'intorno a lui, che ogni via era chiusa alla sua operosità, che il turpe bisogno batteva alla porta. I lettori rammentano com'egli ponesse la sua ultima speranza nel dramma «__Una corona di spine__» scritto, stiamo per dire, col suo sangue, e come il Bonaldi gli avesse promesso, se gli andava a' versi, di pagarlo. Ecco ora la lettera che il Bonaldi gli scriveva da Brescia, venti giorni dopo l'invio del manoscritto:
«Egregio signore,
«Il dramma di V. S. m'è piaciuto assaissimo, laonde non ho a dirle se mi paia meritevole d'un pubblico sperimento. Soltanto mi duole di dover soggiungere che non potrei rimeritarla della sua letteraria fatica in contanti. La condizione del capocomico è dura oltremodo in Italia. Ogni cosa m'è andata a rifascio nei teatri di Roma e di Trieste; causa la malattia della prima donna, che come non sarà ignoto a V. S. ha dovuto smettere per qualche tempo, ed io sono stato costretto a presentare in sua vece una prima amorosa, buonina sì, ma al suo posto, non già nelle parti di forza.
«Ma lasciando da banda tutti questi particolari, che io le ho accennati soltanto per chiarirle lo stato delle cose mie. Ella è, mio egregio signore, tuttavia sconosciuto nell'arringo drammatico, non appartenente ad alcuna consorteria letteraria. Questo è suo merito, lo so; ma l'universale non ragiona sempre colla testa, e quantunque a volte si ribelli contro certe chiesuole (vera dannazione di noi poveri artisti!), non si affolla, poi, in teatro, se non ci ha l'esca dei nomi conosciuti. Oltre che, sebbene il dramma di V. S. ci abbia di molti pregi, e quello anzitutto dello stile che io non mi periterò di chiamare classico addirittura, Ella converrà meco che possa piacere e dispiacere. L'argomento è delicatissimo e del novero di quelli che vanno trattati, come suol dirsi, coi guanti.
«Comunque sia, se Ella si sente di affrontare il giudizio del pubblico, ai magri patti che io posso per ora proporle, tenteremo la prova, e mi è grato sperare che riesca favorevole al suo stupendo lavoro, e mi dia agio ad offrirle, per un nuovo dramma, qualcosa di meglio del decimo dell'entrata, detratte le spese serali. Aspetto dunque una sua riverita lettera, la quale mi dica si o no, e dolentissimo di non potere più efficacemente dimostrarle quanto apprezzo il suo nobile ingegno, me le profferisco devotissimo
Questa lettera era caduta come un fulmine in casa Salvani, a turbare l'ultimo sogno di Lorenzo, a distruggere l'ultima speranza che egli vagheggiasse in cuor suo, di tornare in qualche modo di sollievo alla sua povera sorella adottiva.—«Piove sul bagnato!»—aveva sentenziato con spartana breviloquenza Michele, allorquando il suo padrone, sorridendo amaramente, gli aveva annunziato il colpo di misericordia vibratogli dall'avversa fortuna.
Un ultimo lampo d'orgoglio guizzò nell'animo di Lorenzo Salvani. Scrisse al capo comico ringraziandolo di aver letto il suo dramma, che non era poca cortesia; distribuisse pure le parti e lo facesse recitare; non si desse pensiero di pagamento, nè di decimo netto, o lordo, nè d'altro, perchè a lui queste inezie non importavano punto. E scritta quella lettera, volle mandarla affrancata. «È l'ultima spina della mia __Corona__;—disse a Maria,—non ci pensiamo più!»
E non ci pensò più, davvero. __La Corona di spine__, entrando nel repertorio del Bonaldi, usciva per sempre dall'animo dell'autore. L'ultima tavola di salvezza…. diciamo male, il suo gorgo vorace, __l'onorevole uscita__ (come egli stesso usava chiamarla) gli si apriva tuttavia dinanzi allo sguardo. Nemico del suicidio immediato, violento, che un uomo si procaccia colle sue mani in un momento di delirio, egli ne vedeva, ne vagheggiava un altro, che gli appariva certo del pari, ma che non avrebbe offerto ad alcuno argomento di biasimo e di scherno. Era questo il tentativo di rivoluzione che si maturava in Genova; tentativo che egli non aveva caldeggiato mai, ma al quale aveva promesso l'opera sua, in rispondenza alla sua fede politica, e che ora egli affrettava coi voti, come quello che gli avrebbe dato il modo di farla finita, presto e bene, col tedio dell'esistenza. Egli insomma s'industriava a disfarsi, a buttarsi via, come tanti altri a campare, a procacciarsi uno stato.
Così pensava Lorenzo, e sotto questo aspetto considerava i prossimi eventi. Egli non s'era mai pasciuta la mente di vane speranze, e reputava certissima la sconfitta. Era stato soldato, e ben sapeva quante cose ci vogliono a fare un soldato; era italiano, e non ignorava come difetti nelle moltitudini italiane la tenace concordia dei propositi, l'obbedienza al comando di un solo; era avvezzo alla vita pubblica, e gli erano note le difficoltà d'ogni maniera che avrebbero, anco nel caso più felice d'una vittoria parziale, mandato a male un rivolgimento, il cui trionfo dipendeva dalla simultaneità dello scoppio in parecchie regioni della penisola. Questo ed altro sapeva; nè, sulle prime, lo aveva taciuto. Ma altri consigli avevano vinto; il concetto era generoso, e Lorenzo Salvani, pronto alle opere com'era dubitoso ai consigli, aveva chiesto per sè una delle parti più rilevanti. Morremo, pensava egli, morremo; che importa? __Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor__….
E la mattina del 29 giugno era giunta. L'ora del gran tentativo, che già doveva essere per una parte iniziato in alto mare a bordo del __Cagliari__, sarebbe suonata in quella sera per Genova. Saldo nel suo proposito, Lorenzo Salvani guardava con occhio sereno l'imminente pericolo. Sotto le spoglie del suicida si era ridestato il veterano di Roma.
Che facesse egli quella mattina, può argomentarlo chiunque è stato al punto di doversi appigliare ad un grave partito che egli facesse sentire la necessità di non lasciare dietro di sè, morto, o lontano, nessuno di quei nonnulla, i quali dessero appiglio alla indiscreta curiosità o allo scherno della gente, non tanto a suo danno, quanto d'altrui. Chiuso nella sua camera, il giovine Lorenzo metteva sesto nelle sue carte, quali ordinatamente riponendo, quali stracciando, quali altre bruciando a dirittura.
Ce n'erano d'ogni forma e ragione; lettere di minor conto che bastava fare in quattro pezzi e buttar nel cestino; scritture fuggevoli, noterelle, capricci letterarii, abbozzi, versi non finiti, pensieri scombiccherati sulla carta, in attesa di tempo migliore; cose tutte dalle quali un uomo, che abbia avuto addosso la febbre dello scrivere, mal volentieri si separa, perchè ognuno di quei fogli rammenta un bel giorno, un pensiero felice, una speranza, una illusione, e la mente, guidata dal tenue filo nel laberinto degli anni trascorsi, corre tra desiosa e malinconica indietro, ripensando mille casi abbelliti dalla lontananza, per fermarsi poscia in questa considerazione tristissima: ohimè, tutto passa, tutto muore, in questo povero mondo!
E chi non ricorda poi quell'altra ricchezza del cassetto più geloso della scrivania, fatto custode delle lettere e dei piccoli doni d'amore? Perchè ognuno di noi ci ha pure avuto i suoi romanzetti giovanili; tal volta non finiti per difetto di occasioni, di audacia nostra o di buona volontà della gentil collaboratrice; tal altra male conchiusi dalla ferrea rigidezza degli eventi, o interrotti o guastati dai capricciosi trapassi della volubile giovinezza; tutti vani, transitorii come i nembi di maggio, e per dirla umoristicamente, falsi allarmi di un cuore che non ha sostenuto ancora la vera sconfitta che lo riduca in servitù duratura.
Di simili romanzetti facevano fede quelle lettere, così gelosamente custodite, legate in principio da un nastro verde, azzurro o rosato, il cui nodo era soventi volte disfatto per leggere e rileggere que' dolci messaggi e veder di cogliere nuovi punti e nuove virgole che dicessero: t'amo! E la preziosa mèsse era riposta in un elegante scatolino, nel quale andavano a riposarle in compagnia i fiorellini furtivamente dati da lei in un giro di mazurca, i guanti felicissimi che l'avevano toccata, le foglie secche della robinia sotto la quale essa era stata un giorno seduta; un tesoro, a farvela breve, un tesoro che non avreste barattato con tutte le ricchezze dei Rotschild. Questo va inteso per que' tempi; che, veramente, più tardi la divozione andava scemando per gradi; più raramente il nodo era disfatto; più raramente aperto lo scatolino elegante; poi dimenticato del tutto in un angolo del conscio cassetto, dove talvolta rovistando per altre ragioni, appariva improvviso ai vostri occhi; e allora vi facesse sospirare, o sorridere, vi tornava giovani un tratto, e…. e…. che serve tacerlo? non ardivate darlo alle fiamme.
Il caso di Lorenzo era diverso, come abbiam detto più sopra. Egli aveva a distruggere inesorabilmente ogni ricordo del passato, che potesse lasciare i superstiti, e quel ch'era peggio, i messeri del Fisco, in balìa di segreti, non tutti, nè interamente suoi. Forse egli aveva già di soverchio aspettato, e se ci era biasimo a dargli, risguardava appunto l'indugio ch'egli aveva posto alla esecuzione del suo __auto da fè__.
Già, le carte più rilevanti erano state arse nella notte alla fiammella del candeliere. Altre andavano a mano a mano seguendo la sorte delle prime. Ma la più parte erano fatte a minuzzoli, per tema che l'odore di bruciaticcio, invadendo la camera, non avesse a dar sospetto in casa.
Ed ormai non restava più altro d'intatto fuorchè la cassettina d'ebano, già più volte accennata nel corso del nostro racconto. Lorenzo Salvani, dando sesto a tutte le cose sue, ben sapeva di doverci giungere, a quella __incognita__ del suo cassettone; epperò quasi senza formarne il disegno in mente, aveva lasciato ultimo tra le sue cure il pauroso problema.
Nel quale una cassettina d'ebano dischiude alla perfine i suoi ventenni segreti.
