Title: I Mille
Author: Giuseppe Garibaldi
Release date: January 17, 2010 [eBook #31002]
Language: Italian
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GARIBALDI
TORINO
TIP. E LIT. CAMILLA E BERTOLERO
MDCCCLXXIV.
I diritti d’autore di quest’opera e delle traduzioni della medesima in lingue straniere sono rigorosamente mantenuti.
Di quest’edizione non è stato tirato che il solo numero di copie per i sottoscrittori, nazionali e stranieri.
Qualunque copia mancante del numero d’ordine e del bollo sarà assoggettata ai rigori della Legge sulla Proprietà letteraria.
Prefazione. Alla Gioventù Italiana | Pag. V | |
Capitolo I. | I Mille | 1 |
Capitolo II. | Il Cinque Maggio | 6 |
Capitolo III. | Talamone | 13 |
Capitolo IV. | Da Talamone a Marsala | 16 |
Capitolo V. | Marsala | 21 |
Capitolo VI. | Calatafimi | 24 |
Capitolo VII. | Lina e Marzia | 29 |
Capitolo VIII. | Da Calatafimi a Renne | 33 |
Capitolo IX. | I Precursori | 38 |
Capitolo X. | Le due Eroine | 41 |
Capitolo XI. | Italia | 45 |
Capitolo XII. | Maniscalco | 48 |
Capitolo XIII. | Il 4 aprile | 54 |
Capitolo XIV. | La Prigionia | 58 |
Capitolo XV. | Il Tentatore | 67 |
Capitolo XVI. | Cozzo ed i cinquanta Palermitani | 70 |
Capitolo XVII. | Ancora il Tentatore | 75 |
Capitolo XVIII. | L’Assalto disperato | 84 |
Capitolo XIX. | L’Assalto fortunato | 90 |
Capitolo XX. | Il 27 maggio | 94 |
Capitolo XXI. | La Capitolazione | 99 |
Capitolo XXII. | Il Riscatto | 102 |
Capitolo XXIII. | Il Riposo | 105 |
Capitolo XXIV. | Roma | 109 |
Capitolo XXV. | Melazzo | 116 |
Capitolo XXVI. | La Borbona | 124 |
Capitolo XXVII. | Messina | 127 |
Capitolo XXVIII. | Talarico | 136 |
Capitolo XXIX. | Il Pesce Spada | 139 |
Capitolo XXX. | Il Ratto | 144 |
Capitolo XXXI. | La Dittatura onesta | 147 |
Capitolo XXXII. | Agli Aranci | 150 |
Capitolo XXXIII. | Roma | 153 |
Capitolo XXXIV. | Reggio | 160 |
Capitolo XXXV. | La Conversione | 170 |
Capitolo XXXVI. | La Vittoria | 184 |
Capitolo XXXVII. | Il 7 settembre | 188 |
Capitolo XXXVIII. | La Libertà | 193 |
Capitolo XXXIX. | L’Amore | 198 |
Capitolo XL. | Il Conclave dei rubati | 208 |
Capitolo XLI. | I Trecento | 216 |
Capitolo XLII. | Liberazione | 226 |
Capitolo XLIII. | Napoli | 237 |
Capitolo XLIV. | La Camorra | 245 |
Capitolo XLV. | Giorgio Pallavicino | 254 |
Capitolo XLVI. | Osteria della Bella Giovanna | 261 |
Capitolo XLVII. | Caiazzo | 276 |
Capitolo XLVIII. | Battaglia del Volturno | 279 |
Capitolo XLIX. | Jessie White Mario | 289 |
Capitolo L. | Continua la Battaglia del Volturno | 292 |
Capitolo LI. | Ancora la Battaglia del Volturno | 295 |
Capitolo LII. | Il Gesuita | 298 |
Capitolo LIII. | I Trecento | 304 |
Capitolo LIV. | Subiaco | 312 |
Capitolo LV. | La Simpatia | 315 |
Capitolo LVI. | Combattimento di Sora | 325 |
Capitolo LVII. | Isernia | 331 |
Capitolo LVIII. | Tora | 352 |
Capitolo LIX. | Amplesso della Morte | 355 |
Capitolo LX. | Il Racconto | 374 |
Capitolo LXI. | La Morente | 379 |
Capitolo LXII. | Battaglia del Volturno | 384 |
Capitolo LXIII. | Cozzo, Lia ed i nostri feriti | 389 |
Capitolo LXIV. | Il Sogno | 394 |
Conclusione | 405 |
Alla Gioventù Italiana
Eccovi un altro mio lavoro—questo lo dedico a voi, non perchè sia migliore degli antecedenti, ma perchè voi troverete dei fatti compiuti dai vostri antesignani e fedelmente narrati da me, testimonio oculare.
Il male che dico del governo, credo sia inferiore ai meriti dello stesso, e desidero si creda che non per sistema io lo maledico, ma per puro convincimento di far bene, accennando al male.
Che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni nazionali nell’unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di battaglia coi suoi martiri nell’intento solo generoso dell’unificazione dell’Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e teocratico.
Alcuni pochi che nelle fila della Democrazia [vi]pugnarono per il proprio avvenire, oggi si trovano nel Consorzio Monarchico, e quindi divisi dalla stessa, ed obbligati a continuar col governo la via di perdizione.
Il governo italiano modellato su quello imperiale di Francia, in tutto lo somiglia, ne segue esattamente le traccie, ed avrà le stesse conseguenze.
Non credano i moderni Machiavelli d’Italia d’esser più furbi dell’uomo di Sédan; essi lo ponno uguagliare in malvagità, non in malizia.
Come quello, questi edificano su fondamenta putride della sacerdotale menzogna, e come quello saranno sepolti nelle immondizie da loro stessi accumulate.
Perseguitino pure l’Internazionale, cioè la miseria da loro creata e mantenuta—spargano pure sulla superficie dell’Italia, colla solita intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di Roma—ed invece di costruire degli Ospizi d’asilo per i tanti condannati a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove tenute di caccia per divertirsi—e nuovi palazzi vescovili—vedremo come se la intenderanno colla fame della moltitudine.
In Germania, tutti lo dicono, non v’è più un solo individuo che non sappia leggere e scrivere. La Francia grida: istruzione ad ogni costo. E l’Italia prodiga il suo erario a pagare dei vescovi e simili agenti delle tenebre.
Ripeto: ve la intenderete colla fame—!
Dei preti dico poco male, me lo perdoneranno[vii] i miei concittadini, considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all’Unità Italiana (giornale) sulle mie antifone contro i preti.
Sui meriti della gioventù Romana, per cui ho una predilezione speciale, alcuni mi troveranno esagerato. Ebbene, se sono largo di elogi agli odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno avvenire.
Essi, sin ora sotto la diretta educazione del prete, ed in presenza delle sue carceri, de’ suoi birri, e de’ suoi istrumenti di tortura, dovevano essere ciò che erano veramente.
Oggi però, abbenchè poco meglio governati, essi non sono più sudditi o schiavi del clero—e devono sottrarsi intieramente da quel vergognoso servaggio, abiurarlo, maledirlo, distruggerlo sino alle ultime vestigia—ricordandosi che dal clero, essi, dall’apice delle Nazioni furono precipitati all’infimo grado della scala umana.
E che non vengano qui gli uomini a dottrine che puzzano di sagristia e di ceppi a dottoreggiare, che non conviene agli operai (come si preconizza in Roma oggi) di trattare di politica.
Se io, povero mozzo, non m’inganno, politica significa affare dei molti—ed intendo i molti dover essere coloro che menan le braccia nella società quando ben costituita—ed i molti naturalmente interessati a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento.
La gioventù Romana—operai od altro—deve[viii] quindi occuparsi di politica—e convincersi che il suo contegno calmo, dignitoso, ma energico nello stesso tempo nella insofferenza d’oltraggi od esigenza di diritti—il suo contegno, dico, deve servire di stella polare alle città sorelle, per ottenere un’Italia prospera e rispettata nel mondo.
Posta così a capo del progresso nazionale—e partecipando alla buona ed alla cattiva fortuna del resto della Penisola, la vecchia matrona—sarà impossibile esser la nostra bella patria trascinata indietro nell’anfiteatro del fanatismo e della tirannide.
Emancipata dall’idolatria, e spinta col suo culto del vero e della giustizia verso la fratellanza universale, Roma potrà salutar finalmente l’alba d’un terzo periodo intellettuale nell’immortale ed impareggiabile sua esistenza.
La nazione ha quindi il diritto di sperare nel buon andamento che il popolo dell’illustre Capitale saprà dare alla Vita Italiana.
Vecchio—e poco più atto, o nulla, all’azione materiale—devo limitarmi a consigliare i giovani che ponno utilizzare la mia esperienza.
Accennerò alle esagerazioni.
Non credete voi che le esagerazioni dell’ultima rivoluzione di Parigi l’abbiano perduta? Io lo credo—e credo le esagerazioni dei dottrinarii manterranno ancora per molto tempo l’Internazionale in uno stato spaventoso per le classi agiate—ciocchè servirà di puntello e di propugnacolo alle monarchie ed al clero per combatterla.[ix]
Dall’altra parte noi diremo ai governi:
«Combattete il male di cui siete artefici, e non l’Internazionale, se ne siete capaci.
«I creatori dell’Internazionale e delle rivoluzioni siete voi.—Giacchè se voi combattete il vero e la fratellanza umana, non valete più dei preti abbagliati dalla luce, e che condannano alle fiamme chi non crede alle loro menzogne.
«Se continuate nella via del privilegio, voi rinnegate il diritto e la giustizia, e l’Internazionale—complesso della classe soffrente—finirà per rovesciarvi e distruggervi—E se mal diretta, per precipitare il mondo in uno di quei cataclismi da far tremare la terra.
«Istigatori del malcontento e delle miserie, voi siete i creatori del brigantaggio sempre crescente—e siccome siete la malizia e la fallacia—profittate degli stessi disordini suscitati da voi per accrescere il numero dei vostri puntelli. E vediamo quindi ogni giorno un aumento di preposti, di questurini e di benemeriti, di cui la nazione vi dà vistoso contingente, perchè povera e depravata da voi.
«Correggete tutti cotesti cancri, se lo potete, e non cercate di distruggere l’Internazionale—opera vostra e composta di vostre vittime—di cui non potete passarvi perchè poltroni e lussuriosi. L’Internazionale, dico, è emanazione dei vostri vizii!»
Troppo aspri i miei detti troveranno molti, ma[x] scendano un istante costoro nella loro coscienza, e mi dicano se normale sia il presente stato d’Italia.
A che impoverire la maggior parte della Nazione per mantener la parte minore nell’agiatezza e nelle lussurie?
E non è forse questo stato anormale, che mantiene la rivoluzione in uno stato latente, ma inevitabile?
Le lezioni dell’Impero Napoleonico a nulla han servito dunque! Poichè si vedono i governanti, alunni di quello, marciare come prima alacremente verso l’abisso seguendo il sentiero tracciato dall’uomo che rovinò la Francia.
Io non capisco come si chiamino conservatori gli uomini che appartengono a tale sistema.
Cosa diavolo conservano? il marciume, ma questo—entrando nell’appannaggio dei vermi—porta già l’impronta d’uno schifoso passato.
Cotesti conservatori siedono perennemente sul cumulo di un vulcano, i di cui crateri tempestano sotto i loro piedi, e finiranno, riunendosi in uno solo, coll’esplodere la montagna ed inghiottirli nelle latebre della terra.
Io ho la coscienza di non appartenere a setta nè a partiti—vorrei vedere il mio paese prospero e rispettato—vorrei vedere gli uomini del capitale conformarsi ai progressi dei tempi presenti—e persuadersi che le masse d’oggi non devonsi guidare cogli espedienti del passato.
In tutti i tempi, quasi, i popoli si son governati[xi] coll’ignoranza e la violenza—cioè coi preti e coi soldati.
«Porque tal es mi voluntad—yo il Rey!» era la firma del re di Spagna.
«L’Etat c’est moi» diceva Luigi XIV.
La Spagna e la Francia provano oggi che quei tempi son passati—e se si pensa alle convulsioni cagionate dalla cecità ed ostinatezza di quei signori—credo i conservatori moderni, che somigliano certamente agli antichi—si persuaderanno di conservar nulla alla fine—e le nazioni pure procureranno di non ritentar le prove spaventose.
Perchè dunque non evitar il pericolo?
Sarebbe cosa facile: i tanti che mangiano per cinquanta, contentarsi di mangiare per venticinque.
Per persuadersi che i tempi sono cambiati, date un colpo d’occhio all’Austria. Chi non preferisce oggi la condizione d’un onesto contadino a quella ormai ridicola di cotesto imperatore e re?
Non vi par di vedere un cacciatore, cui una caduta ha mandato la gabbia in pezzi, faticantesi a correr dietro agli uccelli fuggiti e ben contenti di seguir ognuno la loro via liberissima nello spazio?
Poveri imperatori! Ed è strano vederne dei nuovi che—per la sventura umana—si aggraffano a troni putridi e maledetti.
Il lavoro presente avrà certo l’impronta della[xii] trascuratezza—per tanti motivi, ai più conosciuti—e per esser stato ripreso tante volte.
Finisco contando sulla vostra simpatia nel credere
ch’io avrei desiderato d’esser capace di far
meglio.
Caprera, 21 e 22 gennaio 1873.
G. Garibaldi.
O Mille! in questi tempi di vergognose miserie—giova ricordarvi—l’anima si sente sollevata pensando a voi—rivolta a voi—quando, stanca di contemplar ladri e putridume pensando che non tutti—perchè la maggior parte di voi ha seminato l’ossa su tutti i campi di battaglia italiani—non tutti ma bastanti ancora per rappresentare la gloriosa schiera—restante—avanzo superbo ed invidiato—pronto sempre a provare ai boriosi nostri detrattori, che tutti non son traditori e codardi—non tutti spudorati sacerdoti del ventre in questa terra dominatrice e serva!
«Ove vi sono dei fratelli che pugnano per la libertà Italiana—là bisogna accorrere» voi diceste.[2]
«Essi combattono per liberarsi dalla dominazione d’un tiranno; per affratellarsi alla grande famiglia Italiana».
E non trovaste il codardo pretesto—se la loro bandiera era più o meno rossa.—Anzi—Repubblicani veri—voi faceste non solo il sacrifizio della vita, ma delle convinzioni politiche vostre. Come Dante repubblicani—come lui diceste: «Facciam l’Italia anche col diavolo!»
E ben faceste, perchè ai dottrinarii che predican principii che non praticano, voi vittoriosamente potrete sempre rispondere: «Noi non conosciamo altri principii se non che i due, del bene e del male.—E per l’Italia sarà sempre principio del bene quello di volerla unificare.—Far il bene della patria è la nostra Repubblica».
Voi cercaste il pericolo in soccorso di fratelli senza chiedere s’eran molti i nemici, se sufficiente il numero dei volenterosi—se bastanti i mezzi per l’impresa.
Voi accorreste sfidando gli elementi, i disagi, le privazioni, i pericoli con cui ne attraversavano la via nemici e sedicenti amici.
Invano il Borbone, con numeroso naviglio, stringeva in un cerchio di ferro la Trinacria, gloriosa, insofferente di giogo, e solcava in tutti i sensi il Tirreno, per profondarvi nei suoi abissi. Invano!
Vogate! Vogate pure Argonauti della libertà—là sull’estremo orizzonte di Ostro splende un astro, che non vi lascierà smarrire la via, che vi[3] condurrà per la mano al compimento della grande impresa—l’astro che scorgeva il grandissimo cantore di Beatrice, e che scorgevano i grandi che gli successero, nel più cupo delle tempeste—la Stella d’Italia!
Ove sono i piroscafi che vi presero a Villa Spinola e vi condussero attraverso il Tirreno salvi nel piccolo porto di Marsala? Ove? Son forse essi nuovi Argo, gelosamente conservati, e segnati all’ammirazione dello straniero e dei posteri, simulacro della più grande e più onorevole delle imprese italiane? Tutt’altro; essi sono scomparsi.—L’invidia e la dappocaggine di chi regge l’Italia, hanno voluto distruggere quei testimoni delle loro vergogne.
Chi dice: Essi furon perduti in premeditati naufragi.—Chi li suppone a marcire nel più recondito d’un arsenale,—e chi venduti agli ebrei per pochi soldi, come vesti sdruscite.
Vogate però, vogate impavidi—Piemonte e Lombardo[1], nobili veicoli d’una nobilissima banda—la storia rammenterà i vostri illustri nomi, a dispetto dell’invidia e della calunnia.—E voi, giovani che mi leggete, lasciate pur gracchiare il dottrinarismo. Ove in Italia si trovino Italiani che pugnano contro tiranni interni e soldati stranieri, correte in aiuto dei fratelli, e persuadetevi che il programma di Dante «Fare l’Italia[4] anche col diavolo» vale ben quello dei moderni predicatori di principii che millantano il titolo di partito d’azione, avendo passato tutta la vita in ciarle.
Quando l’avanzo dei Mille, che la falce del tempo avrà risparmiato—seduti al focolare domestico, racconteranno ai nepoti la quasi favolosa impresa a cui ebbero l’onore di partecipare—oh! essi ben ricorderanno alla gioventù attonita i gloriosi nomi che formavano l’intrepidissimo naviglio, e la santa soddisfazione provata d’esser corsi alla riscossa degli schiavi.
Vogate! Vogate! voi portate i Mille a cui si aggregheranno i milioni, il giorno in cui queste masse ingannate, capiranno esser il prete un impostore, e le monarchie un mostruoso anacronismo.
Com’eran belli, Italia, i tuoi Mille! in borghese—pugnando contro i piumati, gl’indorati sgherri—spingendoli davanti a loro come se fosse un gregge.—Belli, belli! e vario-vestiti come si trovavano nelle loro officine quando, chiamati dalla tromba del dovere! Belli, belli! erano coll’abito ed il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro[2]. E davanti a quella non uniformata, pochissimo disciplinata gente, fuggivano i grassi, argentati, pistagnati, spallinati venditori della coscienza.
Belli i tuoi Mille, Italia! Essi rappresentavano il tuo esercito dell’avvenire. Non più mille allora, ma milioni, ripeto—ed allora? Allora spariranno dalla tua terra, bella infelice! i boriosi tuoi dominatori—e con loro chi infamemente speculava sulle tue miserie e le tue vergogne!
I Mille, ricordatelo, giovani Italiani, devono essere sostituiti dal Milione, e dieci eserciti indorati fuggiranno davanti a voi, come fumo spinto dal vento!...
Allora il frutto del vostro sudore sarà vostro.—Tutte quelle benedizioni di cui vi fu prodiga natura, saranno vostre, ed allora la vergine a cui avete consacrato un amore italiano—caldo come le lave dei vostri vulcani—la vergine a cui avete consacrato una vita intemerata, sarà vostra—e vostra pura dal contatto appestato d’uno sgherro.
Ma non fate i sordi il giorno della chiamata, e ricordatevi, che per esser pochi molte generose imprese furono fallite!
Mentre il sacro suolo ove nasceste è calpestato dal soldato straniero, accorrete—ed accorrete qualunque sia lo squillo di tromba che vi chiami—sia esso dell’Esercito Italiano o dei Volontarii—basta ch’essi si trovino alle mani contro l’oppressore. Non ascoltate, come a Mentana, la voce di certi traditori che fecero defezionare migliaia di giovani col pretesto di tornare a casa a proclamare la Repubblica ed innalzar barricate.
[1] I due piroscafi che trasportarono i Mille in Sicilia imbarcandoli a Villa Spinola, residenza dell’illustre C. A. Vecchi, che tanto fece in favore della spedizione.
[2] Di cuore avrei voluto aggiungere del contadino, ma non voglio alterare il vero. Questa classe robusta e laboriosa non appartiene a noi, ma al prete, col vincolo dell’ignoranza. E non v’è esempio di averne veduto uno tra i volontari. Essi servono, ma per forza, e sono i più efficaci istrumenti del dispotismo e del clero.
O notte del 5 maggio rischiarata dal fuoco dei mille luminari con cui l’Onnipotente adornò lo spazio!
Bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitar le anime generose che si lanciano all’emancipazione degli schiavi! Io ti saluto!
E vi saluto, o miei giovani compagni, oggi provetti, e la maggior parte mutilati o segnati con gloriosissime cicatrici.
Salve a voi—forse la parte migliore della schiera—che seminaste le nobili ossa su dieci campi di battaglia per la redenzione patria o per la redenzione d’altri oppressi, ma sempre contro la tirannide, fosse essa avvolta nella tiara o nella clamide imperiale![7]
Brulicando sul litorale dell’orientale Liguria, silenziosi, cupi, penetrati dalla santità dell’impresa, ma fieri d’esservi caduti in sorte—aspettavano impazienti i Mille—succedan pure i disagi o il martirio!
Bella! notte del gran concetto! tu rumoreggiavi nelle fila di quei superbi, di quell’armonia indefinita, sublime, edificante, con cui gli eletti della specie umana sono beati contemplando l’Infinito nell’infinito[3].
Io l’ho sentita quell’armonia in tutte le notti che si somigliano alle notti di Quarto, di Reggio, di Palermo, del Volturno!
E chi dubita della vittoria, quando essa, portata sulle ali del dovere e della coscienza, questi ti sospingono ad affrontare i perigli e la morte, dolci allora come il bacio delizioso della donna del primo amore?
I Mille battono il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso impaziente della battaglia. E dove van essi a battagliare? Han forse ricevuto l’ordine d’un sovrano per invadere, conquistare una povera, infelice popolazione, che, rovinata dalle tasse di dilapidatori, ha rifiutato di pagare il macinato? No! Essi corrono verso la Trinacria, ove i Picciotti, insofferenti del giogo d’un tiranno, si son sollevati ed han giurato di morire piuttosto che rimaner schiavi.
E chi sono i Picciotti? Con questo modestissimo titolo, essi altro non sono che i discendenti[8] dell’illustre popolo dei Vespri, che in una sola ora trucidò un esercito di sgherri senza lasciarne un solo vestigio.
«Ma questi piroscafi non si vedono» diceva Nullo ad un impaziente crocchio di volontarii, composto dai Cairoli, Montanari, Tucheri ed altri, che anelavano di lanciarsi sul seno di Teti, e volare in soccorso dei combattenti fratelli.
Nullo, Cairoli, Montanari, Vigo, Tucheri, del vostro nobile sangue è rossa la terra degli schiavi, ma il sublime esempio del vostro eroismo non è perduto per questa gioventù destinata a compiere ciò che voi sì gloriosamente iniziaste!—Voi prodighi d’una vita preziosa, siete impazienti di gettarla là come uno straccio, mentre migliaia d’ignavi—che non valgono una rapa e che pure profitteranno del santo vostro sacrifizio—restano indietro, o paurosi come pecore, o calcolando i vantaggi che potran raccogliere dall’arditissima impresa.
«Spero saranno piroscafi, non legni a vela: sarebbe troppo noioso il viaggio—soggiungeva il maggiore dei Cairoli colla sua calma angelica—Bixio, Schiaffino, Castiglia, Elia, Orlando, incaricati di condurli via dal porto, non sono uomini da lasciarsi intimorire da minacce o da ostacoli».
«Però—ripetea l’eroe della Polonia coll’orologio alla mano—già siamo al tocco, ed alle 3 albeggia in questa stagione: se i legni da guerra ancorati nel porto di Genova giungono a scoprirci, potrebbe andar male per la spedizione.»[9]
«Per Dio! che fossimo obbligati anche questa volta a tornarcene a casa» urlava il focoso e prode Montanari.
«Sangue della Madonna!» e lì si disponeva a continuare alcune imprecazioni con una voce da far impallidire (se non fosse stato di notte) quante spie ed agenti di polizia ronzavano intorno ai valorosi Argonauti italiani.
«Sangue della!....—e non arrivò a ripetere—Madonna» quando un «Zitto» di Vigo Pelizzari che si teneva sul promontorio di Quarto (ove si trovavano i nostri amici) adocchiando verso Genova «Zitto, non vedete quelle masse nere che celeremente s’avanzano verso di noi?»
«Sì, sì, per Dio! son dessi, sono i nostri piroscafi che vengono ad imbarcarci.» Ed un fremito di soddisfatta impazienza s’innalzò in un momento tra quella superba gioventù da non più udire il rumore delle onde che si frangevano contro le scogliere.
Eccoli, eccoli, e maestosi s’avanzavano i due piroscafi, e i gozzi[4], già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno con un canto patriottico, era moderata dai più provetti con un «Per Dio! ci fermano se fate chiasso!». E quei prodi religiosamente tacevano per non essere sviati dalla santa impresa! Fra dieci giorni molti di questi generosi cadranno feriti per davanti, caricando[10] il Monte del Pianto dei Romani (Calatafimi) coronato dai forti cacciatori borbonici, ben armati, uniformati e boriosi d’aver insanguinato i loro ferri contro i patrioti siciliani.
Anni della mia gioventù, ove siete iti?—Bei tempi! in cui l’entusiasmo era la vita! il pericolo, la ricompensa più deliziosa!—Anch’io provavo la gentil voluttà delle nobili imprese! l’ambizione sublime d’esser utile! E spesso nella solennità d’una tempesta desideravo la catastrofe per abbrancarmi una men forte creatura e metterla in salvo col solo guiderdone della mia coscienza, pago d’aver fatto il bene.
Siam tutti a bordo, tutti! nessuno di quella Legione di eletti è rimasto. Alcuni hanno già provato gli effetti dell’instabile elemento, ma niuno si lagna. Essi sono sulla via d’un dovere sacrosanto.
Domani daran la vita per l’Italia, ilari e giocondi come nel banchetto nuziale.
E che importano loro alcune nausee, i disagi, la morte? I piroscafi sono diretti sopra una luce verso l’ostro—là su d’una paranza sono imbarcate le provviste della spedizione—bisogna prenderle.
Si cerca un’altra luce d’altra barca su cui s’imbarcarono armi minute, munizioni, capsule, ecc., ma con minor fortuna, ed i fedifraghi che dovevano rimettere tali preziosi oggetti hanno preferito profittar della circostanza per eseguir un vile contrabbando, e così compromettere la riuscita della spedizione.[11]
E veramente la spedizione dei Mille fu compromessa da quel turpe mercato. E come non doveva essere? Essa doveva sbarcare su d’un’isola, i di cui abitanti sono forse unici per patriottismo e per risoluzione. Ma la Sicilia non aveva meno di cinquantamila scelti soldati, una squadra formidabile che ne difendeva le coste, e i valorosi che s’erano innalzati contro il tiranno, eran decimati dai combattimenti e ridotti agli estremi. Approdar con tutto ciò senza munizioni da guerra e coi mille catenacci che la benevolenza governativa avea concessi, in sostituzione di 15 mila buone carabine, che erano di proprietà nostra, e dal governo sequestrate!
Però—vogate—nobili piroscafi, i Mille non sono gente da tornare indietro—e chi ardisse di consigliarlo, mi starebbe fresco.—Vogate! Vi sono Italiani che si battono contro birri, nostrani o stranieri—che importa! Purissimi o men puri, con più o meno principii; essi vanno in soccorso di pericolanti fratelli.
Principii! Essi Repubblicani veri, ne conoscono due soli:—il bene ed il male—e marciano sul sentiero del bene, del dovere, contro il male! Vogate! giacchè il furore dei malvagi, che preferirono l’infame guadagno all’onore, che monta? Troveremo delle munizioni.
Talamone, S. Stefano, non sono sulla via di Sicilia, ma vi sono fortezze, presidii, e quindi depositi di munizioni da guerra, e le prore del Piemonte e Lombardo si dirigevano verso Talamone.[12] Non v’è dubbio che l’imprevista mancanza di munizioni, e quindi lo sviamento dal cammino diretto sulla Sicilia cagionò un’alterazione sulla durata del viaggio, e forse salvò i Mille dall’incontro delle due flotte, Sarda e Borbonica.
Nella mattina del 6 maggio Talamone fu salutato dai rappresentanti delle cento Sorelle, e lo ricorderò quel giorno! Rappresentanti delle cento sorelle, sì! Ma non rappresentanti del genere dei 229 che in quella stessa epoca vendevano la più bella delle gemme italiane, Nizza!—Oggi coronata di fiori e stuprata negli abbracciamenti del più vile dei tiranni!—Non rappresentanti di quella turpe genía che provvede i consorti e cointeressati, ma rappresentanti della dignità Italiana, insofferenti d’insulti stranieri, e di soprusi nostrani.—Maestri gloriosi della generazione ventura libera dai preti e dai dominatori!
Talamone, uno dei più bei porti della costa Tirrena, è situato tra il monte Argentaro e l’isola d’Elba, coronato di belle colline coperte di macchie, cioè deserte.[14]
E che serve all’Italia d’aver dei bei porti e delle terre ubertose, quando i suoi governi ad altro non pensano che a far dei soldi per pascere le classi privilegiate, ed obbligar colla forza, coll’astuzia e col tradimento alla miseria ed al disonore le classi laboriose?
Talamone, nel tempo della visita dei Mille, aveva un povero forte, poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero trovato cosa facile impadronirsene, anche scalandolo. Ma non sembrò conveniente, perchè si sarebbe fatto del chiasso, e poi non s’era certi di trovare in quel sito quanto abbisognava, mentre nel vicino S. Stefano, ove esisteva altro forte ed un battaglione di bersaglieri, v’erano più probabilità di trovarvi il necessario.
Ostilmente, dunque, no; conveniva adoperare un po’ di tatto, ed all’amichevole. E qui valse un bonetto da generale che per fortuna il Comandante della spedizione aveva aggiunto al suo bagaglio. Quel bonetto da generale, agli occhi dell’ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo, e metamorfosò in un momento il Capo rivoluzionario in Comandante legale. Si ottenne in Talamone quanto vi fu disponibile, ed il generale Türr, inviato a S. Stefano, potè procurarsi il resto del bisognevole.
In quest’ultimo porto si fece anche provvista di carbon fossile[5].
Il bonetto generalesco, a cui si dovette in parte la riuscita della nostra impresa, nei porti toscani, non garbò ad uno dei capi del purismo, che si trovava nella spedizione. Egli trovò infranti i principii ed i Mille poco puri—e non mancò di manifestare il suo malcontento ai compagni.—Ma, lo ripeto: I Mille non eran gente da tornare indietro per fare delle dottrine, quando si trattava di menar le mani contro gli oppressori dell’Italia.
E, mortificato l’incorruttibile puro, se ne tornò a casa solo a fare la guerra colla penna.
Da Talamone, comandati dal colonnello Zambianchi, si staccarono una sessantina di giovani per sollevare le popolazioni soggette al papato, e coll’oggetto di distrarre i nemici e cagionare una diversione. Tale spedizione, benchè poco fortunata, non mancò di confondere i governi Italiani sulle reali intenzioni dello sbarco dei Mille[6].
[5] Il comandante Giorgini, facilitando ogni cosa, si acquistò il titolo di benemerito della patria. Il governo però non mancò di punirlo per la sua condiscendenza.
[6] In proposito di codesti giovani, che poi non si vollero considerare come facienti parte dei Mille, il generale Garibaldi, in data 25 maggio 1869, scriveva una lettera la quale conteneva la seguente dichiarazione. «Fu per ordine mio che la spedizione Zambianchi in Talamone si staccò dal corpo principale dei Mille per ingannare i nemici sulla vera destinazione di detto corpo.
«Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo».
Abbiam munizioni, capsule, ed alcuni vecchi cannoni senza fusto. Che monta? li faremo.
E non sono tutte simili le fazioni di popoli contro i tiranni? Ma là v’è la coscienza del diritto e quella risoluzione che agevola le più difficili imprese.
Il Dispotismo ha dei mercenarii disciplinati, è vero, ben nutriti, ed uniformati. Ma guai a voi, padroni, se siete lenti a somministrar grassi stipendi. Essi vi fucileranno colla stessa sanguinaria indifferenza, come fucilano oggi gli sventurati che si lamentano delle vostre depredazioni.
Vogate, nobili piroscafi! Vogate, voi portate tal gente che fa l’orgoglio d’una nazione oppressa, calunniata, ma con una storia, accanto a cui si inchinano le storie dei più grandi popoli della terra.
Questa gioventù brillante è accompagnata dai[17] palpiti e dalle benedizioni delle madri, delle spose, delle amanti, e da quanti cuori generosi sentono la dignità della patria e l’insofferenza di dominio straniero.
L’onde azzurre del Tirreno, increspate dal zeffiro, dondolavano dolcemente i piroscafi, che vogavano a tutta velocità verso il loro destino, e pochi eran gli Argonauti afflitti dal mal di mare. Male che non ben si definisce, poichè fortissime nature vi son soggette, mentre persone gracili non ne risentono i nauseanti effetti.
Come autorità incontestabile si dice: il grandissimo tra gli Ammiragli moderni, Nelson, soffrisse di tale disagio.
Sulla tolda del Piemonte un alterco non sanguinoso certamente, succedea tra il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini, il primo di Pavia, e figlio il secondo delle valli Bergamasche, ambi valorosi. E ciò che prova non esser essi affetti dal male di mare, si è che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio.
Era proprio curioso veder l’eccellente Bassini inarcar le ciglia con un’aria d’autorità che gli dava il grado, ma che non sentiva in fondo, essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi subordinati.
Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, aveva tutt’altro che intenzione di perdergli il rispetto, ma iniziata la controversia, e credendo aver ragione, ripugnava di cedere in presenza de’ compagni affollati a contemplarli.[18]
Più curioso ancora era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti e professori, appartenenti a più cospicue famiglie, osservarli, dico, colla loro scodella alla mano, divorando cogli occhi la caldaia, ed aspettando impazienti e silenziosi che finisse la questione tra i due veterani ufficiali. E devo confessare, a scapito della disciplina volontaria, che l’alterco non si disponeva a terminare molto presto, se non succedeva il fatto seguente che vi pose fine.
«Un uomo in mare! un uomo in mare!» si udì dalla prora del Piemonte, e si ripetè in un momento fino alla poppa.
E veramente un corpo umano vedevasi scorrere lungo il fianco sinistro del piroscafo, passar fuori delle ruote e lasciato indietro in un momento. Si fermò la macchina, si sciò[7] indietro e cinque dei nostri marini furono in un istante sull’ammainato palischermo di sinistra e salvarono il pericolante compagno.
Quand’io penso a quella classe privilegiata d’uomini di mare, sì svelti, sì coraggiosi che si dondolano graziosamente su d’un pennone nelle tempeste e qualche volta al più alto dell’alberatura, mi torna il prurito dell’antica professione, e ricordo con compiacenza l’ammirazione e l’affetto che in tutta la vita ho nutrito per il buono ed ardito marinaro italiano.[19]
Per la sventurata condizione del suo paese, il marinaro italiano è obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d’ogni nazione. Dalla Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato in palma di mano (come diciamo noi marini), perchè a nessuno la cede in abilità, laboriosità e coraggio.
Il Perù, il Chilì, e tutta la costa americana del Pacifico, è zeppa dei nostri arditi navigatori.
Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla palandra che vi conducono nell’interno di quei fiumi immensi, son quasi tutti italiani.
Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari sparsi sulla superficie del globo? Dico fiore, poichè sono veramente i migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade.
Il governo sa d’aver molti marinari, e per le sue belle imprese li trova anche eccellenti. Io sono comunque d’avviso, che sebbene non sianvi i migliori marini a bordo dei nostri bastimenti da guerra, la colpa delle nostre sconfitte sarà sempre unicamente per direzione pessima.
O Carambollo! perchè non ti ricorderò ai nostri concittadini! Forse perchè, semplice marinaro? E che importa! tu eri tanto buono, tanto agile, e coraggioso da servir di tipo al vero marinaro italiano.
Carambollo, compagno mio a bordo di una fregata[20] francese destinata a Tunisi nel 1835, aveva fatto parte dei marinai della guardia, nella campagna del 1812 in Russia quando gl’Italiani erano legati al carro del primo Bonaparte. E in tutte le sue parodie il 3º Impero è pervenuto anche oggi ad assoggettare questo infelice nostro popolo!
Non era dunque più giovane Carambollo; ma quando si divertiva a volare da un albero della fregata all’altro, appena tenendosi colle mani o coi piedi, egli levava tutti in ammirazione.
Il salvato dalle onde manifestò alcuni segni di pazzia, e forse egli si gittò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva dietro il Piemonte; la freschezza del mare però tornandolo a più savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore lottando per raggiungere il palischermo che vogava alla di lui direzione.
Il contrattempo delle munizioni, nella prima notte del nostro viaggio che ci obbligò di andare a Talamone e quello del pazzo che ci ritardò alquanto, influirono certamente al buon esito della spedizione. E veramente avendo toccato nel porto suddetto fuori d’ogni previdenza ci sviammo dalla retta che va da Genova all’Occidente della Sicilia. Il benefizio del ritardo, cagionato dal pazzo, lo vedremo al nostro arrivo a Marsala. La traversata si compie senza altri incidenti, e l’alba dell’11 maggio ci trovò all’atterraggio del Marittimo.
[7] Espressione usitatissima, che significa vogar indietro, e che richiude un pleonasmo, poichè sciare significa retrocedere, senza bisogno dell’indietro.
Eccola! l’isola dei portenti; la patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri, cioè dell’intelligenza e del valore.—Archimede, prototipo dei favoriti dell’Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa insignificante, paragonato all’infinito, e chiedeva una leva, il manico d’una scopa, per smuovere questo domicilio d’insetti.
I Vespri! E qual popolo della terra ha i vespri?—Roma cacciò i Tarquinii; Saragozza i Napoleonidi; Genova e Bologna gli Austriaci, ma chi, come questo invitto popolo, esterminò in poche ore un esercito formidabile d’oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella storia del mondo!
La direzione dei Mille era pur Sciacca[8], ma[22] l’ora tarda consigliò d’approdare al porto più vicino di Marsala.
La pesca è per il laborioso popolo di Sicilia un mezzo d’industria non indifferente, e l’isola in tutte le sue coste è solcata da molte barche pescherecce.
I Mille avean bisogno di conoscere se v’erano legni da guerra in Marsala, e quindi si corse sopra un pescatore per aver informazioni. Il pescatore che servì anche da pratico, informò che soltanto una corvetta inglese giaceva all’áncora su quella rada; che però varii bastimenti da guerra n’eran partiti alla mattina con direzione a levante verso Capo S. Marco.
E veramente verso Capo S. Marco si scorgevano due vapori ed una fregata nemici che si diressero su di noi subito scoperti.
Qui corse all’idea di molti che il ritardo in mare per ricuperare il pazzo fu giovevole.
Giunti a Marsala i due piroscafi, s’incominciò subito lo sbarco, aiutati dai palischermi di varii legni mercantili ancorati nel porto.
Il Generale Türr, con una compagnia di avanguardia, marciò immediatamente verso la città, ove non vi fu resistenza. Intanto i Mille sfilavano coperti dal molo, e poco curando una pioggia di granate e mitraglie che il naviglio Borbonico inviava a profusione, e che per fortuna non cagionò feriti.
A Marsala si parlò di dittatura, che poi venne proclamata a Salemi nel giorno seguente, e si[23] confermò il motto: Italia e Vittorio Emanuele. Savia deliberazione che, non ostante l’opinione contraria dei puri (manifestata in seguito), giovò non poco a facilitare la spedizione.
Il 12 maggio si giunse a Salemi, ove si cominciò ad aver la riunione d’alcune squadre di Siciliani.
Il 13 si giunse ad una tenuta campestre, il di cui proprietario credo fosse un Mistretta.
Il 14 a Vita, ove s’ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi.
Il glorioso 15 maggio decise della sorte della campagna.
[8] Città.
L’alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione.
I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate Pianto dei Romani; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi, ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine non lontane al settentrione.
Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.
Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno[25] era forse più conveniente di aspettarlo che iniziare l’attacco. E veramente spiegammo i Carabinieri Genovesi, in catena, sull’ultimo ciglione della posizione nostra verso il nemico.
Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra sinistra.
Il nemico credendo d’aver a fare forse colle sole squadre, essendo i Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due pezzi di montagna.
Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di noi. L’ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.
Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia americana, e l’avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i suoi capi si pentirono d’aver avanzato tanto.—I Borbonici capirono di non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado.
I Mille toccarono allora la carica—i Carabinieri Genovesi in testa e con loro un’eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed impazienti di menar le mani.
L’intenzione della carica era di fugar l’avanguardia nemica e d’impossessarsi dei pezzi—ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei[26] campioni della libertà italiana—non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.
Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico?—Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le alture.
Non v’era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi—e subito dunque si toccò a carica generale, e l’intiero corpo dei Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa.
La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e mitraglie che ci ferirono un bel po’ di gente.
Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si aggrupparono alla loro avanguardia.—La situazione era suprema! Il nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in posizioni fortissime!—Eppure bisognava vincere!—E con tale risoluzione si cominciò ad ascendere la prima banchina.
Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano dai Borbonici.
Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina all’altra, era una[27] grandinata di palle.—E noi!—Mi fa ribrezzo il ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull’eroiche fisonomie di quei giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue, destinata a compiere l’opera santa.
Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba[9] che armati delle loro buone carabine, sostenevano l’onore delle armi.—Tutti poi corrispondendo all’intemerata risoluzione di andar avanti, finirono coll’affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.
Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro—i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio—esso sarà ricordando—Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!
I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione—e formidabile—ed i soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!
Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi ferito, m’attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile![28]
Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti: Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?[10].
[9] Genova.
[10] Merita d’essere ricordata la gloriosa morte dello Schiaffino e l’orribile ferita che ebbe Elia nella battaglia di Calatafimi. Ecco come l’Elia stesso la racconta in una lettera al Dott. Riboli. «Io non era aggregato a compagnia nè a battaglione. Fra Menotti Garibaldi, Schiaffino e me, si era stabilito un patto di non accettare pel momento alcun servizio, ma tutti e tre rimanere al fianco del Generale. Allorchè i Cacciatori napoletani, che provarono ad assalire i nostri, si dovettero ritirare inseguiti dai Carabinieri genovesi, Menotti, Schiaffino colla bandiera, ed io ci slanciammo dietro ai fuggenti, ma tanta fu la nostra foga entusiastica, che arrivati su l’erta posizione nemica, ci accorgemmo d’esser soli, ed era naturale che dovessimo pagare il fio della nostra arditezza. Diffatti il bravo Schiaffino cadeva trafitto da numerosi colpi, e lo stesso sarebbe avvenuto a Menotti che, nel raccogliere la bandiera, fu ferito in una mano, se io abbracciatolo, non mi fossi lasciato cadere con lui da un rialzo, che formava una specie di trincera. Quivi rimasti un poco a prender fiato, io nel volgermi per rispondere al capitano Frescianti che mi chiedeva cartucce, vidi che il generale Garibaldi, distante un buon tratto dalla colonna garibaldina, s’avanzava solo a piedi contro l’inimico. Immediatamente mi slanciai verso di lui, e raggiuntolo, mi sovviene avergli indirizzato queste parole: Generale, perchè esporvi così? Una palla che vi colga siam perduti noi e con noi l’Italia nostra. Egli rispose col grido di avanti e roteando la sua spada ad incoraggiamento, invitava all’assalto le nostre colonne. Io avea appena pronunciate le suddette parole, che, volta la faccia al nemico, vidi che un cacciatore napoletano, avanzatosi verso di noi, spianava la sua carabina alla direzione del Generale. Ebbi appena tempo di fare un passo avanti, e un colpo terribile mi colse alla bocca, e mi stramazzò a terra col ventre in alto. Pareva che soffocassi, e nel mentre cercava di rivolgermi, il generale Garibaldi s’inchinò verso di me e mi indirizzò queste parole: Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore. E stese la mano per istringere la mia». E difatti il bravo Elia non morì; rimase colà finchè la battaglia fu vinta dai garibaldini; poi, dopo mille stenti, fu portato a Vita col volto sì fattamente sformato, che il suo amico Dott. Ripari non lo conobbe; quivi gli fu estratta la palla, poscia fu curato a Palermo nella residenza del Generale, divenuto dittatore, indi, quando questi entrò nelle Calabrie, fu condotto a Bologna, ove guarì sotto la cura del ben noto Prof. Rizzoli.
(Nota del Comitato).
Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo?
Essi son diversi di forme, l’uno pare un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui s’attortigliava graziosamente una fascia di seta; l’altro bruno di volto e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E veramente non v’era sfarzo nella famosa schiera.
Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome tali armi eran pure[30] armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull’innestata baionetta.
Tra i numerosi giovani studenti v’eran pure imberbi, bellissimi di volto e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza dei nostri due dell’avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile.
E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e valorosissima copia davanti a me—P..... diretto a Nullo diceva: «È inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».
Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile[11] faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.
Nel turbinìo dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature.—E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.
Le due eroine, giacchè le conosciamo donne,[31] avevano perduto nella mischia i loro fez (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano del Pianto del Romani.—Esse indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico.—Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P.... e Nullo, l’eroe della Polonia—ferito in un piede, correndo sopra il sano solo—non le avessero fatte tornare indietro.
La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata che divide Calatafimi dal Pianto dei Romani; quando P..... presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m’avean colpito nella giornata.
«Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono, d’aver trasgredito l’ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione».
«Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita; poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi».
Un momento di silenzio seguì l’interessante colloquio, e vedendomi fiso al volto di Marzia, P.... riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto[32] sapere di più». E senza aspettare la mia risposta, P..... continuò: «Non vogliamo tediarvi, poichè dovete essere stanco».
«Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle tenebre.
Io m’addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d’Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi.
E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi, noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile posizione.
[11] La signora Crispi.
La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.
Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.
Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri.—Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite.—Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi.—Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince![34]
Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.
E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.
Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate.—In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.
Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.
Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.
A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico, decise della giornata.[35]
Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell’alba, il nemico era ancora padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men d’un’ora.
Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo costanza da parte dei pochi militi nostri e della inerme popolazione, ma sfacciataggine di cacciar via dalla città ventimila soldati che potevan far l’orgoglio di qualunque generale.
Alle prime prove dell’Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter guerreggiare come si vuole; accettare o no una battaglia quando convenga, gettando frattanto alle spalle del nemico e su tutte le sue comunicazioni tutta la parte virile della nazione, non in guanti bianchi come soglionsi ricevere gli invasori—ma col ferro e col fuoco—fucilando il traditore che ha dato un bicchier d’acqua ad un assassino. Poichè è assassino chi invade proditoriamente la casa di un vicino e se ne fa padrone.
Allora verrà presto la parte di Marcello della spada di Roma, che potrà senza cerimonie attaccar di fronte il borioso nemico, e finalmente Zama, ove un nuovo Scipione torrà ad esso la voglia di venir ancora a mangiare i nostri fichi.
Anche in questo mi tormenta l’idea del prete, che vuol fare degli Itali tanti sagrestani.—E se l’Italia non vi rimedia, è un affare serio! I gesuiti non ponno far altro che: ipocriti, mentitori,[36] e codardi! Vi pensi chi deve che, per marciare e dar delle splendide baionettate vi vuol gente forte.
Calatafimi sgombro dai nemici fu da noi occupato. La maggior parte dei nostri feriti era stata trasportata a Vita.
A Calatafimi trovammo i più gravi dei feriti nemici, e furon trattati da fratelli.—Avean qualche rimorso queste dominatrici famiglie dell’Italia, nell’aizzare le nostre popolazioni infelici, siccome mastini, le une contro le altre?
Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio non era forse d’inimicarle, e tutto il loro interesse?—acciocchè continuasse ad esser difficilissimo, se non impossibile, l’unificazione della patria Italiana?
Sarebbe lunga la storia delle corruzioni e dei tradimenti di codesti signorotti per il diritto divino, oggi felicemente mendicanti per la maggior parte; tuttora però, traditori e pervertitori della nazione.
Le genti della Trinacria frattanto accorrevano ad ingrossar le fila dei Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tutto l’entusiasmo di cui sono capaci quei fervidi Meridionali.—Partinico fece di più: vedendo i nemici che sì crudeli eran stati cogli abitanti, ora sbandati e fuggenti, quella popolazione diede loro addosso, e sino le donne trucidarono di quei disgraziati.
Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici per le vie divorati dai cani!!![37]
Eran pure cadaveri d’Italiani che, se educati alla vita dei liberi, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese, ed invece come frutto dell’odio suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati e mutilati dai loro proprii fratelli con tale rabbia da far inorridire i Torquemada.
Dalle belle pianure d’Alcamo e di Partinico la colonna ascendeva per Borgetto sull’altipiano di Renne, da dove dominava la conca d’oro e la Regina dei Vespri—che confesso—se fra le sue cento città, Italia avesse una mezza dozzina di Palermo—da molto tempo lo straniero non calpesterebbe questa nostra terra.—E certo il Governo dei birri e delle spie o marcerebbe diritto o il diavolo se lo sarebbe portato via.
Renne sarebbe una posizione formidabile, se nello stesso tempo ch’essa domina lo stradale da Palermo a Partinico non fosse dominata dalle alture immediate a mezzogiorno e tramontana che appartengono ai monti irregolari che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie, ove fu assai incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò: esser disposto ai disagi siccome a disperate battaglie.
Prima del 5 maggio partivano da Genova due giovani con destinazione alla Trinacria. L’uno bellissimo e castagno di capigliatura, apparteneva a nobile famiglia dell’isola; l’altro avea la bellezza del plebeo meridionale, con una capigliatura d’ebano, un volto regolare ma bronzato, tarchiato e robustissimo.—Egli era, a non ingannarsi, uno di quella casta che la fortuna condanna a menar le braccia per la sussistenza, e che qualche volta stimolati da istinti generosi o dall’ambizione d’innalzarsi, si lanciano al di fuori dell’area in cui la sorte sembrava volerli circoscrivere; e, se coadiuvati dal genio, si vedono transitare dall’infimo della condizione umana ai gradini superiori.—Tali i Cincinnati, i Mario ed i Colombo.
L’Italia incontrastabilmente—paese di non[39] comune intelligenza in tutte le classi—ha forse troppi di questi nobili plebei ambiziosi di migliorare od innalzare la propria condizione: ciocchè, senza dubbio, è causa d’aver essa in proporzione un’esorbitanza di cittadini repugnanti alle manuali occupazioni.