—Eppure…. bisognerà aprirla!—diss'egli tra sè, in quella che, a riposarsi dalla sua lunga fatica, si lasciava cadere su d'una scranna,—Maria rimarrà sola, domani. La poverina ha imparato a cavare il vivere dalla stentata opera delle sue mani, e il buon Michele non verrà meno alla usata fedeltà. Io, poi, non le tornavo più utile in alcun modo; e forse morto le gioverò più che vivo. L'Assereto potrà farle avere una piccola somma dalla vendita de' miei libri, e dove ella voglia ristringersi in un più modesto quartiere, egli potrà anche farle vendere una parte delle masserizie. Tutto ciò, aggiunto a' suoi guadagni, le assicurerà un anno di vita non al tutto disagiata. Ma chi la custodirà. Dio santo? chi le terrà luogo di fratello, di madre? L'Assereto è un cuor d'oro, e veglierà certo a' suoi bisogni; ma altro non potrebbe fare per lei, senza dar esca ai sospetti, alle ciarle assassine del volgo umano. Povera Maria! povera sorella!… Ma via! io non posso abbandonarla, prima di aver letto là dentro. Chi sa? forse in quelle carte è il suo destino, e certamente, dopo aver conosciuto ogni cosa, potrò lasciarle un consiglio che la indirizzi su questa terra, dove si troverà tutta sola. Che ha detto mio padre? Le sue restrizioni intorno a quel segreto domestico, non erano forse derivate dalla tema di recare un pericoloso turbamento nella pace di qualche famiglia? E la turbo io, leggendo? E posso io non leggere, al punto in cui sono, di dover lasciare un addentellato tra la volontà di lui e la sorte di questa povera fanciulla?—
Lorenzo stette forse una mezz'ora in queste considerazioni, le quali finalmente ebbero forza di farlo andare verso il cassettone, a cavar fuori dal suo ripostiglio la cassettina d'ebano.
Era una graziosa cassettina, sulla foggia di que' cofanetti tanto in uso nei secoli scorsi presso le dame, che solevano riporvi i loro preziosi gingilli ed ogni nonnulla che loro piacesse di avere più agevolmente alla mano. Il coperchio, rilevato come un tetto a quattro acque, portava al sommo una maniglia di bronzo dorato, e tutt'intorno bei fregi d'intarsiatura, ai quali ne rispondevano altri sui quattro lati della cassa.
Lorenzo, poi ch'ebbe cavato fuori il cofanetto e messolo in mostra sulla scrivania, andò a cercare in un altro ripostiglio la chiave. Il cuore gli tremò, quando egli ne pose l'ingegno nella toppa; la vista gli si offuscò, quando, levati due giri di serratura, una molla interna fece scattare il coperchio. Egli aveva dinanzi il segreto dei natali di Maria; due vite, a lui sconosciute, spente già forse, si affacciavano da quel vano, mettendo in balìa dell'estraneo gli arcani ventenni di un amor sciagurato.
Sciolto il nodo che legava un primo involtino di carte a sinistra, Lorenzo incominciò a leggere. E qui, un foglietto dopo l'altro, senza alcuna sosta, passarono molte lettere sotto gli occhi di lui.
Due ore di tempo non furono troppe a quella fatica. Noi non ne faremo perder tanto ai nostri benevoli, e daremo appena un compendio di ciò ch'egli lesse.
Era quello un carteggio abbastanza continuato dal 1833 al 1835: quindi ripigliava dal 1839 al 1843, dove cessava affatto. La scrittura, fine e allungata, indicava alla bella prima la mano di una donna. E non mancava il nome della scrittrice, in molte lettere espresso nella forma di Lilla, in altre, specie delle più recenti, allungato in Camilla, essendo sempre una la mano di scritto, e quasi tutte quelle lettere, poi, recando sulla soprascritta il nome di Paris Montalto.
Paris Montalto! Era costui della famiglia d'Aloise? Sì certo; raccogliendo i suoi pensieri, Lorenzo si ricordava che questo nome era stato proferito una volta da Aloise, come quello d'un suo zio paterno. L'amico, volendo chiarire a Lorenzo che nella sua aristocratica famiglia l'amore della patria non era merce sconosciuta, gli aveva accennato di Paris Montalto, fratello di suo padre, emigrato la prima volta nel 1833, e morto, durante un nuovo esilio, nel 1846, in Ispagna.
Ma Lilla? chi era Lilla?
Il carteggio, come abbiam detto, incominciava dal 1833: ma le prime lettere lasciavano argomentare un affetto di due anni innanzi, affetto tenuto a disagio dalle troppo rare occasioni di vicinanza che erano offerte ai due innamorati dalle veglie e dalle feste da ballo del patriziato genovese. Paris non andava in casa di lei, e non ardiva chiederne la mano, poichè non era tanto ricco da sperare che i parenti della fanciulla gliela avrebbero concessa. E l'amava frattanto, e si struggeva dalla rabbia e dalla gelosia. In quelle sue lettere, schiette espansioni di un cuor giovanile. Lilla si doleva della congiura che le avevano ordita dintorno i parenti e i congiunti tutti, per farla sposa ad un altro; ma giurava a Paris che, innanzi di consentire alle nozze, si sarebbe chiusa in un monastero. Il pretendente era stato introdotto in casa! ma Lilla non lo poteva in nessun modo patire; nè di lui nè d'altri al mondo avesse ad ingelosire il suo Paris, nemmeno di quello Spagnuolo che gli spiaceva tanto per le sue leziosaggini intorno a lei, e che a lei pure tornava molesto, più molesto dell'altro, del pretendente, se pure fosse stato possibile.
Queste prime lettere non avevano bollo postale, e in una di essa era accennato come giungessero tra le mani di Paris. La notte egli andava ad appostarsi in una viottola, dietro al palazzo dov'ella dimorava; un filo pietoso scendeva colla lettera di Lilla, e per quel filo un'altra lettera di Paris saliva fino alle mani di lei. Ingegnosi trovati dell'amore! Ma un giorno Paris aveva dovuto fuggire. Le lettere dalla fine del 1833 al cominciamento del 1835 erano scarse, e recavano sulla soprascritta, insieme con un finto nome, il bollo delle regie poste. Il Montalto, giovinotto bollente, s'era legato d'amicizia con taluni più in voce di volere e di promuovere novità; si erano rifischiate parole sue, che lo accusavano audace cospiratore ai danni dello Stato; laonde, pel suo meglio, aveva dovuto uscire da Genova e rifugiarsi a Parigi. Le prime lettere di questo secondo periodo erano un rammarichio continuo; Lilla non poteva sopportare l'amarezza di quella lontananza, ma i pericoli d'un ritorno di Paris la spaventavano; ella era infelice, dannata all'avversa fortuna, ma almeno lo sapeva in salvo e ne rendeva grazie al cielo. Talvolta si doleva di lui, che aveva sacrificato l'amor d'una donna all'amore di patria; tal altra andava superba dell'amore di un uomo tanto dissimile da tutti que' neghittosi e codardi che si vedeva dattorno; ora si dava in balìa della disperazione, ora si beava ne' sogni di una felicità senza pari. Sublimi contraddizioni dell'affetto, chi non vi ha sentite una volta in cuor suo?
Ma le lettere della giovinetta andavano a mano a mano facendosi più rare; tutto il giorno, e perfino la notte, ella era vigilata dalla sospettosa cura de' suoi, che non sapevano intendere la cagione de' suoi ostinati rifiuti; una lettera incominciata era caduta nelle mani di sua madre; la cameriera, che portava di soppiatto le sue lettere alla posta, era stata congedata sui due piedi; finalmente, mancando gli spedienti, fors'anco soppravvenendo la stanchezza, Lilla non aveva più scritto. Un ultimo suo biglietto, vergato nel gennaio del 1835, lasciava trapelare com'ella dovesse inchinarsi alla ferrea volontà dei parenti. L'ultima frase diceva: «Paris, per pietà, dimenticatemi! Dio era contro di noi!»
Accanto a queste lettere di Lilla ce n'era un'altra, ma non scritta da lei. Era un amicissimo di Paris Montalto, che gli dava ragguaglio del matrimonio della sua «antica fiamma», ragionandone con quella libertà di modi che si deriva dal non entrar punto nella faccenda di cui si tratta, dal non averne, come suol dirsi, nè caldo nè freddo.
«__Te Deum laudamus__!—scriveva l'amico.—Finalmente la Lilla s'è smossa dal no, e s'è degnata di far felice il cugino. Vuol essere un bel matrimonio! Lei giovine, bella e punto contenta; egli in visibilio, ma logoro e scemo. Già i Priamar, da tre o quattro generazioni, sono tutti così. Per me, credo che egli, se non fosse uno scemo, non si sarebbe tanto incocciato ad averla. E nota che, per giungere a questo sì, ha dovuto passare sotto le forche caudine; far casa nuova, pigliar palchetto al Carlo Felice, in seconda fila, vicinissimo alla Corona; fare insomma tali novità, che in casa Priamar non si sono vedute mai. Non ti dirò le chiacchiere che se ne fanno dappertutto; tanto gli è stato un caso impensato, strano, inaudito, un vero fulmine a ciel sereno. E lo Spagnuolo, poverino, che le faceva una corte spietata, ha dovuto appender la voglia all'arpione. La vigilia del matrimonio, egli è scomparso da Genova. Dicono che sia tornato a Madrid, col proposito di farsi frate. Buon pro' gli faccia. Io non sarei così pazzo. Le donne sono graziosi animaletti, da pigliarne sollazzo un giorno o due: ma guastarcisi il sangue attorno…. il cielo ne scampi ogni fedel cristiano!»
A questa lettera succedeva una lacuna di quattro anni, che Lorenzo non poteva colmare, digiuno com'era della cronaca genovese di que' tempi. Aloise, soltanto, colle sue memorie di casa alla mano, avrebbe potuto dirgli che un anno di poi il giovine Montalto aveva ottenuto, mercè le poderose attinenze del fratello a Torino, di tornare senza pericolo nei felicissimi Stati del re di Sardegna, e che nell'autunno del 1836 era in Genova, stanco, malinconico, infastidito, rifuggente da ogni compagnia, sebbene da molti desiderato, segnatamente dalle donne, alle quali era argomento di curiosità non poca.
Apriamo, noi che lo possiamo ad ogni ora, le opere di Sant'Agostino alla lettera P, nel dodicesimo volume, e troveremo il nome della marchesa Lilla di Priamar che vi era citata come una delle più ragguardevoli dame del suo tempo. Bella, arguta, assai corteggiata, questo dicono le note della società del Parafulmine: le quali tuttavia non possono trovar niente a ridire intorno ai fatti suoi, e ne dànno cagione alla freddezza del suo carattere. Abbondano in quella vece le considerazioni intorno al rammarico della famiglia, perchè la casa Priamar non è rallegrata di prole, e lo scemo, logoro e podagroso marchese vi è pettinato a dovere. Ma ecco, segue alcun che di più ghiotto. Paris di Montalto, il politicante, l'esule rimpatriato, il giovanotto più grave di Genova, del quale si notano le apparizioni in teatro, o nei geniali ritrovi, come uno stranissimo evento, Paris di Montalto è andato in casa Priamar, e sembra che guardi la marchesa con occhi più desiosi che non faccia colle altre. La cosa è tanto più credibile, in quanto che parecchi anni prima, la marchesa nubile ancora, gli andava a genio maledettamente, Ma ohimè, il romanzetto non andava più oltre; la Lilla era severa, asciutta con lui più ancora che cogli altri, e ricusava l'omaggio che tante altre, più cortesi di lei, si sarebbero recate ad onore grandissimo. Già, non era da farne le meraviglie; la Priamar era fredda come un marmo, anzi come uno scoglio. E qui veniva un bisticcio genovese sulla pietra e sul mare, che accennava alla etimologia del casato di Priamar.
In questo giudizio della compagnia del Parafulmine non c'era nulla di vero, salvo le apparenze che l'avevano tratta in inganno. Il compilatore di quella notizia, che pure apparteneva al ceto nobilesco, aveva pigliato un granchio a secco. Era giovine, e, comunque volenteroso annotatore, non era anche fatto ad intendere certi arcani del cuore. Ma le cose notate da lui, insieme con parecchie altre avvenute di poi, avevano in quella vece ad insospettire un certo Spagnuolo, a cui gli atti del Parafulmine dovevano cadere più tardi tra mani. Il savio lettore ha già capito di chi intendiamo parlare.
Ma proseguiamo il racconto. Dalle carte dell'anonimo appariva che Paris Montalto, dopo poche visite, non avesse più messo piede in quella casa. La fama della marchesa di Priamar seguitava a correre illibata, sotto l'usbergo di quella sua petrosa freddezza. Di casa sua si continuava a scrivere, per tante altre ragioni secondarie; ma di lei, particolarmente, non era più fatta menzione, fuorchè sullo scorcio del 1838, per raccontare d'una sua malattia di languore, che la costringeva ad un lungo viaggio. Questo era il Consiglio del medico, che si riprometteva moltissimo da un mutamento di clima, e proponeva una gita in Isvizzera.
Il marito, inchiodato a letto da' suoi continui malori, non aveva potuto muoversi da Genova; però la marchesa Lilla aveva dovuto andar sola in compagnia del medico. Ma su questo capitolo non c'era nulla a dire; il cronista notava candidamente che il sacerdote d'Esculapio, dottissimo, onestissimo e ben voluto da tutte le più spettabili famiglie, aveva i suoi settanta suonati. L'assenza della marchesa durò mesi parecchi, in capo ai quali tornò, ma non risanata. L'aria dell'Oberland non le aveva giovato, come sperava; laonde, trovandosi a disagio in città, era andata a chiedere la salute restìa all'aure di un suo podere di là da Sestri Levante, dove rimase forse due anni, non tanto per sè, quanto per una malattia del consorte, che, ancora in verde età, era giù di salute, pieno di acciacchi, come un gaudente sessagenario. Quando ella si ridusse da capo a vivere in Genova, era mutata del tutto nelle sue consuetudini. In casa sua non più feste, nè ritrovi di allegra gioventù, ma severe conversazioni, o piuttosto conferenze, ordinariamente tenute in mercoledì, alle quali convenivano tutta gente posata, magistrati sputasentenze, dame contegnose, nobili parrucconi, e simiglianti. Per qual ragione ciò fosse avvenuto di una donna che di poco avea varcata la trentina, come la marchesa Lilla, non si giungeva ad intendere. L'annotatore del Parafulmine, leggero oltremodo, ne dava cagione, secondo il solito, alla proverbiale freddezza della signora di Priamar.
In tal guisa i teatri, le veglie eleganti, perdevano un prezioso ornamento; per contro, i più riputati oratori di chiesa guadagnavano una assidua ascoltatrice. Era sempre a gironzare per le chiese, la marchesa Lilla; la sua testa era un taccuino ambulante delle __quarant'ore__, delle __indulgenze plenarie__, de' __tridui__ e, a farla breve, di tutte le solennità divote. Ciò che tutte le donne, le quali hanno molto amato aspettano a fare quando abbiano cinquant'anni almeno, la marchesa Lilla anticipava di venti. Perchè? L'annotatore non sapeva dirlo; si rifaceva sempre al suo ritornello, che i lettori conoscono.
Basta; per non dirne altro, al tempo in cui l'anonimo cronista deponeva la penna, la marchesa Lilla di Priamar non era più annoverata tra le signore di cui mettesse conto indagare la vita e celebrare i miracoli. Ella era citata in quella vece come una dama di specchiata pietà, come una patrona d'istituti di carità, dama di Misericordia, visitatrice di infermi, di carcerati, e via discorrendo.
Più fortunati di Lorenzo Salvani, il quale non aveva altro sott'occhi che il carteggio rinchiuso nella cassettina d'ebano, noi sappiamo dagli atti della società del Parafulmine chi fosse la marchesa Lilla. E poichè abbiamo colmata con queste notizie la lacuna dal 1835 al 1839, ripigliamo il compendio delle lettere che ella scriveva al Montalto.
Si chiariva da queste lettere che Paris aveva lasciato Genova alcuni mesi prima di lei. L'aria della terra natale non era abbastanza respirabile per un uomo segnato, com'egli, sui libri del palazzo Ducale. Troppo spesso egli era stato chiamato ad __audiendum verbum__ dall'eccellentissimo governatore, e soltanto i suoi titoli, le sue attinenze, lo avevano fino allora scampato da molestie più gravi. Per farla finita co' sospetti continui dell'autorità, Paris Montalto aveva dovuto andarsene un'altra volta in esilio, e si aggiungeva che a ciò fosse stato consigliato da persone, le quali avevano paglia in becco, ed amavano fargli cansare qualche mese di villeggiatura a Fenestrelle, o in altro orrevole castello di pertinenza dello Stato.
Questo non era vero del tutto, o solamente era una parte del vero; poichè la partenza del Montalto, se forse fu affrettata da ragioni di salvezza personale, era anche consigliata da un negozio più delicato. Ma nessuno ebbe a trapelarlo in quei tempi: la ragion politica lo coperse col suo manto pietoso. Il dispotico reggimento d'allora poteva portare benissimo la malleveria di questo e d'altri più gravi peccati.
Comunque fosse, Paris Montalto era di là dai confini tre o quattro mesi innanzi che la marchesa Lilla ne uscisse per ragion di salute; e come nessuno aveva sospettato per lui, così nessuno ebbe a sospettare per essa. E quando ella tornò, per andarsi a chiudere nel suo podere di Sestri Levante, non ci fu alcuno che più pensasse agli amori giovanili, nè ai rinnovati ardori di Paris Montalto; nè alcuno, per conseguenza, che immaginasse come certe lettere, messe alla posta di Sestri Levante, col ricapito di Enrico La Vega, a Barcellona, fossero lettere di Lilla di Priamar al marchese di Paris Montalto.
Or da queste lettere s'intendeva come il viaggio di Sestri non fosse che uno spediente adatto a colorire meglio, a rafforzar le ragioni del viaggio fatto dianzi in Isvizzera. Durante il quale, Lilla e Paris si erano' veduti; e lo accennava chiaramente il carteggio. In una di queste lettere, così scriveva la povera solitaria:
«….Abbiamo errato, Paris, ed io ne sconto la pena. Iddio non mi aveva concesso che io ritraessi dalle infauste mie nozze un frutto; ed ecco, l'ho avuto dalla colpa, ma triste ed amaro, come tutti i frutti della colpa. E non poterlo confessare! e dover contraddire alle mie viscere di madre!… Oh amico, ditemi, ve ne prego, come sta Maria, la mia bella Maria? Mi sento più raffidata, poichè essa è nelle vostre mani, e voi l'amerete anche molto per la sua povera madre. Uomo fatale, perchè vi ho io conosciuto?…. Ma voi l'amerete, non è egli vero? Voi avete un nobilissimo cuore; quando l'ho confidata a voi, mi è parso di non separarmi tutta quanta da lei.
«Paris, mio ottimo amico, io sono inferma davvero, quantunque non sia da principio venuta a seppellirmi in quest'angolo di terra se non per isviare la curiosità sospettosa della gente; inferma di membra come di spirito. V'hanno giorni che non sento la forza di uscire dalla mia camera; sto in casa quasi sempre; non vedo, nè amo vedere persona. Il mondo m'è in uggia; la natura non ha colori, il cielo non ha luce per me.
«Ditemi, Paris, ma siate sincero, ve ne supplico; è bella Maria? A chi somiglia, il mio povero angioletto? Oh Dio! e pensare che io non potrò abbracciarla; che ella non porterà il mio nome; che non la vedrò cresciuta negli anni, fiorente di bellezza, passeggiare al mio fianco, quasi un'altra me stessa!… Almeno ella sia più felice di sua madre! Non conosca le angosce, gli spasimi, e soprattutto i rimorsi di un amore come il mio! Se il cielo è giusto, ho fede che darà a lei quello che ha negato alla povera Lilla.»
Un'altra lettera, scritta sullo scorcio del 1841, diceva:
«…. Gran conforto è la preghiera agli afflitti. Io non l'ho mai sentito così profondamente come ora. Io prego, ottimo amico, io prego per essa e per voi. In tal guisa mi sembra di poter pensare ad ambedue senza peccato, ed anche (se il cielo vorrà consentirmelo) di espiare il passato. Ditemi Paris, non vivete voi nell'errore? Non siete voi sempre in aperta ribellione contro le leggi umane e divine? Ravvedetevi; non date ascolto alla superbia della ragione, che è così trista consigliera; fidatevi al cuor vostro, che io conosco buonissimo. Se sapeste come è bello il credere; e come l'animo si sente, se non per avventura più felice (chè la felicità non è di questo mondo), certo più riposato e sereno! Porgete orecchio a chi ha molto patito; il mondo è vanità; noi siamo poveri pellegrini sulla terra; dalle nostre passioni, fumo della materia, non abbiamo altro che rammarico e danno, laddove la nostra patria è in cielo, ed ogni qualvolta i nostri occhi si affisano lassù, interrogando con potenza di affetto gli spazii azzurri, i nostri pensieri medesimi si purificano, e lo spirito turbato prova una calma che non si era mai conosciuta, che non si era mai derivata dalle cure della vita quotidiana.
«Desidero che Maria diventi una buona cristiana. Voi forse, ottimo amico, non potrete darvene pensiero; ma vi sarà facile trovare una buona maestra, donna di poca dottrina, ma di molta pietà, che val meglio assai; una di quelle povere vedove derelitte, come ce ne son tante al mondo, per la quale voi sarete, inconsapevolmente, la mano della provvidenza, e il premio che questa avrà mandato a' suoi patimenti. Fatelo, Paris; ve ne prego, ve ne supplico, per Maria, per me, per quello ch'io sono stata un giorno ai vostri occhi….»
Come aveva potuto una donna, ornata ancora di tutte le conscie lusinghe della bellezza e della gioventù, commossa ancora da tutti i prepotenti ardori del sangue, trionfare cosiffattamente di sè medesima, soffocare, annientare la sua volontà, consumarsi, e diventare un'altra, tanto da poter scrivere sinceramente in quel modo all'uomo amato, al padre di Maria? I patimenti l'avevano sopraffatta; il cuore aveva ceduto agli spasimi dell'assidua tortura; Lilla non era più Lilla.