Per esempio, ho veduto in America dei giovani Italiani letterati, ridotti a non trovar impiego e quindi alla miseria; mentre i nostri operai, contadini, carpentieri, ecc., appena giunti eran cercatissimi, impiegati subito con splendidi salari, e vivevano perciò una vita agiatissima.
Nella propensione nostra quindi di salire nella scala umana, v’è bene e male—dipendendo dalla fortuna, accertare o no, l’uno o l’altro.—Comunque io consiglierò sempre a’ miei concittadini d’imparare un’arte manuale qualunque—ove troveranno sempre più robustezza che nelle occupazioni di scrivanie—e più sicurezza di guadagnar la vita in ogni parte del mondo—sopratutto poi, non dimenticar la massima di spender nove quando si possiede dieci.
Nell’anima dei due però, che si lanciavano a morte quasi sicura, v’era la devozione eroica dei Leonida e dei Muzio Scevola.—Rosolino Pilo e Corrao ponno giustamente chiamarsi i precursori dei Mille; e noi li trovammo in Sicilia dopo di una traversata portentosa, facendo propaganda emancipatrice, e solleticando i coraggiosi figli dell’Etna a sollevarsi colla promessa di pronti soccorsi dal continente.[40]
Due individui e non più sbarcavano sulla loro terra—proscritti e condannati a morte—spargendo la loro santa propaganda, e senza esitare dirò: con tanta sicurezza come sulla terra d’asilo!
Sappilo, tirannide! e sappi che questa non è terra da spie! Tu hai perduto il tuo tempo, impiegando ogni specie di corruzione! Qui—su questi frantumi di lava—il tuo potere, brutto di sangue e di vergogna, è effimero!
Butta giù quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo o da Caracalla—qui altro non è che questione di tempo—d’anni—che dico? forse di giorni.—Che s’intendano questi ringhiosi discendenti della discordia e della grandezza, e come nel Vespro, in poche ore, verun vestigio resterà più delle vostre sbirraglie.
Rosolino Pilo in una scaramuccia coi Borbonici—mentre i Mille facevano alcune fucilate nelle vicinanze di Renne—fu colpito da un piombo nemico, mentre si accingeva a scrivermi dalle alture di S. Martino, e stramazzò cadavere.
Italia perdeva uno dei più forti di quella brillante schiera, che col loro coraggio e nobile contegno menomano alquanto le sue umiliazioni e le sue miserie.
Corrao, men fortunato di Rosolino, dopo d’aver pugnato valorosamente in ogni combattimento del 60, morì di piombo italiano per gare individuali.
Il generoso popolo della Sicilia, io spero, non dimenticherà quei suoi due prodissimi concittadini.
Nel campo di Renne, ove i Mille eran sequestrati da piogge dirotte, v’era mestieri di notizie certe sulla situazione di Palermo.—Quell’invitta popolazione fremente, di quel fremito che fa tremar la tirannide corazzata d’acciaio ed assiepata da baionette, era tenuta dopo l’eroico tentativo del 4 aprile nel più assoluto e rigoroso stato d’assedio.
Poche eran le comunicazioni colla campagna, e quelle poche persone a cui era permessa l’uscita dalla città dovevano garantire il Governo che nulla da loro avea da temere di congiure o d’intelligenza coi patrioti di fuori—al solito chiamati briganti.
Ma mal si governa colla tirannide e peggio ancora con popoli che hanno tradizioni come quella dei Vespri—la più terribile delle lezioni data[42] dai popoli ai loro oppressori—e che non trova paragone in nessun tempo ed in nessuna delle storie delle Nazioni.
Italia! terra dei morti—secondo uno di quei grandi che vengono nominati tali, perchè nacquero tra generazioni di piccoli.—Italia, dico, depressa oggi, umiliata—e detto in onor del vero—anche disprezzata—conta dei fatti che nessun popolo della terra uguaglia.
1º Giunio Bruto, condannando a morte i proprii figli perchè creduti implicati in una congiura contro lo Stato.
2º Manlio, dittatore, facendo decapitare in sua presenza il valoroso suo figlio vincitore d’un gigante latino che avea sfidato a pugna singolare i migliori dell’Esercito Romano, perchè avea trasgredito il divieto dittatoriale di non uscire dalle fila. Questi due fatti d’insuperabile disciplina sono forse la chiave di quella severissima disciplina romana che condusse le Legioni su tutto l’orbe conosciuto, e di cui si trovò un saggio sotto le ceneri di Pompei, d’un legionario che coll’arma al piede lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi.
3º E i Vespri? Un popolo che conta i Vespri ne’ suoi annali, può durar poco nel servaggio.—E ricordatelo bene voi che nei tempi presenti (1870) cercate di imbavagliarlo con delle concessioni e delle carezze più o meno scellerate e sempre gesuitiche.—Voi che nascondete le ugne d’acciaio degli antichi signorotti sotto uno straccio di carta che presto, speriamolo, per il decoro dell’Italiana[43] famiglia, vedremo svolazzare nel letamaio delle genti rigenerate.
Lina e Marzia abbandonando la loro assisa maschile, aveano indossato le vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme, cioè la sottana ed il farsetto, così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della conca d’oro. Due rossi fazzoletti di seta che per caso si trovarono nel vicino borgo di Misero i cannoni, furono fantasticamente avvolti a quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime capigliature, giacchè il sesso gentile ama, com’è naturale, di mostrare i tesori che natura profuse sulla creatura prediletta.
Solo i calzari delle due eroine avevano militare, o piuttosto, cacciatrice fisionomia, poichè nel borgo suddetto non si trovarono calzature fatte da donna.
I volontari contemplavano meravigliati le superbe donzelle che sì fiere avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d’essere prescelte ad ardua e pericolosa impresa, e poi si guardavan l’un l’altro stupefatti.
Nullo, perdutamente innamorato della Lina—da lui conosciuta nelle natíe ed alpestri valli—supplicava invano il comando dei Mille, di lasciarlo andare in compagnia della bella coppia.
E P... non meno di lui invaghito della Marzia manifestava lo stesso proponimento. Alla vigilia di serii combattimenti però, non si volle privare il corpo di due sì valorosi ufficiali.[44]
Una contadina del borgo anzidetto fu destinata ad accompagnarle come guida.—E così munite di adeguate istruzioni Lina e Marzia s’incamminarono verso la capitale della Sicilia, le di cui altiere torri scorgevansi alla distanza di poche miglia, dominando la superba metropoli dei Vespri ed il littorale Mediterraneo.
Ed eccomi ancora a trattare del pugnale, quantunque mi ripugni ricominciare con tale terribile argomento.
E perchè dunque vi costituite tiranni? Perchè da secoli questa mia terra deve servire di lupanare a quanti malandrini porta l’Europa?
Perchè essi vengono a mangiarci i frutti, a beverci il vino, che costarono il sudore della nostra fronte?
Perchè? Perchè? arrossisco nel pensare a tanti altri perchè, che solo il pugnale può vendicare!
E voi, amabili ed umani dominatori dell’Occidente e del Settentrione, qual’armi avete concesso ai vostri Iloti italiani, perchè non dovessero servirsi d’un ferro, per vendicare un oltraggio od un disonore?[46]
Oggi ancora, ladroni spudorati, voi infestate le nostre terre che tenete a ruba da varii secoli,—sotto il falso pretesto di religione che non avete, e di diritto divino con cui burlate il mondo.—Ditemi voi: se più legali sono i vostri furti e le vostre violenze, od il ferro italiano che qualche volta—segna le vostre schifose fisonomie?
Ditemi, s’eran legali i vostri assassinii, commessi contro i Messicani, tra cui l’italiano generale Ghilardi fucilato proditoriamente dal servo del 2 Dicembre, Bazaine, contro i Romani del 49 e del 67, contro i Veneti, i Bassi, i Ciceroacchi con due figli e nove compagni, i martiri di Belfiore, ecc. ecc., tutti onesti, tutta gente di cui più valeva un capello che tutta l’anima vostra, carnefici del genere umano!
E verrà un giorno in cui l’Italia purgata dei suoi Tersiti, e dei suoi impostori che l’addormentano e la corrompono, vi tratterà non più coi guanti bianchi—come siete usi ad esser trattati in questo sventurato paese, ma da assassini vi tratterà, come siete, impiegando i mezzi che adoperano i popoli per redimersi da tiranni e da ladri, cioè: pugnale, fuoco, veleno.
E non fate cipiglio—signori vermi della società umana—a tali felici augurii per il mondo, poichè grassi, pistagnati, indorati come siete, siete più nocivi dell’insetto che rode le radici della pianta alimentaria, e dell’avvelenatore rettile, che uccide quasi istantaneamente l’umana creatura.[47]
Sì! voi oppressori delle genti e sostenitori della menzogna, siete la peste del mondo!
È duopo rammentar sovente tutto ciò ai dormenti nostri concittadini: acciò smentiscano i soddisfatti, perchè con pancia piena spacciano massime che son tutte menzogne e paroloni di libertà, di indipendenza e di unità italiana con solo di vero: miseria e degradazione!
E finalmente: non è il Buonaparte con complici il Governo italiano ed i preti, il mantenitore del brigantaggio nell’Italia meridionale?
E non sono i despoti, i fomentatori delle rivoluzioni nel mondo?
Io sfido che si provi il contrario.
Ammiratore della rigida, non uguagliata da nessun popolo della terra, antica disciplina romana, io, sono quindi amante dell’ordine, cioè—vorrei vedere i popoli prosperi, liberi, felici—ed i loro reggitori, occupati non d’altro che del loro benessere—garanzie sicure queste della quiete pubblica.
Non reggitori simili agli odierni d’Italia, speculando sulle miserie della nazione, rovinandola per soddisfare a depravati capricci, non più tollerati dalla società moderna—e per impinguare numerosa caterva di satelliti che lor fan corona.[49]
Sì! ordine vogliam noi, uomini della libertà e del progresso—cioè: Repubblicani.
Ordine! ordine! e chi lo disturba quest’ordine che l’umanità richiede—siete voi, persecutori delle genti! perturbatori della condizione normale dei popoli—voi! per gozzovigliare alle spese altrui—e far infelici le nazioni che speravano da voi un governo umano e riparatore.
Sì, voi potenti per astuzia e per l’imbecillità altrui, millantate ordine, colla coscienza di mentire—rovesciando, distruggendo ogni più sacra cosa; e facendo della famiglia umana una caterva di sventurati e di spie!
L’ordine che voi volete è la quiete—quella quiete che brama l’assassino nel godimento della roba depredata.
E Maniscalco era uno di quei vili istromenti che la tirannide poltrona, paurosa e codarda, spinge fra le moltitudini per spiarle, torturarle, assassinarle, quando fia duopo, per mantenere l’ordine che disturbano alcuni affamati servi.
Essi, istrumenti, hanno il genio della corruzione, della perversità, e sanno scegliere nella folla i loro seguaci, che distinguono a cert’aria di famiglia, agli inerenti vizii inseparabili di tale bordaglia: vizii ch’essi vogliono soddisfare al prezzo di qualunque infamia, e riconoscibili poi a certa peculiare impronta famigliare alla gente dello stesso marchio.
In Palermo, Maniscalco munito di pieni poteri, ed accrescendo di potenza in ragione inversa del[50] credito de’ suoi padroni—credito da tiranni, che sulla terra dei Vespri si scioglie tanto presto, quanto la neve al contatto della rovente lava de’ suoi vulcani—un perverso come Maniscalco—su cui posava tutta la fiducia del Borbone in Sicilia—s’era certamente permesso ogni specie di dissolutezza, di delitti e crudeltà: la purezza delle vergini, la santità dei matrimonii, tutto andava in un fascio davanti alle libidini dello scellerato. La cuffia del silenzio, e quante torture avevano inventato i Torquemada, erano impiegate per strappare dagli sventurati prigionieri i segreti delle congiure dal dispotismo suscitate.
Un giorno in via Maqueda, tutte le classi della splendida capitale della Sicilia tornavano dal passeggio della Favorita;—tutte le classi, sì,—perchè quantunque poco menomata in potenza la famiglia dei feudali, i popoli, sono fuori da quel servilismo, che nel Medio Evo, non permetteva ad un plebeo di passeggiare accanto ai favoriti dal privilegio.
Nella folla accalcata in quella seconda strada di Palermo, pavoneggiavasi il sanguinario Ministro del Re di Napoli, con scorta numerosa de’ suoi satelliti, armati fino ai denti.—Tali non compariscono in pubblico gli agenti dell’autorità, ove la libertà non è vana parola.
Il policeman dell’Inghilterra, o degli Stati Uniti ispira fiducia all’onesto cittadino, e non timore come il sinistro cagnotto della tirannide—il bravo dei signorotti moderni.[51]
Maniscalco dunque, attorniato da’ suoi, scoteva l’altero suo capo, e gettava sulla moltitudine uno sguardo di disprezzo, e la moltitudine, come se raccogliesse la sfida dell’insolente, calcavasi sulla siepe di sgherri che corazzava il malvivente, premevala, e dal seno di quell’onda di popolo scaturiva una di quelle figure, che la poesia dipinge dominatrici delle tempeste, sieno esse di genti o di elementi.
Tale Colombo—dopo di aver dominato il pelago che divide i due mondi—dominava gl’indisciplinati suoi seguaci in una tempesta d’insubordinata diffidenza al suo genio.
Come lo scopo del grandissimo navigatore fu realtà, la manifestazione d’odio dei discendenti del Vespro e la lama d’un pugnale, sguizzava nell’aere come una fiamma e si conficcava nel petto del disprezzatore delle genti, e lo rovesciava nella polve.
Maniscalco cadeva, ed il suo sangue irrigava una terra che non era degno di calpestare.
Il feritore poi, che alcuni dissero essere un fantasma, ma che certamente era uomo che sprezzava il pericolo, non fuggì, non accelerò il passo; ma in un orgasmo che fece stupire gli astanti, e paralizzò, ammutolì gli sgherri, pria sì baldanzosi, il feritore, dico, strappò da sè l’involto di carta che lo copriva da capo a piedi, ne sparse i brandelli sul terreno, e come per miracolo si confuse nella folla, ove fu impossibile di rintracciarlo per quante indagini se ne facessero.
I Governi ed i preti adoperano ogni mezzo perverso[52] per corrompere le genti, e riescono sovente ad attrarre nelle loro reti qualche sciagurato, ma la massa delle popolazioni in Italia abborre la delazione, ciò sia detto in onore del nostro popolo, e se la miseria od il vizio precipitano alcuno nell’infamia, certo il delatore nel nostro, benchè infelice paese, sarà sempre generalmente in orrore.
Io ho veduto il popolo di Palermo nella gloriosa rivoluzione del 60 correr in cerca dei sorci (spie) con un accanimento indescrivibile.
Chi sa quanto il coraggioso assassino avea lavorato per tagliare, cucire, pitturare cotale abbigliamento di carta somigliante ai panni da poter comparire in pubblico senza essere riconosciuto.
Era una vendetta, meditata, certamente.
E fin ora non si conosce la causa dell’attentato, nè chi lo perpetrava.
Era lo sconosciuto qualcuno dei torturati da Maniscalco? qualcuno dei feriti nell’onore? Poichè i cagnotti dei tiranni sono generalmente gente lasciva, ed il capo degli sgherri, come già abbiamo accennato, avea fama di tale—od era alcuno di coloro che preferiscono la morte al vergognoso servaggio del loro paese?
Assassino: lo chiamarono i giornali borbonici e tale lo chiamerebbero pure altri giornali non borbonici.
Assassino! e veramente io non vorrei che si uccidesse l’uomo dall’uomo, e sono contrario alla pena di morte sotto qualunque forma.
Assassino, dunque, fu il feritore di Maniscalco[53] e Torquemada ed Arbues ed i bruciatori delle creature umane sono santificati! ed il dominatore del Tirolo che appiccò Mantovani, Ungheresi, Piemontesi! il Reggitore della Polonia passando la vita alla distruzione di quel popolo, sottoponendo al knouth sino i bambini e le donne!—ed il Magnanimo che crede oggi di coprir colla sua veste d’Agnello le macchie di sangue di tre popoli, sono Maestà!
Assai più coperti d’omicidii dell’assassino di Maniscalco, ma infine Maestà!
Come si ponno narrare i fatti del 60 senza un ricordo all’infelice, ma eroico tentativo del 4 d’aprile, in cui un pugno d’uomini risoluti sfidò la potenza Borbonica nella capitale della Sicilia e fu comunque sia il primo episodio della gloriosa epopea?
Io lascio ai meglio informati di me l’incarico di rammentare per la Storia i nomi dei forti che vi presero parte, confessando di ricordare solo il nome di Riso, uno dei martiri dell’impresa portentosa.
Il convento della Gancia servì di ricettacolo ai cospiratori—e fu in quel memorabile giorno il campo di battaglia ove gli stessi sostennero una disugualissima pugna contro gli oppressori della patria.[55]
Il convento della Gancia, sì, in cui i frati, benchè frati, ricordavano d’esser uomini ed Italiani, contrariamente a quelle iene di Roma, di cui la storia è una serie d’assassinii, di prostituzione, di tradimento.
I preti dei Messicani al tempo di Cortez, i sanguinarii druidi dei Celti al tempo dei Romani ed i Papas Greci ai nostri tempi, tutti si consacrano ai più orribili martirii sostenendo le cause del loro popolo.
Ed il prete italiano? Sempre traditore al suo paese, fosse esso invaso dai Turcomanni!
Il contegno dei poveri frati della Gancia fu lodevolissimo.
Essi non pugnarono, non macchiaronsi di sangue, ma identificaronsi colle aspirazioni d’un popolo generoso ed oppresso, lo favorirono e ne divisero i pericoli e le miserie.
L’inviolata quiete di cui godè il Clero in tutte le peripezie tempestose di quella prolissa campagna del 60 si dovè senza dubbio al patriottismo di quei pochi religiosi che—ad esempio di Cristo—si schierarono nelle fila degli schiavi[12].
L’impresa del 4 aprile mosse gli uomini di cuore che dopo la fallita impresa della capitale presero la campagna, congiungendosi alle squadre[56] di quegli ammirabili picciotti sempre pronti a misurare i loro poveri fucili colle armi perfezionate dei soldati della tirannide, sempre pronti, senza dimandarne la causa, a correre in sostegno dei concittadini impegnati contro mercenari nostrani o stranieri.
E qui in onore del vero devo accennare che in nessuna parte d’Italia ho trovato tanta accostevolezza da uomo a uomo, da campagna a città, quanto nella Trinacria.
Sono certo che non vincendo, i Mille, dopo di aver bruciato ed abbandonato il naviglio, essi avrebbero scelto la sorte dei Leonida o dei Fabi. Ma dovunque nella penisola, essi non avrebbero trovato l’incrollabile fedeltà, ed il sostegno che a loro sacrarono i nobili discendenti del Vespro.
In nessuna parte del mondo fuori della Sicilia sarebbe stata possibile una marcia come quella dalla Piana dei Greci a Marineo, da Marineo a Missilmeri; da questo a Gibiltossa e finalmente dall’ultimo punto a Palermo nella notte dal 26 al 27 maggio all’insaputa del nemico.
Si ricordino quindi i reggitori moderni, che invece di tanto occuparsi nel rovinare le popolazioni con tasse, imposte, macinati e il diavolo—per gozzovigliare nel vizio e nella lussuria—essi non dovrebbero accrescer l’odio che han seminato a piene mani tra coteste energiche popolazioni del mezzogiorno. Odio, che aumenta in ragione geometrica. Odio, che non domeranno con tutti i birri della terra, che riuscirà forse[57] impotente una o dieci volte per ora, ma che trascinerà finalmente il paese in uno di quei cataclismi che le venture generazioni ricorderanno con raccapriccio.
E non crediate, signori oppressori ed impostori, che tutte le rivoluzioni le avrete a passar liscie e immacolate di sangue come quella del 60.
Troppe sono le colpe vostre e troppo l’odio che giustamente vi portano le popolazioni da voi ingannate, umiliate, depredate, tradite!
[12] Qui m’è caro ricordare il Padre Pantaleo, che col suo coraggio ed i suoi talenti, come letterato e libero pensatore, diventò caro a tutti e gettò nelle fila dei giovani sacerdoti quello spirito d’emancipazione dalla menzogna che nobilita l’uomo, e che tanto bene avrebbe fatto già a non essere l’Italia governata da cupido gesuitismo.
Il 4 aprile era trascorso, e la tirannide avea trovato il mezzo di far delle vittime sempre grate a Lei, perchè con ciò crede di frenare i popoli e mantenerli nel timore. Ma di quelle vittime che sono i martiri d’una causa santa, i coraggiosi raccolgono il sangue, vi tingono le fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la memoria—e... la vendetta...—E Dio alle volte paga tardi, ma paga giusto.
Gettando nella bilancia lo stato selvaggio dell’uomo da una parte e l’incivilimento dall’altra, dovrebbe certamente risultare per il bene dell’umanità il peso maggiore nel piatto civile. Eppure qualche volta l’uomo angosciato da reggitori perversi—occupati solo a tiranneggiarlo ed impoverirlo—si trova costretto a desiare la vita primitiva delle foreste, ove mangiava frutte di[59] selva, è vero, ma non avea la schifosa presenza del prete, del dottrinario, del birro, di quella caterva d’arpie che col nome di moderati, cointeressati ministri, pubbliche sicurezze, ecc., lo spolpano, lo corrompono e lo prostituiscono allo straniero.
Tutta gente che vogliono lautamente vivere alle spalle sue accusandolo di rivoluzionario quando si lamenta di essere stracarico, e quando vorrebbe respirare un tantino, scaraventando tutta l’odiosa turba reggitrice all’inferno!
I Governanti sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e per lo più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto.
Al loro sorgere—tempi feudali—essi, dopo d’aver cacciato l’aquila dall’alpestre nido, l’occupavano—e di là piombavano sulle inermi popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e sostanze d’ogni specie per provvederne i loro covili che chiamavan castelli.
Ai tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituiti i satelliti, benchè i bravi, si chiamino Pubbliche Sicurezze—e i signori, Re o Imperatore—credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi—e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze.[60]
Al Governo della cosa pubblica, poi, giacchè i padroni regnano od imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son men degni od i più atti a sgovernare, non volendo, i despoti, gente onesta a tali offici, ma disonesti com’essi, striscianti e corruttori parassiti coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali—ma spesso anche nelle repubbliche, ove gl’intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perchè modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del bene pubblico; e sovente pure nelle immense Società popolane succede lo stesso inconveniente; d’archimandriti immeritevoli.—I popoli son così facili ad essere ingannati!
Il principio repubblicano ha certamente fatto dei progressi in questi ultimi tempi, e non si deve disperare di vederlo finalmente prevalere. Ma ciò che succede nelle piccole società succede pure dovunque nella grande società umana, ove similmente l’intrigo e le esagerazioni fanno inciampare ad ogni passo cotesto bello andamento del progresso umano.
Parlate di Repubblica—Governo normale e naturale delle nazioni—e propagatela con successo—vi sortono subito i socialisti, i comunisti, gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano i risultati del vostro lavoro.[61]
Parlate del vero e della ragione—non difficili a seminarsi nelle masse a dispetto della tirannide e del negromantismo—e compariscono gli atei, i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso.
Aggiungete a tutto ciò le gloriuzze di certi individui che vogliono essere chiamati grandi a qualunque costo—e vogliono far parlar di loro i giornali, fosse anche per un incendio del tempio d’Efeso alla Erostrato.
Tali considerazioni mi conducono alla conseguenza d’esser possibile nel mondo, non so per quanto tempo ancora, certi governi mostruosi, come quello del Borbone—che la tempesta rivoluzionaria del 60 rovesciò nella polve—e la peste pretina—compimento delle miserie e delle degradazioni umane.
Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e del 4 aprile le avean colme—giacchè la prigionia serve alla tirannide per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.
Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le autorità borboniche nella capitale della Sicilia—allo sbarco dei Mille a Marsala.—Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti, sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.
E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e Lia—la[62] graziosa contadina dell’Agro Palermitano—le tre vestite a foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d’una notte di maggio.
Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale, potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.
Mentre però passavan le tre sotto il primo riverbero di Piazza reale, due occhi somiglianti a quei del serpente[13] si fissarono sul bel volto di Marzia, e vi cagionarono l’effetto della scintilla elettrica—ma malefica, ma funesta come quella vibrata dalla cupa, nera partoriente delle tempeste sulle dominanti torri del feudo o della bottega pretina.
La coraggiosa fanciulla—che abbiam veduto alla testa degli eroi di Calatafimi in quella solenne pugna—fu padroneggiata da tal brivido in tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato d’ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina—a cui s’appoggiò subito—si sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.
«Celeste dote è negli umani—la corrispondenza d’amorosi affetti», dice Foscolo, che[63] segue le anime elette, sacerdotesse dell’amore celeste sino oltre tomba.
L’occhiata d’un perverso che vi fa l’effetto di una punta di stile, sarà dunque l’antitesi di quella dote e la potremo chiamar: dote infernale.
E tale fu veramente l’effetto di quell’occhio sulla bellissima fanciulla romana.
Riconfortata alquanto da quel primo scompiglio dell’esser suo—e tornata alla virile sua natura, Marzia era lì per consigliar l’amica di tornare verso il campo—ma voltandosi e scorgendo lo stesso individuo con altri, senza dubbio della stessa risma, che le seguivano, disse a Lina, senza rispondere al «cosa hai?» dell’amica, «sollecitiamo».
Scivolavano quindi le tre giovani sul selciato del marciapiede di Piazza reale colla velocità e leggerezza della Silfide—ma nella popolosa Toledo a quell’ora facea mestieri rompere la folla per poter proseguire celeremente, e la folla trovavasi sempre più densa a misura che s’inoltravano verso il centro della città.
Tutto ciò dava vantaggio ai persecutori, sulle giovani perseguite, che di più inciampavano nel non indifferente ostacolo che incontrano le belle donne nelle città grandi, quando non accompagnate da uomini, cioè: lo esser bersaglio alle occhiatine, ai motteggi, e sovente alla persecuzione de’ cicisbei.
Comunque, le tre compagne non eran ragazze da lasciarsi spaventare per poco, e la stessa Marzia[64] sul di cui volto era improntata abituale malinconia—e che forse s’era aumentata col sinistro incontro—Marzia, dico, avea ripreso quel fiero contegno cui dava diritto l’indomito suo coraggio.
Passati i Quattro canti[14] e continuando per via Toledo verso il mare, esse giunsero finalmente ove quella via principale forma una piazzetta regolare, ed ove verso levante trovasi l’ingresso del vicolo che conduce all’Albergo d’Italia, e nell’entrare nel portone dello stesso, esse s’accorsero che sin lì eran state seguite.
A gente più assuefatta a mene poliziesche delle belle fanciulle, sarebbe forse venuto in mente di non fermarsi in quell’albergo di prim’ordine, oppure giungendovi, fare in modo di uscire subito da un andito posteriore che conduceva alla splendida passeggiata sul mare, e di là cercare una più modesta ed appiattata dimora. A Lia però, che la faceva da guida, non occorsero tali considerazioni, e forse anche qualche motivo particolare la induceva a prender stanza in detto albergo. La noncuranza poi delle nostre eroine per qualunque pericolo coadiuvò la scelta di tale dimora—non sicura certamente per esse in quel tempo di parossismo rivoluzionario da una parte e di paura governativa dall’altra.
Il fatto sta che appena le tre fanciulle avean[65] messo piede nella stanza richiesta ed a loro assegnata dal padrone di casa, questo si presentò ad esse con un commissario di polizia e tre birri dicendo loro: «Signore, io era venuto per chiedere ciò che desideravano per cena; la comparsa però e l’intimazione di questi signori (la seconda parte del discorso fu a voce bassa ed arrugando le labbra), mi duole dirlo, farà inutile la mia richiesta».
Quelle parole aveano un accento di simpatia, e si capisce con quel colpo d’occhio intelligente che distingue i nostri meridionali, il padron di casa avea indovinato che le belle viaggiatrici eran gente di conto—e bastava per ciò gettar uno sguardo sul distinto, nobile e vezzoso volto delle due compagne dei Mille.—La Lia, di bellezza non comune, pure era conosciuta in quella casa.
Anche si capisce l’istantaneo apparir della polizia borbonica in quei giorni di terrore, ove in Palermo si era concentrata quasi tutta quella del Regno, coadiuvata da quanto il gesuitismo avea di più astuto e di più diabolico.
L’uomo dall’occhio sinistro la di cui vista avea sì stranamente e malignamente magnetizzato la nostra Marzia, avea quindi durato poca fatica a raccoglier sgherri sufficienti per la cattura delle fanciulle sospette.
L’Albergo d’Italia attorniato dalla birraglia, quei birri che col commissario aveano invaso la stanza delle donne e tre carrozze già occupate[66] da custodi pronti al portone, furono gli apparecchi idonei per il trasporto delle tre donne a Castellamare, ove le lasceremo per un pezzo, dolenti del mal esito della loro impresa—ed indispettite.
«Cozzo» fu la sola parola che Lia potè articolare al padrone di casa in un momento in cui i poliziotti stavan concertandosi sulle grandi misure da prendere per assicurare la famosa preda.
[13] Mi è successo in America, coricandomi sul campo colla testa su di un cespuglio erbaceo, di esser costretto a cambiar di giaciglio per l’apparizione di due luci nello stesso, che appartenevano certo ad un serpe.
[14] Punto centrale di Palermo, ove s’intersecano le due principali strade.
Quando le scritture—che gli stupidi ed i furbi chiamano sante o sacre—collocarono allato della coppia primitiva il serpente per tentare la prima debole donna, esse avrebbero dovuto a tante invenzioni aggiungere l’invenzione d’un prete invece del rettile, essendo il prete il vero rappresentante della malizia e della menzogna—più atto assai alla corruzione e al tradimento che non lo schifoso e strisciante abitatore delle paludi.
E qui mi pongo ancora la mano sull’immane piaga! Un prete! e di più un gesuita—il sublimato del prete—mi si presenta, con mio ribrezzo in tutta la laidezza della sua natura per nausearmi—rabbrividirmi—e per nauseare coloro che avranno la sofferenza di leggermi!
Il sole del 26 maggio nascondevasi dietro i pittoreschi monti che circondano la Conca d’oro a ponente, fosco, rossiccio, come se macchiato di sangue—e col crepuscolo d’un giorno infocato cominciavano a vedersi, nelle pubbliche passeggiate,[68] alcune carrozze con dentro il bellissimo sesso della stupenda capitale. Non numeroso però, abbenchè le donne, colla loro educazione presente, non si curin quanto dovrebbero delle miserie ed umiliazioni della patria: v’era nell’atmosfera naturale e politica qualche cosa che inaridiva ogni voglia di divertimento.
Era scirocco? Credo non fosse. Col scirocco, le popolazioni meridionali agiate chiudonsi soventi dentro casa—trovando insopportabile l’afa che si respira al di fuori.—Il bracciante la trova meno insopportabile della fame, e lavora anche spossato dal soffocante scirocco.
Il sole del 26 maggio era al tramonto e tra le poche carrozze che circolavano sulla deliziosa sponda del Mediterraneo una se ne scorgeva che all’occhio indagatore presentava un aspetto diverso dalle altre.
Perchè coperto quel veicolo? perchè vuoto?—poichè ben difficile scoprire in quel fondo oscuro un coso a sembianza umana, che dico? a sembianza d’un demonio!
Quella carrozza coperta aggiravasi come le scoperte, occupata da gente più o meno oziosa e che in quella sera, più per consuetudine che per gusto, faceva il solito andirivieni.
L’occupante però di quella—come il gufo—nascondevasi dalla luce, ed aspettava le tenebre, per attuare i suoi divisamenti sinistri.
E ne avea ben donde Monsignor Corvo—il più astuto e scellerato dei gesuiti—di nascondersi all’umano sguardo. Se, come m’è successo[69] qualche volta d’esser solleticato a far una buona azione—tale prurito fosse venuto ad alcuno dei generosi palermitani presenti—esso potevasi precipitare in quella carrozza di cattivo augurio, strapparne fuori il malvagio, e schiacciarlo col tacco del suo stivale per non contaminarsi le mani, come si fa del velenoso rettile.—Egli avrebbe compito opera santa e liberato l’Italia da uno de’ suoi più perversi e nocivi nemici.
E lì, nelle vicinanze del sinistro augello, si aggirava uno: giovane, bello, forte, tipo di quella gioventù palermitana sì propensa all’eroismo del martirio.—Cozzo, il valoroso amante di Lia con altri compagni della stessa tempra da lui guidati, avean giurato di liberar i patriotti prigionieri nel forte di Castellamare. Ed eran molti i detenuti—appartenenti per la maggior parte al fiore dei propugnatori della Libertà Italiana.
Essi passeggiavan divisi e lontani dall’ergastolo borbonico—per coprire il loro disegno—e Cozzo, or sapendo che la prigione racchiudeva il suo tesoro, la sua Lia era d’un’impazienza indescrivibile di cominciar a menar le mani.—Poi si sapeva delle due bellissime forestiere compagne della palermitana la di cui fama s’era duplicata sotto il velo del mistero.—Solo sapevasi ch’esse provenivano dai Mille.
E Cozzo coi compagni che avrebbero potuto liberar il mondo da un demonio tentatore, non se ne occuparono credendo vuoto il veicolo—e penetrati com’erano dalla santità della loro impresa.
Quand’io considero quella serie di mostruosi governi che da secoli reggono la meridionale Italia—con popolazioni energiche come son quelle—cresciute sulle lave dei nostri vulcani—io concludo: che non basta l’energia per fare un popolo libero e grande.—Dirò di più, che non basta l’energia e l’intelligenza, poichè a dovizia possiede il nostro popolo l’una e l’altra qualità.
E qui devo ancor mettere la mano sulla piaga della nostra patria infelice: il clericume—ossia l’impostura.
E chi potrà negarmi che sia il pretismo la base su cui poggiano tutti i governi perversi?
E mentre si millanta progresso, incivilimento dovunque—in questi giorni stessi trionfa nelle elezioni al Parlamento Belgico, il clericume!—E chi può sottrarre all’influsso malefico del 2 dicembre[71] protettore della menzogna, i piccoli Stati che attorniano la Francia, quali l’Italia, la Spagna e il Belgio?
Manca certamente al nostro popolo la disciplina—che tanto grandi fece i nostri padri—la disciplina da cui lo distolgono una mano di dottrinari per la gloriuzza d’esser chiamati grandi, mentre sono piccolissimi.
E ciò mi spinge sempre più all’idea d’una Dittatura onesta e temporaria.
Il «Siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali» del Mazzini, significa «Siate tutti una Babilonia!»
Cozzo! Pare impossibile; la terra dei gesuiti e dei preti—l’Italia—partorisce anche i Cozzi—quelle antitesi così pronunciate del malvagio!
Io l’ho veduto Cozzo—bello come una fanciulla e giovanissimo.—Cozzo che non s’è mai presentato che al momento del pericolo—e nel pericolo sempre tra i primi, io l’ho veduto a Caserta—morente—col petto rotto da una palla borbonica—e baciai cogli occhi umidi quella fronte d’angelo!
Egli sorrise vedendomi—d’un sorriso che terrò scolpito nell’anima fino alla morte—e pronunciò le ultime solenni parole: «Io sono felice d’aver dato la vita al mio paese!».
E tutte le provincie italiane possedono i loro Cozzi da non esser superati da nessuna casta nel mondo.
Cotesti superbi rappresentanti dell’abnegazione,[72] del decoro, del martirio, della dignità umana scaturiscono dalla folla di quella moltitudine corrotta che serve di piedestallo alla menzogna ed alla tirannide—e qualche volta la dominano e la guidano verso il bene—ma spesso vi rimangono travolti, superchiati, sinchè i cilicii e le battiture la riconducono ancora sulla via tracciata dai liberatori.
Ogni provincia possiede alcuno dei prototipi della nobile Legione—e l’Italia ne può andar orgogliosa.—Essa mai è meno dei Mille, ma il giorno in cui la gioventù italiana capisca, quanto sia grande il titolo di militi di quella incomparabile Legione—in quel giorno: Addio menzogna e tirannide.—La libertà riscalderà, vivificandola, questa terra delle grandi glorie, e delle grandi sventure!
Era la mezzanotte, quando Cozzo, dopo di aver riunito i cinquanta coraggiosi figli di Palermo, marciava risoluto all’assalto di Castellamare, presidiato da cinquecento uomini—da molta artiglieria—e colla parte del mare protetta dalla flotta borbonica, schierata a poca distanza.
I Borbonici apprezzavano giustamente la posizione di Castellamare—sia per la facilità di poter sbarcare al sicuro ogni specie di sussidio d’uomini, armi e vettovaglie—sia per facilitare la ritirata delle guarnigioni di Palermo sulla base dell’imponente flotta.
E perciò mantenevano quel propugnacolo della loro tirannide, molto provvisto dei migliori soldati,[73] d’armi, di munizioni, e d’ogni specie di cose necessarie.
«Che importa!» aveano esclamato i cinquanta campioni della libertà italiana «più ardua è l’impresa, e più gloriosa».
E qui mio malgrado devo ancora fermare i liberatori per un inaspettato evento.
Un’illuminazione a giorno, pria a Palazzo Reale, poi a Castellamare, ed in seguito ne’ pubblici stabilimenti e nelle case di quanti impiegati borbonici si trovavano in Palermo—e di quanti non poterono esimersi dall’ordine d’illuminare—fermò i nostri mentre s’accingevano ad attraversare la piazza che divide Castellamare dalla Città.
Un rovinío di cannonate dai forti e dalla squadra assordava la gente, e più ancora le grida selvagge di tutta la ciurmaglia borbonica, con gli evviva a quel modello di monarca e morte ai filibustieri!
In sostanza era giunta in Palermo la notizia che i valorosi generali Bosco e Van Michel avean raggiunto i Mille presso Corleone, li avean distrutti, preso l’artiglieria e fugati i pochi resti verso il mare africano, ov’eran aspettati dai prodi della flotta per esser condotti in quei certi ergastoli di S. Stefano e Favignano, che i patriotti dell’Italia Meridionale ben conoscono, oppure per essere appiccati ai pennoni di detta valorosa flotta: ricompensa generalmente assegnata ai pirati o filibustieri, simili ai Mille, che si occupano[74] di disturbar l’ordine sì ben mantenuto dalle monarchie in generale e dalle italiane in particolare.
Fra poche ore noi avremo un cenno certo della veritiera loquacità dei dispacci governativi, che per la decima volta avean mangiato i Mille od annientati.—Bosco e Van Michel avean bensì raggiunto, verso Corleone, l’artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi invalidi la difese valorosamente, ed a cui tolsero, credo, un pezzo inutile. Ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La-Masa avea riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte per sentieri asprissimi sulla capitale dei Vespri presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell’esercito borbonico.
Era la una della mattina, nel fatale 27 maggio del 60, e qualche cosa di fatale veramente pesava nell’atmosfera.—Tu ne sentivi la soma e ne andavi irrequieto.—Non era, come abbiam detto, l’alito appestato del Simoùn[15], giacchè venti non se ne sentivano.—Afa?—non la so descrivere!—Io l’ho sentito però quel fatale mal essere, perchè anch’io in quella notte che precedeva un giorno di tempesta popolare contro la tirannide, anch’io respiravo l’atmosfera di Palermo e l’ho respirata coll’ansia di scorger l’alba che io bramavo—come la presenza della fanciulla amata—e che presentivo liberatrice.
Se soffocati dal malore noi, all’aria aperta, e[76] marciando a dovere santo—a liberazioni di schiavi—che non soffrirebbero in quella pesante notte i rinchiusi nell’afa micidiale di un carcere?
In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti?—molti! Gl’infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie—senza colpe—e sostenuti solo dall’intemerata coscienza, languivano privi d’alimenti e d’un soffio d’aria libera!
Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo schiavo—raramente, ma però qualche volta—dopo di aver tastato i solchi troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle casematte di Queritaro? Voi!... che tanto faceste e fate soffrire l’umana famiglia di umiliazioni, di torture e d’omicidii!
Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che lasciammo nelle mani della polizia all’Albergo d’Italia.—Rinchiuse nelle carceri più recondite dell’ergastolo di Castellamare—esse morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino ad inaridire e troncare l’esistenza più florida e più robusta.
Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella. Gl’interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime: l’isolamento e le torture dello spirito.
Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi[77] passi verso l’addomesticamento li fa con due giorni di corda corta e nessun alimento od acqua. Tali sono tutte le specie di padroni, e la tirannide ben conosce esser l’avvilimento dell’anima compagno dell’avvilimento del corpo.
Era dunque la una della mattina del 27 maggio 1860, quando la cella della Marzia fu semiaperta e l’orrida figura del tentatore—che già abbiamo fiutato in Piazza Reale nel peristilio dell’Albergo d’Italia ed in fondo di una carrozza alla passeggiata pubblica sulla sponda del Tirreno—mostravasi alla derelitta.
Orrida figura, dico, perchè sapeva scendere nei penetrali di quell’anima di Lucifero—e come Lucifero adorna di belle esterne forme.
Tale era questo demone a cui natura era stata prodiga di favori per sventura dei suoi simili.
E qui col ginocchio piegato davanti alla bellezza umana, io, vecchio e senza pretensione, devo un rimprovero o piuttosto un avvertimento alla donna: essa sarebbe assai meno infelice, se si occupasse un po’ più di discernere sotto l’involto d’un bell’uomo, l’anima di un Lucifero!
Marzia trasalì, ebbe dei brividi—come le successe sul marciapiede di Piazza Reale—riconobbe nell’ombra le sembianze del suo tentatore, e sull’impeto primo essa fu per lanciarsi contro di lui e sbranarlo.
«Marzia!» esclamò il Gesuita. «Marzia» ricominciava il prete, e quella voce risvegliando forse nella memoria della fanciulla chissà quali[78] reminiscenze, essa ricadde sul suo lettuccio con immobilità disperata, «io sono venuto a liberarti, e tu sarai libera in questo momento, se vorrai seguire i miei consigli.
«I tuoi sono consigli di Satana» rispondeva la giovine rinvenuta dalla prima impressione e ritornando al suo essere eroico, «via, tentatore nefando, l’esistenza mi pesa solo per aver avuto la sventura di conoscerti. E la libertà, per cui io darei cento vite, datami da te la calpesterei come orribile dono, e me ne servirei soltanto per uscir da una vita che tu hai reso infame.
«Eppure io t’ho salvata da una fede di perdizione, Marzia, e t’ho posta sulla via del Signore e della santa sua Religione.
«Sappi, impostore, per confusione tua, ch’io tornai col pentimento alla fede d’Israele, alla fede dei miei padri. Solo alla mia innocenza io non potrò tornare—scellerato!—E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri, quante menzogne e seduzioni tu adoperasti per ingannare una giovinetta tredicenne—prostituirla, e, quando sazie le tue libidini, chiuderla in uno di quei postriboli da voi chiamati conventi, per isbarazzartene.
«Via, assassino dell’anima! la tua presenza mi è mille volte più insopportabile di questo duro carcere».
A queste parole Marzia s’era rialzata, e l’occhio suo scintillava nell’oscurità come quello della tigre.—Il Gesuita, con una lanterna sorda[79] nella sinistra, teneva colla destra la posterla semiaperta, pronto a chiuderla in caso che la fanciulla si fosse precipitata su di lui—azione di cui la credeva capace.
E veramente, dopo aver misurata la distanza collo sguardo, concentrate le spossate sue forze, Marzia fu d’un balzo contro la porta, che trovò chiusa dalla robusta mano del prete, ed il malvivente fu sollecito a dar un giro di chiave per non esporsi una seconda volta all’assalto della fanciulla.
Egli però aprì poco dopo una graticola da dove probabilmente si conferiva coi prigionieri pericolosi, e da dove vi si faceva passare il miserabile alimento.
«Marzia!» ripigliò la voce stridula del loiolesco, «il vecchio tuo padre...»; qui si udì uno di quei lamenti che non si ponno descrivere, e che l’antico fondatore della lingua italiana si contenta di accennare con quei suoi versi immortali:
E se non piangi, di che pianger suoli!
Non era il rantolo del morente, ma uno di quegli accenti di dolore che noi uomini non conosciamo, o di cui non racchiudiamo il tesoro. Solo la donna e forse solamente la madre, il di cui cuore è il vero santuario dell’amore, è capace di sì incomparabile dolore!—Ed il tonfo del corpo di Marzia stramazzante si udì nel fondo della cella.
Un sepolcrale silenzio seguiva, e solo quando[80] l’impassibile ministro dell’inferno s’accorse che la vittima sua non era preda della morte, esso ricominciò: «Marzia! il vecchio tuo padre, lo sai, giace tuttora nei sotterranei dell’Inquisizione, sottoposto a giornaliere torture, e basterebbe una tua parola per liberarlo, e renderlo alla sua primitiva agiatezza».
Singhiozzi d’un’anima veramente travagliata erano la risposta dell’infelice.
«I tuoi Mille, Marzia, su cui speri ancora per liberarti, sono annientati. Essi furono distrutti dai generali Bosco e Van Michel: questa notte istessa avrai intesa le salve d’artiglieria, e le grida di vittoria, che echeggiarono dovunque in Palermo».
«Bugiardi! Bugiardi!» urlava la giovine profetessa, «i Mille passeggeranno vittoriosi sui cadaveri dei vostri mercenarii, sino alla distruzione della fucina infernale che mantenete in Roma, nel cuore d’Italia, per la sventura di questo infelice paese, e del mondo».
L’ultima parte della profezia potea avverarsi, ove i nostri concittadini fossero stati più solerti ad accorrere in sostegno dei Mille.
Nuovo silenzio seguì le ultime parole di Marzia, e raffreddato il parossismo di sdegno, di collera, e di dolore che sinora l’aveva invasa, essa ricadde spossata sul miserabile pagliericcio dominata dalle più sinistre riflessioni.—Suo padre! suo padre nei sotterranei del Sant’Officio! Questo pensiero l’uccideva!—Coi Mille che essa[81] avrebbe accompagnati a Roma, la liberazione del genitore era possibile. Ma ora, rinchiusa in questa malefica bolgia, ove pochi giorni avrebbero bastato a distruggerla!
«Dio mio! che m’importa morire! non son io capace di affrontar la morte le mille volte come a Calatafimi!—La morte!—cos’è la morte? Ma la tortura! Dio mio! il mio povero padre sì amoroso, sì buono! alla tortura! colle sue carni strappate! la veneranda sua chioma insozzata, aggrumata da mortale sudore, e da sangue! in patimenti indescrivibili!»
Povera giovane!—tale era il soliloquio che ti straziava.—Ed il tuo tentatore?.....
Eppure avea delle belle forme, quel mostro—quel parto dell’inferno!—Il tuo tentatore? come se avesse tenuto la mano sul tuo cuore, egli ne contava le pulsazioni egli, come nel giorno in cui ti prostituiva il corpo, non disperava a forza di diabolica pertinacia, di prostituirti l’anima!
Piangi—singhiozza—struggiti—che importa a gente di tal tempra! Tu commoverai le iene, ma costui! non rinnegò egli i sensi più squisiti della natura—ogni affetto di figlio, di padre, di congiunto?—Costui, che vedrà con sangue freddo distruggere dalle fiamme un’infelice creatura, chi deve sperare di vederlo intenerirsi, commuoversi alla tua disperazione?
Maledetti coloro che non ripugnano di vivere su questa terra venduta! nel consorzio di questi corruttori, barattieri di popolo! Maledetto chi[82] non si risente degli oltraggi e delle umiliazioni a cui abbassano l’Italia, questi impostori in connivenza colla tirannide!
«Io chiedo poco, Marzia: dimmi soltanto ciò che tu sai di quei disgraziati che si chiamavan Mille, e che ora son morti per la maggior parte, o fuggenti verso l’Africa».
Spossata la sventurata fanciulla dalle privazioni, dalla scellerata scena, e più dall’aura mefitica dell’angusto e putrido suo carcere, non rispondeva alle infami insinuazioni del Gesuita, che con alcune mal articolate maledizioni. Poi tacque assolutamente per ciarlar che facesse lo iniquo.
Il prete—colla perseveranza che distingue questa razza di lupi—credendo Marzia sopita, o svenuta, riapriva; e diretto il chiarore della lanterna, verso il volto di lei, credè veder gli occhi chiusi da sonno, o da sincope, e si avventurò nella cella—non certo con onesto divisamento.
Ma il fulmine non colpisce con più velocità l’altiera quercia od il campanile della bottega, quanto colpì la nostra eroina il malvivente tentatore.—Essa volò sulla parte superiore del gesuita, lo squilibrò, rovesciollo, e come se fossero d’acciaio, conficcò le sue dita nel collo del giacente.
Era bello e spacciato monsignor Corvo, se un baccano che successe quasi contemporaneamente, non gettava l’allarme tra la dormente guarnigione[83] di Castellamare.—E veramente una grandine di fucilate udivasi in tutte le parti del castello, dal di dentro però al di fuori. E chi ha fatto la guerra sa che ove basterebbe una fucilata, di notte se ne tirano mille.
Un diavolío poi, un correre con lanterne, e senza per ogni dove. E ciò valse al gesuita, poichè anche nella cella di Marzia capitarono birri che liberarono quello scellerato, con gli occhi già fuori dell’orbita.
Marzia da quella svelta e coraggiosa che era, non si smarrì di mente, ma presentendo che qualche cosa di nuovo dovea accadere al di fuori, con tale finimondo di fucilate, cannonate, grida, ecc.—e fiutando l’odor della polvere—come i generosi della sua specie—elettrizzata, precipitossi sulla posterla semiaperta, e frammischiossi nella turba confusa, che correva in ogni direzione.
[15] Vento del gran deserto Africano.
A Mentana non abbiamo vinto, nè rifiutata la vita! Vi ponno essere dei popoli più steady, direbbero gl’inglesi, e ch’io tradurrò forse male, con impassibili, cioè che marciano in colonna serrata al passo verso delle batterie, che ne fanno macello e quelle colonne si serrano a misura che il ferro ed il piombo nemico le dirada. E sventuratamente per noi, ve ne sono varii, classificando certamente tra i primi i Britanni. Una volta erano i nostri padri di Roma, steady come le loro colonne di bronzo.