Non senza contrasto, per altro. Qualche volta la materia si ribellava alle mortificazioni dello spirito. Anche nella piaga più profondamente visitata dal ferro e dal fuoco, rimane qualche cosa, che a volte ripullula. Inoltrata negli anni, Lilla si sarebbe chetata del tutto: giovine ancora, ella durava acerbi patimenti: e l'ardore male spento dagli anni si faceva a sviare con irrequietezza febbrile, spandendolo, consumandolo in sempre nuovi tentativi, larve di operosità più affannosa che efficace.
«…. Mi sono rinchiusa in questa dimora campestre, e nelle sue umili consuetudini, più facilmente che non sperassi da prima.»—Così ella scriveva nel febbraio del 1842.—«Un tempo davo troppa parte di me alle vanità del mondo, e furono quelle che mi hanno perduta. Ora battono all'uscio, ma invano. Mi compiaccio di vestire dimesso, come una povera monaca. A volte amerei di fare qualche passeggiata all'aperto, e di respirar l'aria pura dei monti che torreggiano alle spalle del nostro palazzo; ma di lassù si scorge troppo distesa d'orizzonte, e lo spirito va in balìa di sogni pericolosi; laonde, ammonita dalla esperienza di un giorno speso in tal modo, ogni qual volta mi venga il desiderio di andare, mi costringo a non uscir nemmeno in giardino.
«Faccio male a scrivervi queste cose, mio ottimo amico; forse è male che di tanto in tanto io prenda in mano la penna. Perdonatemi: accogliete questi scritti come un'umile confessione de' miei falli, ed assolvetemi, come mi assolve il sant'uomo, ai piedi del quale io depongo ogni settimana questi ultimi atti di debolezza femminile. Egli è pietoso ed umile, questo curato, come un vero seguace di Cristo; non ho avuto segreti per lui, ed egli versa sulle piaghe del mio cuore il balsamo delle sue benedizioni. Ora egli mi aiuta in un'opera di gran sollievo per me. I bambini di questo paesello, lasciati in balìa di sè stessi dalle loro madri, non facevano altro che correre qua e là pei campi o sulla riva del mare, scalzi, sudici, alla rinfusa, a giuocare o ad accapigliarsi, come è costume della loro età. Noi li abbiamo raccolti dalla strada; ripuliti e coperti da me, vanno ogni giorno in chiesa, dove il curato insegna loro la dottrina cristiana, e chi più impara riceve in premio da me qualche bella immagine, o qualche libriccino di divozione, ed ha la speranza di venire a pranzo dalla __signora__. Poveri bambini! care creature innocenti!…
«Mio marito è buono; conoscendolo meglio, ho incominciato ad amarlo come una sorella, dirò anzi come una madre. E dire che un tempo io non potevo stargli vicina!… che i suoi mali mi facevano dare in atti d'impazienza!… Egli non esce quasi mai; i suoi dolori reumatici lo hanno tenuto quasi tutto l'inverno nella sua camera. Io mi sono posta intorno a lui come una suora di carità; ho vegliato intiere notti questo bambino di cinquant'anni. Quand'egli è meno infastidito dal male, mi dimostra con poche ma affettuose parole la sua gratitudine. Egli! gratitudine a me!… Ma Iddio mi ha ricompensata oltre i miei meriti, concedendomi di vederlo assai migliorato. Il ritorno della bella stagione fa miracoli. Se si potesse star sempre qui! Ma pur troppo bisognerà tornare in Genova, per dar sesto a molte faccende domestiche….»
Qui sarebbe stata gran ventura a poter leggere le risposte di Paris Montalto, e più grande a vedergli nel cuore, quando il povero esule andava leggendo quelle pagine spietate. Generoso qual era, certo egli doveva intendere ed anco perdonare quei manifesti mutamenti del cuore di lei. Le anime grandi sentono dolore, non isdegno; non odiano, nè sprezzano; dimenticano, o ne fanno le mostre.
Paris non dimenticava; amava sempre, a malgrado d'ogni cosa. E amando con tutte le virtù dell'anima sua, ebbe certamente a scrivere nel 1843 una lettera, da cui traboccasse una grande amarezza, perchè la risposta di Lilla (ultimo foglio di quel mesto carteggio) mostrava aperto che l'antica fiamma era spenta, e sopravviveva la fredda alterezza della gentildonna offesa. L'abbiano per fede gl'innamorati; quando un lagno strappato al cuor loro dagli spasimi di un affetto profondo non fa più vibrare la corda più tenera, la donna non ama già più, e in tal caso, che giova il proseguire, e dare ad un idolo muto, o schernitore, l'incenso spregiato delle nostre lagrime? Ora questo era il caso di Paris Montalto; ai suoi lagni, allo sfogo della sua amarezza. Lilla avea rizzato alteramente il capo, e rispondeva come una donna la quale non aveva più nulla di comune con esso lui, salvo la odiata ricordanza di un fallo.
«Finalmente (ella scriveva) ho avuto notizie vostre, e ve ne so grado. La piccola Maria che mi annunziate essere già presso di voi, e farvi compagnia, aiuterà a calmarvi lo spirito e a togliervi una volta di mente quella vostra eterna politica. Amate quella bambina, e soprattutto serbatevi per lei, perchè ella non avrà, dopo voi, alcun protettore sulla terra. Vi parlo, come vedete, il linguaggio della saviezza e dell'amicizia; che volete di più? Le nostre pazzie di gioventù furono grandi; industriamoci ad espiarle. A questo io, povera donna, vo lavorando ogni giorno.
«Avete torto a dolervi di me. Ciò ch'io sono, è opera vostra. Se il passato non mi costringesse ad arrossire, sarei certamente diversa, e potrei forse pensare senza rimorso ai lontani. Errammo; ma gli errori non debbono essere eterni. Così potessi io distruggerli, dimenticandoli; che di nulla nella mia vita avrei a pentirmi più oltre.
«Questo è un dirvi chiaramente che i vostri sospetti non giungono fino a me, e che io non potrei condonarli a chi pure dovrebbe conoscermi, se non pensassi che le tempeste della vita inaspriscono i cuori, e offuscano gl'intelletti. Quegli che voi chiamate lo Spagnuolo, è in Genova; sì certamente, ma che importa a me? Egli è qui venuto, ma colla tonaca nera della Compagnia di Gesù, ch'egli ha indossata da ott'anni. Ho avuto occasione di parlargli una volta. Egli non è più l'uomo di prima, nè credo che ricordi il passato; ma se ciò pur fosse?… Lilla non l'ha amato mai, lo sapete; ed ora ambedue non amiamo, non adoriamo altro che Dio. Questo è, io credo, il primo e l'unico punto di contatto che possono avere le anime nostre.
«In una cosa soltanto ho errato, e me ne accuso. Sappiatela, poichè essa è, insieme con questa lettera, l'ultimo atto di debolezza di quella donna che avete così mal giudicata. Or fanno due mesi, mio marito era in fin di vita. In una di quelle lunghe veglie durate al suo capezzale, mentre i medici già disperavano di lui, ho accolto nella mente un malvagio pensiero.—Non è, pensai, non è per cagion mia ch'egli muore; la natura, il cielo, lo avranno voluto; or bene…. se io rimanessi sola…. padrona di me….—E in questo pensiero mi fermai un istante; vagheggiai una vita nuova. Uno spirito perverso mi sussurrava arcane parole all'orecchio, mi additava in lontananza una distesa di sereno orizzonte…. Un lamento dell'infermo richiamò la figlia d'Eva al suo debito di moglie, e sgombrò dalla sua mente le larve di un sogno colpevole; Lilla tornò in sè medesima. Ma di quel sogno, di quell'istante d'aberrazione involontaria, inconsapevole. Iddio l'ha punita, acerbamente punita, facendole giungere nella lettera di Paris Montalto una testimonianza di oltraggiosi sospetti.
«Vi perdono, poichè è debito mio di donna e di cristiana, vi perdono; ma per l'oltraggio medesimo e per tutto ciò che l'alterezza dell'animo mio ha dovuto patire, o mutate costume, o ritenetevi dallo scrivere più oltre ad una donna la quale ha fallito una volta e solamente per voi, come solamente per voi deve arrossire di sè stessa, ma che ora non ha più nulla a rimproverarsi, se non forse la colpa di aver segreti per l'uomo a cui è legata da un sacro giuramento; e ciò per voi, solamente per voi.»
Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse far capo ad Eurialo.
Leggendo la sua parte di quel dramma intimo, che i lettori conoscono oramai per intero, Lorenzo Salvani rimase fortemente turbato. Nell'animo suo, lo sapete, era un certo che di femmineo; però egli, senza trascorrere a pronti ed acerbi giudizi, intendeva tutti i dolorosi rivolgimenti, per cui, come in altrettante filiere, aveva dovuto trascorrere, assottigliarsi, l'affetto di Lilla, giovinetta innamorata senza ardimento, donna amante senza saldezza di propositi; non abbastanza generosa per darsi tutta quanta; d'indole buona, ma di consuetudini guasta; una di quelle donne, in fine, le quali son nate per sacrificare la vita a chi le inganna, o per uccidere chi le ama davvero; povere figlie d'Eva, sì veramente, alle quali la logica diritta del cuore è offuscata da false sembianze di vero, non abbastanza notate da prima, e troppo notate e troppo ingrandite di poi.
L'orgoglio era il peccato capitale di Lilla. Dalle lettere scritte nella sua solitaria dimora campestre ella appariva soltanto una donna infelice; la puntigliosa morale che governa il mondo, o crede di governarlo, poteva condannarla; ma la logica del cuore, che non sa d'impedimenti umani, nè di patti giurati, notando nel fatto di quella donna, non già un pervertimento di sensi, sibbene l'impulso di un amor prepotente, l'assolveva, la rendeva degna di compianto. Senonchè l'anima debole era trascorsa all'eccesso dei nuovi consigli; si rifaceva al debito antico, ma rinnegando ogni senso di tenerezza umana; s'argomentava di far sentire la schietta voce della virtù sospettata, ed altro non parlava in lei che l'orgoglio offeso. La superbia aveva vinto l'amore, triste istoria, solito epilogo di tanti romanzi!
Lorenzo mise l'ultima lettera accanto alle altre nel cofanetto, lo chiuse e di bel nuovo lo depose nel cassettone. Egli conosceva finalmente l'arcano dei natali di Maria; ma che farne? come trarne giovamento per lei?
Innanzi di metter mano su quel carteggio, egli aveva fatto il disegno di raccomandare la sua sorella adottiva alle cure del generoso Assereto. Ma dopo aver letto que' fogli che in così strana e inaspettata maniera gli mostravano Maria figliuola d'un Montalto, e congiunta di sangue ad Aloise, il primo consiglio più non gli parve il migliore. Aloise, era al pari dell'Assereto uno schietto amico, un gentiluomo, un vero uomo; per giunta si chiariva esser egli l'unico protettore naturale, autorevole, della fanciulla; a lui dunque si spettava la custodia dell'arcano.