Ho detto: vi ponno essere dei popoli più fermi, più impassibili degli Italiani; ma certo nessuno più intraprendente.
Anche in tempi di depressione italiana, tra i più grandi scopritori di mondi nuovi primeggiano certamente Colombo, Americo e Caboto.[85]
Una sola provincia dell’Italia, la Liguria, vessata in tutti i modi, da uno dei governi più abbietti del mondo—mantiene la marina mercantile nostra, fra le prime.
Camogli, paese di cinque mila anime, senza porto, e con poco favorevole posizione nautica, possiede seicento bastimenti d’alto bordo—ciocchè non può millantare paese al mondo.
Il nostro popolo si getta con alacrità inarrivabile a qualunque pericolo, e non smentisce il proverbiale suo valore. La causa ch’ei propugna è santa! Ei va—ne potete esser sicuro. Ma ciò che vorrei dai miei giovani concittadini, sarebbe un po’ più di costanza nei disagi della vita del campo, e nel portare a compimento definitivo questa rigenerazione patria, già per noi vergognosa, lasciata così a metà strada.
Cattivo Governo, infingardía nostra, e massime educazione pretina, sono i motivi del nostro abbassamento fisico e morale. Ma per Dio! ci vuol poi la scienza d’Archimede per capire che un prete è un impostore e che non si deve soggiacere a tanta infamia d’esser il ludibrio del mondo!
Cozzo e i suoi cinquanta assaltavano il forte di Castellamare—la posizione più importante del nemico, perchè proteggeva la comunicazione della flotta col quartiere generale—e lo assaltavano come i Genovesi nel 1746—i Bolognesi nel 49—e come i Bresciani assaltavano gli Austriaci dietro i loro baluardi—col pugnale!....
E non avendo altra arma, anche col pugnale ponno assalirsi i mercenari della tirannide![86]
Ed i cinquanta Palermitani eran giovani degni dei loro antenati—da non indietreggiare davanti a qualunque pericolo.—Ma troppo ineguale era la pugna!
Il fosso e la prima trincea furon varcati dai valorosi figli di Palermo, verso le due del mattino, e le sentinelle colla guardia esterna eran cadute sotto il loro ferro.
Chiuso però il gran cancello, che metteva nell’interno del forte, il procedere avanti divenne impossibile, e ripigliato coraggio, i Borbonici grandinarono sui cinquanta eroi tale una furia di palle, da uccidere la maggior parte, e metter quasi tutti i restanti fuori di combattimento.
Giungevano le fucilate direttamente dal cancello di ferro, dalle feritoie laterali, e da qualunque punto, o finestra, ove potevansi collocare tiratori.
E che potevano i nostri senza armi da fuoco?
In un momento lo spazio occupato dai cinquanta tra la trincea esterna ed il cancello, fu un mucchio di cadaveri e di feriti.—E i mercenari borbonici non cessavan dal fuoco.
Noi abbiam lasciato, nel capitolo anteriore, Marzia furibonda, correndo per i corridoi del castello, ed aprendo, con tutta la sveltezza di cui era capace, tante celle quante ne trovava, e così pervenne a veder i volti amati della sua Lina e di Lia: molti furono pure i detenuti patriotti in tal modo liberati.
Poche furono le parole d’intelligenza tra i liberati,[87] ma quelle poche bastavano per intendersi, e formando un gruppo compatto, precipitaronsi sui difensori del cancello, li assaltarono alle spalle, li disarmarono, ed aprirono al residuo dei compagni di fuori.
Era veramente molto piccolo il residuo dei nostri prodi assalitori. Comunque, non essendo gravemente ferito, Cozzo, ed alcuni dei rimasti, al grido di: Viva l’Italia! che partiva dai liberatori capitanati dalle nostre eroine, si precipitarono sul cancello, riunironsi ai nostri, e tutti insieme, lanciaronsi nell’interno, sulla guarnigione, la quale, benchè numerosa, fuggiva spaventata in tutte le direzioni.
I liberati in quel trambusto eran pervenuti ad armarsi tutti—chi con armi da fuoco, chi con sciabole, e chi con altre armi tolte ai caduti ed ai fuggenti—e la partita diventava assai sfavorevole ai Borbonici, già disposti di abbandonare il forte, e gettarsi in mare, cercando la protezione della flotta.
Il sinistro genio d’Italia vegliava però sulla sorte della tirannide, e le conservò con le sue malizie per pochi giorni ancora, quel baluardo importante che, perduto il giorno 27 maggio, avrebbe sommamente servito all’impresa dei Mille su Palermo.
Il lettore ricorderà d’aver lasciato il gesuita rovesciato, ed in deplorevole condizione, nella cella di Marzia. Per la sventura del mondo, questa razza di vipere ha la pelle dura, e fattosi riconoscere[88] dal birro che invase la cella, al rumore della lotta che vi era seguíta, questi lo aiutò a sollevarsi e lo accompagnò alla sponda del mare, ove il Monsignor—pezzo grosso—avea sempre un palischermo da guerra a sua disposizione.
Il settario di Loiola, per quanta poca pratica avesse delle cose militari, avea capito che un assalto era stato dato dalla parte di terra al castello, e conoscendo quanta importanza avea lo stesso, come veicolo, e protezione delle comunicazioni tra la flotta ed il quartier generale, corse immediatamente dall’ammiraglio, per prevenirlo del pericolo, e sollecitarlo a non abbandonare Castellamare.
Un avviso del Gesuita valeva un ordine, e ben lo sapeva il comandante della flotta; quindi tutte le compagnie di sbarco di tutti i bastimenti, furono con ogni celerità gettate sul forte per proteggere il presidio.
E ben era tempo! quando le prime barche da guerra approdavano, i fuggenti della guarnigione eran già affollati sul mare per precipitarsi, e tale confusione e trambusto succedeva tra questi mercenari, da far paura.
L’uomo di mare è un essere curioso: assuefatto a disprezzare il pericolo sull’onda, gli sembra che alacremente egli possa affrontar qualunque pericolo, e vi si getta il più delle volte con una gaiezza tutta sua, poi legato dal dovere tra quattro pareti di legno—a lui divenute monotone—egli è sempre contento d’esser[89] inviato in terra, sia anche col pericolo della vita. Dal bordo della sua fregata, o vascello ove trovasi agglomerato con centinaia di compagni poco fortunati come lui, il marino vede sempre in terra un paradiso.
Fatale fu ai nostri valorosi tale propensione marinaresca, e le compagnie di sbarco—colla celerità propria di quella gente—internaronsi nel forte, incontraronsi coi vittoriosi, e per sventura nostra fecero cambiar la sorte delle armi.
Cozzo, ruggendo come un leone, con allato le tre guerriere, e seguito da un pugno di coraggiosi, assalì i nuovi sbarcati, e per più volte li ricacciò indietro; ma questi continuamente sostenuti da gente fresca, finirono per soperchiare i nostri e quasi distruggerli.
Dopo alcune scaramuccie coi Borbonici a Renne, i Mille impresero quella famosa marcia di notte verso Parco, che li mise in facili comunicazioni coll’interno, e la parte orientale dell’Isola—marcia che io non ricordo d’aver veduto simile, e tanto ardua, nemmeno nelle vergini foreste dell’America.—Marcia che, senza la cooperazione di quei magnifici picciotti delle squadre siciliane, sarebbe stato impossibile di eseguire, o almeno di trasportare i pochi cannoni nostri e le munizioni.
L’alba del 22 maggio trovava i Mille a Parco, grondanti d’acqua piovana—e molli di fango dalla più disastrosa delle marcie di fianco—e se avessero avuto da fare con un nemico più diligente, quel giorno poteva essere funesto ai nostri Argonauti.[91]
I cannoni erano smontati, e forse i loro affusti trovavansi a varie miglia di distanza. I cattivissimi moschetti infangati, e molti fuori di servizio, e la spossatezza della gente, avrebbero agevolato ai Borbonici la distruzione dell’egregia schiera.
Il 22 però passò senza novità.—I Mille ebbero tempo di rinfrancarsi, asciugar le loro scarse vestimenta, metter in ordine le loro armi, e prepararsi a qualunque avvenimento.
Solo il 23 mossero da Palermo i nemici, in due colonne: l’una direttamente al Parco per attaccarci di fronte; l’altra girando il nostro fianco sinistro, tentava di impadronirsi delle alture, e minacciava la nostra retroguardia e linea di comunicazione.
Il movimento combinato dal nemico non poteva esser migliore per esso, e mise i Mille nella necessità di abbandonare la posizione di Parco, e ritirarsi per lo stradale verso Piano dei Greci—ciocchè dovettero celeremente eseguire, dovendo fare un circuito assai grande—mentre la colonna nemica di cacciatori, sulla nostra sinistra, senza artiglieria, marciava per i monti, direttamente alla nostra linea di ritirata.
I Carabinieri Genovesi mandati sulla sinistra, per disturbare il progresso di tale colonna, vi pugnarono colla solita bravura, e perdettero alcuni dei loro prodi, tra cui Mosto—uno fra i migliori—fratello del Maggiore dello stesso nome, valoroso milite di cento combattimenti,[92] ed uno dei martiri di Monterotondo.—Mosto ferito gravemente a Monterotondo, fu men felice di Uziel—il prodissimo della colonna Genovese—che vi morì da forte ed ebbe quindi la fortuna di non sorvivere alla sventura di Mentana.
Un distaccamento dei Mille con passo celere avendo preceduto la colonna sullo stradale, guidato dai patriotti della Piana, s’impossessò delle forti posizioni che dominano quel paese, e fermò la colonna dei cacciatori nemici la quale, credendo di soperchiare i Mille e disordinarli, ne fu invece soperchiata e resa incapace di avanzare un passo.
Quella sera s’accampò nelle vicinanze della Piana e s’inviò il generale Orsini sulla via di Corleone, coll’artiglieria, bagagli ed infermi—disposizione che principiata al crepuscolo, ingannò i nemici sulla direzione della colonna principale.
La notte stessa si lasciò il campo della Piana, e c’innoltrammo colla colonna senza impedimento nel bosco Cianeto che divide detto paese da Marineo.
Il 24 di maggio il nemico vedendo che tutta la forza dei Mille si ritirava verso Corleone, la perseguiva con circa cinque mila uomini delle migliori sue truppe, ed ebbe nelle vicinanze di quel paese un impegno col generale Orsini, in cui quest’ultimo si comportò egregiamente, sebbene con numero molto inferiore di uomini.
Qui mi è grato il ripetere: che solo in Sicilia potevasi effettuare un movimento coperto come[93] quello che eseguirono i Mille dalla Piana a Palermo all’insaputa del nemico, il quale aveva il suo quartier generale a poche miglia di distanza.
Il 24 i Mille accampavano a Marineo.
Il 25 a Missilmeri—e tutte queste coraggiose popolazioni acclamavano l’arrivo dei fratelli, come se certi della vittoria.
E veramente il popolare entusiasmo ne era ben il precursore.
Quando si pensa che tutte queste belle popolazioni dell’Italia sono oggi così depresse ed umiliate—25 milioni d’individui che hanno i ladri in casa—senza aver nemmeno il coraggio di lamentarsene!—Vergogna!
E si millanta valore italiano—capi guerrieri, prodi eserciti.—Via! via! nascondete quella fronte macchiata dagli sputi stranieri!
Il 26, noi raggiungemmo il campo del generale La Masa a Gibilrossa, ove s’erano riunite alcune migliaia d’uomini delle squadre Siciliane. Ed a Gibilrossa si decise di assaltar Palermo nella notte.
La battaglia di Maratona fu una ben gloriosa vittoria di popoli contro la tirannide; ed i valorosi di Milziade ebbero una santa, terribile e liberatrice vittoria.
I Greci—come gli altri popoli che han la disgrazia di aver dei preti—son questi gli anniversari che dovrebbero ricordare e santificare, non i Domenichi, gl’Ignazi, gli Arbues e compagnia brutta di sangue!
Come la Maratona per i Greci, la battaglia di Palermo, quasi dimenticata e avversata dall’eunuco sistema che regge in Italia, sarà ricordata dalle generazioni venture con entusiasmo e con rispetto!
Sorgi, aurora del 27 maggio!—men sanguigna,[95] men cupa del precedente tramonto—tu vai a rischiarare il giorno più glorioso ch’io mi conosca in Italia.—S. Fermo, Palermo!—i nostri nepoti vi rammenteranno con orgoglio, e quando seduto al focolare, ed attorniato dalla gioventù bramosa, il veterano volontario starà narrando ad essa quelle superbe pugne, grandirà d’un palmo ed il suo volto venerando risplenderà ringiovanito.
Vittorie di popolo! del diritto sulla prepotenza, del vero sulla menzogna, e della giustizia sulla tirannide!
E perchè con tante splendide vittorie, l’umanità rimane sempre schiacciata sotto il peso dei pochi furbi, che la corrompono, la derubano e la fanno infelice?
Ditelo voi, archimandriti Bizantini, che assordate il mondo di ciarle—voi eletti a legislatori colla frode, o dalla dabbenaggine del popolo, o dalla parte di popolo comprato, voi, dottrinari e dottori di tante specie: molti di voi un giorno repubblicani arrabbiati—oggi!..... ho vergogna di dirlo, cosa siete? Comunque, legislatori, che a forza di leggi ci fate desiderar la vita primitiva.
Una scelta schiera di prodi dovea aprire la strada nella capitale dei Vespri.
Tucheri dovea condurla, e per compagni egli aveva nientemeno che Nullo, Cairoli, Vigo, Taddei, Poggi, Uziel, Scopini, Perla, Cucchi, ed altri valorosissimi, i di cui nomi, io raccomando vengano pubblicati dal prode Stato Maggiore dei[96] Mille e dai condottieri nobili delle otto famose compagnie, come pure dal capo delle guide, le quali primeggiavano fra i più coraggiosi[16].
Quella schiera scelta tra i Mille, non contava il numero, le barricate ed i cannoni che i mercenari dei Borboni avevano assiepati fuori di porta Termini.—Essa tempestava e fugava al ponte dell’ammiraglio gli avamposti nemici, e proseguiva.
Le barricate di porta Termini furono superate volando—e le colonne dei Mille, e le squadre dei Picciotti calpestavano le calcagna della valorosa avanguardia, gareggiando d’eroismo.
Non valse una vigorosa resistenza dei nemici su tutti i punti, nè il fulminare delle artiglierie di terra e di mare, massimamente d’un battaglione di cacciatori indigeni[17] collocato nel dominante convento di S. Antonino che ci fiancheggiava sulla nostra sinistra a mezzo tiro di carabina.—Nulla valse: la vittoria sorrise al coraggio ed alla giustizia, ed in poco tempo il centro di Palermo fu invaso dai militi della libertà italiana.
Trovandosi la popolazione della capitale della Sicilia completamente inerme, essa non poteva il primo giorno esporsi ai fuochi tremendi che[97] avean luogo per le strade.—Giacchè non solo sparavano le artiglierie della truppa concentrata in Palazzo Reale, Castellamare, ecc., ma la flotta Borbonica infilando le strade principali, le spazzava coi suoi forti proietti e distruggeva non pochi edifizi con granate e bombe.
Ed ognuno sa che quando i bombardatori[18] ponno bombardare una povera città senza esserne molestati, la loro bravura da cannibali si accresce in ragione geometrica.
Ben presto però il popolo di Palermo accorse all’erezione di quei propugnacoli cittadini, che fanno impallidir la tirannide—le barricate—e vi si distinse come direttore il colonnello dei Mille, Acerbi, milite valoroso di tutte le battaglie italiane.
I popolani, armati d’un ferro in qualunque guisa dal coltello alla scure, presentavano nei giorni susseguenti, quelle imponenti masse, irresistibili in una città, a qualunque truppa, per ben organizzata che sia. E quando un’intimazione di deputati borbonici fece significare ai Palermitani: di dover ricorrere alla clemenza del Re, un ruggito di sublime sdegno—somigliante a quello dei terribili nostri vulcani quando scuotono la superficie del globo—si udì nelle[98] illustri vie che risuonano ancora l’eco sterminatore di un esercito di tiranni.
Allora potè vedersi cosa vale una città di dugento mila anime disposta a seppellirsi sotto le macerie dei suoi focolari, pria di piegar il ginocchio sotto la prepotente tirannide.
Da quel momento le barricate sortivan da terra come per incanto—e che barricate! da poter sfidare anche le più forti artiglierie. Palermo n’era stipata.—Ogni finestra di casa presentava un’alta barricata di materassi, cuscini, mobilia d’ogni specie, e le più pesanti suppellettili vedevansi sospese, pronte ad esser precipitate sulle teste dei mercenari, in caso essi avessero tentato di assalire i figli della libertà.
Salve! città dalle grandi memorie—anche questa volta l’eroica tua iniziativa valse la quasi unità della patria italiana, che sarebbe compiuta oggi, senza la prevalenza della menzogna, del dottrinarismo e degli adoratori del ventre!
[16] Non potendo, com’è ben naturale, ricordare i nomi di coloro che fecero parte di quella sacra Legione, ho pensato d’introdurvi quei gloriosi martiri dei Mille che mi si presentano alla memoria, sebbene non tutti appartenenti a detta schiera.
[17] V’erano varii corpi stranieri.
[18] I bombardatori di città e quei bulli che fucilano individui inermi come i Ciceruacchio ed i volontari fucilati dopo Aspromonte, son gente che non dovrebbero più vivere nei paesi civili, ma come Aynau essere gettati nei fiumi o presi a bastonate.
Io ho sempre inteso per repubblicani i propugnatori dei diritti dell’uomo contro la tirannide; e tali eran certamente i Mille ed i loro valorosi commilitoni del 60. Ciò sia detto, spero, per l’ultima volta, a confutazione di quei dottrinari che voglion oggi far monopolio dell’idea repubblicana, come se fossero essi gl’inventori—come se non fossero mai esistite repubbliche—e che hanno sempre l’aria di non volermi perdonare la spedizione di Marsala, per non avervi proclamata la repubblica e di non averla proclamata in altre occasioni, in cui mi sono trovato in comando.
Dopo la Fieravecchia, occupato il palazzo Pretorio col quartier generale, i nostri militi rinforzati sempre dai robusti abitatori delle campagne, armati di cattive carabine—ma audacissimi—i nostri militi, dico, a poco a poco,[100] cacciarono da tutti i punti centrali della città i soldati borbonici verso il Palazzo Reale a mezzogiorno, e verso Castellamare a tramontana. Le comunicazioni tra il quartier generale e la flotta divennero impossibili, ed i primi indizi d’una capitolazione furono: la richiesta del permesso di condurre i feriti nemici sulla flotta, per esser trasportati a Napoli, e quello di seppellire i morti che ammonticchiati nei siti delle pugne, cominciavano ad infettar l’aria.
Ciò richiese un armistizio di 24 ore—e Dio sa se noi ne avevamo bisogno, obbligati come eravamo di fabbricar la polvere e cartucce di cui fummo privi durante delle ore!
E qui giova ricordar pure che nessun soccorso d’armi o di munizioni ci venne dai legni da guerra ancorati nel porto e sulla rada, compresa una fregata italiana, su cui il comandante cacciò un mio messo, senza volerlo ascoltare. In quei giorni solenni in cui avremmo pagato a peso di sangue alcuni mazzi di cartucce!
Se ben mi ricordo, si comprò un vecchio pezzo di ferro da un bastimento greco.
Comunque, la fortuna arrideva al coraggio ed alla giustizia. Si fabbricava una cartuccia e si tirava. Le fucilate nemiche all’opposto sembravan grandine, ma i militi della libertà non le temevano, ed impavidi progredivano colle barricate verso il covile dei mercenari.
I generali nemici spaventati da tanto eroismo cercavan di capitolare, ed una prima conferenza[101] a bordo dell’Annibal, ammiraglio Mundy, ebbe luogo tra il capo dei Mille e loro.
Qui vi è da osservare pensando che il capo dei Mille—trattato da filibustiere sino a questo punto—divenne ad un tratto Eccellenza, titolo ch’egli ha sempre disprezzato come uno dei simboli dell’imbecille orgoglio umano. Tale è la bassezza dei potenti della terra,—quando colpiti dalla sventura.
La conferenza a bordo dell’Annibal ebbe per risultato la proroga dell’armistizio. Ma le altre condizioni proposte dai generali borbonici erano state inaccettabili. Facendosi però più trattabili ogni giorno i suddetti generali, si conchiuse finalmente una capitolazione, con cui l’esercito borbonico obbligavasi d’imbarcarsi fra un numero determinato di giorni, abbandonar la Sicilia e non tenervi che le cittadelle di Messina, Agosta e Siracusa.
Si rimaneva quindi padroni dell’Isola intiera, meno le tre fortezze suaccennate, ed a ciò avea contribuito anche molto l’adesione quasi simultanea di tutte le città della Sicilia alla splendida rivoluzione.
Quand’io, nell’avventurosa mia carriera sulle coste americane dell’Oceano, ho potuto dire a degli schiavi «Voi siete liberi!» quello fu certamente il più bel momento della mia vita.
E voi bianchi! padroni e carnefici dello schiavo nero—voi!.... teneteveli i diamanti vostri—io non li curo. A me, pirata—come m’avete chiamato tante volte—basta d’aver messo un termine ai vostri delitti ed al servaggio dei vostri schiavi.
Marzia, che abbiam lasciata fuggente dalla sua cella—dopo d’aver atterrato e quasi strangolato il gesuita—dominata ancora dal parossismo di disperazione in cui l’avea condotta il perverso colle diaboliche insinuazioni, avea conservato però presenza di spirito sufficiente per[103] impadronirsi del mazzo di chiavi attenenti alla chiave della propria cella, e profittando della confusione suscitata da Cozzo e compagni nel loro assalto, si accinse ad aprire quante celle le capitarono nel corridoio—piene tutte di prigionieri—e per fortuna indovinò nelle stesse quelle delle sue compagne.
Ricorderà il lettore come finì sventuratamente la lotta ineguale impegnata tra il pugno di prodi, di cui facean parte Cozzo e le tre eroine, e la guarnigione del castello, sostenuta dalle compagnie di sbarco della marina.
Ora la capitolazione dei Borbonici era firmata, l’Isola dovea essere evacuata, e certo i primi a liberarsi dovevano essere i detenuti politici di Castellamare.
La liberazione di quei cari e valorosi compagni, la maggior parte feriti, uscendo dall’ergastolo e risalutando il sole della libertà, acclamati da immensa popolazione, fu un vero giorno di festa per la capitale della Sicilia.—Ognuno abbracciava i suoi che avea creduto per sempre perduti—e lascio pensare con che giubilo Lina e Marzia furono accolte dai Mille, e massime da P. e da Nullo.
Lia era rimasta a custodire Cozzo, incapace di muoversi per le ferite, sino verso sera in cui fu trasportato in una bussola alla propria casa.
Giubilate pure, uomini e donne che contribuiste alla liberazione della patria! A che vale la vita dello schiavo! Non è meglio morire? Palermo[104] libera e cacciando i tiranni, vale ben la pena di esser fieri di giubilarne!
La superba capitale dei Vespri, come i suoi vulcani, manda ben lungi le sue scosse—e crollano al gagliardo suo ruggito i troni che posero le insanguinate fondamenta sull’impostura e sulla tirannide.
Ma non solo i buoni giubilavano, anche i perversi maestri camaleonti—sempre pronti a svestire la pelle del lupo e frammischiarsi tra gli agnelli divenuti leoni.—Si! anche i schiakal dell’italiana famiglia, oggi tutti seduti alla greppia dell’erario pubblico, giubilavano!
Drizzando alquanto il collo torto ed atteggiando il ceffo al sorriso, spuntavano dai loro covili, ove s’eran tenuti nascosti tutto il tempo che durò la pugna, stringendo la destra a tutto il mondo ed inneggiando più degli altri alla libertà ricuperata.
Ne avevan ben bisogno di riposo i Mille, poveri giovani!—la parte eletta di tutte le popolazioni italiane, ma non avvezza ai disagi, alle privazioni—figli di famiglie distinte, eran gran parte studenti—molti laureati—e tutti, con poche eccezioni consacrati all’eroismo e al martirio, per la liberazione di questa nostra terra, un dì padrona del mondo.—E fu gran colpa veramente la conquista del mondo conosciuto che dovea necessariamente aver per conseguenza l’odio universale.
I Mille, per la maggior parte non marini, avean lasciato le nausee di mare, per ingolfarsi nelle stragi delle battaglie, e per sentieri quasi impraticabili eran pervenuti in Palermo, ove cacciando davanti a loro un esercito di ventimila uomini delle migliori truppe borboniche, liberavano[106] la Sicilia intiera in solo venti giorni. Ed in sette sanguinosi combattimenti, coadiuvati dai loro fratelli del mezzogiorno, compivano l’opera sognata dai grandi italiani di tutte le epoche.
Dopo la ritirata dell’esercito borbonico, i Mille poterono organizzarsi, e formaronsi nello stesso tempo varii piccoli corpi, comandati da esperti ufficiali, e Palermo, da una piazza d’armi del dispotismo, divenne in pochi giorni un semenzaio di militi della libertà italiana.
Che bel vedere nelle ore fresche della giornata quei vispi giovani figli della Trinacria, all’esercitazioni militari, con uno slancio, una volontà da consolar l’animo del veterano per cui l’Italia redenta fu il sogno di tutta la vita.—E l’Italia, ripeto, avrebbe potuto redimersi intieramente in quell’epoca gloriosa, se l’inerzia degli uni e la malizia degli altri non avessero inaridito il germe potente dell’eroismo nazionale.
La sosta in Palermo dopo l’evacuazione dei nemici fu pure impiegata ad opere giovevoli. Il gran numero di ragazzi, vagando per le strade, ove per lo più trovano una scuola di corruzione, furono raccolti, riuniti in stabilimenti idonei, ed educati alla vita dell’onesto cittadino, o milite.—Si migliorò la condizione degli stabilimenti di beneficenza, e si supplì di viveri tutta la parte della popolazione indigente, e tutta quella danneggiata dal bombardamento e dalla guerra in generale.[107]
L’organizzazione del Governo Dittatoriale fu pure attuata, e vi contribuirono varii esimii patriotti della Sicilia—tra cui primeggiava l’illustre avvocato Crispi, uno dei Mille.
Distribuite le forze nazionali in tre divisioni, esse presero il nome d’Esercito meridionale, che mosse verso l’oriente per compiere l’assunta missione emancipatrice.
Una divisione comandata dal generale Türr (surrogato per causa di malattia dal generale Eber) s’incamminò per il centro dell’Isola. La divisione di destra comandata dal generale Bixio per il littorale a mezzogiorno; e quella di sinistra comandata dal generale Medici per la costa settentrionale, con ingiunzione di riunire quanti volontari si sarebbero presentati ad accrescere le forze nazionali; e tutte coll’ordine di concentrarsi nello stretto di Messina.
Più che dai contingenti isolani, i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori, partite dal continente.
La prima spedizione comandata da Agnetta[19] giunse col Veloce, piroscafo piccolo, e prese parte agli ultimi combattimenti di Palermo. Le altre più o meno numerose, seguirono ed accrebbero[108] il numero dell’esercito meridionale con forti militi del settentrione e del centro.
Il generale Sirtori, capo di Stato Maggiore dei Mille, rimase in Palermo Prodittatore della Sicilia—ed ogni cosa in generale camminava in favore della fortunata rivoluzione.
A Roma però, in intelligenza con Torino e Parigi, focolari d’ogni malizia, tramavasi contro la stessa, e preparavansi tutti i mezzi per arrestarla ed annientarla.
[19] Il drappello condotto dall’Agnetta era misto di Italiani e di Ungheresi, e non sorpassava il numero di 100. L’Agnetta è quello stesso che, finita la campagna del 1860, ebbe un duello col Generale Bixio al quale si presentava per ordine di Garibaldi, in conseguenza di un violento diverbio che ebbe luogo il 30 maggio nella chiesa di S. Giuseppe.
Io m’inchino davanti alla grande metropoli del mondo, davanti..... alla grandissima meretrice!
Panteon delle maggiori grandezze umane, ed oggi fatta lupanare d’ogni schiuma di ribaldi dell’universo.
E tale doveva esser la sorte dell’orbe!
Calpestando sotto i suoi piedi d’acciaio le nazioni, e dalle nazioni precipitata all’ultimo grado della scala umana.
Papi ed imperatori altro non furono che carnefici della giustizia suprema!
Eppure m’inchino davanti a te, Roma!... perchè in te spero, in te che lavata dall’immondizia di cui sei insudiciata, oggi riapparirai risplendente dell’aureola della libertà come a’ tempi de’ tuoi[110] Cincinnati, non più per aggiogar le nazioni, ma per chiamarle alla fratellanza universale.
Nel tuo seno sono convenuti, è vero, i due genii malefici all’umanità, l’impostura e la tirannide, ma che monta? cadranno davanti alla fatale spada della giustizia.
I popoli camminano a passo di testuggine, è vero, ma progrediscono[20]; quei signori che un giorno non avrebbero degnato la plebe d’uno sguardo, oggi l’accarezzano per timore che si ricordi dell’insanguinato loro albero genealogico e della propria potenza.—Potenza! ma..... potenza del bue o del cammello.
In una delle aule del Vaticano, ove il generale dei Gesuiti (generale, eh!..... non c’è male per i modesti sedicenti discepoli del Giusto!) teneva il suo ufficio, eran adunati in tre: il generale, il suo primo segretario, pezzo grosso, ed il nostro conosciuto monsignor Corvo che li valeva tutti e due per malvagità ed astuzia.
I tre si sedettero e misuraronsi coll’occhio volpino, da capo a piedi, senza un sorriso, perchè cotesta è gente che non sorride, nemmeno coll’amante, o se sorride qualche volta, quello è sorriso del coccodrillo. Essa non ama, non compiange, ma odia con tutta l’intensità di cui è capace il cuor umano, e sacrifica, se fosse nelle[111] sue mani, l’intiera umana famiglia, per soddisfare vizii ed ambizione.
«Il fine giustifica i mezzi.» Misurate tutto l’enorme cinismo di questa massima del gesuitismo, d’una setta la cui aspirazione è il cretinismo ed il servilismo dell’uomo che non è gesuita, ed avrete un’idea della sua nefandezza. Infine: dominare i potenti massime con la confessione, e con loro il mondo.
Il gesuitismo e la tirannide rappresentano il male nella famiglia umana. Essi sono quelle piante parassite, che vogliono vivere e mangiare a spese delle altre, e non si contentano di mangiar per uno, vogliono mangiar per cento: e per sostener la loro ingiustizia, cercano con ogni mezzo atroce di dominare le plebi, da loro chiamate canaglia.
«Ebben, monsignore,» principiò il generale diretto a Corvo «che nuove della Sicilia?»
«—Pessime, eminenza! pessime: pare che la fortuna arrida in ogni modo ai filibustieri, oggi trattati da eccellenze dai generali borbonici. Essi sono tosto padroni dell’isola intiera, meno le quattro orientali fortezze, e probabilmente non tarderanno ad incamminarsi verso lo stretto di Messina per passare sul continente. Ed allora io non so che pesci si piglieranno anche per la nostra Roma—che V. E. sa essere il boccone più squisito per quei maledetti eretici».
All’ultima parte di quel discorso gesuitico, il generale impallidì, e lasciando cadere ambe le[112] mani sulla smisurata pancia, era lì lì per mandare uno di quei sospiri dolorosi che mostrano la depressione dell’animo. Ma si trattenne, e siccome il pericolo era tuttor lontano, e anch’egli non mancava di dissimulazione, si fece animo, e così ricominciò:
«Ma come va? Tutti quei nostri emissari inviati da noi, dall’imperatore, e raccomandati da Cavour e dalla corte di Napoli, non sono stati capaci di liberarci da quel pirata?—
«—Favole, eminenza, favole! o quegli emissari non sono arrivati, o se arrivati, sono stati infetti dal morbo generale d’insurrezione e si sono gettati nelle fila dei Mille, ormai tenuti come esseri superiori davanti a cui tutto deve piegare.
«Un solo, Talarico, calabrese, mandato da Napoli con nave da guerra, fu messo a terra di notte, e prometteva di compier l’opera a qualunque costo. Ma successe a lui, come al Cimbro di Mario. Nella stessa notte si vide giungere al nuoto a bordo della flotta, pieno di spavento, e confessando di non sentirsi capace a ferire quel capo di masnadieri, perchè ciurmato. Eppure Talarico è il più famigerato brigante dell’Italia meridionale, ed a lui si promisero ricompense spropositate.—
«—Ecco, esclama l’eminenza, in questi casi mai si deve facilitare, e se avessero seguito i miei consigli, non si sarebbero lasciati partire dalla Liguria quei rompicolli. Il serpe si schiaccia[113] subito che comparisce. Il male si sana nel suo principio; cronico, diventa incurabile.
«Tutti questi grandi politiconi volevan mangiar i rivoluzionari in insalata. Lasciateli partire, dicevano, ed essi non potranno sfuggire alle numerose crociere nostre e del Governo sardo che li aspettano nel Mediterraneo. E se per disgrazia non fossero incontrati dalle flotte, le coste della Sicilia sono così assiepate da soldati, che saranno esterminati in qualunque parte essi approdino.—
«—Altro che sterminio, urlava il primo segretario che divideva la paura del suo padrone! Esterminati! per S. Ignazio, se non fermano quei manigoldi al Faro, siamo belli e spacciati! Chi diavolo li ferma più quando abbiano messo il piede sul continente con tutta questa febbre di rivoluzione che s’è impadronita dei nostri italiani, un dì sì devoti e mansueti!».—
E l’eminenza e il suo segretario, cogli occhi spalancati, esalavano a vicenda tutta la paura e la soma di delitti affastellati nell’anima perversa e scellerata.
Non così il monsignore; esso non era tranquillo quando entrò dal generale per dar parte della difficile sua missione. Ma la paura dei due per un pericolo ancor lontano, manifestato non ostante una provetta dissimulazione, in cui erano ambi maestri, lo rinfrancava, e con voce rassicurata, diretto al generale, così si espresse:
«—Vostra eminenza sia tranquilla, tutto non[114] è perduto ed abbiamo i sovrani di Parigi e di Torino che se non fossero ambi svisceratissimi per la S. Sede ed il gesuitismo ch’è la stessa cosa, il loro proprio interesse li farà cauti, che devono combattere la rivoluzione a tutt’oltranza, e so da fonte degna di fede che navi da guerra bonapartesche sono già nello stretto di Messina per impedire il passaggio degli avventurieri sul continente[21], e che nell’alta Italia si prepara un poderoso esercito per combatterli se passassero[22].—
«—Voi siete la più solida colonna dell’ordine nostro, monsignore, esclamava l’eminente un po’ rassicurato, e qualunque cosa vi piaccia chiedermi, ve la concedo con tutto compiacimento.—
«—Avrei veramente bisogno che quel vecchio ebreo, di cui parlai tempo fa a vostra eminenza, fosse consegnato a mia disposizione, rispose il Corvo. Egli è diventato inoffensivo a forza di torture corporali e morali—per la maggior gloria di Dio (assassini) io l’ho fatto ridurre al punto in cui noi vogliamo. Esso trovasi nel più completo idiotismo ora, e potremo, quando V. E. nella sua saviezza voglia ordinarmi la pubblica conversione, presentarlo ai romani come un vero miracolo dello Spirito Santo».—
Maledizione! Quando sparirà dalla faccia della[115] terra questa tetra, scellerata, abbominevole setta che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’essere umano? E i popoli vanno a messa, a vespro, a confessarsi, a comunicarsi, a baciar la mano a quest’emanazione pestifera dell’inferno! E ciò costituisce il potere della tirannide.
Io mi nascondo, colle mani, il volto dalla vergogna d’appartenere a questa schiatta d’imbecilli, che si chiamano spudoratamente popoli civili!
«—Altro, esclama il generale dei birbanti! al più presto noi faremo conoscere al mondo cattolico la misericordiosa potenza del divino nostro maestro. E questa sarà una luminosa disfatta della millantatrice eresia che in questi ultimi tempi con tanta malizia ha cercato di abbassare la santa nostra istituzione».
[20] Non si esageri però—e si stia cauti contro la gramigna-prete. Nizza avea un convento nel 1860; oggi ne ha ventinove. Al prete basta un letamaio monarchico qualunque per ingrassare gl’infernali suoi semi e farli prosperare.
[21] Fu vano il veto di lord John Russel.
[22] Provato da documenti officiali.
Fu ben maliziosamente ingiusto colui, che trattò le vittorie del 60 di facili vittorie, vinte dai liberi italiani sulle truppe borboniche indigene e straniere!
Io vidi alcune pugne nella mia vita, e devo confessare che le battaglie di Calatafimi, Palermo, Melazzo, e primo ottobre, fanno onore ai militi che vi presero parte, e furon disputate con molto valore.
Quando su cinque o sei mila uomini nostri che pugnarono a Melazzo, circa un migliaio furon posti fuori di combattimento, ciò prova che non fu tanto facile vittoria. E le odierne battaglie ove s’azzuffano centinaia di mila uomini delle[117] prime truppe del mondo non presentano perdite più considerevoli in proporzione.
Il generale Medici, come abbiam detto, avea marciato per la costa settentrionale della Sicilia, da Palermo verso lo stretto di Messina, colla sua divisione, ed il generale borbonico Bosco con uno scelto corpo delle tre armi, superiore al nostro per le posizioni ed il numero, intercettava la strada principale appoggiandosi alla fortezza e città di Melazzo.
Già alcuni piccoli scontri erano accaduti nelle vicinanze di detta città. I nostri vi si eran condotti colla solita bravura, ed i cacciatori di Bosco non avean mancato alla loro riputazione.
Informato dal generale Medici della situazione, io profittai dell’arrivo a Palermo d’un corpo di volontari giunti in quel giorno dal continente e condotti dal generale Corte. Non permisi lo sbarco di quel corpo, e dalla capitale lo feci dirigere subito verso Melazzo.
M’imbarcai io stesso, e giunto al campo del generale Medici a Barcellona (mi sembra), si combinò di attaccare i nemici all’alba del giorno seguente.
L’alba del 20 luglio trovò i figli della libertà italiana impegnati coi Borbonici a mezzogiorno di Melazzo, ed impegnati in modo molto favorevole pei mercenari.
Praticissimi del terreno, i nemici aveano con molta sagacia profittato di qualunque accidentalità di quei ricchissimi campi. La loro destra[118] scaglionata davanti alla formidabile fortezza di Melazzo, era protetta da quelle grosse artiglierie, ed aveva la sua fronte coperta da varie siepi di fichi d’India—trincee non indifferenti per chi deve assalirle e superarle.
Il centro delle rispettive riserve, sullo stradale che conduce in Melazzo, era coperto da un muro di cinta fortissimo, a cui s’eran praticate molte feritoie, e lo stesso muro coperto da folti canneti che ne rendevano l’assalto pericolosissimo. Dimodochè il nemico, ben riparato, con armi buone, osservava, scopriva e fucilava i nostri poveri militi armati d’armi pessime, e fallacemente coperti dai suaccennati canneti—impiccio per noi, trattenendo lo slancio dei nostri senza ripararli assolutamente.
La sua sinistra in possesso d’una linea di case a levante di Melazzo formava martello, e quindi fiancheggiava con un fuoco micidiale i nostri all’assalto del centro.
L’ignoranza del terreno, su cui si pugnava, fu la causa principale di perdite considerevoli per parte nostra, e molte cariche che si fecero sul centro nemico, quasi inespugnabile, potevano risparmiarsi.
Invano io era salito sul tetto di una casa per poter scoprire qualche cosa—invano avevo fatto caricare sullo stradale per lo stesso motivo.
Molti morti e molti feriti erano il risultato delle nostre cariche sul centro, ed i nostri poveri giovani erano respinti, senza aver potuto scoprire[119] il nemico che di dietro il terribile muro dalle feritoie li fulminava.
Si durò così in una pugna ineguale ed accanita sin dopo il meriggio. A quell’ora la nostra sinistra avea ripiegato alcune miglia indietro e si rimaneva così scoperti da quella parte.
La nostra destra e centro, che si erano riuniti al comune pericolo, tenevano, ma con molte difficoltà e con perdite ben considerevoli.
Bisognava però vincere—e tale era il fatale animatore di quella stupenda campagna.—Bisognava vincere! e di ciò si persuada l’italiana gioventù.
Si tenti la vittoria cento volte, e se le cento volte manca al desiderato effetto, si provi la centunesima.—Pertinacia, tenacità, costanza vi vogliono nella guerra.
Le nostre perdite eran maggiori, quali non lo furono in qualunque pugna del mezzogiorno. La gente era stanca, il nemico avea comparativamente perduto pochissimo. Le sue genti fresche, intatte, e le sue posizioni formidabili. Eppure bisogna vincere! E lo ripeto! lo rammentino bene i nostri giovani concittadini—assuefatti a stancarsi con campagne di quindici giorni,—rammentino che noi, d’una generazione che passa, tanto lasciam da fare a loro, perchè non avemmo costanza, e che la redenzione di questa patria infelice dipende dal volerla tutti, e tutti contribuirvi, e sopratutto aver fiducia in noi stessi e nella vittoria quando sapremo farla piegare ad una volontà di ferro.[120]
I Macedoni, gl’Inglesi, i Francesi, i Germani, gli Svedesi, gli Spagnuoli ebbero i loro periodi di supremazia militare.—Ricordiamo però che nessuno fece più dei Romani antichi, e che se i preti giunsero alla corruzione della nostra razza, noi nascemmo sulla terra ove nacquero i Romani, e che lavati dalla bruttura dei preti, torneremo a valer qualche cosa.
Io ho sorriso di disprezzo alle meraviglie dei chassepot[24] con cui Bonaparte voleva spaventare tutto il mondo, ed il valore tedesco ha ben provato la millanteria dei servi della menzogna e della tirannide.
Ciò ci serva, e ci serva l’odierno esempio della Germania, il di cui entusiastico patriottismo caccia in questi giorni davanti a sè il creduto primo esercito del mondo.
Con dei conigli ladri come coloro che reggono oggi le sorti dell’Italia, ogni esercito può comparire il primo del mondo, giacchè essi non li vogliono i due milioni di militi che può dar la nostra Penisola;—a loro bastano pochi preposti, pubbliche sicurezze, benemeriti, ecc., per guardar loro la pancia.
Ripeto: gl’Italiani devono vincere finchè sotto il calcagno straniero gemono i popoli che diedero vita ai Bronzetti ed ai Monti[25]. Ed il giorno in cui vi sia un uomo a reggerla—questa Italia—milite[121] sarà ogni uomo capace di portare le armi; non più volontari, ma la patria servita da chi vuole e da chi non vuole.—Ed i mercenarii stranieri debbono trattarsi quali assassini, non coi guanti bianchi, come si trattarono sinora.
Or son pochi giorni, il Re di Prussia rifiutò di ascoltare le insolenti proposte del tiranno della Francia e cacciò il suo inviato. Ciò, ed altri pretesti dell’imperatore francese, sono il motivo della guerra.—E se l’Italia avesse un uomo che tenesse alla dignità nazionale, egli dovrebbe, per cominciare a lavare tanti oltraggi di quel masnadiero, dovrebbe mandar in galera il suo rappresentante Malaret, che la fa da padrone a Firenze, ed accoppiarlo con uno dei primi malfattori.
Dunque, bisognava vincere a Melazzo—e sin dopo il meriggio, tutte le condizioni della battaglia erano in favore del nemico, ed i figli della libertà italiana, non solo non avevano avanzato un passo, ma avean perduto terreno all’ala sinistra.
«Procura di sostenerti come puoi» diceva uno al generale Medici che comandava nel centro «io raccolgo alcune frazioni dei nostri e cercherò di portarle sul fianco sinistro del nemico, per girarlo».
Quella risoluzione decise della giornata.—Il nemico, incalzato di fianco dietro ai suoi ripari, cominciò a piegare, si caricò e gli si tolse un cannone che ci aveva fatto molto danno.—Esso[122] reagì con una brillante carica di cavalleria, che il colonnello Missori respinse alla testa dei distaccamenti suddetti.
Piegando il nemico attaccato di fianco, il nostro centro potè superare i ripari, e la vittoria fu completa.
Invano la ritirata dei Borbonici era protetta dalle grosse artiglierie della piazza, e dai pezzi volanti di fuori—i nostri militi, disprezzando il grandinare dei moschetti e delle mitraglie, assaltarono Melazzo, e prima di notte erano padroni della città, avevano circondato il forte da tutti i lati ed innalzato barricate nelle strade esposte ai tiri della fortezza.
Il trionfo di Melazzo fu comprato a caro prezzo; il numero dei morti e dei feriti nostri fu immensamente superiore a quello del nemico.—I generali Cosenz, Corte e Corrao—allora colonnelli—furono tra i feriti.—E qui giova ricordare le armi pessime di cui han dovuto sempre servirsi i nostri poveri volontarii.—Colpa principale, il Governo Sardo.
Il destino del Borbone però era segnato, e perciò la capitolazione di Melazzo dopo quella di Palermo—Melazzo, che sostenuta dalla flotta nemica, poteva valere una Gibilterra.
Tale è il destino della tirannide boriosissima, quando potente, ed il popolo, cammello inginocchiato;—ma codarda, tremante quando il popolo leone invia i suoi ruggiti.
Bosco capitolava (mi pare il 23 luglio) rendendo[123] la fortezza, artiglieria, munizioni, ecc.; e la divisione Medici marciava su Messina, di cui s’impadronì, ritirandosi la guarnigione borbonica nella cittadella.
A poco a poco comparivano all’appuntamento dello Stretto le altre divisioni Bixio e Türr[26] venute dall’interno, e si formava una quarta divisione, Cosenz.
Tra i valorosi caduti a Melazzo, noi perdemmo i valorosissimi Poggi, genovese, ed il milanese Migliavacca.
[23] L’Etna ed i vulcani di Lipari e Stromboli.
[24] Prima della guerra, cioè prima dell’ottobre 1870.
[25] Bronzetti, trentino—Monti, romano.
[26] Il generale Türr, assente per malattia, aveva lasciato temporariamente il comando al colonnello Eber, altro pregiato ufficiale ungherese, corrispondente del Times.
Dondola, graziosa Naiade, i lucenti tuoi fianchi sull’onde increspate del Tirreno. Lontana col ricordo, o vicina, colle eleganti tue forme mi ringiovanisci, e mi riconduci coll’anima ai pericoli d’un’età poetica pur troppo spazzata dal tempo.
La Borbona!—I francesi chiamaron Borbone le patate al tempo di Luigi XVIII, essendone ghiotto quel monarca.
Borbona!—Eppure eri una bella fregata anche con questo nome poco simpatico.—Non appartenevi più a quella classe elegante della fregata inglese o americana da vela—vera aquila dell’Oceano, che all’occhio esperto ed innamorato d’un figlio d’Anfitrite, rappresentava il bello ideale della sua fantasia.
Nelson, padrone degli Oceani, dominava nel Mediterraneo dall’ampia baia di Agincourt, di rimpetto all’Isola della Maddalena sulla Sardegna, tutti i littorali di quel mare, ed inviava le sue fregate sulle coste Italiane, Africane e Francesi,[125] informandosi con esse di qualunque occorrenza e di qualunque mossa delle flotte francesi.
Era bel vedere due fregate inglesi alla vista di Tolone, ove ancoravano cinquanta navi da guerra francesi, dal brigantino al vascello a tre ponti, e qualunque movimento importante di quelle navi veniva, dopo pochi giorni, segnalato da una delle due fregate all’Ammiraglio.
L’altra fregata, agile come l’Albatros[27], si manteneva alla vista della flotta nemica, veleggiando verso Agincourt, se perseguíta da forze superiori, ma sempre pronta a combattere ove la partita non fosse molto ineguale.
Vi era della vera e maschia poesia in quelle fregate a vela coi loro cinquecento lupi di mare per cui le tempeste e la morte erano un gioco.
La Borbona apparteneva ad un periodo di decadenza per la vela, ma di progresso nell’arte della distruzione, perfezionata poi dalle odierne corazzate: essa era fregata ad elice di 1ª classe ed anche molto elegante.
Io l’ho veduta dall’alto di Villa San Giovanni cannoneggiando una povera batteria che le povere camicie rosse avean edificato sulla punta del faro, con due cannoni borbonici, e l’ho contemplata con orgoglio, per esser legno italiano, da poter comparire con decoro al cospetto delle fregate suddette.
Era il 24 luglio, quando per la prima volta in[126] questa campagna la Borbona, destinata inutilmente alla difesa di Melazzo, approdava nel porto di Messina, e sbarcava nella cittadella un conosciuto nostro, il più astuto corifeo del negromantismo, il gesuita Corvo; e siccome dopo la battaglia di Melazzo, le camicie rosse cominciavano a segnalarsi sulle alture di Messina, il discepolo di Lojola credè meglio impartire le sue istruzioni al Comandante della cittadella, e tornarsene a bordo sulle ali dei venti e del vapore. Egli diceva: «meglio uccello di bosco, che uccello di gabbia».
Il Comandante della Borbona era, come tutti i servitori di Re, uomo col cuore nella pancia, e bastava perciò che non l’avessero disturbato nei suoi quattro pasti diurni, e dal suo favorito caffè, due volte al giorno, perchè egli potesse passare per un buontempone.
Il comandante d’una fregata come la Borbona a bordo è un sovrano, e non abbisogna per ciò essere un Nelson.
La rigorosa disciplina, ancor più facilmente attuabile sui bastimenti da guerra che nell’esercito, fa sì che ognuno deve ubbidire al capo, inesorabilmente. Di qui non si diserta, non si fugge, non v’è nascondiglio nei combattimenti e per poco coraggio che abbia un marino—ciò che succede raramente—la sua vita stava un dì come la ruggine annessa ad un proietto lanciato dal nemico, oggi essa fa parte dell’acciaio del terribile sperone.[127]
Il contr’ammiraglio Banderuola era dunque, poco più, poco meno, ciò che dev’essere un ufficiale imperiale o regio; cioè: Onnipotente a bordo della sua nave, ma umile servitore del padrone e pronto a bombardare la casa natía con dentro il padre e la madre, al comando di quello.