Le quali cose meditate, e diremo quasi librate sulla bilancia, Lorenzo Salvani diè di piglio alla penna, per scrivere una lettera ad Aloise di Montalto. Ma egli aveva a mala pena incominciato, che ancora mutò consiglio, parendogli meglio fatto di andare egli stesso a cercar dell'amico. Molte cose si dicono agevolmente a voce, che sulla carta richiedono eterni rigiri di frasi, e poi si teme di non averle dette per modo che altri le intenda a puntino. Suonavano in quel mentre le nove del mattino; certo, Aloise era in casa; lo andar da lui tornava più agevole e più spedito dello scrivere.
Rassettandosi in fretta per andar fuori, aperse l'uscio della camera; ma nella sala d'entrata s'imbattè in Maria che appunto veniva a chieder di lui.
—E la vostra colazione?—diss'ella, notando come Lorenzo si fosse avviato all'uscio.
—Non ne ho voglia, stamane;—rispose il giovine.—Del resto, non starò fuori più di un'ora.—
Ma in quella che Lorenzo parlava, la giovinetta aveva potuto scorgere com'egli fosse pallido in viso e turbato.
—Che avete, Lorenzo? Voi siete ammalato….
—No, buona sorella, non ho nulla; ho letto molto e ho bisogno d'aria.
Addio; tra un'ora e mezzo alla più lunga, sarò di ritorno.—
E senza aspettar altro, si volse all'uscio, lo aperse e partì. Dieci minuti dopo, era in via Balbi e scampanellava all'uscio del marchese di Montalto.
Ma Aloise, per dirla nello stile di Lucullo, non era dormito quella notte in casa di Aloise, e il servo non seppe dire a Lorenzo nè dove fosse, nè quando sarebbe ritornato; soltanto sapeva e diceva che da due giorni il suo padrone era fuori.
Che fare? A Lorenzo venne in mente il Pietrasanta, l'amico fedele del Montalto, come quegli che certo avrebbe saputo dirgli se fosse possibile, e quando, di abboccarsi con lui. E difilato si mosse per andarlo a cercare, ben sapendo ove stesse di casa. Per fortuna non doveva andare lontano, poichè il palazzo dei Pietrasanta era sulla piazza della Nunziata.
Giunto al portone e saputo che il marchesino non era uscito, Lorenzo salì al secondo piano e scampanellò all'uscio di casa. Un servo in mezza livrea venne ad aprirgli, per rispondergli asciuttamente, poi ch'ebbe udita la sua domanda, che Sua Eccellenza era a letto, e quando era a letto non si poteva scomodarla.
—Dategli questo;—soggiunse Lorenzo, sporgendogli un suo biglietto da visita,—e v'accorgerete di non aver fallito a svegliarlo, od altrimenti a disturbarlo. Io aspetterò qui.—
Il servo sì strinse nelle spalle, e lasciatolo solo nella vasta anticamera, andò, sebbene di male gambe, a far l'imbasciata. Dopo tre o quattro minuti, che Lorenzo spese a contemplare un Noè del Grechetto, che entrava nell'arca con ogni generazione d'animali, ricomparve il servitore, ma stavolta tutto inchini e sorrisi, per dirgli:—Entri, signor avocato; il mio padrone l'aspetta.—
Percorse due o tre sale sontuosamente arredate, nelle quali se ne stavano contegnosi e muti una dozzina di antenati d'ambo i sessi; sulla tela, s'intende. Lorenzo Salvani fu guidato alla camera dell'amico, più che dagli atti ossequiosi del servitore, dalla voce medesima del Pietrasanta, il quale gridava dalla sua cuccia:
—Siate il benvenuto, amico Salvani! Venite con me a deliziarvi nello spettacolo dell'alba!
—Dell'alba?—chiese Lorenzo, accompagnando le parole col suo placido sorriso, in quella che entrava nella camera del Pietrasanta:—volete dire quella de' tafani?
—Non ne conosco altre, io; sebbene pel fatto di San Nazaro, dovrei dire il contrario. Ma un fiore non fa primavera; la mia alba, eccola…. __Bell'alba è questa__!—
E usando di quella dimestichezza che era tra lui e Lorenzo, il Pietrasanta si sollevò quasi in piedi sul letto, col lenzuolo ravviluppato intorno alla persona, per dare immagine dell'alfieresco personaggio a cui rubava il suo famoso emistichio.
—Ma lasciamo la tragedia in disparte;—proseguì l'allegro giovanotto, ricadendo col gomito sul guanciale.—lo vi ho fatto entrar qui, perchè non aveste ad aspettar troppo il mio scendere __dalle molli piume__. Licenziatemi quest'altra frase, vi prego, poichè stamane sono nel classico, e appunto quando giungevate voi stavo pensando a due personaggi dell'Eneide.
—Oh diamine! E chi sono, costoro?
—Ve lo dico subito. Ma, prima di tutto, sedetevi. Guardate, là, presso a voi, c'è un mazzo di spagnolette. I fiammiferi sono qui, sul tavolino. Io fumo come il Vesuvio, reggia di Vulcano, o come l'Etna, quando Encelado si fa lecito di respirare.
—Ma davvero siete classico, stamane!—disse Lorenzo, mentre, per contentare l'ospite amico, accendeva una spagnoletta.
—A proposito di fumo, Teodoro!—proseguì il Pietrasanta, chiamando il servitore, che fu sollecito a comparir sulla soglia.—Apri quella finestra, ma lascia chiusa la persiana, «perchè la brezza mattutina un varco—trovi, e il raggio del dì non ci percuota.—Vanne!» Ed eccovi ora, in disadorna prosa, a che stavo pensando, mio caro Salvani, innanzi che veniste voi. Pensavo a que' due amici inseparabili che Virgilio ha dipinti, Niso ed Eurialo. Ho tradotto dieci anni or sono quell'episodio sulle panche di retorica, e m'è rimasto impresso. Che bella cosa! dicevo tra me; che bella cosa, era l'amicizia ne' tempi andati! Niso ed Eurialo nel Lazio, Damone e Pizia a Siracusa, Oreste e Pilade in Grecia, Castore e Polluce in cielo…. Mitologia, tempi eroici, bellissime cose! Ma di presente tutto è mutato!—
Lorenzo Salvani sorrideva sempre. Il sorriso era stampato, Siam per dire, sulle sue labbra, a dissimulare l'interno affanno, come dissimula il volto una maschera di carnevale.
—Ma che vuol dire tutto questo sfoggio di erudizione?—dimandò egli.
—Vuol dire che a' tempi nostri non ci sono più amici. Non mi dite di no; non parlo per voi, Salvani, che vedo così di rado, e non ne so veramente il perchè; parlo pel signor Aloise di Montalto, giovine biondo e infido, Niso che s'infischia d'Eurialo, Damone che manda Pizia a quel paese, Oreste che…. Non ridete Salvani! Sono venti giorni, senza mettere in conto questo, incominciato appena, che Aloise non viene da me, e quando io vado da lui, non lo trovo in casa.
—Diamine! E così, sono venti giorni che non lo vedete?
—Oh, non dico già questo. Qualche volta lo vedo, ma è una fortuna che io debbo guadagnarmela con gravi stenti, con lunghi pellegrinaggi, come a' tempi delle crociate.
—Ah, capisco,—disse Lorenzo;—c'è qualche donna di mezzo.
—Sicuro, una donna. Oh le donne, le donne! __Gens inimica mihi tyrrhenum navigat aequor__!—gridò il Pietrasanta, con più enfasi di Giunone nel suo abboccamento con Eolo.—Ma scusatemi, Salvani; per raccontarvi i miei mali, dimentico che siete probabilmente venuto per parlarmi d'altro.
—No, appunto venivo da Eurialo perchè non avevo trovato Niso in casa.
—Ah, vedete? Ci ho gusto che vi sia toccato quello che tocca a me. Ma ditemi, può fare Eurialo quello che avrebbe fatto Niso, e con tanto piacere, per voi? Son tutto vostro, Salvani.
—Grazie;—rispose Lorenzo.—Desideravo parlargli; ma poichè non lo trovo, gli scriverò una lettera, e voi vi darete la briga….
—Di fargliela avere?—interruppe il Pietrasanta.—Sicuramente. Se oggi non viene, domani lo scoverò io.—
Un moto delle labbra di Lorenzo dimostrò ad Enrico Pietrasanta che non bastava ancora.
—Si tratta di cosa grave?—dimandò egli, mettendo la sua gaiezza mattutina in disparte.
—Gravissima; almeno per me.
—Diamine! e perchè non dirmelo subito? Ed io che stavo a ciaramellare, a ridere…. Scusatemi, Lorenzo!…
—Vi pare?—interruppe Salvani, stringendo affettuosamente la mano che gli stendeva l'amico.—Voi siete un'anima nobile, Pietrasanta. Rendetemi un servizio e dimostratemi, contro la vostra opinione di quest'oggi, che l'amicizia non è un nome vano. Aloise ha da avere, oggi medesimo, una mia lettera, e da venire, da correre a Genova, appena l'avrà letta.—
Enrico stette un tratto sovra pensieri, come se misurasse in cuor suo tutte le probabilità del negozio; quindi rispose con breviloquenza cesarea:
—L'avrà, la leggerà, verrà. Teodoro!… Ehi, dico, Teodoro!…
—Eccellenza!—esclamò il servitore, ritornando come un automa in sull'uscio.
—Fa attaccare il mio __brougham__…. no, anzi il mio __landau__, per le undici in punto.
—Eccellenza, le undici son già suonate.
—Non importa; fa attaccare prima che ribattano.
—Corro subito.
—Avete già scritta la lettera?—chiese Enrico a Lorenzo.
—No, ma se permettete….
—Teodoro!
—Eccellenza!
—Condurrai il signor Salvani nel mio studio. Là troverete ogni cosa,—soggiunse il Pietrasanta, volgendosi a Lorenzo;—io intanto salto giù e mi vesto in…. fretta. E bada tu, Teodoro, quando il signor Salvani avesse a venire altre volte, fallo entrare, e subito, a qualunque ora, come l'altro mio amico Aloise.
—Non ne dubiti. Eccellenza; ora che lo so….—Lorenzo sorrise mestamente, come volesse dire: sarà inutile, oramai! E seguì Teodoro che lo condusse nello studio, elegantissimo stanzino dove il Pietrasanta non istava di certo lunghe ore assorto, sebbene ci avesse una piccola libreria e due trionfi di pipe turche colle canne di gelsomino.
Rimasto solo là dentro, Lorenzo andò alla scrivania. Sullo scannello stavano preparati a ricevere il battesimo dell'inchiostro due o tre quinterni di finissima carta a filone, che portava la lettera E, sormontata da una corona marchionale, stampata d'inchiostro azzurro, sul margine dei fogli. Il primo di questi, su cui caddero gli occhi di Lorenzo, oltre quel segno stampato, recava un cominciamento di epistola, e la frase vocativa: «__Ma bien-aimée__» dinotava due cose: che Enrico Pietrasanta teneva carteggio colle donne (__gens inimica sibi__), e che non usava sempre finir le sue lettere.