E con tutta la sua onnipotenza, Banderuola sapeva benissimo quanto più onnipotente di lui e del suo padrone era il Gesuitismo, e quindi il rappresentante di esso, il tentatore della nostra valorosa ed infelice Marzia.
«Non vanno le cose molto bene» diceva Corvo a Banderuola, la stessa sera del 24 luglio 1860 nella camera del comandante della Borbona, mentre questa incrociava a ponente dello stretto di Messina.
«I generali nostri assuefatti ad una vita imbelle ed inoperosa, non si son mostrati all’altezza dei tempi e delle circostanze, e temo molto che nell’anima di alquanti di loro si nasconda il tradimento, e quindi il culto al Sole che leva».
«Che al valore dei soldati, non abbia corrisposto la bravura dei capi, lo credo anch’io» rispondeva il marino «ma tradimento non lo crederei» (mentre egli stesso aveva cercato di patteggiare cogli agenti Sardi, allora numerosi ed attivissimi nel Napoletano). «Ed io dirò, circa all’amato nostro giovane sovrano, come diceva il Metastasio:
Un pieno bicchiere di Marsala aveva suscitato l’estro poetico nell’Ammiraglio, ma un colpo d’occhio scrutatore del gesuita, che lo penetrò sino nell’intimo dell’anima di fango, gli fece abbassare lo sguardo, e senza dubbio il suo interlocutore che la sapeva più lunga assai del marino in materia massime di dissimulazione e di tradimenti, avrà detto fra se stesso:
«Mi sta fresco Franceschiello con questi fedeli.»
Avendo però bisogno per i suoi fini particolari del comandante, il prete, da maestro com’era, ripigliò:
«Oh! sicuro, di tradimento non credo capaci i nostri capi dell’esercito e della marina particolarmente.»
E senza dar tempo al cicaleccio del Banderuola ch’ei scorse pronto a sostenere con calore il decoro della marina, egli proseguì:
«Ammiraglio, ricordatevi che noi dobbiam lasciare in Messina la signora contessa N., tanto raccomandata da S. Santità, e giuntaci or ora a bordo per una importantissima missione, e questa notte stessa essa deve esser trasbordata nel faro a bordo della Formidabile per esser sbarcata con tutta sicurezza».
«Immediatamente, Monsignore» era la replica del marino, forse soddisfatto di non trovarsi obbligato a sostenere una questione esosa, «Immediatamente! ed il miglior palischermo della fregata sarà destinato a tale missione».[129]
Chi sarà codesta signora raccomandata dal Capo dei corruttori d’Italia?—Lo vedremo nel seguente capitolo; ci basti per ora osservare e deplorare che il maggior sostegno del prete è la donna! La donna, la più perfetta delle creature, quando buona, ma un vero demonio quando dominata dai tentatori e traditori delle genti—i chiercuti.
[27] Uccello dell’Oceano.
I Dardanelli, il Bosforo, Genova, Napoli, il Rio Janeiro, appartengono a quei punti della superficie del globo su cui natura profuse i suoi incantesimi, e l’arte aggiunse le sue magíe, prodigate dal lusso e dalle ricchezze alle superbe bellezze della natura.
Da giovinetto, dopo le ruine di Roma, nulla mi commosse quanto quegli scherzi naturali che vi gettano nell’animo un indescrivibile piacimento ed un’ammirazione somma,—e nella fortuna che io ebbi di veder tanta parte di mondo, confesso esser stato più colpito alla vista dello stretto di Messina che di qualunque altro.
Stromboli, faro del Faro[28] colle sue eruzioni eterne, visibile alla distanza di sessanta miglia,[131] che stupisce d’ammirazione, di rispetto e di gratitudine il navigante battuto dalle tempeste, e che può alla sua vista cercar con sicurezza un rifugio, fuggendo alle terribili divoranti scogliere di Scilla.
Il vulcano di Lipari, minore dello Stromboli, ma anch’esso fumaiuolo della terra, ed i vulcani Alicudi-Felicudi, Salina, alti come il primo, ma spenti;—ma piramidi stupende vomitate dall’igneo centro del nostro globo, al disopra d’Anfitrite.—Entrando nel Faro da maestro a sinistra, le magnifiche falde dell’Aspromonte, certamente fratello dell’Etna, e l’aprica costa di Reggio col piede nell’onda, a destra le bellissime colline della Trinacria, servendo di contrafforti al padre dei vulcani italiani il Mongibello[29], lo stretto abbellito da Reggio, da Messina, da centinaia di pittoreschi casolari e da quella stupenda vegetazione di aranci, olivi, e quanto può vantare l’agricoltura meridionale è veramente incantevole.
Reggio promette un avvenire splendido, ma Messina è destinata certamente ad essere uno dei primi emporii del Mediterraneo.
Il sorprendente fenomeno della Fata Morgana che dipinge (non ricordo bene) la città di Reggio o quella di Messina, od ambidue nelle cristalline onde dello Stretto, è unico tra i fenomeni del mondo.[132]
Infine, al giovine nauta italiano, amante della natura e delle sue bellezze, lo stretto di Messina veduto per la prima volta, fa un effetto magico ed egli lo rivede sempre con amore.
Eran le 11 della sera, quando un palischermo partito dall’incrociatore borbonico la Formidabile, sbarcava sulla spiaggia orientale della città di Messina una donna, che chiameremo Signora—giacchè le sue vesti eran piuttosto pompose—e siccome un segnale era stato fatto da bordo sulla spiaggia, si trovò chi ricevette la Signora, già antecedentemente annunciata, e che l’accompagnò negli appartamenti principali del Castello.
Lo ripeto: la donna angelo, quando buona, diventa un demonio, quando padroneggiata dal Lucifero dell’Italia e del mondo—il prete!—
E tale era la contessa N..., una delle più cospicue gesuitesse che la società contasse in quell’epoca. Favorita, prediletta di monsignor Corvo, ed una delle sue prime vittime. Figlia d’un’illustre famiglia di Roma, e di rara bellezza, essa era caduta nelle reti del Gesuita, ancor giovane, ed una volta nelle ugne di quel tentatore, il di cui talento per la seduzione non era secondo a quello del primo serpente della favola, essa divenne uno dei personaggi più importanti della setta.
«Voi manderete, generale, per quella ragazza, non è vero? Guardate ch’essa è immensamente desiderata dal S. Padre, per solennizzare la più[133] splendida delle vittorie cattoliche, la conversione di due anime ebree, cioè dannate e ritornate al santo grembo di Dio, che è la sua Chiesa».
«Madonna» rispose il generale Comandante la cittadella di Messina, «Voi non dubitate certamente dell’immenso mio desiderio a compiacervi, ma voi mi proponete un’impresa ardua. La Marzia è molto amata e stimata sul campo dei rompicolli; se il minimo barlume trasparisse dell’impresa nostra per impadronirsene, non solo sarebbero sterminati coloro che tentassero di rapirla, ma forse succederebbe la sorte stessa a quanti parteggiano per noi in Messina.»
«Già lo sapevo, ripigliò l’altera contessa, che poco o nulla s’ha da sperare dai generali di Francesco II, quando essi si lasciarono carpire la Sicilia intiera da pochi filibustieri nudi e male armati». E la bella malvagia donna, così dicendo, ritirò la sua sedia dalla vicinanza del generale, e si mise a squadrarlo alzando il bellissimo capo, e dondolandolo,—che avrebbe potuto servir di modello a Michelangelo, quando concepiva l’idea di far una statua dell’Italia d’uno dei più alti picchi degli Apennini[30]. Essa lo fissava nello stesso tempo con due occhi, ove non so se imperasse più la seduzione della superba figlia d’Eva o il disprezzo che generalmente hanno le donne per i codardi.
«Pace! pace!» urlava l’amante[31], «Pace, madonna, io mi lancierò a qualunque pericolo per compiacervi, dovess’io stesso capitanare l’impresa e lasciarvi la vita».
E con un generale borbonico di meno, diceva tra sè la proterva, la terra continuerà la sua rotazione, ed il Figlio maggiore, per noi, dell’Infinito apparirà a levante per coricarsi a ponente, dopo d’essersi nauseato ad illuminare questo gregge di schiavi che si dicono discendenti dal più grande dei popoli del mondo, e che non si vergognano d’esser il ludibrio de’ loro servi da tanti secoli.
Vittima, come abbiam detto, era stata la contessa del più astuto dei gesuiti, e col suo spirito e la sua bellezza, era divenuta il Beniamino, e quasi il pezzo maggiore della terribile setta.—Tuttavia era Italiana, calpestava col disprezzo questa generazione d’eunuchi degli harem dello straniero, ma il suo cuore romano palpitava a qualunque bel fatto degli Italiani, e confessava a se stessa con compiacenza l’ammirazione per i militi di Calatafimi, e ne andava superba.
Un sentimento prepotente nella donna però la dominava, e questo era una sterminata gelosia per Marzia, più giovane di essa e non men bella—che sapeva poi, esser stata, e forse esser ancora la prediletta di Corvo.[135]
Vedendo il generale prostrato a’ suoi piedi, la sua bocca accennò un sogghigno di sprezzo, ma ritornando al carattere gesuitico da lei assunto, e ricordando l’odiata rivale, la contessa concesse la mano al mercenario, ed anzi, lo aiutò a rialzarsi, unico favore che egli mai avesse ricevuto dalla superba romana.
«Io non sperava meno da voi»—ripigliò l’astuta—«e S. Maestà il Re ne saprà di certo tener conto dietro le raccomandazioni supreme di S. Santità».
«—Con tutto il rispetto che io devo agli eminenti personaggi da voi nominati, è a voi, Madonna, che io voglio piacere ed ubbidire in quest’impresa».—
E queste parole furono pronunciate con accento energico e risoluto, poichè anche un mercenario è suscettibile di sentimenti di bravura in presenza della bellezza.
«—Comunque, voi servirete degnamente la causa della legittimità, dell’ordine e della religione».—(Solite menzogne non delle sole gesuitesse).
Con inchini striscianti, ma divorandola cogli occhi, il generale accompagnò la Signora nell’appartamento a lei preparato, e tornò nel suo a meditare sull’esecuzione dell’impresa tremenda.
[28] Lo stretto di Messina.
[29] Nome indigeno dell’Etna.
[30] Una delle Garfagnani.
[31] Non per la prima volta egli vedeva quella seducente creatura, di cui la seduzione era tutto lo studio della vita.
I briganti in tutte le epoche, hanno avuto delle eminenti rappresentanze come le eminenze.—Nella forza, per esempio: Milone di Crotona, che ammazzava un toro con un pugno e se lo mangiava;—nella scienza, Archimede, che chiedeva un punto d’appoggio per sollevar la terra, che inventava gli specchi ustorî con cui bruciava la flotta romana; Galileo, che trovava la legge della caduta dei corpi, base della grande scoperta di Newton e che scopriva nell’infinito miriade di mondi fin allora ignoti; e Kepler che tracciava nello spazio le orbite percorse dai pianeti.
I briganti, ripeto, ebbero le loro eminenze tremende per certo, ma non meno di quei settantadue eminenti massi di brutture che attorniano il Papa, nocivi al mondo.[137]
Noi abbiamo Gasparone, che sconta oggi ancora (1870) nelle prigioni di Civita Castellana il tradimento del Papa.—I Francesi contano Cartouche; e gl’Inglesi Robin Hood.—Gli ultimi ed i più atroci li avemmo in questi ultimi tempi, come i Crocco, i La Gala, i Fuoco.
Nei tempi di cui scriviamo (1860) l’individualità brigantesca più famosa era Talarico il Calabrese, temuto in tutta l’Italia meridionale, e che percorreva da padrone, ora solo ed ora accompagnato da bande.—Noi già lo conoscemmo in Palermo incaricato d’assassinare il Capo dei Mille, ed ora lo ritroviamo nella cittadella di Messina, ricevendo istruzione per un colpo di mano.
Il brigantaggio, figlio dell’ignoranza e della miseria, fu fomentato dai preti, dai Borboni e dal capo di tutta questa ciurma, il Buonaparte.—Caduti gli ultimi, e regolati i primi, non vi sarà più brigantaggio in Italia.
Annegato nel sangue che fece versare a torrenti il Buonaparte, nel nulla il Borbone, e Roma resa all’Italia, non vi sarà altro motivo di brigantaggio, se non che le depredazioni del Governo Italiano, che avranno fine siccome ogni altra malvagità.
Devo ripetere qui pure: che educati all’onestà, all’amore del loro paese, codesti robusti contadini, dei quali i preti fanno dei briganti, i di cui delitti inorridiscono il mondo, potrebbero riuscire dei militi stupendi, essendo essi dotati di forza, agilità e coraggio insuperabili. Serva d’esempio il seguente fatto di Talarico.[138]
In una casipola di montagna nelle Calabrie, le truppe borboniche erano pervenute ad assediarlo con una forza imponente e rinchiuderlo in un cerchio di ferro.—Talarico, avvisato dall’amante sua abitatrice di quella casa, del suo pericolo, per prima disposizione si accese il sigaro, poi passando ad una finestra opposta alla porta di casa, sparò sei colpi di revolver, ed immediatamente fasciando colla veste il braccio sinistro, e mettendo la daga alla destra, volse indietro, slanciossi fuori della porta caricando col ferro chiunque si presentava, si aprì strada, e uscì a salvamento senza una sola ferita.
Tale era l’uomo a cui il generale C. dava incarico di catturare Marzia.
Garrulo, svelto, coraggioso è il pescatore siciliano.
E chi può raggiungerlo nella millanteria? Carattere speciale di quanti isolani nostri ho conosciuto e che credo appartenga a tutti i popoli meridionali dell’Europa, come l’Andaluso, il Guascone, ecc.
«Io sono quello» è il preambolo ordinario con cui si presentano questi nostri superbi figli del Vespro.
«Io sono quello» e continuano poi la storia del loro operato.—Tale millanteria, non tollerabile in ogni caso, certamente porta gli uomini alle più arrischiate imprese, alle più splendide scoperte ed all’insofferenza di oltraggi, come lo provarono ai Francesi nella loro impareggiabile rivoluzione; come lo provano ogni volta che si trovano stanchi di governi iniqui.[140]
Pensando poi al modo anormale e spesso scellerato con cui furon governate queste meridionali popolazioni, io sono perplesso nell’investigarne la causa.—Dirò di più: mi ha stupito la facilità con cui esse passarono da una dominazione all’altra in tutte le circostanze, a cominciare dai Cartaginesi sino ai giorni nostri.—Popoli forti ed intelligenti, come cotesti, hanno forse mancato di quella costanza settentrionale che distingue massime gl’Inglesi.
Dobbiamo sperare con fondamento che nell’agglomerazione di tutte le provincie italiane in un sol corpo politico, esse godranno almeno di una condizione più stabile e potranno scuotere, coll’aiuto morale reciproco, il corruttore dominio del cattolicismo che ci trattiene agli ultimi gradini della civiltà umana.
Eccolo! qua, là, avanti, a destra, a sinistra, urla il pescatore messinese collocato in una specie di gabbia, all’estremità di lunghissima pertica, posta in situazione obliqua sul davanti della prora di palischermo leggiero e svelto come il pesce spada perseguito.—E dal suo gesticolare si capirebbe perfettamente dal pratico padrone della barca senza bisogno di assordanti grida.
Quando il pesce spada però è scoperto dal robusto cacciatore che lo segue già coi movimenti della micidiale sua lancia, sempre diretti verso l’innocente vittima, allora il gabbiere cessa dalle grida, ma sarebbe inutile esigere da lui che cessasse[141] dal gesticolare.—Egli non urla, non fiata, trattiene il respiro, ma se voi lo fissate vi accorgete non esser fermo un muscolo del suo corpo.—Non fa rumore, poichè davanti a lui, nella morte del povero pesce, sta la vita della famigliuola che lo attende per un tozzo di pane. Non fa rumore, ma un galvanismo irrequieto scorgesi in tutta la persona, dai piedi nudi ed anneriti al crine irto, e sconvolto, e mobile come rappresentano l’anguicrinita testa di Medusa.
Cessa i tuoi palpiti, le tue impazienze, la tua sete di sangue d’un nemico che non ha altro torto oltre quello di aver le sue carni gradite al palato dell’animale uomo—altro delitto fuor di quello di appartenere a razza men volpina, men maliziosa, giacchè egli, di te più forte, guai se si attentasse di difendersi.—
La tua barca, la tua vita e quella de’ tuoi compagni andrebbero in un fascio. Ma consolati, non aver rimorsi, egli senza malizia assapora la carne di pesci minori, e se vittoriosamente combatte colla balena, non è per proteggerli, ma per gelosia di mestiere. Tali son le odierne monarchie in guerre così continue od in pace armata per la grandezza della propria nazione, la difesa nazionale, per una causa giusta, anzi giustissima, santa! per la protezione infine di sudditi che si pappano per la maggior gloria di Dio da cui emanano direttissimamente.—Lasciamo dunque entrare il pesce spada nel novero delle vittime, giacchè egli conta tra i predoni.—E[142] ben lo coglie il lanciere messinese forandolo da parte a parte e conducendolo cadavere a bordo dopo d’averlo lasciato dissanguare.
La pesca del pesce spada, che si fa nello stretto di Messina, è tanto più cospicua in quanto che essa ha quasi sempre luogo nelle vicinanze delle sponde. La qui descritta si effettuava vicino al litorale siculo tra il faro e la città di Messina, e su quella bellissima spiaggia trovavasi riunita una folla di contemplatori della pesca.
«Oh! povero pesce, guarda quanto sangue ha versato dalla ferita»—e veramente un lago di sangue arrossava i dintorni della barca, mentre il pesce spada dibattevasi miseramente colla morte, inchiodato all’inesorabile ferro che lo trapassava.
Quella voce di compassione, forse l’unica che uscisse dalla folla, era articolata da bellissima fanciulla e diretta ad un’altra non men bella di lei.—Era Marzia che in uno sfogo d’anima gentile, compativa la situazione atroce del povero pesce spada, dirigendosi a Lina.
Frattanto i pescatori avevano raccolta nella barca la magnifica preda (naturalmente magnifica per i predoni), e siccome si disponevano a continuar la pesca essendo quello un giorno propizio per la stagione e per il tempo favorevole, nacque alle nostre eroine il desiderio di veder da vicino il pesce che appena appena aveano avuto il tempo di adocchiare.
«Se avessimo un palischermo» disse Lina «io sarei curiosa di andar a vedere il pesce spada, che mai non vidi.»[143]
Era la proposta formaggio sui maccheroni per la compagna accesa dalla stessa curiosità donnesca, ed un’affermazione subitanea fu la risposta.
«Un palischermo? ma non sarà difficile trovarlo» disse la vezzosa figlia di Roma.—E veramente non fu difficile, giacchè vicino alla sponda stessa una barchetta, con quattro robusti rematori ed un signore al timone avvicinossi; e, come se avesse indovinato il desiderio delle fanciulle, dopo un cortese saluto, il signore offrì gentilmente il palischermo a disposizione delle signorine. Guardaronsi in volto le due, ed un presentimento di mal augurio agghiacciò per un momento la risoluzione di Marzia.
Lina, però, alquanto più spensierata e men diffidente, disse all’amica:
«Andiamo, miglior occasione e più pronta non potevamo trovare.»
Marzia ristette un momento.—Vedendo però l’arditezza della compagna, che già movea verso la sponda, e vergognandosi di mostrar timore, seguì pure verso il legnetto, ed ambe imbarcaronsi in un’impresa di cui si pentiranno amaramente.
Eran le sei d’una bella serata d’agosto, non v’era soffio di vento, e la superficie dello stretto era inargentata. Le città di Reggio e di Messina come su d’uno specchio riflettevansi in quelle onde fatate, quando le nostre eroine misero il piede sulla graziosa gondola che dovea condurle sulla barca peschereccia ove giaceva il malcapitato cadavere del pesce spada ancora caldo della vitalità scomparsa, e la barca colla trionfale sua ciurma cantarellando vogava trasportata dalla marea verso la cittadella di Messina.
«Ma che con questi quattro robusti rematori, la Sirena che gareggia coi venti, non raggiungerà quegli stupidi pescatori?»
Quella millanteria era vociferata da tale che se fosse stato ben osservato dalle fanciulle pria[145] d’imbarcarsi, esse non si sarebbero certamente affidate a tale guida.
Il comandante della Sirena, posto al timone con Marzia alla destra e Lina alla sinistra, era una di quelle figure che colpiscono ed impongono l’ammirazione in tutti i loro movimenti fisici. Pettoruto e largo di spalle, sulle quali posava una di quelle meridionali teste adornate d’ebano tanto negli occhi che nella capigliatura.—Era di statura mediana, ma svelto quanto il capriolo dei monti.
Non era marino Talarico, non cavaliere[32], ma su un cavallo o su un palischermo egli dondolavasi graziosamente quanto un marino italiano, un figlio de las Pampas, od un Monarca della cuchilla del Rio Grande[33]; infine era un tipo di razza gagliarda, non tutta spenta in Italia, malgrado gli sforzi del prete e della tirannide per corromperla.
Dunque è Talarico, eh!—E voi le mie buone fanciulle l’avete fatta grossa d’affidarvi a lui, o non avete saputo distinguere sulla maschia figura del figlio d’Aspromonte l’occhio aquilino e micidiale del bandito.—E Talarico non solo, ma tutto quanto voi avete veduto di pesca, di pescatori e di Sirena sotto le finestre della vostra[146] abitazione, tutto era stato premeditato ed ordito per involare la Marzia.
Lina, altrettanto preziosa preda, non entrava nel ratto che come un accessorio.
La barca peschereccia vogava sempre verso la cittadella, trasportata dalla marea e dai remi, e la Sirena, benchè sveltissima, accorciava di poco la distanza che la separava dal pesce spada. La curiosità delle nostre belle cangiossi presto in timore, e gettato un colpo d’occhio verso la sponda sicula da dove eran partite e che già oscuravasi colle ombre della notte, esse richiesero al timoniere d’esser ricondotte verso la loro dimora.—Tutt’altro che Talarico avrebbe potuto usare un po’ di diplomazia, cioè d’inganno—confortar le donne, ingiunger loro di star quiete ed infine canzonarle ancora per un pezzo, ma tale non era il modo del calabrese brigante; e quando s’avvide che gli occhi delle due eroine lampeggiavano di sdegno, e che forse potevano, dopo d’aver riconosciuto l’inganno, scagliarsi su di lui, le prevenne, ed abbandonando il timone, pose una mano su d’ogni braccio delle donzelle, e le strinse come se fosse graffa di leone, mentre i rematori, assoldati come il loro capo, avanzaronsi a prestar man forte, nel caso che la potenza di Talarico non avesse bastato.
[32] Qui per Cavaliere non intendo quella caterva di servi che coi cavalli altro non hanno di comune che la greppia ove s’ingrassano a spese dei popoli che disonorano.
[33] Monarca della collina: così si chiamano i famosi cavalieri della provincia più meridionale del Brasile.
Vi sono molti birbanti del mondo, massime tra i popoli ove domina la corruzione del prete e della tirannide.—Ivi si perviene ai gradi, agli onori, all’agiato vivere, a forza di bassezze, di umiliazioni e di servilismo; quindi l’onestà non è merito, ma lo è l’adulazione e la flessibilità della schiena e della coscienza.
Fra codesti birbanti, alcuni onesti, o sono impercettibili nella folla, o sono tenuti in diffidenza per lo scetticismo che invade le moltitudini sì sovente ingannate.—Eppure io conosco degli onesti che potrebbero migliorare la condizione umana, se non vi fossero tanti pregiudizii e tante dottrine.—Ma come si deve aver fede in cinquecento individui, la maggior parte dottori[34] e la maggior parte venali, uomini che vengono[148] su dalla melma ove li condannarono la dappocaggine e sovente il vizio; vengon su, dico, a forza di cabale e di favoritismo, e si siedono sfacciatamente tra i legislatori d’una nazione, coll’unico interesse individuale e disposti sempre a sancire ogni ingiustizia monarchica, coonestando così gli atti infami di governi perversi che senza quella ciurma di parassiti avrebbero responsabilità dei loro atti, mentre con parlamenti servili essi sono dispotici, e compariscono o si millantano onesti.
Questi cinquecento, fra cui vi è sempre qualche buono, disgraziatamente si usano come governanti nelle monarchie non solo—governi imposti—ma pure nei paesi ove la caduta delle monarchie, come in Ispagna e in Francia, ha lasciato le nazioni padrone di loro stesse. La vecchia abitudine dei comitati, delle commissioni e dei parlamenti getta negli anzidetti casi di nazioni padrone di loro stesse una turba d’aspiranti alla direzione della cosa pubblica, che sventuratamente riescono sempre con una minoranza buona o mediocre, ma con maggioranza pessima, e quindi annientato il po’ di buono che vi si trova.
E perchè non scegliere un onesto solo per capitanare la nazione e con voto diretto? Non è più facile trovarne uno che cinquecento?
Il maggiore dei popoli della terra, il Romano, chiamò quell’uno Dittatore.—Chiamatelo voi come diavolo volete. Insignitelo del supremo potere per due mesi, per due anni, se meglio vi pare. Non successori nella stessa famiglia, non[149] eserciti permanenti.—Dieci onesti cittadini per littori, e l’esercito Nazione se la patria è minacciata.—Supponete ch’egli sia solamente onesto, e questa è la qualità che voi dovete cercare.—Non è amministratore, militare, finanziere, ma saprà trovare della gente idonea per ogni provincia. E non avrete il bisantismo, con quella turba di ciarlieri che assordano il mondo e mantengono l’Europa in una vera Babilonia.
Con degli onesti ai governi potranno avverarsi tutte le questioni politiche e sociali, e sopratutto si potrà provvedere subito alla soppressione di quel macello umano che si chiama guerra.
Il macchiavellismo è oggi una parola esecrata; eppure Macchiavelli è uno dei grandi di cui si onora l’Italia. Così avvenne alla dittatura. Perchè vi furono dei Cesari, dei Buonaparti, pare non vi possano essere più delle dittature oneste. Ed io sono certo che se la Francia e la Spagna, padrone di loro stesse, avessero, dopo la caduta d’Isabella e di Buonaparte, scelto un uomo solo con pieni poteri per governarle, esse non sarebbero cadute nello stato deplorabile in cui oggi si trovano. Lo rammenti la Democrazia europea; essa è sempre conculcata per non sapere combattere il dispotismo colle proprie sue armi, cioè la concentrazione del potere nelle mani d’un solo, sinchè (come in America ed in Isvizzera) la situazione non divenga normale da non più aver bisogno di poteri straordinari al governo concentrati nelle mani d’un solo.
[34] Non si creda che io sia sistematicamente nemico dei dottori (non teologi, che credo impostori), anzi io conto molti dottori tra i miei amici, ma essi han fatto prova sinora tanto cattiva nei governi e nei parlamenti da far disperare di loro.
Era verso la fine d’agosto, quando il Dittatore della Sicilia, radunate le vittoriose sue legioni nel Faro, disponevasi a passare sul continente italiano.
Il numero di forze dell’esercito meridionale[35] poteva ascendere ad una decina di mila uomini, aumentando ogni giorno però per l’arrolamento di meridionali e per i contingenti venuti dalle altre provincie d’Italia, con buona mano di veterani di tante battaglie.
Cotesto accrescimento di forze dei liberi dispiaceva certamente alla Corte Sarda, al Papato ed al padrone Buonaparte, e fra i mezzi impiegati per impedirlo, non mancarono ogni specie d’ostacoli all’imbarco dei volontari nel settentrione.[151]
Era naturale temessero l’invadente bufera nel mezzodì i monarchici ed i suoi satelliti. Chi ha la coda di paglia, teme il fuoco.—Ciò che non era naturale, che non doveva essere, e che mi ripugna scrivendolo, si è l’opposizione a noi fatta dal dottrinarismo, dagli uomini che oggi ancora sono tenuti quali archimandriti della democrazia italiana.
Essi hanno del merito, non glie lo contesto, e se al merito incontestabile avessero potuto aggiungere la capacità di far l’Italia da soli senza la cooperazione d’altri—essi sarebbero senza dubbio i sommi dei sommi.—Comunque, da loro fummo attraversati anche nella spedizione del 60, apparentemente, non colla volontà di nuocere; ma in realtà pregiudicavano.
L’organizzazione di un corpo di volontari in Toscana capitanato da Nicotera nocque, e se quelli stessi volontari si fossero inviati in Sicilia, sarebbe stato assai meglio.
La spedizione al Golfo degli Aranci, ordinata, credo da Bertani, e da lui diretta coll’oggetto d’un’operazione diversiva nello stato pontificio come la prima, fu anche nociva, perchè ritardò l’arrivo di un corpo considerevole di volontari di cui avevamo gran bisogno, e mi obbligò di abbandonare l’esercito sul Faro, imbarcarmi a bordo del Washington, ed espormi al pericolo d’incontrare gl’incrociatori borbonici, per andar a cercare a tramontana della Sardegna il suddetto forte contingente di bellissimi militi che si volevano sottrarre ai miei ordini (per una spedizione[152] inutile, giacchè essi nulla avrebbero fatto a fianco dell’esercito sardo invadente) e forse anche per non contaminarli al contatto degli elementi poco puri dei Mille.
Era dunque verso la fine d’agosto quando pronto l’Esercito Meridionale sulla sponda sicula dello stretto di Messina, si disponeva a traversarlo.
La vigilanza dei legni borbonici a vapore era immensa: le loro batterie sulla costa calabra, ben guernite di cannoni e d’uomini, protette da varii corpi di truppe sparsi nelle campagne circostanti.
Una quantità di piccole barche, raccolte nei diversi porti della Sicilia, erano state dirette a Punta di Faro, per effettuare il passaggio.—Vi furono alcuni tentativi infruttuosi.—In uno però, condotto dai valorosi Missori, Nullo, Musolino, Mario ed altri prodi compagni, si assaltò uno dei forti principali della costa suddetta, e senza il timore d’una guida che s’impaurì alle prime fucilate, i nostri s’impadronivano del forte, e con questo si sarebbe agevolato grandemente il passaggio dell’esercito.
La fortuna però doveva continuare a proteggere la giusta impresa, ed al ritorno del Washington dagli Aranci, il Dittatore s’avviò verso Taormina, ove il generale Sirtori aveva diretto due piroscafi per il Mezzogiorno della Sicilia—il Torino ed il Franklin.—Imbarcossi col generale Bixio la di lui Divisione e felicemente giunsero a Melito sulla costa meridionale della Calabria.
[35] Nome che presero i Mille accresciuti di numero.
Era il primo di settembre del 60, e verso le dieci antimeridiane una immensa folla brulicava dalla superba Basilica di S. Pietro, il maggiore dei templi del mondo.
Sino al ponte Elio, oggi di S. Angelo, e dallo stesso in tutta l’estensione della Lungara—quella moltitudine per la maggior parte devota, non lo era al punto di sfidare i raggi solari, cocenti in quella stagione, ed in quell’ora, in cui la brezza marina non ha rinfrescato ancora l’atmosfera corrotta della capitale dell’Orbe Cattolico; tutti tendevano verso l’ombra delle case, ciò che a tutti non riesciva, per la qual cosa verso la parte del Tevere v’era proprio da soffocare, tanta era la calca.[154]
Ma che importa di soffocazioni, di calori, di febbri? Oggi i chercuti danno una solennissima festa ed il popolo degenerato che cresce sulle ruine del più grande dei popoli, non abbisogna di dignità, di decoro, di libertà, ma di feste, e colle feste ed una scodella di brodo si contentano i discendenti dei Manli e dei Scipioni.
Un giorno questo popolo si affollò dietro al carro trionfatore trascinato dai re della terra, quindi negli anfiteatri a contemplar le sanguinose giostre dei gladiatori, e gli urli de’ suoi schiavi morenti, lacerate le loro carni dal leone o dalla pantera. Poi discese ancora più nell’imo delle sue cloache, barattò per pane e giuochi la sua libertà e dignità. Infine non contento ancora della sua abbiezione, e delle brutture imperiali, egli curvossi, si genuflesse, s’accovacciò ai piedi della più lurida, più umiliante e più sfrenata delle tirannidi—quella del prete—dell’impostore—del corruttore per eccellenza della razza umana.—E lì sen giace ancora, pronto al primo squillo di campana, a correre, prostrarsi e baciar la pantofola d’un idolo di fango.
I preti scorgevansi nel vasto peristilio del tempio; ne uscivan di tanto in tanto per respirare più liberamente, per mostrare al volgo ed alle bigotte i loro abiti sacerdotali di gala; e tergevansi con bianchi lini la fronte, sudante per le fatiche—poveri preti!—e sorridevano alle innamorate ammiratrici—e scotevano graziosamente i candidi piviali, e le inanellate chiome.[155]
Crittogama dell’uman genere!—Barattieri dei popoli!—A voi, che importano le sventure delle genti!—Predicatori d’immoralità, vantatori di un paradiso celeste con cui beffate il popolo, mentre ne avete costituito uno terrestre a spese ed a scorno suo, e mentre quell’inferno, di cui voi ridete, lo avete accatastato coi vostri roghi e le scelleraggini vostre, a pro degli infelici che hanno il torto di non bastonarvi.
Sì, preti!—era quella una solennissima festa, con cui le bugiarde vostre campane, le bugiarde vostre sinfonie, ed i bugiardi vostri apparati di stupendissimo lusso, cercavano di chiamare a voi le moltitudini ingannate e colpevoli di non volersi servire di quella religione colla quale natura adornò anche i più cretini.—Vi vuol poi, per Dio, molta scienza per capire che un prete è un impostore?
Quella festa, con cui si assordava il mondo, era la conversione del vecchio Elia e della sua Marzia, che dalla giudaica religione, generatrice del cristianesimo, dicevansi dover passare alla religione del Papa.
Due anime salvate!—Eh preti!—Gran festa!—Lo Spirito Santo richiesto dall’infallibile, ha toccato il cuore delle due smarrite pecore!—Ed esse, al cospetto del mondo devono abiurare la fede dei loro padri, ed aggregarsi alla vostra.—Eh preti! voi sapete che io so, non aver voi altra fede che nel ventre, e nella libidine!—Aggregarsi alla vostra fede, eh!—Credere alla verginità[156] della madre di Cristo, come voi credete a quella delle vostre Perpetue! E mangiar l’Ostia con dentro l’Infinito! Ah birbanti! voi non le credete queste fandonie colle quali infinocchiate le vecchie peccatrici, e gettate le nazioni nell’abbrutimento, nel servaggio, e nella sventura.
Voi non le credete, io lo so; ma nello stesso tempo voi potete scusarvi: chè in questo secolo di ladri, anche voi, avete trovato il modo di viver grassamente alle spalle delle carogne!
«Non fate ciò che io fo, ma fate quel che io dico». Ma bravi li miei preti! ecco una vera scuola di logica, di morale. A che diavolo serve l’esempio!
«Mortificatevi, digiunate, astenetevi» dite voi, per la maggior gloria di Dio! (bestemmie di cotesta impudente canaglia).
«Al prete, bocconi squisiti e vezzose donzelle». E non sono essi Ministri di Dio?—perchè dunque debbono essi privarsi delle dovizie del mondo, come voi altri cretini!
«Sì, la conversione di due Ebrei alla religione di Cristo» rispondeva un Romano ad un giovane d’aspetto marziale, e che dalla bionda capigliatura, sembrava appartenere alle provincie settentrionali della penisola.
«Sì, la conversione di due Ebrei» continuava il figlio di Roma—«e questi pretacci dondolano il nostro povero popolo con tali menzogne, e lo fan scordare del suo abbrutimento e del suo servaggio».[157]
L’interlocutore guardando fisso il Romano, sembrò investigare nell’abbronzato suo volto, la veracità del suo sdegno, e mormorava tra sè: «sarà questo un insofferente del giogo pretino, od un delatore?».
Il suo dubbio durò però poco, e l’apparizione d’una bellissima coppia, divisa per un momento dalla folla, e che accostossi ai due suddetti, facendosi largo, valse a dileguarlo.
I nuovi arrivati erano P... e la sorella Lina, la di cui presenza in Roma sembrerà straordinaria, mentre i loro compagni militavano all’estremità dell’Italia Meridionale.
«Addio, Muzio» incominciò il Bergamasco dirigendosi al Romano, ed ambi si strinsero famigliarmente la destra.
«Addio, mio caro» rispose l’altro—«Io mi vergogno di trovarmi qui inoperoso, mentre i nostri prodi amici, dopo di aver fatto miracoli di valore in Sicilia, stanno oggi marciando vittoriosamente su Partenope. Con tutta la buona volontà del mondo noi fummo ingannati dai temporeggiatori, dai Generali di combinazioni che ci hanno canzonati, intimandoci di fermarci in Roma per colpire il nemico alle spalle, e così abbiam dovuto marcire nell’ozio, e sprecare qui tanta bella e briosa gioventù, anelante di volare a fianco dei militanti fratelli.—Già l’ho sempre detto; la democrazia italiana come tutte le altre dovrebbe persuadersi che vi vuole un capo solo,[158] massime nei casi d’urgenza.—Molti capitani portano generalmente la nave negli scogli. Prima d’ogni schiarimento, permettimi di presentarti il nostro Nullo, e mia sorella Lina».
Uno scambio di affettuose scosse di mano legarono in un momento e per la vita il bravo figlio di Roma coll’eroe della Polonia, e la bellissima fanciulla delle Alpi.
A Lina, Muzio non baciò la mano per verecondia, non potè a meno però, di rimanere stupito a tanta bellezza, ed un po’ confuso.
«Fu veramente sventura, per chi dei nostri non partecipò alla gloriosa spedizione dei Mille» riprese P... «E tu, Muzio, col tuo drappello di coraggiosi romani, avresti aggiunto nuovi allori ai tanti raccolti sui campi Lombardi. Però, non disperarti, se hai mancato di pugnare contro i soldati del Borbone a Calatafimi e a Palermo, qui, tu sarai immensamente utile all’impresa disperata ma santa che ci siam prefissa».
«Oh! contate su di me e de’ miei compagni per qualunque arrischiata impresa» disse Muzio «Noi saremo superbi di combattere sotto ai vostri ordini».
«Duolmi tanto» egli continuò «dovervi lasciare in questo momento e confondermi nella folla; i segugi della polizia papale sono sulle mie tracce, ed io ne scorgo diversi che mi perseguitano. Ove occorra, a qualunque ora cercate di me ai mendichi del Foro Romano».[159]
Terminate quelle parole, Muzio scivolò tra la moltitudine con una celerità sorprendente, a considerare con quanta calca egli doveva lottare.
I nostri tre amici, quanto l’amico interessati a non essere scoperti e sorpresi, imitarono la di lui prudente ritirata e si mossero in direzioni diverse com’erano previamente convenuti.
Frattanto continuavano i grandissimi preparativi per la solennissima conversione dei due Ebrei, Elia, e Marzia; padre e figlia. E la bottega di Roma, per non crollare sotto il putridume de’ suoi vizii e delle sue corruzioni, abbisogna di queste imposture: ora una Vergine di legno, che apre gli occhi; un’altra, che piange lagrime di sangue; una terza, che porta, tempestato di brillanti, sul petto il santo prepuzio di suo figlio; ed un’altra finalmente non meno indecente, con appesa al collo la propria matrice! E la canaglia crede, paga contenta d’esser bastonata.
I preti se ne ridono e scialacquano, ed i reggitori del mondo, fingendo di creder gli uni e di far gl’interessi degli altri, rubano a tutti e fan giustizia del tapino, che prende un pane sul banco del prestinaio, per sfamare la prole morente, e lo appiccano!
Da Melito, ove la divisione Bixio, dopo d’aver tranquillamente ed ordinatamente eseguito lo sbarco, sopportò un forte cannoneggiamento della flotta nemica che ebbe per risultato l’incendio del magnifico piroscafo, il Torino, da Melito, dico, si marciò per la spiaggia occidentale delle Calabrie verso Reggio.
Nulla di molto importante successe in quella marcia, oltre alla riunione dei prodi compagni, che con Missori avean assaltato il forte Orientale del Faro, e non potendosene impadronire, come abbiam veduto per mancanza di una guida, erano stati obbligati di prender l’Aspromonte, ove avevan lottato con varia fortuna, contro i numerosi nemici che li perseguivano.[161]
Con Missori giunsero pure dei bravi Calabresi che ci giovarono assai nell’espugnazione di Reggio, essendo praticissimi del paese.
Si assaltò di notte e per sorpresa quella città, e verso il meriggio del giorno seguente, essa ed i suoi forti furono in nostro possesso. Al passaggio della Divisione Bixio successe quello della Divisione Cosenz verso Scilla e colla congiunzione delle due si ottenne la capitolazione d’un corpo considerevole di Borbonici a Villa S. Giovanni con perdite insignificanti da parte nostra. E padrone della sponda Calabra, l’esercito meridionale, potè passar lo stretto senza ostacoli.
Torniamo un passo indietro verso le nostre eroine, che lasciammo in preda a Talarico sulla spiaggia della Cittadella di Messina.—Appena il capo dei masnadieri ebbe partecipato al Governatore l’esito riuscito della sua impresa, questi si presentò alla contessa, che dal giubilo di tener nelle unghie la rivale, abbandonò all’uomo, che essa disprezzava, la bella mano la quale fu coperta di baci, che quasi servirono di stimolo a qualche audacia più licenziosa; ma l’altiera romana, tornata in sè da un momento d’oblio, ritrasse la mano, sollevò la bella fronte, e retrocedendo d’un passo, balenò il generale innamorato con tale sguardo da fargli subito abbassar gli occhi, e ritornare nell’umile posizione sua al cospetto di lei.
«Bravo Generale!» gli disse essa con accento di sarcasmo, ma sorridente nel viso. «Bravo! ora mi permetto di riabilitarvi nella mia stima e vi[162] chiedo perdono per aver dubitato dell’alta vostra capacità un momento».
Padrona della sua preda, essa sentì subito il bisogno d’allontanarsi dall’esoso soggiorno d’una fortezza e di recarsi a Roma ove l’aspettavano il trionfo della sua vittoria, e la soddisfazione di veder una rivale odiata, trascinata nel fango delle cloache pretine.
Tale è la cecità in cui le passioni avvolgono l’essere umano: il che però non manca giammai di lasciar traccia di rimorso per tutta la vita.
«Ma la compagna» pensò essa, e qui bisogna far giustizia a questa donna colpevole, e straordinaria «la compagna è innocente, non entra nella mia vendetta, e senza dubbio devo restituirla a quella libertà, che essa non ha meritato di perdere.» Però, ripensando, essa credè bene di non rinviarla sulla sponda sicula, ma di farla sbarcare a Reggio nella notte seguente, per più distoglierla dal filo della trama sciagurata.
Presa tale determinazione, la contessa ingiunse al governatore di far subito eseguire i preparativi per la partenza di lei, e di far sbarcare Lina a Reggio nella notte seguente. E tale incarico fu nuovamente dato a Talarico.
Un capo di briganti, per capo di briganti che sia, per cuore di leone ch’egli abbia, quando capitano nelle sue mani creature vezzose come la Lina, che per il nostro Talarico avea di più il pregio d’una magnifica capigliatura bionda, non comune tra le trecciate d’ebano delle calabresi,[163] diventa generalmente mansueto come un agnello.
E tale diventò precisamente il feroce nostro figlio d’Aspromonte trovandosi una seconda volta arbitro della bellissima Alpigiana; e quindi cercò questa volta per suo proprio conto d’inoltrarsi nelle buone grazie della fanciulla.
Come era bella, serena, la notte d’agosto in cui la nostra Lina incamminavasi verso Reggio, nella poppa della Sirena, scivolando sull’onda di quello stretto di Scilla e Cariddi, che gli antichi tanto avean temuto, colla velocità della quaglia, quando questa senza bussola o sestante, abbandonando le arene infuocate dell’Africa, traversa il Mediterraneo cercando clima più fresco!
Somigliava il mare a uno specchio, tanta era la calma, ed i rematori con una voga uniforme solcavano il seno d’Anfitrite, illuminato dal moto dei remi e dalla striscia lasciata dalla sottilissima chiglia del palischermo.
«Che bella notte, e che felice traversata avremo noi, signorina» disse il protervo abitatore della montagna, raddolcendo sino a contraffarla, la rozza e maschia sua voce «Che bella notte!» ripeteva accentuando più il tono; e l’altra, zitta, stizzita e burbera, quantunque di notte non fosse facile discernerla, era decisa di non rispondere.
Un periodo di silenzio seguì l’interrogazione od allusione di Talarico, ed il brigante, che non era poi uno stupido, capì che si doveva toccar[164] altra corda per udir la desiata favella e far cessare il silenzio della bella sua preda.
Ed ecco come vi riescì:
«I Mille» egli disse «entrarono in Reggio la notte scorsa e pare che niente possa resistere a questi rossi demonii.»
«I Mille in Reggio!» esclamò Lina obliando aver essa risoluto di non rispondere al suo predone.
«Sì! in Reggio! ed essi entreranno in Napoli un giorno o l’altro, giacchè i vigliacchi e panciuti generali di Francesco altro non sanno che far la guerra ai quattrini della nazione ed altro Dio non adorano che il ventre.»
Lina rimase un po’ stupita da questa foggia di discorso, ed essa avrebbe diffidato del comandante della Sirena se questi non si fosse spiegato con un accento d’ira e di disprezzo che dava garanzia della veracità delle sue parole.
Un momento di silenzio seguì l’ultimo discorso di Talarico, e vedendo che la fanciulla non rispondeva, egli ricominciò con più fervore di prima.
«Italiano lo sono anch’io, per la Madonna! e tengo primo fra gli onori quello del mio paese.—Poi, è da molto tempo che in cuor mio» e si pose la mano al cuore «io sono con codesti prodi propugnatori del patrio decoro.—Da molto tempo pure io disprezzo questi mercenari servi, vili strumenti di chi li paga, che coi preti hanno ridotti i nostri popoli ad essere il ludibrio dello straniero.[165] Ogni nazione è padrona in casa propria, e perchè in Italia cotesti padroni—Austriaci da una parte, Francesi dall’altra, che pare se l’abbiano comprata?—Le frutta deliziose delle nostre terre e la bellezza delle nostre donne allettano quei signori. Ebbene, noi darem loro del ferro nel cuore in cambio.—Voi la vedete, signora, quella massa oscura che comparisce a tramontana da noi: ebbene quella è una nave da guerra d’alto bordo del Bonaparte[36] venuta nello stretto per dar leggi a tutti.»
Gli occhi del Principe della Montagna sfavillavano nell’oscurità della notte come quelli del tigre che si è accorto dell’insidie del cacciatore, ed egli movea quel suo elastico corpo come se, insofferente di trovarsi rinchiuso in quella scorza di navicella, volesse precipitarsi nel mare.
E quanti ve ne sono di questi forti figli della patria nostra che potendo essere validissimi in una guerra contro lo straniero sono invece pericolosissimi a noi perchè suscitati all’odio del libero reggimento da quella bella roba che si dicono ministri di Dio!
Coll’infuocato discorso di Talarico, sparirono le diffidenze di Lina, ed all’acuto suo spirito, balenarono subito vari sentimenti; quello dell’acquisto alla parte nostra del valido appoggio di tal uomo straordinario, quello di penetrare negli arcani di[166] un evento di cui essa era stata vittima, e più di tutto, il potere aver contezza dell’amata sua Marzia.
La naturale curiosità donnesca la stimolava poi immensamente, già placata com’era dalla notizia che i suoi Mille eran padroni di Reggio e che presto sarebbe essa redenta all’amore de’ suoi cari.
«E voi che vi millantate Italiano ed apprezzatore delle gesta dei Mille, in cui tutto dev’essere generoso e decoroso per la patria italiana, perchè v’incaricate di molestar la pace di due fanciulle che non vi offesero e che appartengono a quella nobile schiera?»
«Io lo ammenderò questo mio fallo» rispose il brigante, e dopo un momento di meditazione:
«Sì, lo ammenderò! ed uno ben maggiore di questo io devo ammendare![37]»
Queste ultime parole furono articolate con voce sommessa, ma con un accento quasi di disperazione.
Poi energicamente soggiunse:
«Me le perdonate le ingiurie da me ricevute ed i danni, nobile donzella? Vedete, io abbisogno del vostro perdono come dell’aria che respiro. E se mi perdonate, questa miserabil vita che mi è divenuta insopportabile, ve la consacrerò tutta intiera! Non come un amante, io ben so che il vostro cuore ha scelto, ma come uno schiavo.—Io mi contenterò di baciar le zolle da voi calpestate,[167] di seguirvi nelle pugne da voi combattute.—E certo voi mi vedrete dar l’ultimo respiro sorridendo, s’io sarò così fortunato di poter dare per voi questa sciagurata esistenza! Ma non mi negate di seguirvi, e sopratutto non mi negate di farmi ammettere sconosciuto nelle fila di quei generosi vostri fratelli d’armi, gloria ed onore d’Italia!»
Dopo un momento di truce posa, egli ripigliò:
«Sconosciuto, sì, sconosciuto, m’intendete, poichè come Talarico, nè i vostri amici potrebbero accogliermi, nè il mondo compatirebbe un nome infame in quella eroica schiera. Ma io la laverò quell’infamia nel sangue dei nemici della libertà italiana! Laverò quei vent’anni d’una vita di delitti e di vergogne in cui mi aggiogarono i malvagi sostenitori dell’altare e del trono, ossia della menzogna e della tirannide!»
«Ove trovasi Marzia?» chiese Lina non più decisa al silenzio, ma disposta ancora al risentimento dagli anteriori procedimenti di Talarico.
«Marzia è in Roma a quest’ora» fu la risposta del Calabrese. «Il più agile dei piroscafi borbonici l’imbarcò la notte scorsa per tal destino.»