—Egli è felice!—esclamò Lorenzo, leggendo involontariamente quelle due paroline. Indi, messo da banda quel foglio, incominciò a scrivere la sua lettera ad Aloise. Ma era un lavoro difficile. Scrisse, cancellò, riscrisse, e finalmente, dopo avere inchiostrati tre fogli, che andarono a pezzi nel cestino, gli venne fatto di metter insieme questi paragrafi:
«Amico,
«Forza di eventi che tornerebbe inutile ora di starvi a chiarire, mi costringe a lasciar sola, senza aiuto, senza consiglio, la mia buona e santa sorella adottiva. Io la confido alle cure di Giorgio Assereto e alle vostre, ma più assai alle vostre, per quelle ragioni che intenderete agevolmente, quando avrete letto un antico carteggio che sta chiuso in una cassettina d'ebano, segreto di famiglia che ho dovuto leggere anch'io, questa mattina medesima. Mostrate questa lettera a Maria di Montalto (ella può portare questo nome, se non forse al cospetto del mondo, certo agli occhi di un gentiluomo come suo cugino Aloise) ed ella vi dirà dove si trovi la cassettina.
«Voi e il mio vecchio compagno Assereto sarete per quella infelice due fratelli, in cambio di uno che ella perderà; sarete l'anima di Lorenzo Salvani in due; il suo consiglio di famiglia, a gran pezza migliore d'ogni altro che potrebbe darle la legge; perchè a voi non occorrono articoli di codice, e l'amicizia, l'onore, sono i più sicuri canoni di giurisprudenza del mondo.
«Addio, Aloise, mio avversario di un'ora, e mio amico di tutta la vita; e se non avessimo a vederci più, dite alla gentile Maria che mi perdoni questa diserzione della custodia che m'aveva affidato mio padre; ed ella, e voi, e l'Assereto, amate un pochino la memoria del vostro, infelice ma non immemore,
Ciò scritto, rasciugò due lagrime che erano venute fuori ad offuscargli la vista; chiuse il foglio nella sopraccarta, e vi scrisse sopra:
«Al marchese Aloise di Montalto. Sue mani.»
In quel mentre, capitava sull'uscio dello studio il Pietrasanta, già vestito a mezzo, anzi per due terzi, poichè aveva già fatto il nodo della cravatta, opera capitale nella acconciatura d'uno zerbinotto par suo.
—Così presto?—chiese Lorenzo.
—O che, credete ch'io non sappia fare alla svelta, quando occorre? Son venuto in maniche di camicia, temendo che aveste già finito da un pezzo e vi annoiaste ad attendermi.
—No; appunto ora ho finito di scrivere.
—Tanto meglio. Venite dunque; metto la corazza, il sorcotto, e il cimiero, e sono ai vostri comandi.—
La corazza era il panciotto, come i lettori avranno già indovinato; il sorcotto era una attillata giacca di velluto; il cimiero un cappellino di paglia, fasciato d'una larga fettuccia nera, i cui capi pendevano svolazzanti fuor della tesa, ma non tanto da nascondere la discriminatura delle chiome, che scendeva diritta e sottile fino al basso della nuca.
Come si fu vestito di tutto punto, prese dalle mani del servitore la sua mazzetta di giunco indiano, col pomo d'argento, e il fazzoletto imbevuto d'acque odorose; quindi dalle mani dell'amico la lettera, che ripose accuratamente nel portafoglio, ed ambedue uscirono sulle scale.
Giù nel portico era già la carrozza ad attendere, col suo cocchiere gallonato a cassetta, collo staffiere allo smontatoio, e una coppia di cavalli rovani che scalpitavano, aspettando il segnale del loro automedonte.
—A rivederci, dunque, se non venite anche voi per un tratto di strada con me.
—No, debbo scendere verso Banchi; a rivederci, e grazie!
—Che! che! faccio un po' di moto. A stasera, Salvani.
—Stasera!—ripetè macchinalmente Lorenzo. E fatto un ultimo saluto all'amico, se ne andò pedestre verso una delle strade inferiori della città.
—Eccellenza, dove si va?—chiese lo staffiere che era salito a cassetta, daccanto al cocchiere.
—Veh che bestia! Io, s'intende, non tu! A Quinto, villa Vivaldi; e di buon trotto!—
"Amor che a nullo amato amar perdona".
Fornita quella importantissima bisogna, Lorenzo Salvani aveva da tornare a casa, sebbene per pochi minuti. Quel giorno egli fingeva di dover contentare l'amico Assereto, facendo una scampagnata con lui, e non gli rimaneva più altro a fare che accennar la cosa a Maria, perchè non avesse da attenderlo per desinare.
Il pensiero della fanciulla era l'unico rimorso che avesse in cuore Lorenzo. Quando l'angelico sembiante di Maria gli si parava dinanzi agli occhi della mente, egli bene intendeva che il suo disegno, in apparenza così generoso e tale da meritargli lode e rimpianto presso l'universale, era un delitto bello e buono al cospetto della sua coscienza, ch'egli non poteva ingannare. Ed erano allora combattimenti feroci nell'anima sua travagliata.—Ma, infine, dovrò io vivere a questo modo? Sarò io incatenato, come Prometeo, alla rupe dell'esistenza, col rostro dell'avvoltoio nel cuore, e senza il conforto di tornar utile in alcuna maniera ad anima nata?—
Quella mattina, un poco di calma gli era pur derivato, non sapremmo se più dalla istessa vicinanza della catastrofe, o dal pensiero di aver provveduto, come si poteva meglio, al futuro.
—Vivo,—pensava egli, in quella che uscito dal palazzo Pietrasanta si avviava al basso della città,—non tornavo di alcun giovamento a lei. Morto io, conosciuto l'arcano de' suoi nascimenti, un nobil parente, se non forse sua madre medesima, oggi vedova, ricca e padrona di sè, avrà cura di lei, tergerà facilmente le lagrime che la perdita di un fratello d'adozione potrà farle versare. Animo, dunque; ciò che importa oggi, è di vederla un'ultima volta, senza balenare; di poter uscire da capo, senza che ella s'insospettisca di nulla.—
Sicuro; andar tranquillamente a casa, annunziare a Maria che quel giorno egli desinava fuori, star dieci minuti a ragionar di cose da nulla, uscire da capo e buona notte; questo era il disegno, facile a concepirsi, facile a mandarsi ad effetto, tranne i casi imprevisti, od una di quelle cose da nulla, che conducono i casi a farne qualcuna delle loro, come spesso interviene.
Le cose da nulla c'erano, e attendevano in casa sua l'inconscio
Salvani.
I nostri lettori non ignorano che il servo Michele era nel segreto della congiura, e rammentano certamente il suo dialogo col Bello nell'osteria della Piccina, nel qual dialogo s'eran fatte allusioni parecchie all'impresa, e alla parte che ci aveva da prendere Lorenzo. Queste cose. Michele non le sapeva soltanto dal Bello, ma dal suo padrone medesimo, il quale non avrebbe onestamente potuto tacerne a quel vecchio commilitone di suo padre, legionario d'America e veterano di Roma. Michele, sebbene in umilissimo stato, era quel che oggi si direbbe un uomo politico; e Lorenzo Salvani, se non era andato tant'oltre da lasciargli intendere che cosa aspettasse per sè dallo scoppio della congiura, aveva pur dovuto chiarire al suo fidato, com'egli ci fosse a capo fitto, per riuscire a raccomandargli di star zitto in casa, ed altresì a persuaderlo che volesse tenersi quella sera in disparte, per custodire la signorina Maria.
A questo non s'era piegato agevolmente il vecchio servitore, Le mani gli pizzicavano anche a lui, e un po' di governo provvisorio fatto con quelle sue mani, gli sarebbe parso doppiamente gustoso. Ma Lorenzo gli aveva dipinto con tanto vivi colori il pericolo di lasciar sola in casa Maria, e lo sgomento naturalissimo della fanciulla quando ella avesse udito far le schioppettate per le vie, che Michele, il quale amava la signorina quanto il signorino, anzi quanto l'Italia e la repubblica insieme, s'era finalmente rassegnato; e dopo aver promesso di starsene colle mani in tasca, aveva anche giurato di tenersi la lingua tra i denti, per non spaventare innanzi tempo la sua padroncina.
Aveva giurato, diciamo; ma serbava il giuramento a modo suo, sebbene colle migliori intenzioni del mondo, e col più saldo proponimento di non mettere la fanciulla in sospetto. Figuratevi che da parecchi giorni, in casa, mentre accudiva alle sue faccende, non faceva altro che canticchiare le canzoncine spagnuole. Ora, per Maria era segno di guerra, quando Michele cantava spagnuolo, e segno di guerra grossa, imminente, quando erano canzoni di genere gaio e soave. Michele somigliava in ciò a quel gran capitano che soleva dissimulare la gravità dei suoi disegni con qualche facile cantilena mormorata tra' denti. E più Michele era internamente agitato, più dava nell'arcadico; più era grave il sopraccapo, più gaia la canzone.
Già due o tre volte nei giorni precedenti la giovinetta aveva chiesto a Michele che cosa volessero dire quelle sue insolite riprese di canto spagnuolo.
—Nulla, nulla!—aveva risposto il servitore con aria impacciata.—Canto per distrarmi un tantino, la non ci abbadi!—
E poi, gli uscivano dette, tra una strofa e l'altra, certe frasi di colore oscuro, le quali non aveano nulla a strigare colle canzoni, nè con ciò ch'egli andava facendo. Ed ella ad interrogarlo da capo, ma senza cavarne un costrutto.
—È tempo di finirla!—aveva gridato Michele, proprio la sera innanzi, in quella che stava in cucina a rigovernare il vasellame da tavola, e non s'era addato della presenza della padroncina che passava lì presso.
—Che cosa?—aveva chiesto Maria, fermandosi sull'uscio.
—Nulla, signorina. Parlavo da solo come fanno i matti.
—Non avete detto che è tempo di finirla?
—Ah sì, certo, gli è tempo. Se comandassi io…
—Da bravo, Michele! Sempre colla politica?
—Che vuole, signorina? Il dente batte…. cioè, la lingua duole…. insomma, dico che se comandassi io, la finirei senza tanti discorsi…. Ma già, un giorno o l'altro, l'ha da venire, la resa dei conti; e certi stancapopoli…. Ma basta, acqua in bocca; se no, esco fuori dei gangheri.—
Questi discorsi non erano fatti, come i lettori argomentano, per raffidare Maria; Maria che aveva notato la crescente tristezza di Lorenzo; Maria che lo vedeva taciturno, chiuso in sè stesso, non d'altro sollecito che di sviare il discorso quando ella si faceva a chiedergli la cagione di quel suo umore malinconico; Maria infine che talvolta pregava Michele a volerla aiutare per vincere quella ritrosia di Lorenzo, e non otteneva altro da lui che diplomatici stringimenti di labbra.