Intanto la Sirena solcava l’onda cristallina dello stretto, ed un flebile raggio della luna spuntante dalla frondosa cervice dell’Aspromonte, illuminava l’orientale meraviglia di quelle sponde incantate.—Reggio, che sortendo dall’onde e frammischiando l’aroma delle sue foreste d’aranci a quello della sorella Messene, involve il navigante[168] in un’ebbrezza di gaudio e d’ammirazione della natura tanto benevole e prodiga a quelle bellissime contrade, sì travagliate in compenso da pessimi governi!
«Non temete voi d’incontrare gente dell’esercito meridionale in Reggio?» disse Lina a Talarico.
Un momento di silenzio e di meditazione seguì le parole della fanciulla.
«Io più nulla temo su questa terra!» rispose l’altero crollando il maestoso e terribile capo. «Nulla! nulla! E voi dunque non mi accettate come servo e come schiavo?»
Vi era tanta eloquenza nelle rozze e superbe parole del brigante! Egli le avea pronunziate con tale accento di disperazione, che la bella figlia di Bergamo ne fu commossa, e quasi senza avvedersene abbandonò la mano a Talarico che la bagnò di baci e d’un torrente di lagrime di gratitudine.
«Grazie, grazie» furono i soli accenti che singhiozzando potè articolare quel protervo bandito, una volta terrore delle Calabre contrade ed oggi divenuto più mansueto di un agnello.—Tale è la potenza della donna sul sesso nostro per indurito e depravato che sia.
E quell’uomo, quel brigante che in causa di un’educazione pervertita era stato prima d’ora capace d’ogni atroce delitto, trovavasi in oggi trasformato in altro, capace d’innalzarsi all’eroismo sotto il magnetismo di semplice donzella.[169]
Vi era dunque, come in tutti gli altri esseri della stessa famiglia, una parte buona in Talarico che, coltivata da un uomo che non fosse un prete, poteva dare un cittadino onesto od un milite capace di onorare l’Italia.
Ritornato in sè, e quasi vergognato dal suo pianto, aggiunse:
«Comunque, io voglio seguire la buona o la cattiva fortuna dei coraggiosi che tanto innalzarono la riputazione guerriera del nostro, pria, disprezzato popolo.»
I compagni di Talarico, a lui devotissimi, si aggregarono pure alle liberali milizie, e l’Italia acquistò cinque campioni, che ne valevan ben dieci per valore e massime per la loro pratica del continente meridionale della penisola.
[36] E veramente v’era in quell’epoca un vascello francese nello stretto all’oggetto d’impedire il passaggio.
[37] Egli alludeva all’assassinio premeditato e non riuscito a Palermo contro il Dittatore.
La conversione! La conversione di due ebrei che dalla stupida fede d’Israele passano alla non meno del cattolicesimo. Che trionfo per la Santa Stalla![38]
Potete rallegrarvi, cattolici, massime quelli che i preti hanno venduto allo straniero, settantasette volte; ed oggi, non avendo compratori tra i potenti cattolici, si raccomandano a Lutero, e mancando Lutero, a Maometto, per tener loro bordone alle insaziabili libidini di potere e di lussurie.
Una conversione solennissima, sì! per la maggior gloria di Dio (sacrileghi!). Ed i quiriti ed i discendenti di Scipione, vestiti a festa, preparansi ad assistere degnamente a cotesto trionfo! Che differenza tra gli antichi che trascinavano i monarchi[171] ai loro carri trionfatori e questi moderni Romani affittatori di stanze e mercanti di corone, di scapulari, d’Agnus-Dei, pezzi della vera croce, di prepuzii e di santissime matrici, tutta roba che puzza come l’abito sudicio di cotesti buffoni, ciarlatani che la danno ad intendere alle abbrutite popolazioni!
Ma ve ne saranno molti in Roma, veri discendenti del popolo gigante? Tra questi servi di preti, cuochi di preti, lacchè di preti, figli di serve di preti, artisti ed operai di preti e figli infine di monache e di Perpetue di preti!
Qui mi passano per l’insofferente mio pensiero tanti altri epiteti, per lo più diffamatori, e siccome amo il popolo romano, non vorrei amareggiarlo vergando delle infamie, e mi contenterò di maledire i chercuti corruttori d’ogni bellezza! d’ogni grandezza umana!
Nullo, dunque, con P...., Lina ed il loro servo Torquato (nome assunto da Talarico), riunitisi a Reggio dopo la resa di quella città all’esercito meridionale, profittarono del passaggio nello stretto d’un vapore inglese per recarsi a Civitavecchia e di là a Roma onde vigilare sulla sorte della Marzia, e sottrarla, se possibile, dalle ugne dei preti.—Noi li lasciammo al termine del colloquio con Muzio;—P... e Lina soli rimasero insieme. Nullo e Torquato erano convenuti di stare alla vista dei suddetti, ma a qualche distanza per non destare colla riunione di quattro i sospetti della vigilantissima polizia papalina.[172]
Eppur i ministri di Dio di che dovrebbero aver paura, col loro amore del prossimo, la loro mansuetudine, infallibilità, carità e tante altre doti che devono distinguerli e farli rispettare ed amare dal loro gregge?
Ah vipere! emanazione dell’inferno! verrà quel giorno in cui i popoli vi conosceranno e di voi purgheranno la terra!
La folla aumentava sempre e l’immensa piazza di San Pietro n’era colma siccome le due grandi vie della Lungara e di Castel Sant’Angelo. Il calore era soffocante, ragazzi e fanciulle che non si trovassero sollevati dai parenti od amici, rischiavano di restare schiacciati.
Quante tisichezze produrranno queste solennissime feste cattoliche e quanti tifi prodotti dalla agglomerazione di fiati, massime nelle sante stalle!—Ma che importa agl’Italiani d’andar curvi col gobbo dai baciamani e dalle genuflessioni cui li assoggettano i preti! Che importa la razza deteriorata e le paure suscitate dagli stessi, e che impiccioliscono ed avviliscono l’individuo! Quello che importa son le feste, coi loro apparati, organi, musiche, i loro canti da eunuchi.—Eppoi son così splendidi negli adornamenti, così incensati tutti quanti quei graziosi ministri del Carpentiere di Galilea, dal sagristano al papa! Ed il paradiso apertissimo a tutta cotesta canaglia lo contate per nulla? Il paradiso, veh! ove eternamente cantano gli angioli (non ridete, vi prego), ed ove eternamente vi bea il sorriso di[173] Dio senza bisogno nè di mangiare nè di bere—ed ove per tali ragioni devono trovarsi pochi preti, unica fortuna del beatissimo soggiorno!
Quando si pensa a tutta quella massa di menzogne che sì spudoratamente spiattellano ai gonzi i sacerdoti dell’impostura, vien proprio voglia di rinnegare gli uomini di questa razza che non accolgono il prete a sputi, pugni o, meglio, anche a bastonate.
Era circa il meriggio quando le artiglierie di Castel Sant’Angelo annunziavano alle fedeli pecore esser la gran processione in procinto di muovere da Porta Pia per Borgovecchio verso la massima basilica.
Uno squadrone di dragoni, truppa scelta, bellissima gente, formava l’avanguardia, e mentre difilava il lunghissimo seguito di sacerdoti, di confraternite, di beghine, di graduati pontificii, ecc., lo stesso squadrone staccava dei singoli militi sui fianchi che coadiuvavano gli alabardieri in livrea a mantenere la moltitudine accalcata a destra e a sinistra e ad impedirle d’invadere lo spazio della strada che dovea percorrere la processione.
Il centro della lunga fila di ceri era occupato da due battaglioni di fanteria ordinati in colonna colle loro musiche in testa, e tra un battaglione e l’altro marciava un carro di trionfo riccamente addobbato e tirato da sei bianchi cavalli adorni di superbi arnesi. Il superbo padiglione che copriva il carro era sostenuto da quattro colonne[174] inghirlandate con squisite dorature, ed i sedili dello stesso ricoperti di finissima e candida seta, abbarbagliavano nel fissarli. E su quei sedili? sedevano a destra e a sinistra due preti, ambi conosciuti da noi; a destra il generale dei gesuiti, ed a sinistra il più astuto di quella setta—monsignor Corvo—sul davanti un vecchio a bianca capigliatura sul volto del quale scorgevansi i segni dell’atroce tortura. Al posto d’onore stavan due donne coperte da bianco velo, e candidissimo era tutto il resto dell’abbigliamento. Dalla statura, dal portamento della persona e dalla corvina capigliatura, esse parevan sorelle; gli occhi e l’impronta degli anni era difficile discernere da lungi sotto il velo sottile. Ma da vicino, anche attraverso le maglie del mussolino, chi avrebbe potuto sostener la scintilla che sfavillava dagli occhi nerissimi delle due giovani trionfatrici? Chi eran desse? Lo sapremo presto.
La processione procedeva maestosa, solenne, com’al solito si eseguiscono le pompose mascherate della negromanzia, e siccome credo gl’impostori sian sempre stati gli stessi e colle stesse propensioni in tutti i tempi, mi figuro essere stato il mondo composto sempre di cretini e di furbi, dagli oracoli dei Greci agli aruspici dei Romani e sino ai roghi degli odierni chercuti. Diviso il mondo, dico, tra carogne e birbanti.
Ma che diavoleria è succeduta nell’ordinata, solenne maestosa processione dei preti! Che baccano nella moltitudine! baccano tale che nella[175] folla, come energumeni, si precipitavan gli uni sugli altri, dimodochè, grandissima essendo la calca, i primi verso i processionanti spinti da quei di dietro si rovesciavan sui ceri, ed i ceri gli uni sugli altri, e questi sulle beghine, delle quali alcune accesero le gonne, altre le cuffie, infine un finimondo!
I preti poi, che per le beghine hanno la calamita, massime se giovani e belle, si lanciavan al soccorso delle loro predilette con un eroismo veramente degno dei tempi antichi di Roma.—E si raccontarono poi dei fatti di coraggio non mai intesi nelle storie sacre dai Maccabei a Ignazio di Loiola e Domenico di Guzman.
La catastrofe era stata cagionata dal grido di una delle due donne nel carro trionfale, e la voce che come un fulmine colpì la moltitudine, fu «Lina! Lina!» e questa voce era stata contraccambiata nella folla con quella di: «Marzia!»
E veramente, povera Marzia, essa avea riconosciuto l’amica quasi sorella ed accanto a questa il diletto del suo cuore, unica speranza nell’esistenza sua sventurata, non nominato da lei, ma compreso nel nome della bella alpigiana.
Lo arrovesciarsi poi della calca sugl’incappucciati e le povere beghine, aveva avuto origine dallo slanciarsi della Lina verso il carro, movimento che, seguìto dal robustissimo P..., avea spinto la moltitudine sulla processione.
Per colmo di disordine, vedevansi altri individui, all’apparenza ben maneschi, che cercavano[176] di avvicinare il nostro P... colla sorella e probabilmente per aiutarli a menar le mani ove occorresse; questi altri non erano se non quella bagatella di Nullo e Torquato, da cui non lontano trovavansi Muzio con non pochi Romani; di quella gente che i fogli ufficiosi ed ufficiali chiamano amanti del disordine e che non sono in sostanza che insofferenti del privilegio e delle lussurie dei sedicenti grandi o ministri di Dio.
E guai! se quel movimento dei nostri fosse stato preparato preventivamente. Ne sarebbe risultato almeno un’insalata di chercuti, di beghinume, di sgherri che procedevano al sacrificio di due sventurate creature per la maggior gloria di Dio.
Maggior gloria di Dio! assassini del genere umano—e peggio che assassini, pervertitori e corruttori!
E le monarchie che sorreggono cotesti scarafaggi perchè li sorreggono? Non è forse per esser i preti gl’istromenti più idonei per lo spionaggio e la corruzione delle genti? E voi salariati lodatori e millantatori del consorzio monarchico-chercuto—ben lo sapete essere quelle le due lebbre dell’umanità. Ma quando la miserabile vostra coscienza, se mai ne avete una, vi accenna il servilismo schifoso degli atti vostri, voi allora posate la brutta di fango vostra penna sul ventre ed abbandonate l’anima al suo appetito.
L’avvenimento dell’entusiasmo mutuo delle due fanciulle, e la loro santa manifestazione d’affetto non ebbe altro seguito, tranne il grido disperato[177] d’un prete francese, che, per motivo d’essersi un po’ indecentemente calcato sulla Lina, ebbe da Torquato tale un pugno sui fianchi che si lasciò cader svenuto dopo un «ahi!» dei più commoventi.
In altra circostanza sarebbe stato fresco il monarca della montagna, poichè oltre ad esser prete, la sua vittima apparteneva a quel clero insolente ultramontano, artefice della sventura della Francia ed onnipotente in Roma nell’epoca in cui scriviamo.
Però Torquato aveagli amministrato il pugno con tanta destrezza, e la folla era tanto folta che nessuno s’accorse del colpo, o se qualcuno, non bisogna poi credere che tutti sieno amici dei preti in Roma. Comunque, l’ex-brigante con alcune spinte di gomiti, ebbe presto il suo corpo non molto distante, ma fuori almeno dal campo di battaglia.
Birri a piedi, a cavallo, in militare, in borghese, spie nella stessa foggia, e agenti di polizia, preti, sagrestani, frati e simile canaglia, ebbero presto ricondotto l’ordine dopo una gran dose di paura.
L’ordine!—Un milione d’uomini scaraventati al macello nella guerra franco-germanica, per la gloire e l’equilibrio europeo, non l’han turbato l’ordine!—I loro scheletri, biancheggianti sul suolo della Francia, sono in ordine.—Cinque o sei milioni di famiglie precipitate nella miseria, nel lutto e nella prostituzione non turbano l’ordine![178]
Chi turba l’ordine, e lo gridan tutta la sequela dei gaudenti a squarciagola—sono pochi parigini mal intenzionati che rovesciano nella Senna una spia riconosciuta.—Gli operai di Londra che vogliono far prendere un bagno nel Tamigi a Haynau, il carnefice di Brescia e dell’Ungheria.—Chi turba l’ordine sono alcuni romani, che resa Roma all’Italia dopo diciotto secoli di abbominazione, chiedono che sia vietato ad uno scarafaggio di maledire l’Italia redenta.—Chi turba l’ordine è la società internazionale che ha l’audacia di voler la fratellanza di tutti gli uomini a qualunque nazione essi appartengano, che non vuole preti, non eserciti permanenti, non caste privilegiate!
E la processione proseguiva in ordine verso il maggior tempio dell’orbe—ed il popolo, come l’onda del mare affollavasi per accostarvisi—molti per curiosità e forse i più, e tanti per partecipare alla benedizione del Massimo degli impostori.
Non ostante l’immensa folla, a P... e a Lina che servivano come punto centrale ai nostri amici in quella tempesta umana, poterono questi avvicinarsi. Ciò però non servì che a sistemare alcune intelligenze sul da farsi nella notte, essendo di tutta impossibilità operare in tale giornata.
«Al Foro! al Foro!» fu la parola di convegno dei prodi campioni della libertà italiana, «al Foro, a due ore di notte», e con tali concerti presi si divisero nuovamente, essendo sui dintorni strabocchevole[179] il numero di birri vigilantissimi sui disturbatori dell’ordine, ch’essi adocchiavano e che avrebbero arrestati in circostanza meno pericolosa.
Le superbe porte egizie del grandissimo tempio erano spalancate, come suolsi nelle feste solenni e dall’immenso colonnato perittero, si poteva scorgere il modesto erede del povero pescatore di Palestina, assiso sul suo trono d’ebano, tempestato di diamanti e d’oro, e vestito con tanto lusso, quanto ne potè inventare l’orientale magnificenza.
Civettava, il massimo dei sacerdoti, squadrandosi nella ricchissima sua tenuta con donnesca compiacenza, sorrideva alla stupida moltitudine, massime quando lo sguardo lascivo posavasi su qualche bella figura.
Polpute eminenze e monsignori formavano la destra e sinistra, su tre di fondo e seduti pure su banchi riccamente adorni in anfiteatro.
All’aria compunta e solenne di tutti questi magnati della malizia, avresti creduto esser eglino nell’atto di decidere qualche opera benefica a profitto dell’umanità sofferente—quando invece quei perversi eran lì riuniti per consacrare nuove menzogne, ed insidiare nuove sventurate creature, nell’intelligenza di far male, e beffandosi della vile canaglia che non li prende a sassate.
La processione procedeva verso il maggior altare, e verso il maggiore dei furbi.—I dragoni schieravansi in ala all’entrata del tempio, e gli alabardieri facean lo stesso nell’interno, dimodochè[180] i servi di Dio, ministri dell’Onnipotente, sono sempre sotto l’egida di una provvidenza di ferro, sia essa nostrana o straniera.—Sarà anche per la maggior gloria di Dio, che i preti hanno tanta paura della pelle? E le legioni d’arcangeli colle loro spade di fuoco, pare preferiscano star lontani da questi puzzolenti chercuti.
Nell’emiciclo, alla sommità di cui stava il Papa, e proprio appiedi del suo trono, scorgevasi un inginocchiatoio con ricchi cuscini coperti da raso bianco, e questo inginocchiatoio, si capisce, era destinato per le due vittime—che al canto d’un Veni Creator e alla sinfonia d’un organo che faceva rimbombar i sette colli, discese dal carro trionfale, avanzavasi verso lo stesso, con in mezzo la contessa N. N. ed ai lati il generale dei gesuiti e Corvo.
Lo sventurato vecchio portava sulla sua canizie tracce incontestabili di terribili patimenti sofferti nelle torture, per avviar anche lui, povero diavolo, alla gloria del paradiso, e strapparlo al fuoco eterno dell’inferno, ove tutti gli ebrei e tutti i nati fuori del cattolicismo, devono piombar senza che ne possa scappar uno solo.
Nel fuoco eterno! mi capite, lettori—Eterno! eterno! sì! ed a cotesti inventori del purgantissimo ritrovato, se voi presentate un zolfanello acceso sotto la punta del naso, essi vi staranno con quell’aria sorridente, con cui si contengono al cospetto d’un fiasco d’Orvieto, ed a lato delle loro amabili Perpetue—provatelo e vedrete.—I[181] bianchi capelli del canuto, benchè fossero stati pettinati con cura, s’eran sconvolti al punto di sembrar l’anguicrinita testa di Medusa, in agitazione perenne. La fronte sua rugata come non si vide mai in creatura umana, era plumbea, e plumbee le sue guancie e smorte. Le labbra livide, e l’occhio, chi avesse potuto fissarlo da vicino, vi avrebbe trovato un miscuglio d’idiotismo e di disperazione.
E Marzia? povera Marzia! sì buona, sì bella, sì valorosa! costretta a mantenersi quieta in mezzo a quel branco di scellerati ch’eran pervenuti ad impadronirsi di lei!
Chi considerava attentamente il padre e la figlia, non poteva a meno di dire tra sè: Pare impossibile ch’esso possa esserle padre.—Saranno i patimenti, la prigionia, che tanto hanno contraffatto i lineamenti del povero vecchio. Ma essa, la giovane conversa, ha pochissima somiglianza col genitore.—Piuttosto essa sembra esser stata modellata dalla natura su quel bellissimo originale di donna che le sta accanto e che tanta cura si prende di lei, di cui sembra maggior sorella. E qui il lettore deve sapere che causa principale della quiete della nostra eroina, era una catenella, anche questa adorna dagli stessi colori del vestiario della fanciulla, e che la malizia dei suoi persecutori avea fatto maestrevolmente adattare alla cintura nella parte posteriore per mezzo d’un fermaglio.[182]
Ora, quando successe l’inconveniente del riconoscimento delle due amiche, Marzia avendo promesso alla contessa che sarebbe stata savia, che non avrebbe cioè dato sfogo al ribrezzo ed allo sdegno che cagionavale l’atroce condotta de’ suoi carnefici:—Marzia, dico, era stata lasciata libera, e perciò avea potuto innalzarsi sulla bella persona scoprendo la Lina.
Dopo tal fatto fu affibbiata la catenella, e sino alla discesa nel tempio, l’infelice non potè più muoversi liberamente.—Ella mordevasi le labbra dal dispetto, e l’anima sua trovavasi in una situazione d’inferno. Le sue sofferenze, essa le avrebbe sopportate con quella fortitudine che corrispondeva al suo coraggio, ma la sorte del genitore, l’idea dei patimenti sofferti nei sotterranei dell’inquisizione, e lo stato di demenza e di disperazione in cui l’avean precipitato coteste iene chercute, ah! ciò dilaniava il suo cuore buono e generoso!
Si scese dal carro trionfale, ed i due futuri conversi furon trascinati verso il maggior degli scarafaggi, tra due lunghe file d’alabardieri e preti schierati a’ piedi dei magnati della bottega.
Qui mi fermo. Del racconto di quanto successe nella chiesa di S. Pietro alla conversione di Marzia e di suo padre, i devoti di tali stomachevoli cerimonie avran veduto un campione nella conversione del fanciullo Mortara, rubato dai preti ai parenti ebrei per farne un cattolico.[183]
Usciamo dunque da questo fango dell’umana famiglia, e torniamo sul campo glorioso, e sul sentiero tracciato dai Mille coll’impronta della vittoria, ove la tirannide poteva contemplare que’ suoi indorati, pistagnati e piumati sgherri, fuggendo davanti a un pugno di prodi figli della Libertà italiana.
[38] Ho pensato bene di adottare stalla in luogo di bottega dei preti, perchè significantissimo e di più suggeritomi da un contadino.
Nella guerra bisogna vincere, e certo il più grande dei generali è quello che più vinse. Sarebbe meglio la pace, ed io ne sono un discepolo. Ma quando si hanno i ladri in casa, ed i preti, puossi stare in pace con loro?
Dacchè cominciai a pensare, io mi feci il seguente ragionamento: Non sarebbe meglio che gli uomini cercassero d’intendersi fraternamente sulle loro controversie senza uccidersi?
Ma potevasi ciò in Italia, chiamata giardino di Europa, mentre questo giardino, ove i suoi abitanti sudavano per vivervi, doveva servire di villeggiatura a quanta canaglia produceva l’universo, che vi si metteva di casa, e senza nessun lavoro voleva vivere splendidamente a spese dei poveri italiani? E tutti vi trovavano vita doviziosa, mentre chi lavorava il giardino col sudore della[185] fronte, aveva oltraggi, bastonate, e vi moriva dalla fame!
Guerra dunque per metter i ladri fuori di casa! Guerra! E qualche volta sconfitti—ma finalmente beati dal sorriso della vittoria, e da quello preziosissimo delle nostre donne, non contaminate al contatto di mascalzoni stranieri! Sconfitti!.... sì, quando i mali semi della tirannide e del prete, dopo d’aver pervertito, corrotto la nazione, la dividevano in tante parti, ciascuna delle quali troppo debole contro i prepotenti, ed incapace di sostenere l’onor nazionale calpestato.
Così divise le popolazioni nostre, lo eran poi ancora nelle singole loro frazioni, tra volenterosi, indifferenti e birbanti.—Trovandosi i primi in numero minimo, sicchè calunniati, traditi, venduti, finivano per essere espulsi o schiacciati dai ladri.
E quando dico ladri, io non intendo soltanto i ladri di un pane, o d’un grappolo d’uva, ma i grandi ladri, quelli che rubano i milioni collo specioso pretesto di difesa nazionale, i chercuti che rubano al povero popolo l’obolo di S. Pietro per saziare i loro vizi ed assoldare mercenari stranieri; infine i grandissimi ladri che dopo di aver rubato una provincia od uno stato, ne coonestano il furto colla durata del dominio, e colla grazia di Dio, commettendo così il doppio delitto del furto e del sacrilegio!
Amico della pace, è vero, io sono, e me ne vanto.—Comunque, una vittoria sui mercenari[186] del dispotismo, è una gran bella cosa!—La campagna è cospersa di membra; le zolle sono vermiglie di sangue, le grida dei feriti ed il rantolo dei morenti vi assorda.—I cadaveri insepolti, o coperti da strato insufficiente, appestano l’aria, ed il morbo uccide popolazioni intiere.—Meglio sarebbe un banchetto fratellevole.—Ma chi la corregge questa stirpe di Caino?—Non ha dessa i suoi culti alle sue divinità schifose più o meno, dalla cipolla al vitello?—le sue maestà, i suoi principi, il suo patriottismo che equivale all’egoismo massimo, le sue glorie, l’onore della sua bandiera?—e tante altre miserie fittizie oltre alle naturali?—Ma pera il mondo! siam beati della vittoria!
Usciamo da quest’altro letamaio umano, un po’ meno puzzolente di quello dei preti, ma pur sempre letamaio!
L’esercito meridionale procedeva verso la Partenopea Metropoli, sulle ali della vittoria.
I centomila soldati agguerriti del Borbone non osavan più tener fermo al cospetto degli imberbi avventurieri, capitanati dai superbi Mille Argonauti e fuggivano e le lor masse scioglievansi davanti alle giovani schiere dei liberi, come la nebbia davanti al sole.
Nella nostra storia noi eravamo rimasti sulle alture di Villa S. Giovanni, dopo la resa d’una divisione borbonica che ci lasciò molto materiale da guerra, cannoni, fucili, munizioni, cavalli, ecc.; lo stesso successe a Soveria con altra divisione.[187]
Da Villa S. Giovanni alla capitale della meridionale Italia fu una marcia trionfale.—Le popolazioni stanche dell’abbominevole dominio borbonico, acclamavano e benedicevano i valorosi liberatori.
Alcuni incidenti lungo la strada come quelli di Soveria e di Sorrento altro non mostrarono che lo spavento dei nemici d’Italia, e l’aumento di possanza dei nostri in armi, munizioni, gente e prestigio.
Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva un’abborrita dinastia e sorgeva sulle sue rovine la sovranità del popolo, che una sventurata fatalità rende sempre poco duratura.
Il 7 settembre un proletario accompagnato da pochi suoi amici che si chiamavano aiutanti col solo distintivo della rossa camicia, entrava nella superba capitale del focoso destriero[39] acclamato da cinquecento mila abitanti, la di cui scossa potrebbe muovere l’intiera penisola dal Mongibello al Cenisio—il di cui ruggito basterebbe a far mansueti e meno ingordi i reggitori insolenti ed insaziabili, od a rovesciarli nella polve!
Eppure il plauso ed il contegno di quel grande popolo valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo un esercito numeroso che trovavasi ancora padrone dei forti e delle migliori posizioni della città, di dove avrebbe potuto distruggerlo.
Il Dittatore facea la sua entrata in Napoli, mentre tutto l’esercito meridionale malgrado le marcie forzate, trovavasi ancora ben distante verso lo stretto di Messina, ed il re di Napoli nella notte dal 5 al 6 abbandonava il suo seggio per ritirarsi a Capua. Il nido monarchico ancor caldo venne occupato dagli emancipatori popolani, ed i ricchi tappeti delle reggie furon calpestati dal rozzo calzare del proletario. Esempi questi che dovrebbero servire a qualche cosa, almeno al miglioramento della condizione umana; ma che non servono per l’albagia e la cocciutaggine degli uomini del privilegio, che non si correggono nemmeno quanto il leone popolare spinto alla disperazione, li sbrana con ira selvaggia, ma giusta, esterminatrice!
I Napoletani come i Siciliani, non secondi a nessun popolo per intelligenza e coraggio individuale, furon quasi sempre mal governati, e sventuratamente molte volte con sul collo dei governi stranieri, che solo cercavano di scorticarli e mantenerli nell’ignoranza.
Ai pessimi governi devesi quindi attribuire il poco progresso in ogni ramo di incivilimento e di prosperità nazionale.
E questo governo sedicente riparatore, fa egli[190] meglio degli altri? Egli poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi..... sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno chiamaron liberatori!
I giorni passati in Napoli dopo l’ingresso furono consacrati ad organizzar una prodittatura con a capo il venerando Giorgio Pallavicino, quindi a preparare l’esercito meridionale all’offensiva ed alla difensiva, poichè i Borbonici coadiuvati dalla reazione europea, ingrossavano al di là del Volturno.
Frattanto ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti al merito di propaganda e d’intrighi per la monarchia-messia, cioè sabauda, i quali avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per rovesciare Francesco II e sostituirlo.
Tutti sanno le mene d’una tentata insurrezione che dovea aver luogo prima dell’arrivo dei Mille, e per togliere loro il merito di cacciar i Borboni, cosa che poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse l’appannaggio dei servi.
Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i sabaudi fautori, ma ne avean molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico con delle miserabili congiure, e delle corruzioni tra i mal fermi servi della dinastia tramontante.—E quando nulla avean contribuito negli ardui tempi[191] della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento dell’impresa, la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe dell’esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s’intende), e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2 ottobre.
Era bello veder i regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subdoli, più schifosi, per rovesciare o meglio dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco—che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora—e rovesciarlo e sostituirvisi e far peggio!
Sì, era bello il barcamenare di tutti que’ satelliti, diplomatizzando col re di Napoli, facendola da alleati suoi, cercando di condurlo a trattative paterne, con promettergli forse, che ci avrebbero proibito di passare il Faro, d’accordo col Bonaparte, come già accennavamo, con un vascello francese nello stretto, e la marcia celere dell’esercito settentrionale verso il mezzogiorno[40], ed infine attorniandolo d’insidie e di tradimenti.
Oh sì! se non avessero tenuta per tanto preziosa[192] la loro brutta pelle, essi potevano facilmente compiere una rivoluzione e presentarsi all’Italia come liberatori.
Che bella cosa se potevano far stare con tanto di naso i Mille, e la democrazia italiana tutta!
Ma sì! sono i bocconi fatti che vi piacciono, signori liberatori dell’Italia a grandi livree! e quanti fastidi non dovete aver avuti in quello splendidissimo 7 settembre, di udire la più grande delle moltitudini italiane, acclamare altri e non voi—e se la voce di qualche ingannato o di creatura vostra, vociferava il vostro nome, voi certo sentivate nella miserabile vostra coscienza di non averlo meritato.
Anche a Palermo, com’era naturale, tramavano i fautori della monarchia sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione, spingendola ad un’annessione intempestiva.
Essi mi obbligarono di lasciar l’esercito sul Volturno alla vigilia di una battaglia per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel bravo popolo, suscitato dai cavouriani agenti.
Assenza che costò all’esercito meridionale la sconfitta di Caiazzo, unica in tutta quella gloriosa campagna, che scosse alquanto il prestigio dell’esercito vincitore e rimontò non poco il morale dei borbonici.
[39] Emblema di Napoli.
[40] Non scordi il lettore il dispaccio di Farini a Buonaparte: «Noi marciamo con quarantamila uomini, per combattere la rivoluzione personificata, cioè i Mille».
«Libertad para todos-y si no espara todos-no es tal libertad!» questa è l’epigrafe di un giornale democratico spagnuolo, redatto da amici miei, e sono veramente dolente di trovarmi lontano dal loro parere.
Credo non vi debba esser libertà per le zanzare e per le vipere, per gli assassini, per i ladri, per i tiranni e per i preti, ch’io tengo tanto o più nocivi dei primi.
E voi, popoli corrotti, volete esser liberi? Scendete nella contaminata vostra coscienza, e ditemi se vi sentite capaci da tanto;—ditemi se gli occhi vostri sono capaci di fissare il sole della libertà senza abbagliarsi!
La libertà poi è un ferro a due fendenti.—L’autocrate è il più libero degli uomini, e della[194] libertà si serve generalmente per nuocere—il proletario, che più d’ogni altro ha bisogno di libertà, quando giunge a possederla, la prostituisce, oppure la trasforma in licenza.
Voi mi direte che foste ingannati, uomini del popolo, quando vi corruppero, quando vi fecero gridar: viva la morte!—e quando vi condussero a gettar nell’urna il vostro voto per un ladro, un servile, od un tiranno! Ma voi vi lasciaste condurre—perversi! Vi lasciaste ingannare con conoscimento di causa per aver una mercede, o per esser da un perverso protetti!
«Ma fu un sacerdote, il mio curato, un ministro di Dio che mi condusse all’urna».—Sì, e ci vuol molta matematica per conoscere che un prete è un impostore?
No, non vi è discolpa: per esser libero, bisogna esser onesto—meritare di esserlo, in poche parole!
Trascinato qualche volta da scetticismo o da misantropia, io maledirei d’esser nato, d’appartenere a questa famiglia di scimmie, sì poco degne di libertà! e che tanto libertà millanta anche quando incatenata per il collo! Ma considerando poi che sono anch’io della famiglia, che ho commesso degli errori anch’io, e che ho la mia dose di presunzione, per amor proprio sono alquanto più condiscendente cogli altri.
Comunque, difettoso come sono anch’io, non ho mancato di ascoltar la voce della ragione, e seguirne i dettami.[195]
Io l’ho capito che il consorzio del dispotismo e del prete, ambi basati sul godimento delle sostanze altrui, non potea sostenersi che con la menzogna e la corruzione.—Il dispotismo mascherato da liberale o no, e attorniato di avidi satelliti comprime le aspirazioni dei popoli colla forza; ed i preti, suoi protetti, coadiuvano il consorte pervertendo le masse. Libertà (come Giano) è una dea bifronte, ed in ciò somiglia alle sorelle giustizia e legge.—In Italia, per esempio, voi avete una caterva di servi che con aria di buona fede mi millantano la libertà, le leggi, la giustizia, come benefizi sacrosanti in questa nostra venturosa penisola.
Ebbene: guardatemi il primo articolo della legge fondamentale dello Stato: una menzogna!
Per libertà, chiedetelo ai giornali che ardiscono dirla: giustizia! Domandatene notizie al prode colonnello Lobbia: giustizia!—Io ho veduto un povero milite passato per le armi, per aver rubato una pistola da servirsene per una causa santa.—E Badinguet (Bonaparte) acclamato dal gran popolo della Bretagna, egli che rubò soltanto alcuni milioni, e fece uccidere milioni d’innocenti!
Giustizia! Leggi!—L’Europa ha una massa di legislatori, che ciarlano da mane a sera, ed assordano il mondo; ed il mondo non ha mai avuto un bordello simile a quello che presenta l’odierna colta e legislativissima Europa.
E Marzia? Povera Marzia! sì bella, dotata di[196] un cuore d’angelo e di leone, un’eroina da illustrare un grande popolo, preda sventurata degli scarafaggi umani, che hanno torturato il canuto genitore, che la torturarono e la prostituirono! Anatema! Maledizione!
E vi è un popolo che si tenne per il maggior di tutti i popoli, i di cui individui apprezzavano il titolo di cittadino romano, non quello di monarca.
Una matrona di quel popolo si teneva maggiore d’una regina, ed avrebbe avuto per disdoro lo esser chiamata tale!
E quel popolo oggi si strugge, si calpesta, muore soffocato per contemplare il grande spettacolo, la solenne conversione, ed infine per ottenere la santa apostolica benedizione dal padre degl’impostori e dei cretini!
Libertà, giustizia, leggi! Io mi copro il volto dalla vergogna di appartenere a questa razza di micchetti che gridano libertà colla museruola alla bocca, o colla cuffia del silenzio sul cranio.—Povera Marzia! dopo la solenne, buffona, infame cerimonia della conversione, il suo carnefice che l’avea vituperata bambina, la fece ricondurre nel convento di S. Francesco da quelle stesse monache, da cui aveva avuto la fortuna di fuggire, e che per vendetta non solo la custodiranno gelosamente, ma gelose della squisita di lei bellezza, la martorieranno con tutta la raffinatezza di cui sono capaci coteste megere che mai conobbero l’amore di madre, o se lo conobbero,[197] lo seppellirono nell’ossario, ove dormono ammonticchiate e confuse le vittime della lussuria e della libidine pretina!
Povera Marzia! La sveglia guerriera di Montevideo non ti desterà più per respirare le deliziose e balsamiche aure dell’aurora, per fiutare il marziale clangore dei campi di battaglia, ove armata del tuo moschetto, svelta come la gazzella dei campi Argentini[41] tu colpivi col calcio, sdegnando il ferro, le curvate spalle dei servi della tirannide.
[41] Di Buenos-Ayres.
Sacerdotessa dell’amore! Immagine squisita dell’Infinito[42]—se l’Infinito potesse avere un’immagine! Capo d’opera dell’umana famiglia ed educatrice che ingentilisce questa rozza creta!—e che sarebbe senza di te il mondo, o donna? il mondo sconoscente a tanta grandezza dell’essere tuo? E tu!..... sciagurata nella tua bellezza, o dominatrice? Ingrata alla prodiga di te innamorata natura—ti prostri ai piedi d’un rettile ed a lui sacrifichi patria, marito, figlio, e sovente diventi una prostituta negli amplessi avvelenati del tentatore! Tale,—o donna,—del prete!
E tale fu la contessa Virginia N... precipitata[199] nella via di perdizione dal gesuita Corvo.—Bella, spiritosa, piena di nobili sensi; da giovinetta essa era una delle più splendide e preziose fra le bellissime figlie di Roma, e perciò condannata nella corruttissima metropoli alle brame disoneste dei porporati.
Da quel giorno la venustà della contessa appassiva come il fiore sullo stelo al soffio malefico dello scirocco.
Era ancor bella nei tempi da noi descritti, e felice il mortale che n’era beato d’un sorriso, ma le sue guance eran pallide, le una volta folgoranti sue luci eran languide, ed ogni atto della vezzosa persona, portava l’impronta del tedio, e segnava le tempeste della travagliata anima sua.
Amore! quell’amore celeste che innalza la creatura al disopra delle sozzure umane, che la spinge all’eroismo, che la santifica! essa lo presentiva, ma il serpe che l’avea tentata, sedotta, trascinata nel fango, l’avea bensì ingolfata nella lussuria di godimento brutale, ma il chercuto non era stato capace d’infondere la celeste scintilla. E come l’avrebbe potuto un prete? Un prete, la di cui esistenza s’inizia colla menzogna, segue con essa irrevocabilmente e col delitto, e termina finalmente col sacrilegio!
Povera giovine! inaridita nell’alba della sua vita ogni fonte della poesia, dell’ideale umano, l’essere avea perduto ogni dolcezza per lei, e le diventava ognor più insopportabile! Di natura[200] forte, capace di generosi propositi, ad essa veniva sovente la smania di togliersi la vita.
Essa avea creduto di amare il Corvo da principio, quando ingannata, era stata involta nell’atroce setta, ove le furon strappati terribili giuramenti.—Ma progredendo nella vita, potendo per sè stessa apprezzare tutte le nefandezze loiolesche, e l’indole profondamente scellerata del suo seduttore, sparivano le illusioni usate per ammaliarla, e l’ardore con cui avea servito la nera falange, cambiossi a poco a poco in odio mortale.
Un giorno degli ultimi d’agosto del 60 l’atmosfera insalubre di Roma s’era impregnata di sì letale umore da farti cercare un ricovero e fuggire da quella pestilenza.—Gli affaccendati correvan per le strade scappellati, fiatando davanti a loro come in cerca d’aria più pura, e correvan sollecitando i proprii affari per presto giungere in casa e ripararsi dall’afa micidiale. Degli sfaccendati non ne scorgevi, essi eran nascosti nel più recondito dei loro palazzi, ordinando l’ermetica chiusura delle imposte e assaporando sorbetti ghiacciati, chè ogni altro appetito era scomparso.
Eran le 4 pomeridiane, e dall’Apennino si scorgeva innalzarsi quel tetro, plumbeo, intenso nembo, precursore infallibile della tempesta.—E per minacciosa e terribile che fosse questa, essa era inferiore alla densa tempesta che travagliava l’anima della contessa.—Tutti avean chiuse le imposte, ed essa aprì quelle della sua stanza da letto, guardando a levante, cioè verso il nembo.[201]
Tutti fuggivano dall’imminente temporale che si faceva minacciosissimo, e dall’afa. A lei le strade deserte, i lampi che già cominciavano a solcare il firmamento, i tuoni che già rimbombavano, e lo stato orribile del suo cuore, mossero la voglia di uscire al passeggio.
Da molto tempo sdegnando le femminili eleganze, essa raccolse in una reticella una bellissima chioma, si avvolse in un ampio sciallo, e accompagnata da una sola fantesca, s’incamminò quasi fuggendo la foga dei pensieri che la torturavano.
Il palazzo della contessa Virginia N... era occupato da essa e dalla madre attempata e bachettona, con numerosa servitù, giacchè la nostra eroina non solo apparteneva a cospicua famiglia, ma ricchissima, uno dei motivi principali delle sollecitudini degli avoltoi del sanfedismo.—Codesto superbo edifizio, come lo sono generalmente i palazzi del patriziato romano, ergevasi sontuoso sulla piazza S. Grisogono in Trastevere (non so ove diavolo i chercuti abbiano dissotterrato questo santo: sarà senza dubbio qualche parente di quel Griso che arrestò D. Abbondio).
La contessa uscì dal portone marmoreo della sua abitazione, ed avviossi celere per la Longaretta verso il Tevere a Ponte Rotto.—A quel ponte, metà in ferro, trovansi generalmente dei navicelletti; essa accennò ad un barcaiuolo conosciuto, ed avvicinata la barca alla sponda vi discese[202] dentro frettolosamente indicando all’uomo coll’indice «in giù».
La fantesca, amante della sua signora, non l’aveva veduta sì agitata giammai;—e quando il nocchiero disse alla padrona «Guardi, signora, che noi presto avremo una tempesta», la ragazza in atto supplichevole la guardò, senza ardire di articolar una parola, con tanta eloquenza negli occhi da impietosire uno scarafaggio.
La contessa però, come abbiam veduto, era buona e generosa, ma altiera ed ostinata nelle sue risoluzioni, quasi avesse ereditato il carattere delle antiche matrone di Roma;—essa non manifestò dispetto impaziente, ma il suo silenzio equivaleva a un comando.
Il motivo della passeggiata era per distrarsi, per fuggire ai rimorsi della solitudine—e chi sa non balenasse nella mente della bella infelice il pensiero della distruzione!
Il nembo da levante s’era limitato a qualche grosso gocciolone di pioggia, e siccome a quella direzione il vento veniva a traverso del fiume, poca agitazione vi aveva suscitato;—comunque come negli uragani, il forte del temporale, dopo d’aver girato i tre quarti della bussola, erasi spaventosamente condensato a libeccio, e da quella parte scatenò una bufera..... una bufera da far impallidire il più coraggioso navigatore.
Colla direzione da libeccio, il vento incontravasi e contrastava colle onde veloci del Tevere, scorrendo in una direzione opposta, e coll’urtarsi[203] innalzavano marosi tali da non cederla ai rabbiosi ruggiti e sconvolgimenti di Scilla e Cariddi.
Manlio, il nocchiero della Contessa, che tale si stimava, avendola servita in ogni circostanza e sin da bambina, aveala prevenuta della tempesta e del pericolo, ma siccome è solito negli uomini coraggiosi di ripugnare nel mostrar paura, così il valoroso nauta mordevasi le labbra, ma non ardiva più consigliare la distratta signora.
Si era giunti alle rovine dell’antico ponte Sublicio, pur non volendo pericolare la vita e quella della generosa protettrice, Manlio cercò di ripararsi dalla bufera nell’angolo formato da una pila del ponte e dalla sponda destra del Tevere.—Poveraccio! ei non calcolò che riparato dal soffio impetuoso dell’ostro, la corrente del fiume padroneggerebbe il leggero palischermo sì, da spingerlo con violenza fuori della pila, e quindi nell’urto rabbioso dell’onda tra i marosi ed il Tevere ambi accaniti ad infrangersi, piuttosto di cedere il passo. Appena la barchetta incontrossi in quel frangente, non fu più possibile a Manlio di governarla, e presentando essa il traverso alle onde fu in un momento sommersa.
Il nocchiero coraggioso come lo sono generalmente la gente di mare, lanciossi al soccorso della Contessa, ma Lisa, la fantesca, gli vietò il successo di tale generosa risoluzione, abbrancandosi in modo al corpo di Manlio da non poter esserne staccata da forza umana. Poverina! essa amava molto la buona padrona, e forse in altra circostanza[204] avrebbe rischiato la propria vita per salvarla, ma qui il caso era troppo terribile e al disopra del coraggio e del sangue freddo della giovinetta avvolta in tali frangenti, e da far raccapricciare i marini più valorosi. Il fatto sta che Manlio e Lisa in un solo gruppo nuotarono nei gorghi del fiume, scomparendo e ricomparendo alla superficie in modo lamentevole e fatale.
Alla Contessa vi volle la catastrofe, la freschezza dell’onda ed il prospetto della morte, per distrarla dallo stato di disperato stupore e maledizione della vita in cui l’avevano immersa i ministri del demonio.
Essa mai disse se si pentiva in quel momento d’aver abbandonato la casa materna, e cercato il pericolo e la morte;—e dall’abbandono, dalla rassegnazione con cui essa si avvolse nel suo sciallo, e si abbandonò all’orrendo suo fato, senza un grido od uno sforzo per salvarsi, si poteva congetturare, esser essa disposta a finire una sventurata esistenza.
Ma non era giunta l’ora finale della bella infelice. Mentre travolta nei gorghi, la sua salma ora abbandonata ai capricci dei flutti, ed il suo spirito forse già rivolgevasi a quell’Infinito che tutto racchiude, e che probabilmente tutto regge—quell’Infinito da sostituirsi ragionevolmente alle menzogne dei preti, il di cui culto può solo, propagato dalla scienza, illuminare ed affratellare tutte queste razze d’insetti che brulicano sulla superficie d’uno dei mondi minori—in[205] quel mentre, dico, una mano d’acciaio la stringeva sul destro braccio e la sollevava come una bambina dall’onda, per riposarla sul marciapiede d’una scalinata di granito alla sponda destra dei Tevere.
Nel forte della tempesta, quel sito era rimasto deserto, ma siccome i nembi estivi non sono durevoli, presto la calma successe al temporale, e la gente ricominciò a circolare anche nel luogo della catastrofe; per cui la bella naufraga fu presto trasportata al coperto.
La prima casa vicina accolse la vezzosa svenuta, ed alcuni cordiali la resero alla vita.—Un giovane di marziali fattezze stava al suo capezzale, e per sorte, nella folla che circondava il suo letto, colui fu il primo su cui fissaronsi gli occhi della contessa quando tornò in sè. Aprir gli occhi, fissarli sul suo salvatore, scuotersi e tentar di spingersi verso di lui, fu tutto un momento. E chi avea detto alla sedotta dal gesuita che colui l’avea tratta dall’onda, da morte certa, col pericolo della propria vita? L’avea essa scorto mentre travolta nei frangenti? Impossibile! O forse quella corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote degli umani, di cui ci narra Foscolo, avea penetrato, o trovavasi senza dubbio nell’anima della sventurata nobile romana?—Forse in quei sogni di felicità che cullano ogni creatura, essa avea sognato, veduto nel delirio della immaginazione esaltata, tale bellissima e fiera figura, e s’era fatto un idolo di colui che ora è realmente davanti ad essa?[206]
Comunque, quando Muzio (perchè altro non era che il nostro prode romano) fu certo che la donna salvata era fuori di pericolo, e si mosse verso la porta della stanza per partire, la contessa lo seguì cogli occhi, e vi volle tutta la verecondia femminile perchè non chiamasse e non scongiurasse a stare presso a lei il suo salvatore. L’arrivo di Lisa, salvata anch’essa dal coraggioso Manlio, ed in uno stato consimile a quello della sua signora, contribuì pure a distrarre ognuno dalla scena descritta. Da quel momento l’esistenza della contessa fu completamente trasformata. La lacuna la più interessante della vita donnesca s’era riempita, le brutali libidini gesuitiche caddero davanti all’amore celeste suscitato in lei da un uomo. Sì, da un uomo, e non da un gesuita, da un sacerdote della menzogna! E dico suscitato, e non creato, perchè quel celeste, amoroso senso esiste nell’anima nostra, se coltivato, se spinto verso la sua natura gentile, ma viene deviato, prostituito, distrutto, quando la graziosa creatura cade sotto il soffio appestato del tentatore.
Il nuovo stato dell’anima sua contribuì non poco a ristabilirla. Essa smaniava di trovarlo, di vederlo, di saper chi era il suo liberatore; quella bella bronzata, maschia sua fisonomia che dovea certamente albergare l’anima d’un generoso, d’un eroe! tale come lo aveva veduto sognando.
Essa smaniava, delirava, temeva di non più incontrarlo, ed avrebbe voluto precipitarsi dal letto[207] nella sua impazienza malgrado le ammonizioni di coloro che la custodivano.
Solo un sentimento di ribrezzo, più forte di ogni altro, che quasi superava il primo, la tratteneva, la disperava, le faceva nascondere il volto tra le coltri per non esser degno di luce. Essa!... era stata l’ancella d’un nemico del genere umano! E tali sembravano a lei oggi i settari del Sanfedismo!
[42] Ricordi il lettore che per Infinito io intendo lo spazio, lo universo, Dio, ecc.—Accenno, ma non insegno.
È a tutti noto esser la corruzione e la delazione le armi principali di cui si serve il clero, per dominare le moltitudini, per spingerle alla ubbidienza di Cesare e poi farsi bello presso di lui per i servigi immensi che gli rende. La setta gesuitica, che si potrebbe chiamare il sublimato del pretismo, in altri tempi era potente al punto di dominare anche i Monarchi e le Corti. Oggi però, credo, solo le beghine, cariche d’ogni peccato mortale, ed alcuni cretini, sono il ludibrio della setta. Gl’imperatori e i re la fan da devoti per meglio corbellare i gonzi; essi mantengono e sorreggono il prete per ragioni di convenienza, ma sanno come me benissimo: un chercuto essere un impostore.
Il credito del gesuitismo va in ragione inversa[209] del progresso umano. Generalmente quando uno stato diventa libero o quasi, la prima cura delle persone intelligenti si è quella di proporre la cacciata dei gesuiti, e quando il paese ricade sotto le unghie d’un’aquila, cotesta gramigna ripullula di nuovo maravigliosamente.
«Manteneteli poveri» È questo il precetto della tirannide e del prete, cioè, manteneteli miserabili e quindi sudici.—I paesi cattolici sono generalmente famosi per il sudiciume.
Correva il tempo in cui l’esercito liberatore[43] di Cavour, dopo i fatti strepitosi d’Ancona e di Castelfidardo, marciava sul mezzogiorno d’Italia per combatterne la rivoluzione, ed in caso la rivoluzione non avesse voluto accettare la sfida, eseguire ciò che eseguisce generalmente la sedicente giustizia umana, quando possiede grossi battaglioni: dividere l’ostrica, darne una valva od una bastonata ai contendenti, e mangiarsi il buono.
In una sala del Quirinale da noi conosciuta, ove usavan adunarsi i capi del sanfedismo, trovavansi in concistoro il generale dei gesuiti, il suo segretario generale ed il cardinal Volpe, capo della polizia pontificia.
La conversazione trascorreva animata sugli avvenimenti del giorno, e Volpe adiratissimo, dopo di aver narrato di Ancona e di Castelfidardo, disse:[210]
«Una volta si contava tra le più astute, come astutissima la nostra corte, e massime poi la più furba ancora, consigliera della stessa la Compagnia di Gesù, tenuta per stupenda ed universale nel sapere ogni cosa di questo mondo e sventarla, quando tale cosa poteva nuocere agl’interessi di santa Madre Chiesa.—Oggi noi siamo lasciati molto indietro dalla Corte dei galantuomini (e qui un solenne sogghigno) in ogni specie di furberia e di malizia. Il moderno Macchiavello di Torino ha saputo far capire allo Imperatore che l’esercito sardo moveva nell’interesse generale dell’ordine Europeo, per combattere la demagogia invadente le due Sicilie; quando esso calpestando ogni diritto umano e divino, scagliasi sull’esercito santo (non più composto di legioni d’angeli però) e s’impadronisce, come lo fecero le orde dei Vandali del santissimo Patrimonio».
E qui parlando del santissimo Patrimonio, l’Eminentissimo appoggiò ambedue le mani sul vertice d’un potentissimo ventre, ove gli scarafaggi, grandi e piccoli, hanno edificato il loro santissimo e bruttissimo tutto.
«Ah! i bei tempi delle passate nostre glorie!» esclamò il generale «quegli aurei tempi Borgiani ove sì temuta era la possanza delle sante chiavi! ove quando non valeva il pugnale a curare certe prepotenze, là era pronto il veleno» e guardossi attorno «infallibile mezzo per ricordare ai protervi il rispetto a noi dovuto».[211]
«Più efficaci ancora erano i roghi» gridò con accento rabbioso il Segretario: e la voce avvelenata del minor scarafaggio fu interrotta dal suono di un campanello, dal comparire d’un servo in livrea, e finalmente da monsignor Corvo, introdotto con segni di rispetto nell’aula.
Seduto che fu in una poltrona damascata il nuovo venuto che—se bene inferiore in grado ai due principi della Chiesa (che modestia!) non mostrava perciò verun imbarazzo od umiltà, tanta era l’importanza acquistata dal seduttore della bella Contessa—seduto che fu, dico, e dopo di aver squadrato da capo a piedi i presenti da lui ben conosciuti, esclamò come Archimede al famoso ritrovato del quadrato dell’ipotenusa, uguale alla somma di quelli dei cateti: «L’ho trovato!—Sì l’ho trovato l’enimma che da tanti giorni cercavo sulle distrazioni e procedimenti della Contessa... Essa è innamorata d’un perduto!... d’uno di quegli esseri perversi, che per principii, per dovere (come essi lo intendono per i loro atroci giuramenti, per ogni propensione insomma) sono i nemici nostri mortali!»
—«Innamorata d’un Repubblicano!»
Repubblicano!... ed il protervo campione della malizia umana, forse il più astuto, non ardì aggiungere un epiteto degradante a quel nobile titolo, che equivale a quello di onesto, forse anche nella coscienza dei reprobi.
«Ma che monta!» esclamò il Cardinale Volpe, «se una donna è innamorata più d’uno che[212] dell’altro, è cosa tanto naturale! una donna cambia di amanti come di vestiti» (Morale veramente dei preti).
E qui scorgendo il dispetto sulla fisonomia di Corvo, il capo della polizia chercuta caricò sulle ultime parole, pronunciandole pacatamente ed in modo solenne.—Volpe era ingelosito della grande influenza esercitata nella Corte pontificia dalla setta gesuitica, e massime di quella del Monsignore che riconosceva d’assai superiore a lui stesso in intelligenza e furberie, per cui colla quantità di vittime sedotte, più della stessa polizia era informatissimo d’ogni cosa importante in Roma e nel mondo.
«Che monta! (esclamò il seguace di Loiola)—voi non sapete che quella donna conosce i più reconditi secreti di questa Corte e della potente società nostra, che n’è la più solida colonna».
Un cenno di approvazione del generale gesuitico e del suo segretario, all’onorevole menzione fatta da un membro sì rispettabile dell’Ordine, fece rintuzzare alquanto l’alterigia del Cardinale, mentre ringalluzzì l’ardimento del Monsignore, il quale più francamente di prima riprese:
«Noi siamo in circostanza di dover temere più dai nostri nemici di dentro che da quei di fuori. Quella volpe di Monarchia sabauda, mentre si protesta umilissima figlia della santa Sede, distrugge il nostro esercito, si fa padrona delle nostre province e delle nostre sostanze; e siatene certi, essa non si fermerà nelle sue depredazioni[213] se non che dopo d’essersi seduta padrona sul trono del Vaticano, come fece a Parma, Modena, Firenze, Milano e Napoli. Comunque, l’impudente suo ardimento mai giungerà a distruggere la Chiesa, che ad essa conviene, nè il potere spirituale del santo Padre.—Non così i nostri nemici interni, essi non si contenteranno di distruggere una cosa e l’altra, ma getteranno le loro mani sacrileghe sui sacerdoti di Dio, e sul santissimo di lui rappresentante sulla terra, rovesciando nella polve e nel sangue dei fedeli ogni cosa sacra esistente in Roma!—Roma Capitale d’Italia!—Essi si senton piccini quei miserabili Macchiavelli della Dora a tanta grandezza.—Il peggio si è, che oggi non son più padroni di loro stessi, e sono obbligati di ubbidire a chi più di loro vale, benchè sempre stupida, sempre ingannata, la nazione, ch’essi taglieggiano, come fanno di noi, e come noi, sono in obbligo di adulare rubando».
Un momento di silenzio seguì la mordente favella del Corvo, e tutti sembraron meditare sulla veracità delle sue asserzioni, e sulla delicata e pericolosa posizione della bottega.
Incoraggito dal silenzio dei compagni, così proseguì il gesuita:
«Osteggiati barbaramente al di fuori da chi si manifesta pubblicamente servo della santa Sede, noi stiamo su d’un vulcano nell’interno di Roma.—La setta dei perduti, profittando delle sventure del nostro esercito, e dell’entusiasmo suscitato in[214] tutta Italia dalla vittoriosa spedizione dei Filibustieri del mezzogiorno, tenta in questo momento un colpo decisivo sul santo Padre, ed il suo governo, per farla finita una volta (come dicono quei malviventi) coi chercuti.—E ciò che mi fa supporre tanto più terribile tale infernale congiura, si è: di veder sedotta da uno dei capi la contessa Virginia N....—tanto influente sulla società nostra, e padrona dei nostri segreti—».
—«Che si congiuri in Roma, è cosa vecchia» esclamò il Volpe spaventato dalle tremende rivelazioni, e poi stizzito, nel vedere ed udire, che un semplice mortale ne sapesse più dello stesso Capo di polizia—«ma che la contessa N.... creatura nostra, sì zelante sempre, siasi lasciata sedurre dal serpente, è ben straordinario, e duro fatica a crederlo».
«Io proverò coi fatti a V. S. che quanto dissi è vero, e chiedo anzi tutto l’appoggio possibile per far sventare la tremenda congiura che si prepara a distruggere fino alle fondamenta il santissimo tempio del Signore».
Come già cominciano a mutar tuono cotesti ministri di Dio; non sono più le porte dell’inferno, nè le legioni degli Arcangeli che essi invocano, ma spie, birri, ben pagate polizie, e non bastando tutto ciò invocano anche il soccorso di Maometto. Poveri impostori! sono veramente da compiangere, dopo d’aver trovato un mondo di stupidi, che sì grassamente li manteneva, esser essi minacciati d’esterminio dalle stesse loro pecore![215]
Dopo alcune intelligenze prese col Volpe e col suo generale, il gesuita congedossi; Volpe rimase ancora colla volontà di ciarlare, millantare i suoi servigi al potente suo ospite e persuaderlo che il Corvo operava finalmente sotto le sue ispirazioni. Il generale però, ben persuaso della capacità del monsignore, lasciò il poliziotto con tanto di naso, e con un pretesto futile, se la svignò nel suo gabinetto.
[43] Ripeto: non si scordi la nota di Farini a Bonaparte; «Noi marciamo coll’esercito per combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi.» (Che liberatori!)
Roma! e che scriverei io, se non m’ispirassi nell’immenso tuo nome, nelle immortali tue memorie!
Tu suscitasti nel petto mio di diciott’anni, l’amore del generoso, del bello, del grande, l’insofferenza d’oltraggi e l’affetto mio sviscerato a questa terra natìa, allora calpestata da mercenari. Oggi non fortunata, ma crollando la ricca ed altiera cervice, e non invano, all’insolente straniero consueto ad umiliarla.
O Roma! tu fosti la mia stella polare nell’avventurosa mia vita, e prendendo ad emuli i tuoi grandi, io ebbi la presunzione di meritarmi la tua stima. Anche canuto, tu susciti nell’anima mia qualche cosa che mi ringiovanisce, che mi spinge a far tuttora il mio dovere di milite e di[217] cittadino, a fiutare ancora quei campi di battaglia, ove deciderannosi le sorti di buon numero dei tuoi figli, schiavi dello straniero.
Rovistando fra i cantori delle grandezze umane, io trovo un Britanno che cantò degnamente di te, ed a cui l’Italia deve veramente eterna gratitudine. Byron! Il gran vate, e l’eroe delle Termopili, ricordò che accanto alle meraviglie dell’Ellade, potevano stare le maschie virtù del tuo grandissimo popolo.
Non così i grandi nostri favoriti dalle muse, tranne il colosso Astigiano: la maggior parte dimenticarono alquanto che Italia era stata la dominatrice dell’orbe, l’istitutrice delle generazioni presenti, quando Repubblicana.—E quando il cantore dei Sepolcri, negl’immortali suoi versi eternò Milziade ed i suoi valorosi di Maratona, egli non pensò certamente alle legioni vincitrici della falange macedonica.
Eran trecento—Sì! trecento i giovani romani che agli ordini di Muzio tramavan la liberazione di Roma. Trecento! I posteri italiani ricorderanno i Mille di Marsala, e ne conteranno le gesta: io voglio rammentare i trecento, numero magico anche questo, e nulla di più grandioso dei trecento di Leonida e dei trecento Fabii[44].
Ed i trecento Romani che si consacrano alla liberazione della grande Metropoli, mi piace di[218] contemplarli in una catacomba pronti ad affrontare il demonio sotto la schifosa assisa d’un birro o d’un prete. Armati di un solo ferro a guisa di quella daga con cui gli antichi militi della Repubblica entravano tra le formidabili file delle falangi di Perseo, tra i torriti elefanti di Pirro, ed aprivano il petto ai conquistatori dell’Asia.—Con quelle daghe con cui abbattevano ai loro piedi tutte le autocrazie del mondo conosciuto, non col cannone Krupp, o con mitragliatrici, ma col ferro, e a petto a petto.
L’Arco di Settimio Severo, una delle più severe ed importanti ruine che adornano il Foro Romano, copriva una catacomba, ed in quella conferivano i trecento prodi, e congiuravano per la liberazione della patria, in una sera di settembre del 1860.—Giovani tutti, ma di austero sembiante, come sono in generale i discendenti del gran popolo che non han degenerato e che poterono sottrarsi al contatto pestilenziale degli scarafaggi; i romani venendo da diverse direzioni, concentravansi tutti, favoriti dalle tenebre, per diversi anditi nel sotterraneo. Appena il respiro d’alcuni venuti da lontano, udivasi in quel consesso di giovani sacrati alla morte per la più santa delle cause. Sacrati alla morte! Ed i tiranni di Roma lo sapevano, ed impazzivano di rabbia di non poter distruggere fino alle radici quella pianta di generosi, da loro chiamati con nomi orrendi, come solo possono trovarsi sul vocabolario de’ preti.[219]
Ma eran cambiati i bei tempi degl’Inquisitori; ed in Italia a dispetto dei retrogradi che proteggono per conto proprio i chercuti, già potevasi chiamare un birbante ed un impostore con il proprio nome. L’opinione della gente onesta cominciava a plaudire ai coraggiosi, che innalzandosi al disopra dei pregiudizi del passato, calpestavano con fronte alta il vecchio e putrido diritto divino, poggiato sull’altare della negromanzia. E quantunque sette anni dopo si trovasse ancora un disprezzevole tiranno della Senna, capace d’inviare in Italia i suoi sgherri, e sostenere la baracca pretina, la forza degli avvenimenti rovesciava nella polve il triregno, e trascinava il concime nella cloaca.
Una lanterna sorda come per incanto illuminò lo speco, ove immobili e silenziosi stavano i prodi campioni della libertà italiana. Essi portavano tutti la destra sul cuore, cenno di ricognizione, e di devozione illimitata alla loro patria infelice. Spettacolo sublime che i grandi artisti odierni potrebbero ben distendere sulla tela, incidere sul marmo e sul bronzo, per rimpiazzare certe mitre buffonesche ed immorali che disdorano il grandissimo tempio.
«Fratelli!» vibrava la maschia e melodiosa voce di Muzio: «Roma seguirà l’esempio dei nostri valorosi delle province, che sacrati alla liberazione degli schiavi, stanno compiendo una di quelle imprese che costituiscono il carattere d’una nazione insoffrente d’oltraggi, che imprimono[220] a caratteri di sangue nella sua storia una pagina ben gloriosa! Sventuratamente ingannati sin ora da titubanti o presuntuosi, noi sin ora invano aspettammo il segnale della pugna. Ora, tregua alle timide aspettative, noi non vogliam più starcene colle mani alla cintola, e se la spedizione dei superbi militi di Marsala rovesciò nella polve un tirannuccio, dannato a pagar le colpe degli avi, e col solo delitto, per ora, d’esser nato sul marciapiede d’un trono, noi getteremo i nostri ferri tra gl’interstizi di questo catafalco delle malizie e delle corruzioni umane.—Noi sì! rovescieremo la più nefanda, la più pestifera delle Autocrazie.—Autocrazia che non si contenta di fare degli schiavi, ma li vuol depravati, corrotti, curvi, disprezzati, indegni di comparire al cospetto degli uomini.
«E noi, fratelli, che non abbiamo altra chiesa che lo spazio, cioè, l’Infinito, altri luminari che le stelle infinite, altro Dio che la ragione, la scienza, e l’intelligenza infinita che regola i movimenti, le combinazioni, e la trasformazione della materia infinita,—noi siamo condannati da codesti nemici dell’Umanità a rimanerci qui in un sotterraneo, ove puzzano ancora gli scheletri di tante vittime della tirannide e del fanatismo.»
Un ruggito di sdegno rispose alle eloquenti parole del capo dei trecento, e tutti sguainando simultaneamente la daga, giurarono di liberar Roma e l’Italia dal putrido chercume.[221]
Ringuainate le daghe, Muzio presentò ai compagni Nullo, P... e la bellissima Lina, che debolmente potea nascondere sotto le virili sue vesti e sembiante la squisitezza delle femminee forme.
«Voi vedete qui, o fratelli, tre dei più valorosi militi di Marsala. Abbiam la fortuna d’averli tra noi, per le solite scelleraggini dei preti.—La Marzia con cui i chercuti hanno fatto tanto bordello è stata rubata nello stretto di Messina mentre disponevasi a traversare il Faro coi primi militi della schiera sacra che si disponevano di por piede sul continente italiano, per aprir la via ai corpi dell’esercito meridionale, vittorioso in tutti gli scontri, ed oggi in possesso di Napoli e Caserta, sino alle sponde del Volturno. Essi, i coraggiosi figli del settentrione e del mezzogiorno, hanno per obbiettivo la città eterna, e noi, spero, saremo degni di loro, e procureremo di accogliere quei nostri fratelli, in Roma libera, lavata dal sudiciume straniero e papale. Noi compiremo l’opera nostra, e per cominciarla degnamente, questa notte stessa, tenteremo la liberazione della Marzia».
«Che Dio vi benedica» esclamarono ad una voce i tre guerrieri dei Mille, e l’eroico figlio di Bergamo, Nullo, sollevando la marziale sua fronte, e tendendo orizzontalmente la palma della destra, disse colla potente ed eccitata sua favella: Io giuro, sino all’ultimo sospiro, di sostenere la causa dei popoli oppressi, contro i preti e la tirannide». (E ben mantenne il suo[222] giuro, spargendo il sangue generoso sui campi della Polonia, per la redenzione di quel nobile popolo).
A quel giuro solenne, tutti distesero la destra e gridarono unanimi: «Giuriamo!»
Fra i trecento, posta dietro a Muzio, v’era una figura difficile a discernere, perchè avvolta in un mantello somigliante all’antica toga romana.—Essa avea nascosto il volto dal principio della conferenza sino al punto in cui si favellò di Marzia;—ma da quel momento, chi l’avesse bene osservata, avrebbe scorto una irrequietezza indomabile, un muoversi continuo, una smania potente di favellare. Gettando sulla sinistra spalla la grande toga e ponendo in libertà la destra, la persona che sembrava albergarsi sotto l’usbergo del valoroso capo dei trecento, esclamò, facendo un passo avanti, e mostrando uno di quei volti che, veduti una volta, rimangono per sempre scolpiti nell’anima «Ascoltatemi!»
La Contessa Virginia N..., perchè essa altro non era che la vittima del gesuitismo, la salvata da Muzio, avea la fronte e le guance leggermente solcate dalla sventura e dal pentimento, ma il suo volto malinconicamente bellissimo infondeva ancora ammirazione tale, da meritarsi il culto di qualunque uomo.
«Ascoltatemi!» essa esclamò, «o nobili figli della mia Roma infelice! Voi qui vedete la vittima di quell’infame setta nera, a cui l’Italia deve tutte le sue sventure! Ieri io era ancora[223] nemica vostra, ma la destra di questo vostro valoroso capo mi strappò dalle ugne della morte ch’io bramavo, e mi redense dal vilissimo servaggio in cui la perversa corruzione di codesta canaglia m’avea precipitato».
«Io qui in ginocchio (e si genuflesse) vi prego di credermi e di perdonarmi! Vi prego di permettermi di condividere le gloriose vostre fatiche, e di cancellare con una vita di devozione e di sacrifizio alla patria tutta la nefandezza della mia vita passata».
«Io vi accompagnerò, ed accompagnerò questo mio salvatore, non perchè mi senta degna di voi e di lui: troppo macchiata, troppo infamata fu la passata mia esistenza.—Ma tanto santa, tanto umanitaria, è la causa da voi impugnata, ch’io non dispero di redimermi! Non dispero del perdono, e voglio in ogni modo consacrare questo infamato mio essere a servirvi, ed a servire l’emancipazione degli schiavi, sino alla morte! Marzia, la degna compagna di Lina, l’eroina dei Mille, fu da me travolta in inganno ed in servitù! Io ho servito d’istrumento ai persecutori della sua innocenza—e per prima prova del mio ravvedimento, io stessa vi condurrò alla liberazione dell’esimia guerriera!»
Terminate queste parole, la bella testa della Contessa rialzavasi a contemplare il consesso degli uomini da cui aspettava una sentenza di vita o di morte. Tutta questa brava gioventù, però, non era altro che commossa per l’abbiezione di[224] tanta bellezza, e per tanta possanza della romana patrizia. Stupefatto ognun contemplava ai suoi piedi la temuta patronessa della terribile società di Loiola, ed ubbidendo ad un senso di gentilezza comune nella gioventù, ognuno sentì nell’anima l’umile posizione della bella infelice, e s’udì una tempesta d’esclamazioni da tutti quei generosi: «Alzatevi! alzatevi!»
A quella voce lo sguardo della Contessa rianimossi, negli occhi bellissimi si leggeva la contentezza, ma benchè dolcemente violentata dalla Lina, essa non volle alzarsi, e con uno sforzo estremo, esclamò:
«Perdono! perdono! fatemi degna di seguirvi nella santa vostra missione!»
«Alzatevi e conduceteci alla liberazione dell’eroina dei Mille» ripeterono i valorosi. La nobile e generosa Lina, spinta dalla gentilezza del suo carattere e più d’ogni altro commossa dalla scena interessante, solcò la folla, si avvicinò alla genuflessa, le porse la mano e l’aiutò a rialzarsi. Da quel momento la Romana fu consacrata per la vita alla vezzosa figlia delle Alpi.
Muzio, commosso, e cogli occhi umidi, porse anche egli la sua destra a quella donna già cara al suo cuore, e ritemperandosi nella virile sua natura, disse ai compagni: «È tempo che ci moviamo, e siccome pericoloso o imprudente sarebbe di uscire in massa, noi andremo alla spicciolata, e per diverse vie ci riuniremo nelle vicinanze del convento di S. Francesco per la[225] liberazione di Marzia: ciò che deve eseguirsi prima delle 2 antim. per aver tempo di prendere la campagna».
Ad uno ad uno uscirono i fieri campioni della libertà romana, dalla catacomba; e, giunti tutti all’aperto, e congedate le sentinelle, Muzio disse ai quattro compagni, le due donne, Nullo, e P...:
«Ora a noi, senza bisogno di dividerci di più, noi possiamo camminare per coppie, ad una certa distanza, perchè non si smarriscano coloro che meno di me sono pratici di Roma».
[44] Mi piace qui ricordare anche i miei giovani trecento dell’Università Romana del 49 che tanto si distinsero nel glorioso 30 aprile di quell’anno.
I trecento erano gente a tutta prova, e certo per essi il rischio sorrideva come il bacio d’un’amante. Tutti però essendo giovani e non pratici d’ardue imprese, Muzio, che voleva assicurarsi il successo della liberazione, volle incaricare Nullo e P.... della parte ove abbisognava maggior perizia e sangue freddo. I due bellicosi figli delle Alpi, avanzi di cento pugne, palpitarono di soddisfazione e di gioia all’annunzio dell’onorevole incarico e della fiducia del capo, e senza millanteria, lo accettarono volenterosi.
«L’impresa ch’io vado a compiere, disse Muzio, di liberare la Marzia dal Convento, sarà la più facile, e con un terzo della nostra gente, spero portarla a buon fine:—la parte più aspra sarà la vostra, che dovrete proteggere la nostra uscita[227] dal chiostro, ed aver da fare con più numerosi sicari del Papato».
«Mantenetevi quindi divisi il più possibile, per ispirare meno sospetto. Le due centurie a voi affidate sono comandate da ufficiali intelligenti, su cui potete contare come sulle vostre daghe, ed essi hanno ordine di tenersi alla vista, ed ubbidire al vostro minimo cenno. I miei cento ad un fischio si concentreranno all’ingresso principale e lo forzeranno».
Ogni cosa combinata, e comunicati gli ordini ad ogni capo delle centurie, e decurie, quei veri figli di Roma, disciplinati come le vecchie avite legioni, prendevan posto lunghesso la via Giulia, e la maggior parte sulle sponde del Tevere, tenendo come centro il convento che racchiudeva la valorosa eroina dei Mille.
Lina bruciava di assaltare il convento, e contribuire per la prima alla liberazione dell’amatissima compagna, ma Nullo e P... avrebbero ceduto il mondo, piuttosto che la vezzosissima guerriera, e così la gentile e bollente Alpigiana, dovette cedere alle ammonizioni de’ suoi cari.
Un convento! ma che? mi si dirà, assaltare un convento di monache, non dev’esser poi la fine del mondo. Un convento!..... Ma quando considerate un convento essere una fortezza, e massime in Roma, la cosa non è poi così facile[45].
La vicinanza del Tevere lo facea quasi inespugnabile da quella parte, e dalle altre parti v’erano altissime mura, guernite di torri ad uso castello del Medio Evo, in cui le monache tenevano una sentinella in ogni direzione, fornite da una compagnia di guardia, composta di mercenari stranieri, stanziati nel perittero del convento[46].
Da via Giulia e sponda sinistra del Tevere i romani avviavansi a poco a poco, passando i ponti Gianicolense e Fabrizio, sulla sponda destra per la Lungara, la Lungaretta, via S. Francesco, sino a tutta Ripagrande, e per la una, ora destinata all’assalto, essi tutti stavano al loro posto, divisi, ma pronti a concentrarsi al primo segnale.
I preti, da quegli astuti e birbanti che sono, avean preso ogni precauzione, per prevenire la fuga od il ratto della bella prigioniera, ed oltre a una guardia di birri nei giardini immensi dei padri francescani, a cui aveva appartenuto il convento prima[47], una compagnia intiera stanziava nel perittero dell’edificio, una di soccorso sulla piazza del teatro di Marcello, ed un battaglione in riserva al Campidoglio: queste ultime[229] forze dovendo marciare sul convento al segnale d’allarme.
Alla una antimeridiana Muzio aveva i suoi cento alla mano sulla piazza S. Francesco, Nullo, al comando della schiera sacra più numerosa, aveva raccolto una centuria intiera nell’Isola di S. Bartolomeo, P... con cinquanta giovani dovea servire di sostegno a Muzio, ed Orazio comandante d’una centuria fu da Nullo destinato alla custodia del Ponte Rotto, per ove doveva l’intiera brigata aprirsi il passo verso la campagna romana dopo la liberazione.
Si è trepidi, si è commossi in certe occasioni. E chi non lo è alla vigilia di ardue imprese, quando per la prima volta si affrontano e si getta la vita sul tappeto della sorte? Ma che monta? il vero valore soffoca le commozioni, e davanti al compimento d’un dovere santo, padroneggia ogni sentimento di dubbio, e si vola all’opera.
Tale fu il contegno di questi superbi figli di Roma, alla liberazione dell’innocente vittima dalle zanne dei scellerati sacerdoti del S. Uffizio.
L’acquisto della contessa Virginia fu di giovamento immenso all’impresa generosa. Avendo abbandonato la toga maschile, essa presentossi sola in abito donnesco al comandante di guardia, e chiese di dover comunicare affari d’importanza alla superiora del convento.
Il comandante di guardia, legittimista francese, certo marchese di Pantantrac, colla galanteria che distingue codesti antichi privilegiati,[230] e vedendosi davanti al chiarore della lampada certo volto di donna, da far impazzire qualunque uomo, il comandante, dico, dimenticò la consegna ricevuta, di non permettere l’introduzione di chicchessia, e con mille smorfie, si compromise di annunziare nel convento l’arrivo della bella incognita.
L’apertura del portone che dava nel peristilio del convento, era il segnale convenuto per l’invasione e l’attacco; e Muzio, da esperto capitano, profittando delle tenebre della notte e del chiarore della lampada appesa nel perittero, che permetteva di distinguere l’interno movimento delle genti, collocossi sulla piazza in posizione da poter tutto scoprire.
Quando in seguito all’insistenza di M. de Pantantrac, le monache aprirono la porticina attenente al portone, per introdurre la protetta del marchese, Muzio, coll’agilità del cervo lanciossi nel perittero e prese il mercenario per il collo, rovesciollo, e s’impadronì della sua sciabola.
Non meno agili i suoi giovani compagni di misurarsi con sgherri, furono in un lampo sulle sue tracce, e dando addosso alla guardia semidormente, la disarmarono, e com’è naturale, si armarono essi stessi.
Vi era veramente l’ordine nel convento di non introdurre persone di notte, e la nostra bella contessa, malgrado la di lei potenza non ancora scemata, avrebbe finito per esser messa fuori della porta.—Ciò non successe, grazie all’energia[231] della patrizia romana, e mentre la portinaia sforzavasi di chiudere, gridando: «Dite che volete, ma non potete entrare», Virginia, ricacciavala nell’interno, e manteneva aperta la porta.
Poco durò la valorosa contessa in tale fatica, giacchè Muzio, consegnato il Pantantrac ai suoi, inoltrossi nel peristilio, e tenendo la portinaia colla sinistra, mantenne colla destra la porta interna aperta, e la comunicazione col convento libera.
Tiranni e preti, conventi e carceri, carceri e sgherri, vi è tale affinità di famiglia tra cotesti flagelli del genere umano, da non distinguerli, e da considerarli la stessa emanazione dell’inferno.
La portinaia del convento era stata forse più sollecita del solito, per trovarsi così prontamente alla chiamata di M. di Pantantrac, e la causa n’era uno stretto colloquio tra essa e un sergente de’ birri, di guardia negli orti francescani, al momento di detta chiamata. Ciò valse pure a svelare più presto l’assalto nel convento, poichè il sergente essendo rimasto zitto nell’interno, in aspettativa del termine della missione della Dulcinea, si accorse facilmente dell’attacco alla guardia e della violenza alla sua donna, e ne conseguì quindi un allarme tra la guardia dell’orto, e poi fuori alle truppe di sostegno e di riserva, dimodochè la battaglia presto infierì su tutta la linea.
Tale circostanza poteva esser fatale alla riuscita[232] dell’impresa, se questa fosse stata in mano di gente meno risoluta; ma Muzio, Nullo e compagni non erano uomini da facilmente spaventarsi. Muzio, colla portinaia per la mano, fu in un momento condotto da essa e dalla Virginia alla cella dell’abbadessa, e questa, al luccicare d’una sciabola, condusse ben presto il capo dei trecento nell’abituro dell’infelice eroina dei Mille, da cui Virginia con simpatia febbrile la trasse e la condusse presso l’amato suo P...., ch’erasi avanzato coi suoi cinquanta all’entrata del convento in sostegno di Muzio.
Lascio pensare la gioia di Lina, nel vedere la carissima compagna di tante fatiche e di tanti combattimenti, e come la buona Marzia si lanciasse al collo della sorella e la soffocasse di baci! Non era tempo però di abbandonarsi a tenerezze.
A ponte Fabrizio, Nullo ebbe alquanto più da fare; le forze papaline stanziate al teatro Marcello, al primo allarme dato dalle trombe dei birri, negli orti francescani, mossero verso il convento, e dopo di queste il battaglione che si trovava in Campidoglio.—Tali eran gli ordini e tali le precauzioni prese per impedire la fuga d’una donzella ebrea, ispirata dallo Spirito Santo dei preti, e che questi buffoni volevano mandare in paradiso suo malgrado.
Il prode Bergamasco però non avea dormito nel poco tempo passato nell’isola di S. Bartolomeo; egli avea fatto eseguire una formidabile barricata sul ponte, che fu innalzata come per[233] incanto da’ suoi robusti compagni, con barchette rovesciate e con panche di pescivendoli che abbandonavano nell’isola.
La massa di soldati del Papa che si avanzava era imponente, ma nello stesso tempo impavido era il valore dei romani, alcuni dei quali oltre alle formidabili daghe, erano pervenuti ad armarsi con delle fiòcine[48] trovate nelle vicine case di pescatori.—I primi papalini che si presentarono alla barricata, furono infilzati dalle fiòcine, come tanti pesci, gli altri insospettiti dalle grida dei fiocinati, dal riparo e da pericoli a loro ignoti, per nulla poter discernere nelle tenebre, e per lo ingigantirsi che fanno i pericoli ed i ripari nella notte, non ardivano avanzarsi.—Ma incoraggiti dai loro ufficiali, alcuni salirono. Poveracci! eran ricevuti a colpi di fiòcina, arma, di notte, in una barricata, più terribile d’una mitragliatrice.
Le grida dei feriti, coll’arma inusitata, erano spaventevoli, essendo la fiòcina arma che entra, ma non esce, dimodochè alcuni eran tratti a bordo, cioè dalla parte dei romani, altri, se riesciva di rompersi l’asta, cadevano o si ritiravano malconci, col ferro nelle viscere, altri, poi, dal colpo o dalla disperazione, erano precipitati nel Tevere.
Siccome fra i mercenari, di notte, si può essere impunemente codardi, le sciabolate degli[234] ufficiali erano insufficienti a far superare la barricata; comunque, malgrado che molti se la dessero a gambe, il capitano d’una compagnia per nome Merode, giovane Belga, nipote del cardinale dello stesso nome, inoltrandosi tra una fiòcina e l’altra, era pervenuto a superare la barricata, e precipitossi gridando: Avanti! sui difensori!
Capitò però malissimo, giacchè l’individuo su cui egli cadeva, altri non era che il nostro nerboruto Nullo, che non si curò nemmeno di ferirlo colla daga, ma passandovi la destra tra le gambe, lo fece descrivere una curva nell’aria, e lo scaraventò nel Tevere.
Poco dopo, un messo di Muzio avvertì Nullo esser la liberazione compiuta, e tempo di ritirarsi per ponte Rotto.—E n’era tempo: la compagnia dei papalini, spinta avanti dal battaglione di riserva, che giungeva a passo celere dal Campidoglio, s’era schierata a destra e a sinistra del ponte, facendo un fuoco d’inferno.—Per fortuna dei nostri, i fuochi di notte suscitano confusione, e così successe. I Romani per quel motivo, poterono ritirarsi comodamente, e quando i pontificii, facendo uno sforzo guerriero, si accinsero a sormontare l’ostacolo, i nostri eran già lontani.
La ritirata dei trecento per ponte Rotto si eseguì in buon ordine, e prima delle 3 antimeridiane essi eran tutti sulla sponda sinistra del fiume, marciando verso la campagna.[235]
Un incidente, però, fermò un momento la coda della Colonna romana. Mentre la mezza centuria d’Orazio dopo d’aver lasciato sfilare la forza, ponevasi in moto di retroguardia, un grido uscito dal Tevere: «Aiuto! Aiuto!» colpì l’orecchio dei nostri giovani, e temendo fosse uno dei loro, fermaronsi, fecero corda con alcuni cappotti, e ne porsero l’estremità al naufrago.
Tiratolo su in salvo, conobbero i Romani alla favella, esser il salvato uno straniero, ed al chiaro d’un zolfanello, scoprirono vestir egli l’assisa del mercenario.
«Accidenti!» esclamò Orazio «potevate ben lasciarlo affogare quel mostro di pesce-cane—Ora però, egli deve marciare con noi, perchè naturalmente svelerebbe la direzione nostra».—E Merode, era egli stesso, fu consegnato a due militi per presentarlo a Muzio, che lo accoppiò a M. le marquis de Pantantrac, anche questo condotto fuori come ostaggio, in caso che i preti avessero voluto, secondo il loro costume, sacrificar qualche innocente alla lor rabbia, per il felice avvenimento.
I due cattivi fecero di necessità virtù, e contentissimi di non perder la pelle, si posero alacremente in marcia, custoditi da una guardia. Pantantrac, senza parlare, ma Merode, fradicio, col fresco d’una notte di settembre, si faceva sentire, di quando in quando con alcuni «sacré nom de Dieu!» e con non poche battiture di denti. Povero Merode! ravvolgendo le memorie[236] d’infanzia, egli ricordossi con compiacenza della scuola di nuoto fatta nella Schelda, e che tanto gli valse in quella notte, poi finiva le reminiscenze con un «sacré»....... ed alcuni salti per riscaldare il corpo, che non mancavano di seminar l’ilarità tra cotesti brigands d’Italiens.
Poche ore dopo, il Governo pontificio fece perseguire i trecento da pochi dragoni, essendo la maggior parte di quel corpo in campagna con Lamoricière.—E siccome pochi e con poca volontà di osteggiare i concittadini[49], questi poterono liberamente giungere all’Apennino, e seguirne le cime verso Napoli, non trovando a proposito i....... capi di mantenere la rivoluzione in Roma.
[45] Il convento è quello di S. Francesco a Ripagrande, già convento da frati, e trasformato al tempo del nostro racconto.
[46] Nella mia ritirata da Roma nel 49, dovendo alloggiare la gente nei conventi, come siti più forti e convenevoli, i frati tenevano delle sentinelle sui campanili e nascondevano ogni cosa quando ci scorgevano.
[47] Nel 1825, stando io a Ripagrande a bordo d’un bastimento di mio padre, veniva a visitarci un padre francescano di Nizza, abitante del convento suddetto. Io non ricordo il nome del frate, ma dai concittadini nizzardi si sapeva benissimo, esser stato lo stesso, quando era laico, una cima di dissoluto e di birbante.
[48] Tridenti, o con più denti ed un’asta.
[49] I Dragoni del Papa erano composti quasi in totale d’Italiani, e buoni soldati, come gli artiglieri dello stesso esercito.
Abbiam lasciato i Mille, divenuti esercito Meridionale, nella bella Partenope, coi loro avamposti a S. Maria, S. Angelo e Maddaloni, e con una rispettabile riserva a Caserta.—Caserta, splendidissima villa della cacciata Dinastia, ove i pezzenti militi di Calatafimi e di Melazzo si divertivano alla caccia dei fagiani ed alla pesca delle trote, abbondantissimi in quella regia tenuta.
Che scandalo! che licenza! Cotesti impudenti straccioni con fagiani, trote, davanti a loro, sulle reali mense e lavandosi poi la gola con del Montepulciano, del Lacrima-Cristi, del Falerno, senza[238] morire d’indigestione! Si potrebbe proprio dire col Casti:
Tali licenze però ci furono acerbamente rimproverate da certo commissario regio, un principe di cui non ricordo il nome, delegato alla custodia delle reali caccie, e giunto in Caserta quando i regi liberatori cominciarono a gettar le ugne sulla preda.
Dalla Verminaria d’Italia, ove abbiam contemplato l’impostura in tutto il suo sudiciume, ed in tutta la sua corruzione nella vecchia Capitale del mondo, giungiamo in questa allegra Partenope, redenta, e giubilante della sua redenzione, nel suo stile gentile, grazioso e sublime.
Redenta! intendiamoci bene, per aver veduto fuggire degli esosi padroni. Redenta, colla speranza d’aver a fare con un governo migliore.—Redenta, perchè sanata una delle sette piaghe d’Italia, e reintegrata nel seno della grande famiglia Italiana, che abbisogna di stare unita, serrata, per far testa a certi nostri prepotenti vicini, amanti delle nostre frutta e del nostro cielo, che offuscarono già tante volte per nostra sventura.
Cotesti tracotanti stranieri sono cevados (direbbero gli Spagnuoli), parola che non so tradurre in italiano, e che significa assuefatti, e perciò disposti invincibilmente a ripetere il pasto.[239]
Cevados si dice generalmente di fiere, che già assaggiarono carne umana o di animali domestici. Dunque cevados sono, sì, cotesti signori d’oltremonte, ai godimenti del bel paese, e sarebbe tempo che noi millantatori di certa genealogia e di certo valore, facessimo intender loro, che nostri sono questi frutti del sudore della fronte, e nostre queste bellissime figlie d’Italia.
Ogni volto, nella popolazione della grande metropoli, brilla di gioia, e chi vorrà turbare un istante di gioia di quest’animatissima gente, spiritosissima, che un segno de’ neri suoi occhi vi racconta una storia di felicità e di sventure? Io no!..... Eppure, benchè io m’abbia l’aria di scrivere romanzi, io scrivo storia qui, e storia che non mi fu contata. Storia, sì! del mio popolo, della mia terra! da cui gli stolti vollero cacciarmi, e che mi caccerebbero a brano se a caso.....
Mai dimenticherò nella vita, quel segno uno fatto coll’indice, con cui i due grandi popoli di Palermo e di Napoli, accennavano all’Unità della patria Italiana.
Italia una!..... era scritto su quell’indice del popolano delle due capitali, che potevan dar sole, cento mila armati, per sostenere l’attuazione del desiderio sacro! E comunque si dica, Palermo e Napoli, la prima in maggio, e la seconda in settembre, hanno imposto coll’indice a cento mila Borbonici di ritirarsi, e furono ubbidite.
Sì! veramente redento poteva essere questo povero[240] popolo, se non avesse trovato sotto diversi colori gli stessi e più affamati mangiatori delle genti.—E redento, con più profitto di codesti privilegiati, se volessero anteporre la gentil voluttà d’esser pii, la maggior di tutte le mondane voluttà, alle miserabili libidini del ventre e delle lussurie!
Lo ripeto: povero popolo! perchè non toglierlo dalla ignavia, in cui l’educarono venti generazioni di tiranni e di preti, l’una peggiore dell’altra? Esso depravato, esso corrotto, esso cresciuto all’infamia, e da chi? E qui devo tornare per la millesima volta, al fetido scarafaggio dell’umana famiglia, che tanto serve al dispotismo coll’inganno e colla corruzione del popolo.
Napoli, la maggiore delle metropoli italiane, è ridotta, come carattere generale della sua plebe, a ben mediocre stato. Eppure, chi negherà spirito, intelligenza, valore, a quei nostri meridionali concittadini?
Non mancan di valore, intelligenza, spirito: ne han da vendere.—Ciò che manca loro è un governo, che sia governo per la nazione, e non della classe di coloro che per la grazia di Dio sono destinati a mangiare quella robaccia che si chiama popolo. Pasto, che diventa possibile col pervertimento d’una metà, colla fame e colla miseria dell’altra!
In una bella serata di settembre, di quelle con cui il cielo italiano bea codeste condannate popolazioni, poco prima della battaglia del Volturno,[241] passeggiavano sulla piattaforma di Castel S. Elmo due individui, uno dei quali in assisa militare, vecchio maggiore, che avea principiata la sua carriera sino dal regno di Carlo III, e che millantava non so quanti anni di servizio in compagnia della sua vergine durlindana, che per fortuna dell’umanità, era tirata ogni giorno dal fodero per essere pulita soltanto.
Era di costituzione robusta, e ciò si scorgeva dall’ampio suo petto e ricca quadratura delle spalle: solo il suo volto avea un non so che di ributtante, giacchè del color rosso-peperone, esso largheggiava d’una fioritura di bottoni, certo men piacevoli alla vista de’ bottoni di rosa; il suo naso poi avea perduto ogni forma originale ed era diventato una rossa germogliante patata. Sotto l’assisa del soldato egli millantava il marziale, nelle parole e nel contegno, e senza quella sua mutria da osteria, si sarebbe potuto credere che egli avesse anche solcato qualche campo di battaglia. Ciò però non era, e la vita dell’avvinato maggiore s’era passata tranquilla nel tranquillo Castello S. Elmo, ove quarant’anni prima era entrato semplice soldato, e vi avea guadagnato a forza di devozione e di servilismo alla dinastia, le spalline granate.
L’altro era un conosciuto nostro, elegantemente vestito, avvenente della persona, ma con tutto ciò, puzzando di prete a qualunque olfato, un po’ pratico di questi nemici del genere umano.
«Non dubitate, maggiore,—disse monsignor[242] Corvo al secondo comandante del forte, maggiore Fior di Bacco—non dubitate, fra giorni l’esercito di S. Maestà stanziato a Capua e sulla sponda destra del Volturno, ascenderà a circa cinquanta mila uomini delle migliori truppe del regno, e comandate da famigerati capi. E che potranno questi quattro pelati, che per far ridere presero il titolo di esercito meridionale e che si trovano senz’ordine e senza disciplina disseminati sull’immensa estensione di paese che da Napoli va a Maddaloni, e da questa a S. Maria e S. Angelo?».
«L’esercito nostro certamente farà a pezzi codeste masnade, ma fa d’uopo che nello stesso tempo, i leali difensori della religione e del trono prendano alle spalle questi scomunicati, acciò nessuno di loro possa fuggire alla giustizia di Dio!» (Che merli! È da notare sopratutto la veracità del vaticinio).
«Monsignore può assicurare S. M. che per parte mia farò il possibile pel maggior bene del reale servizio, e per la maggior gloria di Dio». (Stava fresca la maggior gloria di Dio, con messer Fior di Bacco!—se invece fosse stata la gloria d’un fiasco d’Orvieto, se ne poteva sperare ampio successo).
«Io procurerò di far introdurre qui, a notte scura, quanti leali servitori sarà possibile, acciocchè il forte S. Elmo si trovi in nostro potere all’apparizione delle prime truppe nostre vittoriose. Ciò mi riescirà tanto più facile, in quanto che[243] il comandante del forte nominato dal prodittatore (e qui Fior di Bacco fece un sogghigno di scherno, come se avesse voluto disprezzare il venerando martire dello Spielberg), marciò anche lui per il Volturno con quanti avventurieri potè raccogliere (avventura non del gusto di Fior di Bacco che volea conservar la pelle intatta, per certi usi a lui conosciuti), giacchè essi presentono la tempesta che si sta formando per annientarli».—«Bene, maggiore! La causa di Dio presto trionferà, e gli Amalechiti cadranno sotto la spada di fuoco de’ suoi Arcangeli». (Gli abbiam veduti veramente gli Arcangeli alla difesa del Borbone, dell’Infallibile).
«Bene! vi lascio perchè devo vedere alcuni de’ nostri capi in città, conferire con S. M. al campo, e recarmi poi ad Isernia, ove altre faccende interessantissime per me e per la causa santa mi chiamano».
Gl’interlocutori si porsero la destra, ma per abitudine, ed una reciproca occhiata di diffidenza squadrò da capo a piedi reciprocamente i due agenti del Sanfedismo.
Fior di Bacco corse a prenderne un gotto per modificare la sete cagionata dal lungo discorso, e Corvo s’incamminò verso il ponte levatoio, uscì dal forte e precipitossi per le vie di Napoli, onde abboccarsi coi magnati dei partitanti del Borbone, e preti e frati, e stimolarli a dar addosso agli eretici, nel gran giorno di vittoria dell’esercito liberatore.—Dico precipitossi, giacchè dal giorno[244] della fuga di Marzia e dei trecento, egli non avea riposato, e di virulente natura com’era, Corvo trovò i piroscafi e le vie ferrate lentissime, perchè non lo portavano colla celerità del suo desiderio a vendicarsi di quei suoi nemici, che percorrevano in questo stesso periodo le cime dell’Apennino per dividere i pericoli e le glorie de’ loro fratelli dell’esercito meridionale.
Gl’inglesi sono una gente graziosa: fra tante loro scoperte, troviamo anche il Robbers all!—Mi capitò in questi giorni un libro inviatomi da un amico d’Inghilterra, con tale titolo: Robbers all!—che tradotto nella bella lingua del sì, suona: Tutti ladri!
E se devo confessare ciò che vado imparando ogni giorno di più, credo che l’epigrafe del presente capitolo vada a capello al periodo che noi percorriamo. Dagl’imperatori ai soldati di finanza e dal papa al sagristano non sono essi tanti ladri?
Per governar bene, essi non abbisognano di tanti milioni, quei primi signori per la grazia di Dio: il loro superfluo è non solamente un furto ma un mezzo di corruzione.
I secondi signori, cioè dal marciapiede del trono in giù, e che servon di cariatidi allo stesso,[246] non sono forse per la maggior parte birbanti che ingrassano alle spalle dei minchioni?
Nelle classi alte, mi limiterò a queste due principalissime di ladri, e toccherò soltanto una delle loro succursali.
I finanzieri, per esempio, vulgo preposti.—Io abito in un paese ove la dogana è una potenza.—Tale potenza! che una missiva della gente più raccomandabile ed onesta della Maddalena—mi diceva ieri: Le elezioni nell’isola nostra vanno sempre a piacimento dell’ispettore di dogana. Egli marcia all’urna co’ suoi preposti serrati, e cotesta falange sostenuta da quella del vicario-prete fanno sempre rimaner nel nulla quella parte buona della popolazione che potrebbe eleggere un buon sindaco ed un buon deputato.
Vi è un banchetto alla spiaggia del mare, adornato dalle bellezze del demi-monde?—Sono i preposti!
Una sposa alquanto in ostilità col marito?—per motivo d’un preposto!
Una vezzosa giovinetta da marito che si sposerà fra diciassette anni coll’uomo con cui s’è già accoppiata? (perchè tale è il regolamento)—quell’uomo è un preposto!
Si chiede d’un giovinotto che avrebbe fatto un eccellente marinaro da guerra, come sono generalmente i marinari di queste isole?—si è fatto preposto!
M’arriva una cassetta di confetti, od altro, inviati da un amico, è aperta, e ne mancano molti—sono i preposti.[247]
Farei un volume di queste prodezze de’ preposti, se non mi annoiassero, e se non temessi di annoiare chi ha la pazienza di leggermi.
Ne terminerò la serie con un’arnia modello, regalo d’un illustre professore. Credete voi, che per esplorare il gran contrabbando, contenuto nell’arnia, di cui tutte le parti erano connesse a vite, abbiano voluto, quei comodi signori, servirsi d’un giravite per non guastarla?—Oibò! con uno scalpello han fatto a pezzi il coperchio per farlo saltare, o forse con una mannaia.
In quindici anni ch’io sono in quest’isola, io non conosco un solo arresto di contrabbando importante fatto da questi finanzieri; anzi, corre voce che un po’ di contrabbando lo faccian essi stessi, e si dice di peggio ancora.
E quando si considera tanta povera gente, sottoposta a tasse d’ogni specie, per mantenere grassamente codeste camorre di fannulloni, è roba da dar i brividi.
I Borboni di Napoli, maestri anch’essi di ogni specie di camorra, ne proteggevano una, e la stimolavano al loro servizio con ogni specie di favori, concessioni e soldi. Camorra, veramente di genere particolare, che contava come membri i più grandi scellerati del regno.
L’origine di quest’associazione di malfattori, proveniva dalle prigioni. I più forti tra i prigionieri imponevano una tassa ai nuovi arrivati, e la imponevano colla minaccia di busse, e qualche volta anche di coltello.[248]
Il nuovo arrivato, generalmente solo, e quindi più debole, non solo era obbligato di pagare la tassa imposta, dovea pur far parte di codesta bella e reale associazione.
Dalle prigioni l’associazione si estese nelle bettole, nei postriboli, nelle osterie, nell’esercito, nella grande metropoli, e finalmente in tutto il felice regno. Felice! poteva chiamarsi, giacchè con tutti i vizi di cui era incancrenito il suo governo, occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi[50], occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia.—Giù il cappello però, esse, le cime, hanno fatto l’Italia, ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba.
La camorra divenne una potenza, ed il Governo di Napoli, codardo come quello dei preti che patteggiava con briganti, patteggiò colla camorra, e dalla stessa estraeva le spie più astute e pratiche, ed i sicari più sicuri, quando per ragione di Stato, dovevasi por fine all’esistenza di un individuo.