Però, argomentate come fosse grande il turbamento della giovinetta, nella mattina del 29 giugno, allorquando Lorenzo fu uscito ed ella passando rasente l'uscio della camera di lui, sentì odore di bruciaticcio, ed entrata prontamente, vide ogni cosa sossopra, minuzzoli di carta ammonticchiati nel cestino, rimasugli di lettere arse in un angolo, le cassette del canterano mezzo aperte e quasi vuote, le poche carte rimaste incolumi accuratamente raccolte e legate, tutti i segni, infine, d'un lungo e paziente riordinamento, che, per la sua novità, non le presagiva nulla di buono.
Il cuore della poverina batteva, batteva forte, come se fosse ad ogni tratto per rompersi. Ella non giungeva a intendere le ragioni di quella lunga e molesta fatica; ma indovinava che una assai grave necessità l'avesse consigliata a Lorenzo.
Credete nei presentimenti? Noi sì, e abbiamo dalla nostra intelletti fortissimi; tanto è vero che al mondo c'è di molte cose oscure tuttavia, e non sempre la nuda ragione è norma ragionevole all'animale che pensa. Ora la povera Maria, alla vista di tutti quegli apprestamenti malinconici, sentì una stretta al cuore, che le diceva esser quel giorno uno dei più gravi, forse il più grave, il più triste, di tutta la sua vita!
Corse difilata da Michele; il quale, come la vide giungere con quel piglio risoluto, fece atto di non aver occhi se non per le sue faccende.
—Non mentite, Michele;—disse ella, guardandolo in faccia e costringendolo a guardarla del pari,—voi sapete qualcosa.
—Io nulla, signorina, proprio nulla.
—Nulla! di che?
—Ma…. di quello che vorrà dir Lei;—ripigliò impacciato Michele.
—Guardatemi bene in viso, se potete!—soggiunse Maria.—Troppo presto vi siete provato a negare. Stamane c'è qualcosa.
—Stamane? Oh no! che vuole Ella ci abbia ad essere stamane? Di mattina fa un bel dormire per molti, e chi dorme non piglia pesci.
—Suvvia, Michele, non istate a celiare sulle parole. Oggi c'è qualcosa di grave, e Lorenzo ci ha mano. Non mi dite di no; io so tutto.
—O come?—esclamò il servitore, spalancando gli occhi le braccia.—Egli le ha detto?…
—Ah! ci siete caduto?
—Come una bestia!—aggiunse mentalmente Michele.—Maledetta lingua! Ma veda, signorina, io non so niente…. cioè…. qualcosa ci ha da essere, ma ragazzate, cose da nulla; il signor Lorenzo c'entra come c'entro io, che non c'entro affatto; gliene hanno parlato, ed egli ne ha parlato con me…. Ma già, poi, non ne faranno niente….—
E voleva tirare innanzi su questa solfa; ma la signorina era diventata pallida, si sentiva venir meno, e cadeva su d'una scranna, in quella che colla mano tesa gli accennava di smettere quelle sue invenzioni. Qui il povero servitore perde veramente la bussola.
—Si faccia animo, padroncina! Se il signor Lorenzo giunge a risapere che mi son lasciato cavare il segreto di bocca, povero a me! Sono una talpa; anzi peggio; una talpa si sarebbe avveduta di qualche cosa. Animo, padroncina; non mi faccia quegli occhi!… La cosa non è grave come Ella immagina; neanco il diavolo è così brutto come si dipinge….
—Ditemi tutto, Michele!—gridò la fanciulla, afferrando le mani callose del veterano.—Ditemi tutto, se non volete vedermi morire d'angoscia!
—Oh, per l'anima di…. Morir lei! Ecco, le dirò ogni cosa; tanto ho cominciato, e chi ha fatto il male faccia la penitenza.
Così preso l'aire, il buon Michele ci andò proprio di punta, raccontando ogni cosa per filo e per segno a lei che stava ansiosa ad udirlo; come per quella sera medesima tutti i volenterosi avessero giurato di menar le mani, per metter Genova a tumulto, e così riuscir d'aiuto efficace a Livorno, a Napoli e ad altre regioni della penisola, le quali avevano da sollevarsi tutte, per farne una sola e libera famiglia; come una parte dei congiurati dovessero muovere all'assalto dei forti, altri impadronirsi del palazzo Ducale, costringendo le poche soldatesche del presidio ad uscir fuori le mura della città, altri piombar sulla Darsena, e ghermiti i legni da guerra che erano in porto, dar opera sollecita ad una spedizione navale per altre provincie italiane; e il resto in conseguenza. Ma Lorenzo? chiedeva Maria. Lorenzo doveva capitanare un centinaio d'uomini pronti ad ogni sbaraglio, quelli appunto che dovevano tentare il colpo dalla parte del mare, a mala pena i forti principali fossero caduti in mano del popolo; la qual cosa doveva accadere di prima sera, ed essere annunziata da un colpo di cannone dall'alto del forte Sperone, quindi….—
Quindi il discorso di Michele fu interrotto sul più bello da una scampanellata all'uscio di casa.
—Poveri a noi!—gridò il servitore, balzando al suono improvviso.—Questi è il signor Lorenzo. Se egli sa ch'io non ho tenuta la lingua a segno, sono un uomo spacciato. Padroncina, mi raccomando….—
La giovinetta lo raffidò con un gesto, e in quella ch'egli andava ad aprir l'uscio, ella si ridusse nella sua camera da lavoro. Giunta colà, si assise al suo deschetto, nel vano della finestra, e tolse tra mani il suo ricamo; ma la poverina, era cosiffattamente fuori di sè, che non potè mettere un punto, e rimase colla mussolina tra le dita, le braccia prosciolte sulle ginocchia, gli occhi sbarrati, immobile come una statua.
Pochi minuti dopo, Lorenzo entrava nella camera della fanciulla, colle labbra composte a sorriso. Maria non si addiede di quel sorriso, tanto era turbata; ma ben s'avvide Lorenzo del turbamento di lei, e il sorriso col quale s'era studiato d'ingannarla, scomparve d'un subito, cedendo il luogo alla consueta mestizia.
—Maria,—diss'egli avvicinandosi,—oggi sono a pranzo fuori….—
Voleva aggiungere: con l'Assereto; ma non ardì. Al primo vederla, aveva rapidamente, quasi istintivamente, capito che quello non era tempo da mendicar pretesti, sibbene da disporsi a gravi ragionamenti, con schiette ed aperte parole.
—Lo so;—aveva risposto la giovinetta, crollando lievemente il capo e senza alzar gli occhi verso Lorenzo.
—Come?… sapevate….
—So tutto, io.
—Ah! Michele ha parlato….
—No, non accusate il povero Michele. Ho indovinato, la mercè di questo (e accennava il cuore) che non mi ha ingannata mai. Ditemi ora, Lorenzo, quali sono le vostre speranze? che cosa pensate di fare?—
Il giovine, andato a sedersi su d'una scranna di rincontro alla parete, rimase taciturno guardando il pavimento. La fanciulla non udendo risposta alla sua domanda, incalzò:
—Voi non siete uso a mentire, Lorenzo, fratello mio; vi ho udito sempre a dire la verità, anche se dovesse tornarvi a danno. Parlate dunque; sperate di esser utile alla patria vostra, con ciò che tentate?
—No!—rispose asciuttamente, dopo una breve pausa, il giovine
Salvani, senza alzar gli occhi da terra.
—No, voi dite? E allora, perchè tentate?—L'interrogazione della fanciulla, ricisa, diritta, sibilò come uno strale all'orecchio di Lorenzo. Tremò egli, ma non rispose parola, disponendosi a sviare il discorso.
—Non parliamo di me!—disse poscia,—parliamo di voi. Stamane, rassettando le mie carte, ho dovuto aprire la cassettina d'ebano, e leggere il segreto de' vostri natali. Nè avrei dovuto ragionarvene io, sibbene un altro, stasera o dimani; cioè a dire Aloise di Montalto…. vostro cugino.
—Che dite voi mai?—proruppe Maria, lasciando cadere il ricamo che aveva tra le mani sospeso.
—Sì, vostro padre era un Montalto. Vostra madre, povera donna, ha molto patito, o Maria. Ella vive; è libera, ora, e padrona di sè; quando conoscerà la sua figliuola da tanti anni perduta, l'amerà, l'amerà!—
La sospensione che s'era fatta nell'animo di Maria alle prime parole di Lorenzo, cessò tutto ad un tratto. Un altro pensiero, più grave, più urgente, le ingombrava lo spirito.
—E perchè avete aperta la cassettina?—dimandò ella, piantando gli occhi in viso a Lorenzo.
—Perchè…. perchè non potevo lasciarvi, o Maria, senza prima aver provveduto ai casi vostri.
—Ai casi miei! è presto provveduto,—soggiunse ella, con accento di profonda intenzione.—La mia sorte non si dipartirà dalla vostra. Senza voi, senza la casa vostra, che sarebb'egli avvenuto della povera bambina?… Ricordo,—proseguì con tono solenne,—ricordo i primi anni della mia infanzia, e un uomo dai capegli neri, dal viso pallido e severo, che mi teneva sulle sue ginocchia, e mi baciava e piangeva, ed io, aggrappandomi a lui, gli gridavo: «babbo, non piangere!» Vedete, Lorenzo, questo ricordo d'infanzia era il mio segreto, il mio unico segreto, che ho custodito gelosamente dentro di me, senza mai farne parola ad alcuno; un ricordo che spesso mi assaliva, e che, fatta più grandicella, mi stemperava in lagrime, nella solitudine della mia cameretta. Ricordo altresì che fui posta un giorno, non so il come nè il quando, in compagnia d'una vecchia dama, e che io dimandavo del babbo e piangevo. Ella mi rispose che mio padre era in cielo, e m'insegnò a giungere le mani, e a pregare per lui. Io non so molte orazioni; ma questa preghiera non l'ho mai dimenticata. Da quel tempo, ogni mattina, ogni sera, ho giunte le mani ed ho pensato a mio padre, la cui faccia pallida, severa, lagrimosa, mi stava davanti agli occhi. Poi, venne un signore che sulle prime mi parve mio padre, e rammento che corsi ad abbracciargli le ginocchia, chiamandolo babbo.—Sì, bambina, chiamami con questo nome!—mi disse egli con una voce soave, che voi conoscete, o Lorenzo;—d'ora innanzi io sarò veramente tuo padre.—E andai con lui di buon grado, come se lo avessi conosciuto ed amato da un pezzo. Ed egli mi fu padre davvero, e mi diede anche una madre; la vostra; quell'angelica donna, sulla tomba della quale egli è andato a morire, amante disperato; accanto alla quale egli riposa, da due anni, nel camposanto di Montobbio. Perdonatemi, Lorenzo, se io turbo l'anima vostra con queste dolorose ricordanze. Esse sono, come per voi, sacrosante per me; ho vissuta la vostra medesima vita; sono cosa vostra, io, e i vostri son miei. Così ha voluto il cielo; così voglio pur io. Il passato non si distrugge, Lorenzo; esso è la catena che ci lega al futuro. Una nuova famiglia! Una madre che mi amerà!… Ma io l'ho avuta, una madre; ed era Luisa Salvani. La nuova, di cui mi parlate, mi darà essa un fratello? Mi darà essa colui che correva gaio al mio fianco? colui che bambina mi baloccava colle sue arti fanciullesche? colui che più tardi ha patito per me e con me? colui che fu la mia guida, la mia salvezza, la mia vita? Andate, Lorenzo; fate ciò che vi consiglia il cuor vostro; ma non chiedete a Maria di strapparsi il cuore dal petto, e di vivere, quando tutto il passato, tutto il suo dolce passato, dintorno a lei fosse morto!—
E pronunziate queste ultime parole, la povera fanciulla diede in uno scoppio di pianto. Lorenzo Salvani pallido, ansante, non aveva potuto interromperla; non sapeva che risponderle. L'animo suo durava una guerra la quale ai lettori sarà più facile argomentare, che non a noi raccontare.