Il consorzio, l’appoggio del governo, e la sua ingerenza sull’esercito, la fecero potente non solo, ma per la Dinastia borbonica la camorra diventò una vera e terribile guardia pretoriana. Composti però i camorristi della feccia inferiore del popolo, e per la maggioranza pasto da preti,[249] essi abborrivano noi, rappresentati dal clero come eretici; ma più di noi, i piemontesi, cioè coloro che dipendevano direttamente dalla monarchia sabauda, tutta gente non popolo, come noi. E tale odio inveterato menomò forse il danno che la camorra avrebbe potuto fare all’esercito meridionale.
Dopo la ritirata di Francesco II il 6 settembre, e quella dell’esercito Borbonico da Napoli, la fiducia principale dei Sanfedisti, nella capitale, fondavasi sulla camorra, ed il maggiore Fior di Bacco su questa faceva assegnamento.
Nelle carceri di S. Elmo esistevano varii dei caporioni dell’ordine e fra loro il più formidabile era un calabrese nominato Tifone, che avea fatto parte della banda brigantesca di Talarico, nella quale avea servito come cappellano, circostanza non straordinaria, essendo i preti gli eccitatori ed i compagni dei camorristi e dei briganti.
Avendo lasciato Corvo, Fior di Bacco avea fatto una visita in cantina, ove per costume di questi venditori dell’anima alla pancia, facea d’uopo rifocillarsi con buoni bocconi e con un boccale di quello che pittura la guancia a musi più pallidi di quello del nostro maggiore, per affrontare imprese difficili. Ora, essendo la barca in zavorra, si poteva, come egli diceva, affrontare qualunque tempesta, e difilato, si recò negli appartamenti di Tifone.
Avranno osservato i miei lettori, non esser il mio forte le descrizioni, e quando avrò descritto il nauseante abituro d’un condannato, essi non[250] ne saran contenti. È vero, che Tifone, freschissimo d’omicidio, era però uno dei paladini della camorra, e come tale dal 2º Comandante del forte S. Elmo, trattato coi guanti bianchi, ed alloggiato in sito abitabile.
«Tifone» cominciava il maggiore al camorrista fatto condurre in un gabinetto segreto del forte «hai già sofferto abbastanza di prigionia per una misera pugnalata somministrata a quello stupido di Gambardella[51] che ci tradiva assumendo l’aria di liberale. Per me, sei libero! (e dopo alcuna pausa) e ti permetterò di andare in città quando vorrai, anzi io stesso t’invierò in missione importante».
«Gnor sì» rispondeva il masnadiero al comandante, fissandolo in viso, mentre questo da parte sua scrutinava pure la sinistra fisonomia del primo per scoprirne l’effetto delle sue parole.
«Gnor sì.—E V. S. sa quanto io son devoto alla causa sacrosanta del re e della chiesa: soltanto la prevengo di farmi restituire il ferro che mi tolsero quando mi condussero qui».
«Non solo ti farò restituire il ferro, replicò Fior di Bacco, ma ti darò molti mezzi onde poter adempire colla tua solita solerzia la delicata impresa che voglio affidarti. Ti raccomando soltanto, essendo fresco il tuo omicidio, di non comparire di giorno per le strade.—Mangiare, bere[251] e dormire di giorno, per poter circolare poi tutta la notte.
«Devi dunque sapere, che il nostro esercito, forte di cinquantamila uomini, dopo d’aver debellato gli scomunicati a Caiazzo, padrone di Capua, e di tutta la sponda destra del Volturno, si dispone ad attaccare quei pochi miserabili che restano da questa parte.
«Il re in persona sai, comanda l’esercito nostro, e con lui vi sono tutti i principi, la casa reale, ed i più famigerati de’ nostri generali».
Tifone, che come prete, non era poi tanto stupido, rimase soddisfatto dei cinquantamila soldati, piuttosto di buona truppa, non così dei famigerati generali, dei principi, della casa reale, ecc., tutta gente più assuefatta all’espugnazione d’un paté trufé, che a quella dei nemici della monarchia.
«La vittoria è quindi sicura» continuò Fior di Bacco, «ma noi, capisci bene, non vogliamo starcene colle mani alla cintola, mentre pugnano per la salvezza della patria tanti nostri valorosi!».
Questo discorso di Fior di Bacco—eccitato dal cordiale con cui egli avea inaffiato la sua merenda con profusione—era pronunciato con tanta energia, come se fosse stato un bullo davvero.—E colla testa alta, quadrando le poderose spalle, sguainò a metà la terribile scimitarra, con cui si compiaceva di spaventare i sorci della sua stanza, anch’essi dilettanti delle fortezze[252] e carceri, e poi lasciolla cadere rumorosamente nel fodero di metallo.
Tanto entusiasmo non potea mancare di eccitare l’anima più esaltata d’assai del brigante, e dopo d’aver contemplato in estasi la fisionomia illuminata del vecchio soldato, il figlio dei Vulcani esclamò più impetuosamente del primo:
«Vergine santissima! basta! inviatemi, e per S. Gennaro, questo mio ferro (che gli era stato restituito dal maggiore) somiglierà la spada di fuoco con cui l’arcangelo percuoteva i condannati da Dio!».
«Bene così» ripigliava il maggiore, «ma conviene che tu m’ascolti sul da farsi prima di far giocare il ferro».
Soddisfatto di sè stesso, e pettoruto per l’effetto prodotto dal proprio eloquente discorso, Fior di Bacco, dopo d’aver dato un’occhiata intorno la stanza, e prestato l’orecchio al famigliare rumore dei topi, che riconobbe non esser di gente, dopo d’aver famigliarmente posta la mano sul braccio di Tifone, e con dolce violenza trascinatolo lontano dalla porta, continuò con voce più sommessa:
«Le buone notizie a te comunicate e la prossima vittoria del nostro esercito, tu devi annunziarle a tutti i nostri nella città, nei principali centri della camorra, che ben conosci, in tutti i conventi e in tutte le chiese, che lì non puoi sbagliare, e finalmente devi adoperarti perchè[253] tutti propaghino in Napoli e nelle provincie il grande evento».
L’occhio di tigre del brigante, fisso in Fior di Bacco, ed un profondo inchino del capo, furono la più eloquente delle risposte, ed il maggiore era sicuro di poter contare sul formidabile calabrese.
[50] Si sa quanto solerte era il Governo borbonico per far mangiar a buon mercato il pane ed i maccheroni.
[51] Gambardella fa pugnalato dalla camorra poco dopo la nostra entrata in Napoli. Era un pescivendolo, eccellente popolano.
Il fiero e grandissimo Astigiano tali epiteti infliggeva alla sua casta, quando sdegnoso ed irato ai patrii numi. E veramente le eccezioni sono poche, e sventuratamente sempre vediamo servir di cariatidi al dispotismo, sotto qualunque forma, i titolati antichi e moderni.
Giorgio Pallavicino Trivulzio è un’onorevole eccezione però, alla regola; e quando l’Italia, scevra da certe miserie, che la tribolano anche al dì d’oggi, farà l’enumerazione de’ suoi martiri più benemeriti, certo non conterà fra gli ultimi il nome del nostro Giorgio.
Rinchiuso nello Spielberg dall’Austria per quattordici anni, col solo delitto d’aver amato la libertà del suo paese, egli s’è mantenuto incrollabile ne’ suoi principii di libertà ed unità nazionale.[255]
A Pallavicino e a Manin, più che ad altri, si deve certamente l’avvicinamento della Monarchia ai Repubblicani d’Italia. Fatto importante per le sorti del nostro paese, e che comunque si dica, ha prodotto, se non la libertà, certo la quasi unificazione nazionale, primo bisogno della penisola.
Fatto importante, coadiuvato veramente da felici combinazioni, ma che non tolgono all’Italia, anche con meschinissimi reggitori, di scuotere l’antica sua cervice sovrana, e far intendere a certi suoi insolenti detrattori, che questa non è poi la terra dei morti, e della gente che non si batte.
Dovendo conciliare principii diametralmente opposti, essi dovettero certamente accarezzare una parte e l’altra, e ne avvenne, com’è naturale, sembrar dessi troppo repubblicani ai monarchici, e viceversa ai repubblicani.
Ripeto: quando l’Italia sarà guarita da certe miserie, essa ricorderà gli eminenti servigi di quei suoi grandi.
Pallavicino era prodittatore a Napoli ne’ tempi da noi descritti. Egli è pieno di capacità politica ed amministrativa, ma come succede generalmente alla gente onesta, era poco diffidente.—Conosceva l’esistenza della camorra, vi aveva mandato i segugi della polizia locale a vigilarla, ma era lontano d’aver delle informazioni esatte sulla terribile associazione, essendovi affiliati molti dei poliziotti;—e quindi egli stesso era la prima vittima designata al pugnale dei vendicatori,[256] come si chiamavano allora i sostenitori dell’altare e del trono.
L’assassinio del Gambardella, virtuoso popolano, e d’alcuni altri plebei di parte nostra, era stato un saggio, o piuttosto una prova di ferri, che doveva continuare dal basso all’alto, e finire poi coll’eccidio generale nel giorno del giudizio, come lo chiamavano i preti, cioè nel giorno della vaticinata vittoria.
Spinte le cose dalle impazienze monarchiche, insofferenti di stare a bocca asciutta davanti alla splendida preda, quale è la ricca Partenope, i sabaudi si misero a vociferare annessione, e mi obbligarono quindi, come già accennai, a lasciare l’esercito sulla sponda sinistra del Volturno in presenza d’un esercito superiore, ed alla vigilia d’una battaglia, per recarmi a Palermo, ove il popolo, messo su da’ cagnotti cavouriani, voleva anch’esso annessione, ed in conseguenza cessazione della brillante campagna da parte nostra, per lasciar fare a chi tocca.
Come miglior partito, e più breve, io mi decisi d’imbarcarmi per Palermo, ove non mi fu difficile persuadere quel bravo popolo, non esser giunto il tempo di parlare d’annessione, ma bensì di proseguir l’opera di unificazione nazionale, anche sino alla città eterna, se possibile. I figli del Vespro m’intesero subito, ed in pochi giorni io potei essere di ritorno all’esercito.
Comunque, la mia breve assenza avea stimolato i reazionari della Metropoli Napoletana, e[257] senza l’attività del Pallavicino e del generale Türr, che in quei giorni facea da capo di polizia, non so come sarebbero andate le cose.
Era nella seconda quindicina di settembre; la brezza del mare avea soffiato tutto il giorno, e rinfrescata l’atmosfera.
La popolazione della grande città inondava, per prendere il fresco verso sera, tutti i dintorni della stessa, ed una circolazione straordinaria di carrozze e pedoni stipava una delle vie secondarie, che dal centro di Napoli guidano verso la stazione di Caserta. In quella via piuttosto angusta, e già quasi per uscirne ed abbordare la stazione della via ferrata a destra andando trovasi uno di quei bugigatti di meschinissima apparenza, ma in sostanza molto importante, come vedremo procedendo. Lunga e stretta la stanza terrena, avea piuttosto l’aria d’un corridoio che d’un appartamento d’albergo. Due lunghissime panche e strettissime tavole, erano il solo adornamento del sudicio locale, e tali suppellettili lasciavano un passaggio strettissimo nel mezzo. A destra e a sinistra entrando, per compir l’apparato di casa, trovavansi due cucine ambulanti, ove due untissime donne stavano eternamente occupate a friggere, ciò che provava esser numerosi gli avventori.
Circa all’antichità poi dell’osteria della Bella Giovanna, si raccontava con orgoglio dagli odierni tenitori (discendenti dagli antichi), che la vigilia della famosa rivoluzione napoletana contro la dominazione[258] spagnuola, il prode Masaniello colla sua schiera di coraggiosi pescatori Partenopei, avea mangiato le triglie fritte, e che fra tutti avean vuotato due grandi fusti di lacrimacristi, e due barili di Falerno.—Pare in quel tempo facessero miglior vita dei moderni, quei pescatori, giacchè oggi, essi pescano bensì le triglie, ma mangiano generalmente gattuzzi.
Nel fondo della stanza-osteria, sedeva dietro un banco guernito d’ogni ben di Dio, alla distanza di circa tre metri dall’entrata, la dea titolare del tempio, giacchè questo dal di lei nome e da quello d’una sua nonna, nomavasi col modesto titolo di Osteria della Bella Giovanna, e dagli avanzi rispettati da trentacinque anni compiti, potevasi congetturare esser stata la Giovanna a vent’anni un boccone plebeo sì, ma sempre un bel boccone e da preti. Speriamo tale denominazione sarà presto posta tra le anticaglie dal buon senso de’ miei concittadini: non più bocconi da prete. Essa però avea cominciato ad impinguare troppo, sia per la vita sedentaria, sia forse per soddisfazioni e contentezze d’una esistenza fuori dei trambusti e delle avventure.
Giovanna era gentile con tutti, e dovea esserlo facendo l’ostessa; comunque, la sua riputazione di sobrietà e di pudicizia era incontestata. Il 7 settembre però, colla cacciata dei Borboni, avea cacciato pure la pace dall’anima della nostra ostessa, e l’entrata dei rompicolli avea marcato un’era nuova nei sentimenti sin ora invariabili della bella Giovanna.[259]
Un furbaccione, ma proprio dei bulli della compagnia o battaglione dei Carabinieri Genovesi, col pretesto di andare a mangiar le trippe dalla bella Giovanna, era pervenuto a destare un vesuvio d’affetti in quel cuore fino allora inespugnato.
Per fortuna della Giovanna, Bajaicò non era un depravato, e corrispondeva santamente alla bella innamorata.
Nel fondo del fondaco che non abbiam finito di descrivere, innalzavasi il tempio di Giovanna, e potevasi chiamare realmente così, poichè era il solo punto nel locale che meritasse di fermar l’occhio, sia per l’avvenenza dell’ostessa sempre pulita e risplendente d’abiti a colori simpatici, sia per la profusione di frittelle, pesci fritti e tanti altri manicaretti, che se non erano teoricamente e francesemente preparati, potevano, senza rischio di essere rifiutati, presentarsi a qualunque palato; massime poi dacchè la nostra Giovanna era innamorata cotta di Bajaicò, il suo abbigliamento era più accurato, il banco più adorno e più pulito ancora, ed una vera profusione di fiori completava il gastronomico altaretto della nostra buona e bella popolana.—Ed a me, plebeo sino alla midolla delle ossa, solletica cotale semplice ma fervido innamoramento, ove l’amore presiede generalmente più sincero che nelle regioni principesche.
Due lampade, una a destra e l’altra a sinistra del tempietto, quasi eternamente accese, per l’oscurità[260] del locale anche in pieno meriggio, indicavano l’entrata d’altri due corridoi, conducenti nell’interno; e quell’interno era veramente la parte più importante dello stabilimento.—Congiungevansi i due corridoi laterali in un sotterraneo spaziosissimo, capace di contenere migliaia di persone, e tale sotterraneo era adorno di tavole, sedie e panche, e lateralmente di una ragguardevole quantità di fusti, pieni di vino, acquavita e bibite d’ogni specie.
Due robusti giovani, fratelli di Giovanna, avean la vigilanza dell’interno, e distribuivano, aiutati da garzoni, ogni cosa richiesta dagli avventori.
Osteria della bella Giovanna, sì! E perchè non potrei narrare anche delle osterie?
Alcuni diranno: ma potevi, stupido che sei, adornare il tuo lavoro con alcuno di quei titoli alto sonanti che di più solleticano gli oziosi e le oziose, giacchè confesserai, esser quella la sola gente che può leggerti, e non coloro che abbiano occupazioni. Per esempio: Grand Hôtel des princes, Grand Hôtel des empereurs! come si vede in tutti i canti della tua cara Nizza.—O almeno Albergo non fosse altro: del Leon d’oro o del Tigre d’argento, titoli che soli bastano a riempire lo stomaco sino all’indigestione. Ma osteria! oibò! si vede bene che sei un ex-Dittatore, proletario sino alle ugne.—Eppure, malgrado le opinioni contrarie, io tornerò all’osteria della bella Giovanna che palpita d’amore[262] per quel battuso di Bajaicò, uno dei più originali tipi dei Mille, e nello stesso tempo dei più valorosi, ed i nostri lettori vedranno se ambi i miei protagonisti sieno indegni di menzione.
Nel sotterraneo a volte, che avea servito forse a Masaniello per riunirvi ed arringare i suoi bravi pescatori, forse in tempi non lontani ai carbonari, per ordire la trama che nel 21 dovea rovesciare il borbonismo, in quel sotterraneo riunivansi abitualmente centinaia dei caporioni della camorra, e com’è naturale, ai tempi andati, ove si trattava nientemeno che di annientare gli scomunicati rompicolli, le adunanze camorriste erano eseguite spesso, ma nel più profondo segreto, e nessun profano sotto qualunque titolo poteva assistere alle importanti riunioni.
Ad un tavolo, nella parte più remota del sotterraneo, sedevano una dozzina dei più robusti avventori. Un potente doglio collocato nel centro d’un tavolo, e questo ben guernito di bicchieri pieni o da riempire, attestavano non voler gli astanti conversare a bocca asciutta.
I fumi del vino e l’atmosfera calda del locale, perchè poco aerato, facean gradito ai nerboruti interlocutori, lo starsene in maniche di camicia, e anche colle maniche rialzate sino all’ascella: licenze non vietate nel locale, veramente plebeo, e che servivano pure a facilitare una partita alla morra, ciocchè si eseguiva spesso, anche per nascondere alla moltitudine, sotto il manto del divertimento alcuna deliberazione importante. La[263] terribile setta della camorra non ammetteva indugi. Potevasi, per esempio, giungere al banco della bella Giovanna, essendo profani, bevervi o mangiare qualche cosa seduti sulle panche e tavole esterne di cui già narrammo, ma per penetrare nella catacomba camorrista, nelle ore delle conferenze, dovevasi essere iniziati, o morire. E molte atrocità eransi commesse verso imprudenti che, contro il divieto delle sentinelle, volevano internarsi.
Conchiudiamo dunque: che camorristi erano i due fratelli di Giovanna e camorrista essa stessa (per poter vivere), dicevano, ma in sostanza trascinati in quella cloaca, dalla fatalità dei tempi, e massime, da pessimi governi, che sembrano scaturire apposta dall’inferno per la sventura d’una delle più belle regioni del mondo.
«Una volta eravamo tredici come gli apostoli» esclamò Tifone agli undici compagni, «e noi siamo stati ingannati da Cristo divenuto Giuda, poichè Talarico, il traditore, facea le funzioni di redentore tra di noi. Ed ora quel miserabile si è dato anima e corpo a questi eretici rompicolli». «Non te n’incaricare» rispondeva Agnello al capitano della camorra «un traditore, è meglio per noi si sia allontanato—la causa del re nostro e della Religione trionferà senza Talarico». «Manaccia!» ripigliava il focoso calabrese «avrei voluto almeno che quell’uomo non fosse della terra mia.—Eppure era valoroso come un demonio quel figlio d’Aspromonte. E non sono favole,[264] tutti noi l’abbiamo veduto all’opera, quando si trattava di menar le mani davvero». Queste ultime parole furono dirette ad un nuovo venuto che con aria di famigliarità e comando erasi avvicinato al tavolo dei dodici.
«Lasciamo da parte le lamentazioni» sorgeva a dire quel tale da noi conosciuto, «e pensiamo al serio, pensiamo che fra pochi giorni il re nostro attaccherà ed annienterà questa masnada di malviventi, che perciò bisogna tenersi pronti, non solo, ma operare una diversione qui in Napoli, che obblighi il capo degli avventurieri a distrarre una parte delle sue forze, per facilitare l’impresa del nostro esercito».
Chi avea articolato tali assennati propositi, altro non era che il Monsignor Corvo, sotto le umili vesti d’un bazzaccone. Il gesuita era maestro nell’arte di mascherarsi, e vero proteo o camaleonte, le sue trasformazioni eran ben fatte, fatte a tempo ed a proposito, ed il Sanfedismo non avea certo un altro che fosse sì attivo, sì idoneo e di tanta capacità. I talenti di tal uomo, sarebbero stati un vero tesoro, se applicati alla causa della giustizia.
Comunque, tra i rozzi capi della camorra, l’eloquente ed energica osservazione del prete ottenne quell’ascendenza incontestabile che tanto lo avea distinto in ogni circostanza.
«Dice bene il nostro amico» riprese ardentemente Tifone, cui era preferibile un’azione immediata. «E manaccia! questa notte stessa bisogna[265] operare qualche colpo a pro della religione santissima e del re nostro—io lo giuro!» E così gridando trasse fuori la daga, diè col pugno un fortissimo colpo sul tavolo, che fu seguito da una simile dimostrazione dei compagni, per cui doglio, bicchieri e quanto trovavasi sulla tavola, andarono rotolando sul sudicio selciato del sotterraneo.
La fervida manifestazione dei capi naturalmente mise in sussulto tutta la comitiva, ed in un momento, centinaia di daghe brillarono nel chiaro-scuro dello speco, accennando esser tutti pronti agli ordini dei capi.
Corvo contemplò con compiacenza la focosa risoluzione dei soldati della fede, e montando sopra una sedia, volto alla folla, fece intendere le seguenti parole: «Che Dio vi benedica, figliuoli! e che vi conduca per la mano allo sterminio de’ suoi nemici! bruciate, svenate, uccidete! annientate sino i neonati di quegli eretici perversi, che mettono la mano sacrilega su tutto ciò che vi è di più santo, che vogliono strappare ad uno ad uno i capelli santi del venerando Dio in terra che siede in Vaticano; che commettono le loro orgie nella chiesa della beatissima Maria, e che condiscono l’insalata coll’olio santissimo! a loro maledizione! maledizione! Amen». E tutti in coro risposero: «Amen! amen! amen!»—Ecco il prete! Eccolo col suo ascendente sulle moltitudini ignoranti su cui le parole: Gloria di Dio! gloria del paradiso! che non comprendono[266] e che non sanno esser votissime di senso, fanno un effetto magico!—Poi: bruciate, svenate, uccidete per la maggior gloria di Dio, e sarete ricompensati colla felicità eterna? Che morale! che scuola! E stupiremo di veder commettere ogni nefandezza, ai briganti, che altro non sono se non docili alunni dell’impostura!
Volto a Tifone, il gesuita disse finalmente:
«Amico mio, con uomini di tal fatta si può tentar qualunque impresa. Incaricatevi con questi vostri bravi della pro-dittatura, e particolarmente del capo; io vado subito ad avvisare i nostri che corrispondano degnamente alla grande opera».
Così dicendo, accomiatossi l’astuto, incamminandosi nell’interno ed uscendo per porta segreta.—Tifone, dopo d’aver accompagnato Corvo collo sguardo, dirigendosi a’ suoi disse:
«Ora a noi, compagni, non si dica che siam millantatori, ma uomini d’azione, e peran sotto le nostre daghe, come perì quel perverso di Gambardella, quanti scomunicati si trovano in Napoli e nel regno».
Egli poi diè ordini ai capi di riunire le loro sezioni, ed impartì ordini precisi da far invidia ad un generale d’armata.
Eran circa le 10 pomeridiane, quando il sotterraneo della bella Giovanna presentava l’aspetto d’un campo militare, pronto a muoversi per dar battaglia al nemico.—Era uno spettacolo imponente: quelle centinaia di figli del popolo pronti[267] ad assaltare e sterminare, se possibile, i loro fratelli non solo, ma coloro che per il popolo davano volenterosi la vita, coloro che venuti da lontano, avean superato le insidie della tirannide, e mille disagi e pericoli sui campi di battaglia. Che importa! i preti han detto loro che i Mille erano eretici, nemici del re, della religione e scomunicati dal Santo Padre, e quindi la gloria del paradiso era assicurata a chi li sgozzava, li bruciava, li sterminava.
Eran tutte fisonomie abbronzate, robuste, quei popolani, lavoratori d’ogni professione, uomini che educati convenientemente e stimolati dall’amor di patria, della nostra patria, non di quella vana e bugiarda dei negromanti, avrebbero potuto servir eroicamente l’Italia contro lo straniero insolente e sottrarla dal fango e dall’abbrutimento ove la tengono i preti ed i reggitori.
Oggi eran camorra la più sudicia, la più indecente delle società umane, pronta a tuffarsi nel sangue e nei più orribili delitti, colla coscienza d’esser perdonati non solo, ma ricompensati colla felicità eterna! «Pronti!» risposero tutti all’interpellanza del capo; e già la massa degli armati di daga movevasi verso l’interno della catacomba. Un rumore però che si fece all’entrata d’uno dei corridoi, fermò la marcia ed eccitò da quella parte l’attenzione della comitiva.—Ed eccone la ragione.
Bajaicò, che già conosciamo come amante della[268] bella Giovanna, era un bravo giovane e valorosissimo—non apparteneva però alla società di temperanza, o se vi apparteneva n’era sovente un trasgressore;—ed in quella sera essendosi fermato più del solito presso al banco della sua Giovanna, vi aveva alzato il gomito oltremodo.
Padrone del cuore della padrona, il nostro Bajaicò si credè nel diritto di passeggiare il locale tutto, e ad onta delle ammonizioni e preghiere della Giovanna che cercava con varii pretesti di allontanarlo dal proposito d’internarsi, il focoso discendente di Balilla avventurossi nell’andito del corridoio di destra, ove fu fermato dalla sentinella. Peggio, allora, giacchè se aveva poca voglia di andare avanti, senza opposizione, ora glie ne nacque moltissima, impedito materialmente e bruscamente dalla sentinella nel suo disegno.
L’atto primo di Bajaicò, trattenuto con poco garbo da un individuo qualunque, senza distintivi, fu di mandarlo gambe all’aria con un pugno, ciocchè egli eseguì con facilità essendo svelto, nerboruto ed audace;—ma in un momento egli venne attorniato da molti e condotto in presenza di Tifone.—Il suo processo fu presto finito e la sua sorte decisa.—Un’occhiata del capo bastò per condannarlo, legato colle mani addietro, e condurlo nell’interno per esservi immediatamente sacrificato.
In questo il giudizio di Tifone somigliava a quello d’un vecchio romano che, consultato sul[269] da farsi con molti prigionieri nemici che ingombravano il campo, mentre questo stava per essere attaccato, rispose: «Ammazzateli!»
È cotesto anche uno dei tanti spedienti che i monarchi ed i loro satelliti adoperano in quel bel loro passatempo di stragi che si chiama guerra. Tali furono i procedimenti degli Hainau, dei Villata, dei Bazaine che, senza trovarsi spinti dall’eccidio, da terribile necessità d’una posizione arrischiata, massacrarono i Bresciani, i volontari a Fantina, ed il signor Bazaine, il nostro generale Ghilardi, prode difensore di Roma, al Messico mentre era ferito. Ed Ugo Bassi dai preti austriaci! E Ciceruacchio con due figli e sei compagni da un principe di casa d’Austria! E le migliaia di vittime d’un popolo generoso, immolate alla paura di quel saltimbanco politico, mascherato da repubblicano, che il giornalismo salariato chiama salvatore della Francia!—E perchè trovan strano allora che pochi briganti si sbarazzino d’un individuo che, lasciato libero, avrebbe certamente svelato il loro ricovero?—Orribile misura di quella giostra fatale che si chiama guerra—orribilissima quando eseguita in dettaglio, ma che quando, per esempio, si tratta d’un’ecatombe di milioni, allora diventa gloriosa, fruttando alla prosperità, all’onor nazionale, e sopratutto all’onor delle aquile o delle bandiere!
Era bell’e spacciato il nostro Bajaicò, ed i Mille perdevano uno dei migliori militi; ma la provvidenza—non so se fosse la stessa provvidenza invocata[270] da Guglielmo di Prussia quando col compagno Bonaparte mandavano al macello Tedeschi e Francesi—oppure la provvidenza del papa-re quando facea decapitare i liberali e cercava di vendere l’Italia anche al diavolo se la pagava meglio degli altri—la provvidenza nol volle.
Comunque, solo la provvidenza potea salvare il nostro bellicoso ligure dalle unghie della camorra, e tale provvidenza si presentò sotto le forme dell’avvenente Giovanna.—Giovanna poco o nulla immischiavasi nelle faccende interne del suo stabilimento; non ostante essa non ignorava tutti gli orribili misteri di quell’antro, e bisogna confessare ad onor suo e dei fratelli che l’informavano d’ogni cosa, ch’essi tutti avean ribrezzo delle atrocità che si commettevano sì vicino a loro, e che cercavano in ogni modo di allontanarsi da quel nido di demoni.
Non era però così facile. Essi avean bensì acquistato qualche cosa col loro negozio, ma quel qualche cosa sovente abbisognava alla tirannica e scellerata associazione, dimodochè la maggior parte delle loro economie trovavasi sempre in potere dei camorristi, che rendevano così ben difficile l’allontanamento di Giovanna e dei fratelli. Tali procedimenti da parte della camorra entravan forse nella di lei politica per non lasciar liberi e sciolti da ogni impegno con loro individui che potevano nuocerla.
Sinora era dunque stato affare d’interesse per Giovanna di mantenersi inoffensiva a cotesta società[271] di masnadieri, ma oggi trattavasi d’affare del cuore, ben altro affare, e qui tutto il brio della donna concentrossi in quell’anima meridionale. E «pera il mondo» essa disse «ma si salvi il mio Bajaicò!»
Inutile essa ben sapeva la propria intercessione, presso i selvaggi frequentatori del sotterraneo, e sapeva pure che poco tempo passerebbe tra l’arresto ed il sacrificio. Quindi, battendo dei piedi sulla banchina che le serviva di marciapiede, Giovanna lanciossi come una furia fuori della porta sulla via coll’intenzione di gridare al soccorso alla folla dei transitanti.—La fortuna favorì la pia oltre le sue speranze. Il Prodittatore di Napoli avea avuto sentore delle trame borbonico-clericali, giacchè in quei giorni i reazionari, quasi sicuri della vittoria promessa dal re e dal cielo, millantavano in pubblico le loro gesta future con molta boria, e pattuglie dei nostri comandate da ufficiali di fiducia percorrevano i punti della capitale ove maggiore si manifestava il pericolo. La nostra Giovanna ebbe dunque la sorte di trovare subito una pattuglia dei Mille che passava per la contrada, comandata dal prode Vigo Pelizzari, uno dei più distinti ufficiali della prima spedizione e conosciuto dalla Giovanna.
«Per amor di Dio! comandante, venite presto per salvar uno dei nostri!»
Vi era tanta eloquenza in quelle brevi parole e nell’occhio corvino della bella figlia di Partenope, che Vigo gettò la mano sull’elsa, sfoderò[272] la sciabola e precipitossi sulle tracce dell’interessante donna, seguíto dai suoi militi di Marsala, svelti come caprioli.
Entrare, percorrere la prima stanza e gettarsi pei corridoi, fu un attimo. E n’era tempo;—e al chiarore d’una lampada che illuminava un angolo del sotterraneo, scorgevansi tre uomini nerboruti che colle daghe nella destra, e sollevate sul loro capo, stavan per lasciarle cadere sul collo d’un inginocchiato, colle mani legate dietro il dorso ed assicurato con corde ad una colonna di legno che sembrava collocata apposta per tale ufficio e che veramente dai camorristi era chiamata colonna d’Abramo.—Un frate avea l’aria d’assistere il condannato, e la vita di Bajaicò fu veramente dovuta a cotesto servo di Dio, che per la prima volta in sua vita commise una buona azione, senza volerlo però. Comunque, le solite raccomandazioni cattoliche ai moribondi questa volta salvarono la vita d’un prode. Rotando la formidabile scimitarra, Vigo si aprì un varco verso la scena di morte, e come un’onda incalzante seguivanlo i fieri militi di Melazzo e di Reggio, rovesciando a destra e a sinistra i soldati del sanfedismo, a furia di baionettate e colpi di calci di fucili.—Tardi però sarebbe giunto il soccorso senza la risoluzione impavida del nostro superbo ligure.
Egli s’era creduto spacciato, quando s’accorse che nessuno degli astanti poteva essergli amico, ma siccome l’ultima dea, la Speranza, lusinga[273] sino all’ultimo sospiro, Bajaicò avea allungata la preghiera prescrittagli dal frate, non so se il pater noster, quanto avea potuto, e ne borbottava le ultime parole, quando il rumore della imminente tempesta ferì il suo orecchio, e Dio sa se piacevolmente. Presentendo soccorso dagli amici, valoroso sempre, egli fece uno sforzo supremo, che valse parte ad infrangere e parte a sciogliere i legami con cui lo avevano avvinto. Inerme come era, abbrancossi ai suoi carnefici, che armati cercavano di trafiggerlo in ogni senso.—Il suo sangue correva a ruscelli senza scemare il coraggio della difesa.—Egli pugnava, lottava disperatamente; si sa però, qual poteva essere il risultato del conflitto tra un solo inerme e tanti armati.—Il più robusto dei carnefici avea alzata la daga sulla testa dell’eroico ed infelice Bajaicò—se il ferro cadeva, era finita, ma un manrovescio di sciabola del prode ufficiale di Calatafimi recise il braccio del camorrista e salvò la vita al compagno.
Il parapiglia che successe in quel sotterraneo lo lascio immaginare al lettore. Colpi di daga da una parte e baionettate dall’altra fulminavano in quel poco decente recinto, ma presto la bravura dei figli della libertà ebbe posto in fuga i masnadieri.
L’inconveniente però era nell’andito per cui dovevano uscire i perseguiti, che si trovava angusto ed affollato da’ più codardi che avean procurato di preceder i compagni, cosicchè molti[274] furono i morti dei camorristi, molti i feriti e i prigionieri da porsi in mano della giustizia.
Giovanna, nella sua vita non avea mai sognato di possedere tanto coraggio quanto ne dimostrò in quella sera. Essa dopo d’aver avvisato Vigo del pericolo del suo Bajaicò, non lo lasciò più d’un passo, ed il martire di Mentana[52] sotto la di lei guida, potè giungere sul luogo del supplizio colla celerità indispensabile.—Bajaicò, ferito come era e grondante sangue, fece strage dei camorristi, e l’amante gentile andava superba di aver salvata la vita all’uomo del suo cuore.
Il rovescio toccato alla camorra e quindi ai borboni clericali nell’osteria della bella Giovanna, sventò la grande congiura della parte a noi avversa in Napoli e salvò forse la causa d’Italia, già compromessa in alcuni piccoli insuccessi da parte nostra, e dalla sorda guerra e sleale che non cessavano di farci gli aspiranti ai favori della monarchia sabauda.
Invano erasi adoperato monsignor Corvo in tutti i conventi e chiese per mantenere il fuoco sacro, come diceva lui, e per tentare nuove prove.—Invano!...
La gloria del paradiso predicata alle carogne da preti e frati solleticava poco i grassi prebendari. Trovandosi essi al pericolo della pancia, accresciuto[275] dal fatto della bella Giovanna, si rannicchiavano i polputi, e molti pubblicamente millantavano liberalismo, anche repubblicanismo e socialismo, se si voleva.
«Ma io non m’immischio di politica» dicevano i meno birbanti «così ci ammonisce Madre Chiesa.—Poi, date a Cesare ciò che è di Cesare, ed i sacerdoti del Signore, lo sapete, devono predicare fratellanza tra gli uomini, non attizzarli, stimolarli alla distruzione».
Alcuni di questi neri semi di Dio accusarono di camorrismo certi uomini onesti con cui avean gare personali.
«La sorte vuol proprio favorire questi rompicolli indemoniati» diceva tra sè Corvo mentre incamminavasi fuori di Napoli ad altre imprese, nulla più sperando sulla camorra sconquassata e sui grassi apostoli della cuccagna.
[52] Il maggiore Vigo Pelizzari, uno dei più brillanti ufficiali dei Mille, morto a Mentana nel 1867, giovane ancora, pugnando i mercenari di Bonaparte.
La guerra, vergogna dell’umanità, è fatta necessaria dalle monarchie e dai preti che sarebbero perduti, se gli uomini avessero il buon senso d’intendersi. Trovandosi però nella necessità di farla, ci vuol molto discernimento.
Obbligato di lasciare l’esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo per placare quel bravo e bollente popolo nell’esaltazione in cui l’avean spinto gli annessionisti, io aveva raccomandato al generale Sirtori, degno capo dello Stato maggiore dell’esercito meridionale, di lanciar delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.
Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea l’incarico immediato stimò opportuno di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti vittorie, non dubitò qualunque impresa esser eseguibile dai nostri prodi militi.
Fu decisa l’occupazione di Caiazzo, villaggio all’oriente di Capua, sulla sponda destra del Volturno. Tale posizione piuttosto difendibile naturalmente[277] e meglio con alcune opere, e la gente sufficiente per difenderla, distava dal grosso dell’esercito borbonico, accampato a levante di Capua, di poche miglia. Quell’esercito contava circa quaranta mila uomini, ed ingrossava ogni giorno. Per occupar Caiazzo si fece una dimostrazione sulla sponda sinistra del Volturno, ove si perdettero alcuni buoni militi nostri, massime per la superiorità delle carabine nemiche e per esser detta sponda dominata dalla destra ed i nostri allo scoperto.
Il 19 settembre ebbe luogo l’operazione: si occupò Caiazzo, ed io giunsi lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del sacrifizio dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo il costume loro intrepidamente sul nemico, sino sull’orlo del fiume, furon poi obbligati, non trovandovi riparo contro la grandine di palle nemiche, di retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle. Il giorno seguente, credo, il nemico inviò un forte nerbo di forze ad attaccare i nostri in Caiazzo, che in pochi, furono obbligati di evacuare, e ritirarsi precipitosamente verso la sinistra del Volturno, dopo d’essersi valorosamente battuti, ed aver perduto non pochi militi, morti, feriti, ed affogati nel fiume. L’operazione di Caiazzo fu più che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare, da parte di chi la comandava.—E serva quell’esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a studiare quella manía di macellar gli uomini, che si chiama arte della guerra.[278]
L’ordine mio, nel lasciar l’esercito, era di gettar delle bande sulle linee di comunicazione del nemico, non di prender posizione fissa a poche miglia dall’esercito borbonico, con un fiume come il Volturno fra mezzo agli occupatori poco numerosi di Caiazzo, ed i loro sostegni sulla sponda opposta.
Il valorosissimo colonnello Simonetta, che comandava sulla sponda sinistra del fiume, e che sostenne come potè la ritirata dei nostri vinti di Caiazzo, piangeva di disperazione al miserando spettacolo, giacchè i volontari non pratici dei passi del Volturno, e perseguiti da vicino dal nemico, furon obbligati di gettarsi nel fiume, senza scelta, e caddero in un sito rapido e vorticoso.
Intanto l’impresa infelice di Caiazzo imbaldanzì il nemico, demoralizzò la parte nostra, ci obbligò dall’offensiva passare alla difensiva, e fu per i borbonici un fortunato preludio della gran battaglia meditata, che sarebbe stata differita senza dubbio, e che per ciò ebbe luogo pochi giorni dopo, il 1º e 2 ottobre.
L’alba del 1º ottobre illuminava là nei piani della vecchia capitale della Campania, una truce mischia! Una battaglia fratricida!—È vero: dalla parte dei Borbonici, eran molti mercenari, bavaresi, svizzeri, e molti di que’ stranieri che da secoli sono assuefatti a considerare questa nostra Italia, come una villeggiatura od un lupanare. E cotesta ciurmaglia, sotto la guida e la benedizione del prete, ha sempre di preferenza sgozzato gl’Italiani, dal prete educati a piegare il ginocchio a tutti i malviventi della terra. Ma pur troppo la maggior parte dei combattenti alle falde del Tifate[53] erano figli di questa terra infelice, spinti a macellarsi reciprocamente: gli uni condotti da un giovane re, figlio del delitto;[280] gli altri propugnavano la causa santa del loro paese.
Da Annibale, vincitore delle superbe legioni di Roma, ai giorni nostri, le campagne Capuane non avevan certo veduto più fiero conflitto, ed il bifolco passando l’aratro in quelle ubertosissime zolle, urterà per molti secoli ancora nei teschi dalla rabbia umana seminati.
Tornato da Palermo, presi stanza a Caserta, e visitando ogni giorno Monte Sant’Angelo, da dove scorgevasi bene il campo dei nemici, a levante della città di Capua, e nei dintorni, dai loro movimenti sulla sponda destra del Volturno, che non potevan sfuggire al mio osservatorio del monte suddetto, e dalle loro disposizioni, io congetturai, essere i borbonici in preparativi d’una battaglia aggressiva.—Da parte nostra si fecero alcune opere di difesa a Maddaloni, a S. Angelo, e massime a S. Maria, alla sinistra nostra, e la più esposta per trovarsi in pianura, e senza ostacoli naturali.
La nostra linea di battaglia era difettosa; essa era troppo estesa da Maddaloni a S. Maria.—Il centro nemico che dovevasi considerare la sua massa più forte, era in Capua, da dove poteva sboccare a qualunque ora della notte, e sorprendere a circa tre miglia di distanza la nostra sinistra.
Sant’Angelo, centro della nostra linea, è posizione forte per natura, ma nella quale sarebbe stato necessario poter eseguire molte opere di difesa;[281] molta gente vi voleva per difenderne tutti gli accessi, e poi è dominata essa stessa dall’altissimo Tifate che la padroneggia, quando è quest’ultimo in mano del nemico, e che la isola dalle sue comunicazioni e sostegni indietro.
Maddaloni, posizione importantissima, e che dovevasi tenere con tutta la divisione Bixio, poichè passando il nemico nell’alto Volturno, e prendendo la via di Maddaloni per Napoli, sarebbe stato in poche ore nella capitale, lasciando l’esercito meridionale a destra sul Volturno Capuano.
Le riserve tenevansi in Caserta e non eran numerose certamente, dovendo occupare una linea più estesa.
Eravamo per di più obbligati di tenere alcuni corpi di concatenazione al fronte, per non permettere al nemico, più pratico assai di noi del paese, in cui avea un numero grande di fedeli, d’inoltrarsi tra le nostre ali.
Santa Maria, la più difettosa delle nostre posizioni, era stata occupata in ossequio di requisiti della popolazione, che avendo alcune velleità liberali alla ritirata del Borbone, ora tremava alla sola idea di rivedere i suoi antichi padroni.
Occupata S. Maria, bisognava occupare i siti a destra e sinistra che ne avrebbero facilitato l’ingresso, se in mano del nemico; dimodochè, ripeto, la nostra linea era difettosa, e consiglio ai miei giovani commilitoni, di non imitare la mia condiscendenza, quando si tratta d’una battaglia che può decidere delle sorti della nazione.[282]
Il difetto delle nostre posizioni e della linea nostra non mi lasciavan tranquillo, siccome i sintomi d’un’imminente battaglia a cui preparavasi l’esercito nemico più numeroso, più disciplinato e meglio fornito d’ogni cosa, del nostro.
Circa alle 3 antimeridiane del 1º ottobre, io saliva in via ferrata a Caserta, seguito da parte del mio quartier generale, e giungeva a S. Maria, prima dell’alba; montavo in carrozza per recarmi a S. Angelo, ed in quel momento, udivasi la fucilata verso la nostra sinistra.—Il generale Mielbitz, che comandava le forze ivi riunite, venne a me, e mi disse: «siamo attaccati verso S. Tammaro, e vado a vedere ciò che v’è di nuovo». Io ordinai al cocchiere di marciare con tutta velocità.—Il rumore delle fucilate ingrossava, e si estese, a poco a poco, su tutto il fronte sino a S. Angelo. Al primo albore, io giungeva sulla strada alla sinistra delle nostre forze del centro, già impegnate, e giungendo fui accolto da una grandine di palle nemiche.—Il mio cocchiere fu ucciso, e la carrozza crivellata; e con me, i miei aiutanti furono obbligati a discendere, e sguainar la sciabola.—Ma mi trovavo in mezzo ai Genovesi di Mosto, ed ai Lombardi di Simonetta.—Non fu quindi necessario di difenderci noi stessi; quei prodi militi, vedendoci in pericolo, caricarono i borbonici con tanto impeto, che li respinsero un buon pezzo distanti, e ci facilitarono la via verso S. Angelo.
L’addentrarsi del nemico nella nostra linea ed[283] alle spalle, movimento d’altronde ben eseguito, e con molta sagacia, e di notte, provava essere egli ben pratico del paese.—Tra le strade che dal Tifate e dal monte S. Angelo, mettono verso Capua, ve ne sono alcune incassate nel terreno, che posa su tufo vulcanico, alla profondità di più metri.
Tali strade furono probabilmente praticate a’ tempi antichi, come comunicazioni tattiche di un campo di battaglia; e le acque piovane, scendendo velocemente dai monti circostanti, hanno senza dubbio influito a scavarne maggiormente il fondo.
Il fatto sta che in qualunque di quelle strade incavate, ponno transitarvi al coperto forze considerevoli, anche con artiglieria e cavalleria.
I generali borbonici, nel loro meditatissimo piano di battaglia, aveano accortamente approfittato di tali accidentalità del terreno, e v’inviarono di notte alcuni battaglioni con ordine di attaccarci alle spalle, mentre la battaglia s’impegnava al fronte.
Uscito dalla mischia, in cui casualmente m’ero trovato per un momento, m’incamminai coi miei aiutanti verso S. Angelo, credendo essere il nemico solo alla sinistra nostra, ma m’ingannavo, ed una furiosa fucilata alla nostra destra, partita dalle falde dei monti, al nostro indirizzo, mi persuase esservi nemici anche da quella parte. Era la situazione imbrogliata. I miei aiutanti ed io, a piedi, poichè i nostri cavalli eran rimasti con[284] ordine di mandarli dopo di noi a S. Angelo; dunque, difficile mandar ordini;—tutti i corpi impegnati contro forze superiori del nemico; e nessuna riserva alla mano.
Qui ci valse il disordine inseparabile dei corpi volontari. Avviandomi verso S. Angelo, m’imbatteva sulla via con dei militi nostri staccati, che raggranellati a misura che comparivano, se ne formò un discreto corpo, e s’inviò all’attacco dei borbonici, padroni delle alture alla retroguardia nostra. Poi una compagnia poco numerosa di bravi Milanesi, che marciava verso il campo della pugna, fu immediatamente mandata verso il Tifate, per prendere a sua volta il nemico alle spalle.
Poco dopo giunse su quell’eminenza un distaccamento del generale Sacchi, che trovavasi a levante di S. Angelo, e per quella parte ci trovammo finalmente alquanto assicurati.
Dopo gli avvenimenti narrati, mi fu possibile salire sul monte S. Angelo, per potervi distinguere lo stato del campo di battaglia, e m’accorsi esser veramente un impegno serio.
Il nemico preparato da più giorni ad una battaglia decisiva, avea riunito sotto Capua quanta forza egli possedeva in tutte le parti del regno, al settentrione del Volturno.—Le due piazze forti di Gaeta e Capua, non solo diedero un buon contingente di truppe, ma lo fornirono di quanto materiale da guerra esso poteva abbisognare; dimodochè la forza nemica, che uscì da Capua contro il nostro centro e la nostra sinistra, era veramente formidabile.[285]
Da una parte e dall’altra la battaglia fervea disperatamente; era un flusso e riflusso di attacchi e di riscosse, una mischia generale su tutta la linea.
Non potendo noi guarnire tutto lo spazio tra S. Maria e S. Angelo, s’era lasciata una lacuna tra le due posizioni, di cui il nemico profittò facendola occupare da fortissimo corpo bavarese.
Codesto corpo, ch’io dall’alto poteva esattamente distinguere, era imponente. In colonna serrata per grandi divisioni, marciava verso la nostra linea a passo ordinario. E chi diavolo potevo io inviare all’incontro di quel formidabile corpo? Il prode Generale Medici avea il suo da fare nel centro ove comandava, a sostenersi contro le forti colonne che lo assalivano, e per fortuna egli contava tra i suoi subordinati il Colonnello Simonetta, uno dei più brillanti ufficiali dell’esercito meridionale. Di più, il veterano di cento battaglie, l’eroe dei due mondi, il Generale Avezzana, era stato inviato con un corpo di volontari in sostegno del nostro centro, e fu quindi di gran giovamento in quella parte.
La nostra sinistra in S. Maria, comandata dal bravo generale Mielbitz, respinse il nemico, ed egli riportò gloriosa ferita. Comunque, le comunicazioni tra la sinistra ed il centro furono intercettate dai borbonici, che in gran numero occuparono la strada maestra che conduce da un punto all’altro.
Il più accanito dei combattimenti durava a[286] S. Angelo. Là vi era una vera marea di vincenti e di respinti.—Il nemico stimava l’importanza della posizione, chiave del campo di battaglia, e fece degli sforzi inauditi per impadronirsene. I soldati borbonici giunsero sui nostri pezzi varie volte, e s’impadronirono di due, che non poterono però conservare.
In tale accanita pugna io osservai il difetto «di far fuoco avanzando» prediletto sistema dei nostri nemici, a cui fu fatale in tutti gl’incontri dai volontari sostenuti; questi, all’incontro, coi soliti catenacci e colle loro cariche a fondo, senza fare un tiro, neutralizzarono la superiorità delle carabine nemiche, e vinsero sempre.
Mi si obbietterà: tale nostro sistema esser nocivo colle nuove armi di precisione, ed io dico con convincimento, essere più necessario ancora, col perfezionamento delle armi.—O non si deve caricare il nemico nelle sue posizioni, o bisogna caricarlo celeremente sino alla mischia, colla coscienza di sfondarlo, senza di che si perderà molta gente, il morale dei restanti soldati sarà scosso, e si avrà il doloroso spettacolo di vederli tornare fuggendo e disfatti.
La pugna durò un pezzo al piede del monte S. Angelo, obbiettivo importantissimo, e varie volte i nostri valorosi capi dovettero ricondurre al fuoco i nostri militi, sopraffatti da masse imponenti e tenacemente decise.
Verso le ore 1 pom., non so per qual motivo, mancarono le munizioni, ed una desolante voce[287] degli usciti dal campo di battaglia, me ne fece consapevole.
Se il nemico fosse stato informato di tale circostanza, stavamo freschi.