—Maria! Maria!—gridò egli perduto.—voi mi straziate l'anima con queste parole. Abbiate pietà di me, ve ne supplico. Lorenzo, il vostro povero fratello, non è più buono a nulla su questa terra. Non vedete? Il destino mi perseguita, m'incalza; la mia vita è senza luce di allegrezza presente, senza un barlume di speranza lontana. Ella è buia buia, paurosa, come un sogno d'infermo, trabalzato senza posa di dolore in dolore, di sgomento in sgomento. Siate pietosa, o Maria, a un uomo il quale non ha più coscienza di sè; lasciate che il mio fato si compia!
—Quanto dolore. Dio santo!—proruppe Maria in un impeto di angoscia prepotente, suprema, che le tolse ogni misura, ogni rispetto di sè:—quanto dolore, per una donna che non vi ama! Ma che ho fatto io a quella donna, perchè ella abbia da uccidermi in tal guisa?—
Sussultò Lorenzo a quelle parole, che il soverchio dell'amarezza dettava a Maria; ma egli era tuttavia lontano dallo intenderne il perchè.
—V'ingannate, sorella;—rispose con accento sicuro;—io non amo quella donna che voi dite: non la ricordo nemmeno.
—Giuratelo!
—Per tutto quanto ho di più sacro al mondo; per la memoria venerata dei miei parenti, che voi avete invocata testè, per voi medesima, lo giuro; quella donna mi ha fatto del male, ma da gran tempo io la ho dimenticata, e dimenticati i dolori che mi vennero da lei; ella ora è per me come non fosse vissuta mai.
—E perchè dunque volete morire? Perchè,—soggiunse con piglio deliberato la fanciulla,—io vi ho inteso, Lorenzo. Voi avete dato sesto a tutte le cose vostre, come un uomo che si dispone ad uscire di vita. Perchè dunque volete morire?
—Perchè? Ve l'ho detto. Perchè la vita m'è in uggia, non potendo io quind'innanzi esser utile ad alcuno; perchè v'hanno nella vita gradi di decadenza, sotto i quali non c'è più altro che l'abbiettezza; momenti in cui il soffrire pazienti, il volere aggrapparsi all'esistenza, sarebbe viltà senza pari. Voi siete giovine, bella, soave; voi dovete essere felice, se Dio è giusto con anima nata. Perduto me, non rimarrete già sola; che anzi, rotto il legame di una oscura e turpe miseria, il segreto svelato dei vostri natali vi condurrà ad un'altra e più lieta, quanto più vera famiglia; dove sarà altissimo conforto alla mia tomba se ricorderete con memore affetto i Salvani, e penserete che valevano assai più del loro miserando destino; dove, povera colomba raccolta finalmente sotto l'ala materna, riposerete le membra e lo spirito affaticato dal turbine che vi aveva divelta dal nido. Ora sapete tutto, Maria; lasciate che il vostro fratello di adozione se ne vada con Dio, a cercare egli pure, ma in una mareggiata di sangue, il riposo che non ha avuto e che non potrebbe trovare sulla terra.—
In quella che Lorenzo parlava, il volto della giovinetta si andava facendo cupo sotto l'impressione d'un fiero disegno, come il mare s'infosca sotto il riflesso di un temporale che si addensi nell'aria.
—Andate, Lorenzo;—diss'ella con voce lenta ma risoluta, mentre si alzava dalla scranna, quasi volesse rendere le sue parole più solenni col gesto;—andate a cercar quella morte che vi è tanto cara. Io pregherò per voi, quando uscirete di qui: vi aspetterò fino a domani, e poi, ve lo giuro innanzi a Dio che ci ascolta, vi seguirò nella morte.
—Ma voi….—soggiunse titubante Lorenzo:—voi avete una madre….
—Che importa,—gridò la fanciulla (e così parlando apparve come trasfigurata agli occhi di lui)—se non avrò più voi sulla terra, voi, Lorenzo, mio sole, mia luce, mia vita?
—Maria!… Maria!…—esclamò il giovine, balzando in piedi a sua volta, e guardandola in viso trasognato, come uomo che non sa se debba aggiustar fede a' suoi sensi medesimi.
La fanciulla sostenne animosa lo sguardo, quasi volesse dirgli ch'egli si apponeva al vero, e, quantunque il volto fosse tutto una fiamma, proseguì con sublime ardimento:
—Orbene, morite adesso, se vi dà l'animo di farlo, e uccidete me pure. Io v'ho detto ogni cosa.—
Fatta questa confessione, si mosse dignitosa come una regina, per uscir dalla camera.
Lorenzo rimaneva tuttavia al suo posto, incerto, quasi istupidito, a guardarla; ma come la vide già presso l'uscio, mosso da uno di que' pensieri che, ratti a guisa d'un lampo, illuminano d'un guizzo i più oscuri recessi dell'anima umana, non corse, precipitò a' suoi piedi, le afferrò la mano e la baciò.
—Vi amo. Maria, vi amo!—
Qual foste allora, o divina fanciulla, e che arcano struggimento fu quello del vostro nobilissimo cuore, quando udì, diciam male, quando bevve la confessione dell'uomo diletto? Come v'hanno parole che tolgono, così ve n'hanno altre che dànno la vita.
Pallida in quel momento quanto s'era fatta rossa dapprima, ansante, tremebonda, chinò gli occhi a guardarlo. Nuovo, insolito, era lo stato dell'animo, com'era insolito e nuovo quello stato di cose tra essi, vissuti fino a quel giorno nella inesplorata tranquillità di un affetto fraterno. La faccia del giovine era rivolta a lei, e lo sguardo fiso, fiammante, le diceva, le ripeteva «vi amo» dimostrandole che un amore profondo, immenso, era balzato fuori, aveva rotta ed invasa quella calma superficie della tenerezza fraterna, in quella medesima guisa che dagli occhi e dalle parole di lei, in un momento di angoscia suprema, erasi sprigionato il suo, con tutto l'impeto di un vergine cuore. E il capo di Maria si chinò allora sul capo di Lorenzo, e le sue labbra attratte da un'arcana virtù, sfiorarono i capegli dell'amato.
—E adesso andrete, Lorenzo, poichè avete promesso….
—Andrò…. andrò…. ma non ho più nessuna voglia di morire.—
I. Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la
conoscenza di qualche personaggio Pag. 3
II. Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia
a venir sempre buon frutto » 8
III. Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni, e di una spasimata voglia che aveva di scendere in campo per la sua dama » 21
IV. Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli
non siano poi tutti in paradiso » 28
V. Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a
due amici di trovarsi in Purgatorio » 36
VI. Nel quale si dimostra che l'Enfisema non è un
personaggio greco » 40
VII. Di un'alzata d'ingegno che fece l'uomo dai capelli
rossigni, e di quello che poscia ne avvenne. » 48
VIII. Dove si legge vita e miracoli della signora che
aveva scritto la lettera » 57
IX. Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come
tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole. » 67
X. Di un ghiotto discorso che facevano insieme Aloise di Montalto e il Pietrasanta, innanzi di mettersi in carrozza » 75
XI. Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise. » 83
XII. Di un vecchio che voleva vivere e non voleva fare
testamento » 94
XIII. Di una gita che fece il dottor Collini nel vicolo
di Mezza Galera » 105
XIV. Nel quale si comincia a sapere chi fosse e che
cosa facesse l'uomo vestito di nero » 115
XV. Qui si racconta come il padre Bonaventura sapesse
sfruttare le ribalderie de' suoi simili » 130
XVI. Dove si chiariscono gli effetti della contromina. » 136
XVII. Di un Don Giovanni da dozzina e delle pretensioni che aveva » 145
XVIII. Una corona di spine » 151
XIX. Nel quale si fa la spiegazione del proverbio "chi
cerca trova" » 157
XX. All'insegna degli Amici, buon vino…. e grama
compagnia » 165
XXI. La dimani d'una brutta giornata » 176
XXII. Degli apparecchi che fece la contessa Cisneri
per andare ad una festa da ballo » 185
XXIII. Nel quale si racconta come una gentildonna
congedasse un innamorato che l'aveva seccata » 195
XXIV. Nel quale si parla di molte stelle del cielo
ligustico » 205
XXV. La bella Ginevra dagli occhi verdi » 213
XXVI. Come Aloise di Montalto si avvicinasse per la
prima volta alla bella Ginevra » 228
XXVII. Come la bella Ginevra non avesse ad essere
molto contenta dei fatti di Aloise di Montalto » 232
XXVIII. Nel quale si conosce il buon cuore di Enrico
Pietrasanta, e della marchesa Maddalena » 245
XXIX. Nel quale si comincia a conoscere che uomo
fosse il marchese Antoniotto » 261
XXX. Della relazione che c'era tra le opere di Sant'Agostino
e la "Società del Parafulmine" » 277
XXXI. Nel quale si racconta dell'uomo vestito di nero e degli apprestamenti che fece per una giornata campale » 286
XXXII. Nel quale i lettori non genovesi impareranno
chi fossero Barudda e Pippía » 297
XXXIII. Nel quale è dimostrato che una ne pensa il
ghiotto e un'altra il tavernaio » 309
XXXIV. Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio
istruttivo » 318
XXXV. Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima
pugna » 327
XXXVI. Nel quale una cassettina d'ebano dischiude alla
perfine i suoi ventenni segreti » 334
XXXVII. Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse
far capo ad Eurialo » 346
XXXVIII. "Amor che a nullo amato amar perdona" » 354
Con __il doppio sottolineato__ si rappresenta lo s p a z i a t o.
Con il sottolineato si rappresenta il corsivo.
Numerosi refusi sono stati corretti.
End of Project Gutenberg's I rossi e i neri, vol. 1, by Anton Giulio Barrili