La situazione era delicata. Il nemico ingrossando sempre, oltre l’attacco di fronte verso Capua, avea tentato di assalire il nostro fianco destro passando il Volturno, e fummo obbligati di far testa dovunque.
Verso le 2 pomeridiane, supponendo vicine le riserve che aveva chiesto da Caserta al generale Sirtori, capo di stato maggiore, io avvisai il generale Medici della mia intenzione di raggiungerle per rinforzare la linea nostra. Non era però facile di eseguire il mio proposito, essendo la strada di comunicazione occupata dal nemico.
Comunque, mi decisi di fare un lungo giro, evitare il nemico, e felicemente giunsi in S. Maria dopo mezz’ora, e giunse contemporaneamente il primo convoglio per via ferrata, delle aspettate riserve.
A misura che arrivavano si facevan collocare in colonna d’attacco nella strada che conduce da S. Maria a S. Angelo; disposte nell’ordine del loro arrivo, per sezioni, il di cui fronte era eguale circa alla larghezza della via.
Anche qui accennerò alla efficacia delle riserve nei fatti di guerra d’ogni entità, ma massime nelle battaglie campali.
Le riserve, più numerose che possibile, e possibilmente[288] tenute al coperto dai proiettili nemici e dalla vista degli stessi, sono, quando ben disposte ed adoperate in tempo, in mano d’un capo intelligente, quel mezzo potente con cui egli decide della battaglia, sapendole lanciare a proposito.
[53] Monte che domina le pianure Capuane.
Io ho sempre creduto alla fortuna, e non dubito ch’essa non sia per la sua parte, nei fatti compiuti tra la famiglia umana, e massime nei fatti di guerra.
Qui seduto sul mio letto di dolore, e reso invalido dagli anni e dai malanni, io penso alle epoche fortunate della mia vita, in cui primeggiano certamente quelle ove mi trovai a contatto dei generosi figli della Britannia.
Un giorno, spogliati da pirati greci nell’Arcipelago, senza viveri, senza vestimenta, senza bussola, il mio capitano m’inviò verso un brigantino che si trovava a grande distanza da noi. Giunsi a bordo di quel legno, vi fui accolto gentilmente. Era il brigantino inglese Marianna, capitano Taylor. Egli si era accorto del nostro[290] stato di sventura da uno straccio alzato al picco[54] per mancanza di bandiera, ma era nell’impossibilità di avvicinarsi, per essere il mare bianco dalla bonaccia.
In cattivo inglese io feci comprendere al bravo capitano lo stato nostro, per cui egli mi colmò di cortesia, mi fece parte de’ suoi viveri, di cui tanto abbisognavamo e ci accompagnò sino al porto del Millo.
A Montevideo in un giorno di pugna navale, trovandomi io con un piccolo legno impegnato contro forze dieci volte superiori, e già sopraffatto da esse, il palischermo d’una corvetta da guerra inglese giunse e si frammise fra il mio legno ed i nemici; imponendo loro di cessare il fuoco. Alla vista della formidabile bandiera d’Albione, i servitori di Rosas restarono muti come per incanto, ed io salvo.
Ancor oggi io bacerei la mano di quel comandante, che certo, non fu spinto da ordini dell’ammiragliato, ma dalla squisita generosità dell’anima sua.—Egli vide un conflitto di sangue, e lanciossi in sostegno del debole.
Che bell’impiego della forza, per coloro cui la sorte la mise in mano!
Avrei molte circostanze da narrare, in cui la benevolenza inglese prese a favorirmi, e per cui io sono giustamente pieno di gratitudine.
Il 1º ottobre, essendo stato impegnato prima[291] dell’alba, nell’ardua battaglia, io mi trovavo completamente digiuno verso le 3 pom., quando, occupato ad ordinare le colonne d’attacco delle riserve giuntemi da Caserta, per lanciarle sul nemico tra S. Angelo e S. Maria, in quel punto mi comparve un angelo tutelare; era la graziosa ed intrepida figura della Jessie;—la sua apparizione mi colpì e richiamommi alla memoria la generosa e cavalleresca nazione, a cui immeritamente sono debitore di tanta simpatia.—Essa me ne figurava l’emblema, tanto più che mi si presentava accompagnata da un giovane marino della flotta inglese[55] in uniforme, portando un canestro pieno d’ogni ben di Dio.
Se non è questa fortuna, bramo mi si accenni a delle migliori! E fra me dissi: questo è buon augurio.—Io avrei forse ceduto alla tentazione ed alla fame ch’era molta, ma un obice esploso a poca distanza mi richiamò al dovere, e ringraziai la gentile signora, pregandola di ritirarsi, cosa che la coraggiosissima donna eseguì con reluttanza. Io era stato contuso da un pezzo di quell’obice alla coscia sinistra.
[54] Posto ove si alza la bandiera.
[55] La squadra inglese ancorata sulla rada di Napoli, ebbe in quei giorni varii disertori, che volevano ingrossare le nostre fila. Tale era la simpatia di quella brava nazione per la libertà italiana.
Accanto alla illustre e martire famiglia dei Cairoli, e di tante altre per cui veste lutto l’Italia militante, l’Italia dei generosi! posiamo alla venerazione di tutti, quella dei Bronzetti.
Il maggiore, caduto contro gli austriaci a Seriate. Il secondo, non meno eroicamente, a Castel Morrone.
Ho già detto essere la nostra linea di battaglia difettosissima, per irregolarità del terreno, e per troppa estensione. Ebbene, per fortuna nostra, fu pur difettoso il piano di battaglia dei generali borbonici. Essi ci attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei punti diversi, a Maddaloni, a Castel Morrone, a S. Angelo, a S. Maria, a S. Tammaro, ed in un[293] punto intermediario di cui non ricordo il nome, ove comandava il generale Sacchi.
Diedero così una battaglia parallela, cozzando col grosso del loro esercito, contro il grosso del nostro, ed assalendo posizioni da noi studiate e preparate.
Se avessero invece preferito una battaglia obliqua, cioè, minacciato cinque dei punti summentovati, con avvisaglie di notte, e nella stessa notte portare quarantamila uomini sulla nostra sinistra a S. Tammaro, o sulla nostra destra a Maddaloni, io non dubito, essi potean giungere a Napoli con poche perdite.
Non sarebbe stato perciò perduto l’esercito meridionale, ma un grande scompiglio ce lo avrebbero cagionato. Con un’ala rotta, ed il nemico padrone di Napoli, e delle nostre risorse, diventava l’affare un poco serio.
Mentre la pugna ferveva nelle pianure Capuane, il maggiore Bronzetti, alla testa di circa trecento uomini, sosteneva l’urto di quattromila borbonici, e li respingeva a varie riprese dalle posizioni da lui occupate. Invano il nemico intimò la resa a qualunque patto. Invano! Il prode Lombardo avea deciso di morire co’ suoi compagni, ma non arrendersi. E tale era l’eroica risoluzione di tutti!—Avanzo di dieci assalti, pochi restavano del suo piccolo battaglione, e la maggior parte giacevano morti o morenti sul campo della strage. I pochi restanti però, trincerati nell’alto[294] del rovinato castello, non vollero saper di resa, animati dall’esempio del valorosissimo capo.
«Arrendetevi, ragazzi!» gridavan gli ufficiali borbonici, edificati da tanta intrepidezza, e certamente orgogliosi di tali concittadini: «Arrendetevi, non vi sarà tolto un capello: già faceste abbastanza per l’onore!»—«Che arrendersi!» gridavano quei superbi e gloriosi figli d’Italia: «fatevi avanti! se avete animo!»
Essi terminarono sino all’ultima cartuccia, sostennero l’attacco finale colla baionetta, e caddero tutti!..... Alcuni pochi feriti furono trasportati a Capua.
E dove giaciono le ossa di tanti prodi e dell’illustre duce Bronzetti?.....
Italia le ricordi!
Io desidero: nelle venture battaglie contro lo straniero, poichè delle batoste ve ne saranno molte ancora, con codesta condizione sociale di rubati e di ladri;—nelle venture battaglie contro lo straniero, ripeto, bramo gl’italiani combattano come lo fecero in questa sanguinosissima, gli uni contro gli altri.
Nel centro, cioè tra S. Maria e S. Angelo, ove si andava a decidere della giornata, il terreno era piano e coperto di olivi, ciocchè neutralizzò in parte la superiorità della carabina nemica;—ed alle successive cariche di questa, i nostri appiattati dalle piante, la respingevano a fucilate con vantaggio. Il colonnello Assanti, con parte della divisione Cosenz, fu posto in riserva sullo stradale, e seguitò il movimento, mentre le colonne d’attacco procedevano avanti.[296]
«Voi la vedete la linea nemica, dietro quei ripari» diceva io al comandante d’una compagnia milanese che si trovava di avanguardia, «Ebbene, spiegate in catena la vostra gente, e caricate senza fare un tiro sino a raggiungerli, quei ripari, la colonna vi seguirà immediatamente».
La stessa ingiunzione io feci ad una compagnia calabrese, che stava alla mano, e tutta quella brava gente caricò intrepidamente il nemico.
La colonna che marciava dietro e che prese la stessa direzione, era comandata dal generale Eben, che marciava alla testa con un nucleo di valorosi ungheresi.
Questi prodi marciarono verso il nemico coll’arma al braccio, come in piazza d’armi, e ricorderò sempre con orgoglio d’aver comandato a simili militi.
Il fiero ed imponente contegno delle nostre colonne, marciando avanti senza sparare un tiro contro una grandine di granate e di fucilate, scompigliò il nemico, e lo sloggiò dalle sue posizioni.
Contemporaneamente caricato a destra dai generali Medici e Avezzana, cioè da tutte le forze di Monte S. Angelo, e da sinistra da parte dei corpi dei generali Türr e Mielbitz, il nemico fu posto in fuga dovunque, perseguendolo i nostri sino sotto Capua.
La giornata fu completa, e verso quell’ora,[297] circa le 5 pom., ricevo un dispaccio dal generale Bixio, annunciandomi il trionfo dell’ala destra, da lui comandata.
Dopo un combattimento accanito di varie ore, Bixio erasi posto alla testa d’una piccola colonna scelta, e colla solita sua bravura avea caricato i borbonici, e cacciati sino alle sponde del Volturno.
Io telegrafai in quel momento a Napoli:
«Vittoria su tutta la linea!»
Quando io penso al potere dei preti, conservato malgrado ogni sorta di scelleraggine, appena credibile e che l’umana natura dovrebbe essere incapace anche d’ideare;—malgrado l’aver ridotto fino all’ultimo grado la più grande delle nazioni, d’averle inflitto ogni specie d’umiliante degradazione, averla venduta tante volte allo straniero e sopratutto d’averla educata ai baciamani, alle genuflessioni, alla paura, alla prostituzione e ad ogni specie d’oltraggioso abbrutimento, per cui una delle più belle razze, è per loro rachitica, curva, inferiore moralmente e materialmente a tutte quelle altre razze che le furono alunne!—Pensando al potere dei preti, dico: in questo secolo che si chiama civile, mi viene sovente il dubbio, che codesti cretini a cui appartengo per le forme, altro non sieno che una delle tante[299] famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo mondo.
Un prete è un impostore!—Chi può provare il contrario?—E vi vuol poi tanta matematica per capirla?—Eppure la potenza di quell’essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il dispotismo si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte, e si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello, chiamato costituzione di popolo libero, e questa povera Italia nostra che potrebbe essere comparativamente felice, è scelleratamente più martoriata delle altre nazioni.
Ciò prova a sufficienza non esser questa l’età dell’oro, e prova che il male supera tuttora il bene nelle afflitte nostre contrade.—Chi sono i sostenitori del pretume? I minchioni ed i birbanti. I governanti presenti dell’Italia sono quindi o birbanti o minchioni,—piuttosto arcibirbanti! E tutto questo gran popolo libero ed indipendente a cui s’impone tutta cotesta bordaglia, io mi vergogno di qualificarlo e di appartenervi!
Sebbene vinto l’esercito borbonico al Volturno, il cherchume perciò non cessava dalle sue reazionarie trame;—esso fu scosso, scompigliato, atterrito dalla gloriosa vittoria della giustizia, ma rialzavasi presto, e non frenava la sua libidine di congiure e di tradimenti contro la terra che per sua sventura generava e nutriva cotesto mostro dalle mille teste.
Corvo, il gesuita, il terribile agente della reazione[300] clericale-borbonica, sdegnato prima contro i correligionari della camorra, e della bottega di Napoli, era poi sdegnatissimo contro i generali di Francesco II che con un immenso e brillante esercito, s’eran lasciati battere da un pugno di rompicolli.
Come abbiam veduto, egli avea lavorato in Napoli con un accanimento straordinario per suscitare il partito ad un movimento d’insurrezione, che avrebbe servito di potente diversione a favore dell’esercito di Capua. Egli avea assistito a tutte le riunioni della camorra, avea picchiato a tutte le porte dei conventi, dei prelati e dei parroci. Ma vi vuol altro:—l’affare era arduo per i grassi ministri di Dio! Si trattava della pelle—e benchè sicuri della gloria del paradiso (non ridete), morendo per una causa santa,—essi, i candidi leviti che appartengono ad un mondo superiore, amano un tantino le delizie di questo. E perciò il nostro settario di S. Ignazio, maledicendo alla codardia dei ben pasciuti coccodrilli, recossi al campo del re di Napoli.
Corvo assisteva a tutta la battaglia del 1º ottobre; vero genio del male, egli moltiplicavasi in tutti i punti più importanti, animando i soldati alla zuffa;—e fu veduto col crocifisso alla mano nel più forte della mischia, eccitando, col gesto e colla voce, e gridando con quanto avea di polmone: «Avanti!» Ma là pure gli toccò ad indietreggiare, e si contava d’un prete, che mentre tutta la truppa davasi alla fuga, esso per l’ultimo,[301] sempre col suo Cristo alla mano, disprezzando gl’inseguitori, non v’era modo di farlo alzar le calcagna.
Che ostinazione nel male in quell’uomo sì avvenente, sì coraggioso e d’un genio veramente superiore; io ne sono stranamente sconcertato, e sovente pensando a tali esseri straordinari, io mi stupisco come non crollino il fango da cui sono avvolti e dicano alle moltitudini che abbisognano tanto di verità come di pane: «Noi siamo i sacerdoti del vero!»
Che un cretino possa esser prete e possa creder a’ preti, pazienza! Ma che una delle più grandi celebrità moderne, come matematico e come astronomo[56] possa rimaner gesuita, mi fa strabiliare.
I grandi d’ogni specie crederanno forse esser necessario che la canaglia si ravvolga nella melma e vi rimanga per sempre?
Corvo, disperando del successo, prese la campagna, avviandosi verso Isernia, uno dei centri del sanfedismo.
Le superbe popolazioni Sannite che abitano tutto quel pezzo scosceso d’Apennino che limitano il Volturno ed il Sangro ad ostro, ed il Lazio a settentrione, fiere ed indipendenti come i loro antenati, mantenute come sono, nell’ignoranza dal prete, esse sono come le Calabre, la più ricca messe della fellonia chercuta, e sono[302] quelle che danno i più famigerati briganti, di cui il clero dispone assolutamente.
Tra quelle orribili gole, ove capitolava e passava sotto le forche Caudine l’esercito Romano, e fra codeste bellicose popolazioni internavasi il gesuita, come se volesse nascondersi da tante vergogne, e sicuro di trovar pascolo alle infernali sue disposizioni.
Il perverso avea più d’un incentivo nella sua impresa. Egli serviva la causa a cui avea dedita la sua scellerata esistenza, ed abbiam veduto in che modo, ma più di ciò egli era solleticato dalla speranza di potersi vendicare dei rapitori delle sue donne;—per cui egli sentiva qualche cosa dentro che non sapeva spiegarsi, ma qualche cosa che lo attraeva e lo spingeva irrevocabilmente verso quelle sue vittime.
Nelle sue peregrinazioni reazionarie, l’astuto settario di Loiola non avea mancato di occuparsi della marcia dei fuggenti da Roma e per mezzo d’agenti sicuri egli avea seminato d’insidie e d’ostacoli il cammino dei nostri cari.
L’Italia, nella cieca noncuranza in cui si dondola, non si capacita di ciò che ponno i preti nelle campagne. Non esiste il benchè minimo villaggio ove risiede un prete, che non sia un focolare di reazione, una scuola d’ignoranza e di tradimenti alla patria.
Che lasci l’Italia i preti come sono oggi (1871) e che tenti di sostenere una guerra contro lo straniero, ed essa vedrà ciò che le succede con[303] codesti assassini domestici. Nel periodo in cui scriviamo, la congiura clericale lavorava nell’ombra, a Napoli, in Sicilia, ed in tutti i paesi conquistati dalla rivoluzione, vicino ed a mezzogiorno della Metropoli; ma al settentrione di questa, ove esisteva tuttora l’autorità regia, e massime nelle vicinanze della frontiera romana, ardeva fierissima propaganda contro di noi, e codesti forti, ma ignoranti contadini, ovunque adunavansi per ostilizzarci.
Corvo posò il suo quartier generale ad Isernia, città importante del Sannio, e di lì munito come era di pieni poteri da Roma e dal Borbone, ramificò la sua rete reazionaria in tutti i dintorni.
[56] Il Padre Secchi.
Noi lasciammo i protagonisti del nostro racconto, scampati dalle ugne pontificie ed incamminandosi verso l’Apennino coll’intenzione di seguitarne le vette, per discender poi nelle pianure Campane, a dividere coi prodi fratelli dell’esercito meridionale le gloriose battaglie che dovean decidere la caduta d’uno dei puntelli del dispotismo—e la rigenerazione sulle sue rovine di tanta parte di popolo italiano.
Il comando della valorosa brigata dei trecento fu all’unanimità affidato all’intrepido colonnello Nullo, e questi scelse a suo capo di stato maggiore Muzio—e Muzio con quell’abnegazione che distingue il vero merito—fu lui primo a proporre il bellicoso eroe della Polonia per capo, e volonteroso per il primo a chieder gli ordini[305] con una modestia ed una subordinazione ammirabili.
Elia, il padre di Marzia, era stato raccolto in Roma, e faceva parte della comitiva.—Povero vecchio!—Le membra slogate dalla tortura dell’Inquisizione pretina, ed il volto scarnato, e livido dai patimenti—faceva compassione il vederlo! L’amore immenso per la figlia del suo cuore solo lo teneva in vita—ed inteneriva chiunque lo contemplasse, infelice! quando rivolto alla sua cara, egli beavasi nel di lei sguardo. Fu necessaria una cavalcatura per lui, e per la bella contessa Virginia—anch’essa poco assuefatta a marciare a piedi—ciocchè non fu difficile trovare nella ricca campagna di Roma.
Le nostre due giovani eroine sdegnarono di marciare a cavallo—e vollero dividere i disagi dei semplici militi, chiedendo però a Nullo di condurle presto in sito, ove poter acquistare un moschetto, arnese molto più confacente d’un ombrellino a codeste amazzoni della schiera dei Mille.
Noi sappiamo già esservi nella colonna trecento armati di sole daghe, eccetto una ventina di carabine tolte alle guardie del Comandante Pantantrac, ed agli sgherri. La richiesta delle fanciulle mise in pensiero il Capo.—E veramente che avrebbero potuto fare i prodi da lui guidati se si dovea combattere contro gente armata di fucili?
Un individuo che seguiva Lina, come la propria ombra, aveva inteso il desiderio delle donne, ed[306] osservava l’aria mesta e distratta del Duce—con certo piglio significativo.
Questi era Talarico, il brigante redento, che attratto dalla bellezza della fanciulla, e forse dal dovere che ha ogni uomo che non sia un prete, di servir la causa del suo paese, s’era convertito alla parte della giustizia e dell’onor nazionale.
Talarico amava Lina come il leone la sua femmina, colla differenza, che conscio dell’affetto di lei per Nullo, piegava il capo alla fatalità della sua posizione, e conformavasi come il naufrago, che non potendo dominar le onde, da esse si lascia travolgere nei gorghi, dopo la lotta terribile della disperazione.
Lina non l’amava, essendo il vergine suo cuore tutto rivolto all’incomparabile amante di cui tanto andava superba; comunque, la fiera, maschia ed ingenua devozione di quel rozzo ma superbo principe della montagna la solleticava, e nell’anima sua bellicosa, ma gentilissima, essa non poteva albergare un senso che non fosse di propensione e d’interesse per quel servo sempre pronto al minimo di lei desiderio.
Guai a chi avesse tolto un capello alla dea del suo culto! Il ferro del figlio d’Aspromonte avrebbe solcato il petto dell’insolente come una lama di fuoco.
Egli, dacchè reso alla schiera dei forti campioni della libertà italiana, avea trovato nell’anima sua redenta tanta generosità ed abnegazione, da non esser nemmeno geloso del suo capo,[307] sicchè, innamoratissimo, senz’altra speranza che quella di una meritata simpatia dal suo idolo, l’amore di Talarico era diventato di natura celeste, come quello che ispira tanta ammirazione nella vita squisitamente gentile del gran cantore di Laura, e che sì maestrevolmente narra il Foscolo:
L’anima ardente dell’antico principe dell’Apennino, di più, era salda come l’acciaio, e la coorte dei liberi potea fare assegnamento su di lui, come sulle proprie daghe.
—«Comandante, disse Talarico a Nullo, che già lo aveva scelto come guida nelle montagne; Comandante, davanti a noi abbiamo Tivoli, distante poche miglia, se vogliamo giungervi di notte—ciocchè mi sembra conveniente—io vi condurrò nella città, per vie a pochi note, e giungeremo nel centro della stessa, sorprendendo qualunque forza papalina vi possa essere, e potremo quindi armarci di alcuni fucili».
«Bravo!» fu la risposta di Nullo a Talarico; ed immediatamente il colonnello ordinò di obliquare a sinistra ed imboscarsi nella selva sacra del Teverone, per aspettarvi la notte. Fra i militi della brigata, pochi eran quelli che avean pensato a provvedersi per la campagna, ma per fortuna in settembre, poche son le provincie d’Italia, ove[308] non si trovino abbondantemente delle frutta, e con queste, per uomini giovani e disposti a tutto, poco o niente sentivasi la carestia.
Erano le 7 pom. quando la brigata cominciò a muoversi dal bosco sacro con Talarico alla testa; essa traversò il Teverone, e ne seguì silenziosamente la sponda destra, sino ad oltrepassare la famosa cascata, poi torcendo a destra verso il fiume—che in quel punto sembrava d’argento, per la calma dell’aria, per il poco declivio,—la testa della colonna inoltrossi sopra un ponte di legno, e sfilando al di là della sponda sinistra, trovossi proprio a levante della città, cioè verso i monti.
La città di Tivoli trovasi in posizione fortissima per chi l’assale da ponente, verso Roma, ma da levante essa è completamente dominata dai monti che le stanno a tergo. I Tivolesi non s’aspettavano tale visita; e siccome in questi tempi di rivoluzione e di congiure clericali, non mancava il timore; lumi, se ne vedeano alcuni a quell’ora, circa le 9 pom., ma la gente per le contrade era pochissima.
Al primo individuo che capitò nelle mani di Talarico, questi con poche cerimonie mise la mano al colletto—impose silenzio—e sommessamente chiese ove trovavasi la truppa. «Ahi!»—fu il primo grido dell’innocente paesano—quando sentì le graffe del tigre nel collo—poi: «Signor Piemontese!.....» quando s’avvide esservi molta forza, e secondo pare, sapevasi esser non lontano[309] l’esercito settentrionale—«Signor Piemontese!, io sono amico vostro». Ed il poveretto era giustamente uno di quelli che intendevano per Piemontesi i liberatori, e non s’ingannava, toltone che i bravi figli del Piemonte, essi stessi credenti nella liberazione dei fratelli, non sapevano esser guidati dalla magagna Sabauda-Napoleonica.
«Amico, o non amico, tu hai da condurci ove si trovano i papalini—e subito!» era la risposta del fiero calabrese. E non v’era tempo da riflettere, ma ubbidire.
Due compagnie di zuavi pontifichaux formavano la guarnigione di Tivoli, e siccome a questa bordaglia piace l’Italia per i suoi vini, per le sue belle donne, particolarmente, a quell’ora ebbri per la maggior parte, erano anche quasi tutti presso le loro conquiste da trivio.
Una guardia qualunque trovavasi sul magnifico piazzale che a ponente fronteggia la vecchia capitale del mondo, ed i nostri Romani, sorpresa la guardia, ne legarono sino all’ultimo individuo, s’impadronirono di tutte le armi, e disperdendosi poi in tutte le direzioni, armati delle armi papaline, fecero una razzìa generale di quanti innamorati soldati del papa trovarono.
I pontifichaux gridarono, urlarono: «à la trahison!» secondo il solito, e l’alba d’una bella mattinata settembrina li trovava legati come tanti polli, due per due, alla mercede di gente ch’essi[310] erano assuefatti a disprezzare, perchè sempre discordi, e che ben potevano sgozzarli senza tema d’infrangere le leggi della giustizia. Perchè, a che questi vampiri del sanfedismo, che come i preti hanno la loro divinità nel ventre, vengono a saziare i loro indecenti appetiti a danno d’un popolo infelice che li trasse dalle foreste, ove marciavano a quattro gambe come i gatti, e li pose sui piedi di dietro dicendo loro: «Siate uomini!»?
I trecento passeggiarono padroni per le vie di Tivoli provvedendosi d’armi e d’ogni cosa bisognevole per il loro viaggio, mentre che la popolazione in odio al papato li acclamava con ogni segno di simpatica benevolenza.
Nullo, a cui non fuggiva la falsa posizione in cui s’ingolfava quel buon popolo, credente nell’apparizione dell’avanguardia del grande esercito italiano—ciocchè altro non erano che i pochi esuli dalla città eterna, così ammonì quella parte della popolazione che s’era affollata intorno ai nostri militi:
«Fratelli! io vi ringrazio per la manifestazione vostra d’affetto che ricorderò co’ miei compagni tutta la vita. Devo però prevenirvi che noi non apparteniamo all’esercito italiano, oggi diretto verso il mezzogiorno, ma bensì a quella schiera dei Mille che, favorita dalla giustizia della sacrosanta causa d’Italia, oggi milita vittoriosamente contro i Borboni, alleati dei vostri tiranni;—quindi[311] io vi consiglio di terminar le vostre acclamazioni per non esporvi alla rabbia pretina, oggi nel massimo del suo orgasmo».
Il resto della giornata si passò in preparativi di partenza, e verso le 6 pomeridiane incamminossi la brigata verso Subiaco. Una testa di colonna di cavalleria, formata di dragoni romani, spuntava dalla via di Roma in quell’ora, ma la cavalleria non si teme, massime nelle montagne e da gente che non ha paura. Poi, i dragoni romani eran uomini disposti a non bruttarsi di sangue italiano, anche malgrado gli ordini feroci dei chercuti. Ciò sapevano i capi, e si contentavano quindi di seguire i figli della libertà senza raggiungerli e venir con loro a conflitto.
I dragoni romani sapevano per tradizione aver il corpo a cui appartenevano contribuito gloriosamente alla difesa di Roma contro i soldati di Bonaparte nel 49—e perciò eran sempre d’animo propenso a far causa comune coi liberi che consideravan fratelli.
È Subiaco, come Firenze, chiave dell’Apennino, ha le convalli popolate di case e di oliveti, e collocata nella gola d’una di quelle profonde vallate che mettono alle alte cime della Sibilla, quasi eternamente coperte di neve, riceve anch’essa i benefici e limpidi lavacri dell’Apennino.
Solo la pianta prete appesta quelle magnifiche contrade ed inaridisce quanto di bello vi prodigò natura. Là, come dovunque ove alligna il veleno, l’uomo vi è ignorante ed abbrutito e curvo, malgrado l’essere di robusta costituzione.
Uno degli oltraggi più dolorosi—a cui si va esposti nell’apostolato umanitario—è quello certamente che viene dal popolo, per cui l’uomo onesto è sempre disposto ad affrontare ogni specie di disagi e sovente la morte.[313]
Nel 1835, quando infieriva il cholera a Marsiglia, un giovine italiano, che generosamente si era arrolato in un’ambulanza per la cura dei cholerosi e che ogni notte doveva con un compagno—dividendosi per metà il servizio—assistere gl’infelici colpiti dal morbo, quel giovine, passando a caso per una via di Saint-Jean, fu preso per un avvelenatore dalla plebe, che vedeva avvelenatori dovunque. Un berretto rosso, ch’egli portava senza distintivi e senza significato, era stato forse causa dell’equivoco. Era l’italiano svelto e robusto: ciò gli valse da principio, ma cosa avrebbe potuto fare alla fine contro un torrente d’uomini, di donne e fanciulli che si precipitavan su di lui? La situazione diventava disperata, e già gli piombavan colpi da tutte le parti, contro cui schermivasi come poteva, ma che avrebbero finito per sterminarlo. Poco dopo si sarebbe vociferato per Marsiglia che il bravo popolo di Saint-Jean aveva salvata la città da un avvelenatore.
Una donna scapigliata, e per fortuna robustissima, presentossi sulla scena. Essa aveva osservato tutto dalla finestra. Avventossi come una furia nel più folto della moltitudine, e con una voce stentorea esclamava: «Quello è mio figlio!... mio figlio! mio figlio!» ed alle parole accompagnando le busse, giunse fino al giovine, che strinse nelle sue braccia e coprì col nerboruto suo corpo.
Essa era stata veramente la balia del giovine—lo[314] amava come figlio—ed ebbe la fortuna di salvarlo.
Che dolore sarà stato quello di Pisacane, uno degli eroici difensori di Roma nel 49—quando sbarcato dopo un’impresa gloriosa sulla terra che gli diè la vita, tra i proprii concittadini, ch’egli scendeva a redimere dal servaggio con un pugno di prodi! Che dolore, dico, di vederseli aizzati contro per sbranarlo! per distruggerlo!
La stessa sorte successe a Blennio nel 1867 a Subiaco.—Blennio! uno dei più valorosi nostri ufficiali, la di cui missione era di coadiuvare da quella parte alla liberazione di Roma.
Blennio fu fatto a pezzi dalla popolazione suscitata dai preti!... E voi ridete, coccodrilli! chercuti! ammirando l’opera vostra di distruzione. E ben lo sapete, in Italia voi non contate che per la corruzione, l’ignoranza, la distruzione e la discordia da voi fatta perenne tra i figli di questa famiglia infelice!
E perciò noi dobbiamo cessare nell’apostolato umanitario? No, non cesseremo!—e se fia vero il miglioramento umano—come lo promettono i progressi della scienza e della ragione—noi daremo l’ultimo crollo e precipiteremo nella polve il putrido catafalco della menzogna!
Chi è quel tale dal volto sereno e dalla fisonomia attraente? Non lo conosco!.... Ma i miei cani non abbaiano scorgendolo, ed i miei bimbi—così ombrosi alla vista d’uno straniero—non solo non lo fuggono, ma lo lasciano avvicinare, ridenti, come se da molto lo conoscessero, e ne accettano graziosamente le carezze; si siede e si gettano tra le sue ginocchia, come se di consuetudine! Io stesso, non so perchè, sono da lui attratto, e fissandolo cesso d’esser burbero, perdo la naturale mia malinconia, e ne risento piacere: quasi, se non temessi d’esserne ripulso, lo abbraccerei!
Che volete: è simpatia! Non so se l’occhio del perverso possa suscitarla coll’arte di fingere! In quel caso io sarei preso nella rete dell’inganno,[316] poichè su di me è possente l’effetto simpatico del volto di un uomo onesto.
«Dirai a Castelli ch’io l’amo» dicevo bambino ad un mio amico che recavasi presso il summentovato, che avevo veduto una volta sola e che mi aveva suscitato simpatia.
Un’altra volta per il figlio di un cocchiere, che i miei parenti non volevano vedermi frequentare, io quasi divenni pazzo.
Ebbene! tra le nostre tre donne, che a Tivoli per l’abbondanza di cavalli s’eran lasciate persuadere di cavalcare, regnava molta simpatia, massime tra la contessa Virginia e Marzia. La contessa trovava forse la Lina troppo bella? Nel cuor delle belle—con tutto il culto che ho per esse—so regnarvi, qualche volta, dei germi di gelosia, così sottili, così delicati, che nelle anime nostre più rozze sono, credo, impercettibili.
Ma Lina era simpatica alla patrizia Romana! e non so se gelosia e simpatia ponno albergare sotto la stessa scorza. E poi, Marzia, benchè di bellezza diversa, era pure bellissima!
O sarà, che la bella fisonomia della fanciulla Romana, annuvolata spesso, non so da qual senso di dolorosa reminiscenza, confacevasi più al bruno, stupendamente bello e malinconico volto della Contessa.
La bionda figlia delle Alpi aggiungeva ai suoi vezzi, veramente, certa giovialità che cercavasi invano nell’aspetto della compagna.
Comunque, Virginia portava alcuna preferenza[317] di simpatia verso colei ch’essa aveva mortalmente perseguitato come una nemica. Forse era il pentimento allora, che spingevala a tale preferenza?
Il fatto sta: l’odio che si dovea desumere dagli antecedenti già narrati delle due Romane, avea cessato, e poche parole di giustificazione della Virginia l’avean di ciò persuasa. È cosa stranissima! Marzia l’aveva assicurata che invano erasi provata d’odiarla, e che nella giornata fatale della conversione, essa sarebbe stata più sventurata assai, senza la di lei compagnia. Un raggio di felicità raddolciva il volto malinconico della contessa, a quella confessione ingenua ed angelica della giovane donna, ch’essa avea mortalmente offesa.
Virginia, più attempata delle sue compagne, aveva naturalmente il diritto di correggerle qualche volta, ciocchè faceva con molta grazia e con squisita gentilezza.
«Adagio!» essa esclamava qualche volta alla focosa figlia di Bergamo, che si compiaceva sovente di far caracollare il suo destriero[57] «adagio! la mia Lina, qui il terreno è molto duro, ed io sarei infelice, se vi succedesse alcuna disgrazia».
E siccome esse cavalcavano generalmente accanto al comandante della brigata, Nullo aggiungeva le proprie ammonizioni a quelle della[318] contessa per moderare gl’impeti dell’adorata sua compagna.
Marzia, più docile di Lina, dava pochi motivi a rimostranze. Comunque, come al corsiero generoso, l’aria pura e libera della campagna l’avea ravvivata, l’aveva resa a se stessa, le aveva ridato quel brio che l’animava a Calatafimi, contro i soldati del Borbone.
Ma che serve!—l’anima sua era contristata da affanni da essa sola conosciuti, e che si dipingevano mestamente sul bellissimo volto quando era padroneggiata da codeste tediose reminiscenze.
Essa sorrideva alle dolci parole di Virginia e dei suoi amici, ma quel sorriso sfiorava appena le labbra coralline, per far subito posto a mesto, abituale atteggiamento, massime quando il suo sguardo cadeva sullo sventurato genitore, che macchinalmente, e quasi istupidito dai tormenti sofferti, accompagnava silenzioso la comitiva.
Un giorno, sulla strada da Tivoli a Subiaco, mentre la brigata aveva fatto un alto, Lina, avendo scoperto, vicino al sito un bell’albero di fichi, disse a Marzia: «Io monterò su quest’albero a mangiare dei fichi, e te ne getterò la tua parte». Marzia, che non voleva esser da meno in agilità della compagna, rispose: «ma monterò anch’io, e ne mangeremo assieme sull’albero»—«Che sì! che no!» nacque un po’ di diverbio tra le due amiche. Lina, sollecitamente però, lasciò la compagna ed arrampicossi sul fico. Usando troppa precipitazione, nel salire, mise un piede in fallo, si[319] ruppe il ramo a cui si teneva colla mano destra, lo stesso successe alla sinistra, e la nostra bellissima fanciulla se ne venne al suolo, distesa in tutta la lunghezza del corpo, senza ferirsi però, ma svergognata d’aver mostrato ai presenti la sua poca capacità ginnastica.
Per combinazione—o con intento—due degli ufficiali del papa, prigionieri—galanti come lo sono generalmente quella classe di gente, che altro non hanno al mondo da fare, che mangiar bene, bever meglio, e passare il resto in seduzioni, anche fosse delle undici mila vergini, la di cui castità sarebbero obbligati di difendere a spada tratta—gli ufficiali del Papa, dico, Merode e Pantantrac, a cui era venuta l’acqua alla bocca, contemplando le bellissime giovani italiane, avean approfittato d’un momento di noncuranza della guardia loro—composta di bravi giovani romani—e s’erano avvicinati alle due donzelle, con aria graziosa e seducente.
I due stranieri giungevano precisamente al momento in cui Lina aveva comprato tanto terreno quanto era lunga, e circostanza miracolosamente favorevole fu questa per loro, di cui vollero naturalmente approfittare, slanciandosi al rilievo di quel caro corpicino.
Il fortunato dei due fu Pantantrac, che giunse primo ad afferrare, con ambe le mani, il cinto snello della vezzosa. Egli certamente adempiva a quell’atto di galante cortesia, con grazia—dote incontestabile della Nazione francese—ed[320] un gentile ringraziamento della bella guerriera avrebbe, senza dubbio, messo fine all’incidente. Così però non l’intendeva Talarico, nella fiera, rozza, indomita sua natura.
Assorbito non so da qual distrazione od affare, egli non trovavasi, come d’abitudine, vicino a Lina, al momento della caduta, e vi giunse dopo che la sua dea era in piedi, ma non ancor libera dalla stretta dell’ufficiale papalino.
«Ahi!»—fu il grido doloroso di Pantantrac, quando il brigante gli piantò le unghie nella nuca—«Ahi!»... e non più micidiale sarebbe stata la graffa del tigre. Talarico staccò con tale malagrazia l’ufficiale prigioniero che lo mandò gambe all’aria a molti passi di distanza.
Alcuni minuti vi vollero all’ufficiale straniero per riaversi dalla sorpresa e dalla caduta. Ritornato in sè, alla fine, egli cominciò a scatenarsi, con un repertorio d’improperii da far arrossire anche i soldati del Papa.
«Sacré nom di qua—e sacré nom di là, e brigands d’Italiens!»—senza curarsi della Nazione a cui apparteneva l’uditorio, e che avrebbe potuto risentirsi, se la presenza di Nullo non lo avesse impedito.
«Eh se non m’aveste preso per di dietro!»—e qui un’altra infilzata di sacré nom, e di allusioni anche alla circostanza del convento, in cui era stato disarmato da Muzio.
Straniero e prigioniero, a Nullo rincresceva si maltrattasse quell’individuo. E chi ha conosciuto[321] la bell’anima del guerriero di Bergamo, ricorderà quanto modesto era ed umano.
Ma Pantantrac non la voleva finire, sia per certa naturale boria, sia per voler fare da gradasso in presenza delle dame, ed avrebbe fatto perder la pazienza a Giobbe.
Invano i suoi compagni di prigionia (giacchè si avvicinarono anche tre ufficiali fatti prigionieri a Tivoli) lo pregavano di far silenzio; invano l’impazienza cominciava a dipingersi su tutti i volti, senza eccettuare quello del Capo. Finalmente Talarico, che quantunque non molto versato nelle lingue straniere, ne sapeva abbastanza per capire che la maggior parte delle ingiurie eran dirette a lui, che aveva la principal colpa di tale scena, avanzossi verso Nullo rispettosamente, e disse:
«Quel signore si lamenta d’esser stato da me assalito a tradimento e per di dietro; e confesso il mio torto, egli ha ragione. Volete permettermi di combatterlo petto a petto, col mio pugnale soltanto, e lui armato di sciabola o spada, come meglio gli aggrada?»
La proposta piacque poco a Nullo, su di cui la fedeltà ed il coraggio del bandito già avevano suscitato molta simpatia, e naturalmente contava su di lui, per la sua pratica, nell’arduo viaggio che si doveva proseguire per i monti.
Ma Pantantrac continuando ad insultare e sfidare tutto il mondo, e Talarico persistendo a volerlo combattere singolarmente, Nullo finì per[322] accondiscendere al loro desiderio, e di lasciarli battere.
Qui, in onor dell’ufficiale legittimista, devo confessare ch’egli non voleva accettare la prevalenza della spada o sciabola sul pugnale, ma, sia che il Calabrese poco sapesse di scherma nelle armi suddette, o che avesse veramente un’illimitata fiducia nel suo ferro, egli non volle accettare altr’arma—almeno se così concedeva il suo avversario.
Un pezzo di terreno piano fu scelto per arena; Muzio rimise la sciabola a Pantantrac, a cui l’aveva tolta nel perittero del convento; questi la salutò e la baciò come una vecchia amica—molto più preziosa, se, come le spade degli antichi cavalieri, essa avesse servito alla redenzione degli oppressi.
Muzio e P... da una parte, come testimoni di Talarico; Merode ed il Maggior Ventre dei zuavi pontifichaux dall’altra, testimoni di Pantantrac, misurarono il terreno, e gli avversari vi presero posizione alla distanza di cinque metri.
Il marchese quasi certo della vittoria, aspettò un momento il competitore coll’arma in guardia per infilzarlo, ma vedendo che quello non avanzava, si mosse lui stesso, cercandolo colla punta del ferro.
Talarico non s’era mosso; il suo aspetto sembrava impassibile, ma chi lo fissava negli occhi li vedeva roteare nell’orbita, e farsi sanguigni come quelli della pantera quando si dispone ad assalire un nemico.[323]
Appena però il suo avversario cominciò a marciare contro di lui, il feroce bandito, facendosi scudo del braccio sinistro, gli fu addosso, lasciò sfiorarsi l’antibraccio dal fendente della sciabola, mise la mano sinistra sull’elsa del marchese, e lo colpì, come con clava, sulla cervice.
«Ahi!»—fu l’unica esclamazione del colpito, e tutti gli astanti videro piegar sulle ginocchia l’ufficiale del Papa, e stramazzare.
Chicchessia avrebbe creduto la lama del pugnale di Talarico penetrata sino all’elsa nel corpo di Pantantrac, ma non fu così. Il brigante, svelto e destro com’era e coraggioso, nel colpire il suo nemico, rovesciò il ferro, dimodochè il solo suo pugno piombò sul cranio del marchese, e bastò per rovesciarlo svenuto.
«Meglio così» disse Nullo, quando lo accertarono che non v’era ferita mortale. E Muzio, che era disposto a chieder soddisfazione a Pantatrac, che lo aveva pure accusato di tradimento, in conseguenza del depresso di lui stato, ne fece a meno, ed ordinò di prepararsi per la marcia.
Prima dell’alba i trecento giungevano a Subiaco, ove sorprendevano le autorità pontificie ed alcuni gendarmi, non essendovi guarnigione di truppa. Ebbero quindi quanto poteva dare il paese, senza necessità di violenze.
In guerra, nelle marcie di notte, con un obbiettivo qualunque, vi è sempre qualche vantaggio: principalissimo, la sorpresa. Nelle ritirate la possibilità di scegliere le linee più convenienti,[324] e suddividere la forza in tante colonne divergenti, come piace. D’estate, gli uomini ed i cavalli faticano molto meno di notte e marciano meglio. Una marcia ben ordinata di notte, e tanto segreta quanto possibile, confonde anche le spie, e quindi incerte le informazioni del nemico.
[57] Le fanciulle avevan accettato un cavallo per far compagnia alla Contessa.
Ma come si fa! come non saranno ringhiosi gli abitatori di questa infelice penisola, quando l’inferno vi vomitò il levita prete, maestro potentissimo d’ogni corruzione, e massime d’ogni discordia, e che per sventura tanto si è radicato, da diventarne lo svellimento, se non impossibile, almeno difficilissimo, sia per la protezione dei potenti, che se ne servono per santificare le loro scelleraggini, sia per l’imbecillità dei popoli, allettati dal paradiso e spaventati dall’inferno, frutti del loro idiotismo, sia infine per la manía del dottrinarismo, che in questi nostri giorni ha vestito, sulla rossa tunica del repubblicanismo purissimo ed esclusivo, la rancida sottana del prete!
Sino a Subiaco i nostri amici ebbero discreta strada; ma da codesta città a Sora, essi furono[326] obbligati a percorrere dei sentieri quasi impraticabili, e per disgrazia, anche deteriorati dalle piogge settembrine. A misura che gli ostacoli naturali crescevano, essi ne trovavano pure degli artificiali, che i preti facevano costruire dai montanari, a cui dispoticamente comandavano. Piante rovesciate ed attraversate sui sentieri; i sentieri tagliati da fossi profondi, ed in certi luoghi gli stessi fossi ricoperti con rami sottili e verdi zolle, su cui il viatore, mettendo il piede, profondava in un precipizio; e ponti di legno tagliati o bruciati, con altri ponti in materiale, distrutti.
Si aggiunga a tutto ciò i terribili torrenti delle montagne, ingrossati dalle pioggie, e spumanti fra i massi dei loro letti, come i marosi in una tempesta di mare, e che pur attraversare bisogna, per cercare dei viveri, e proseguire la meta del viaggio.
I ministri del Dio di pace, poi, avevano ammaestrato i contadini a far delle imboscate e fucilare i loro fratelli dietro da ripari, come se fossero belve.
A Trevi, a Tilettino, a Civitella, a Rovetto e a Balserano, furono i nostri ricevuti a fucilate da gente imboscata in posizioni quasi inaccessibili. Il Capo che comandava i trecento, ed i compagni suoi, erano gente, però, da non indietreggiare davanti alle insidie, alle minaccie e alle imboscate dei chercuti.
Quando scorgevasi il primo fuoco d’un’imboscata, il nostro P..., figlio di monti più alti degli[327] Apennini, e che formava l’avanguardia colla sua centuria, lanciavasi come un capriolo, gridando: «in carica!» ciocchè eseguivano i militi, senza fare un tiro.
Si suppone certamente che i cafoni non aspettavano la tempesta dei liberi, e se la davano a gambe fuggendo precipitosamente e raccontando poi che sotto l’assisa della rossa camicia essi avevan scoperto la simbolica figura del demonio;—codardia che solleticava i chercuti, interessati a mantenere il popolo nell’ignoranza e nell’abbrutimento.
È certamente codesto il vero modo di rispondere alle imboscate: caricarle al primo indizio, se ne esce sempre meglio—e caricarle senza far fuoco, poichè commettendo l’imprudenza di tirare dallo scoperto, contro gente coperta, è sempre fatale.
A Sora l’affare fu più serio, essendo la forza nemica maggiore, ed essendosi questa fortificata a circa mezzo miglio dalla città in una stretta formidabile.
Gli esploratori nostri, però, avendo avvertito il capo che molta forza nemica nascondevasi dietro i ripari che si vedevano di fronte, Nullo pensò saviamente d’inviare un terzo della forza a girare il nemico per la sua sinistra—ciocchè fu eseguito, con grandissima difficoltà però, da P... colla sua centuria.
La prima centuria, comandata da Muzio, capo di stato-maggiore, ed all’ordine immediato del[328] comandante, doveva attaccar di fronte, mentre Orazio colla terza centuria stava di sostegno e pronto ad eseguire i movimenti e gli ordini del capo.
Qui accennerò, per istruzione dei giovani militi, che la situazione babilonica dell’Europa porterà ancora sui campi di battaglia, alla necessità d’una forza disponibile per attaccare il nemico di fianco mentre si attacca di fronte—disposizione sempre utile, quando possibile, ma particolarmente in posizioni forti come quelle occupate dai sanfedisti nella presente occasione.
Alle prime fucilate della sinistra nemica contro l’assalente, seconda centuria, Nullo ordinò la carica, ed i suoi prodi, assuefatti ad assalire a ferro freddo, furono in un momento sotto le barricate nemiche, e poco soffrirono dalla grandine di palle che partivano da quelle.
Soffrì di più la terza centuria che, caricando in coda, riceveva le cariche sfioranti le teste di coloro che precedevano. Essa ebbe la sensibile perdita di sei morti ed una dozzina di feriti, più o meno gravemente, tra cui il valoroso capitano con una palla in fronte che fratturò il cranio, ma non lo perforò, per fortuna, rimanendo il proiettile conficcato a guisa di verruca tra la cute e la parte ossea.
Orazio cadde e lo si credette morto per un pezzo; solo dopo il combattimento, raccolto dai suoi per seppellirlo, si riconobbe che respirava ancora, e fu portato nella prima casa.[329]
Benchè molto più numerosi i soldati dei preti, non sostennero a lungo la mischia coi figli della libertà, ed incalzati a baionettate nelle reni, essi fuggirono verso la città, che sgombrarono immediatamente all’arrivo dei nostri.
Alla folla dei fuggenti sanfedisti seguì altra folla—spettacolo veramente miserando—di fanciulli, donne e preti coperti di stole portando il Santissimo—come lo chiamano gl’impostori—implorando ed impetrando—lordi di sacrilegio—il concorso dell’Onnipossente all’esterminio degli eretici, nemici del re e della santa religione (la pancia di quei mostri).
Avevan però mancato all’appello le legioni di angioli che i preti promettevano agl’imbecilli e che dovevano cacciare come nube al vento gli eserciti maledetti. E qui ci facevan l’onore d’immedesimarci coll’esercito condotto contro di noi da Farini.
Non giungendo le legioni d’angeli e fuggendo, a rompersi il collo, quelle dei cafoni, i nostri rimasero padroni assoluti di Sora, ove prima cura fu quella dei feriti e poi quella di seppellire i morti. In Sora poterono i liberi rifocillarsi dovutamente e provvedersi di viveri e di munizioni per continuare il faticoso viaggio, non essendo prudente di soggiornare molto tempo in un paese ove da un momento all’altro essi potevano essere assaliti da forze molto superiori.
Comunque, essi furono obbligati di rimanere due giorni essendovi dei feriti gravemente, come[330] il capitano Orazio, che a qualunque costo non si volevano lasciar indietro perchè tutti sarebbero stati inesorabilmente massacrati. Sembrerebbero esagerazioni, eppure sono verità sacrosante; meglio cader nelle mani dei selvaggi antropofaghi del nuovo mondo che in quelle dei preti o dei loro seguaci! Sventuratamente ogni tardanza era fatale ai trecento e dava tempo al nemico d’ingrossare sulla linea ch’essi dovevano percorrere.
Dacchè vi furono dei feriti nella colonna, Virginia si assunse la custodia di essi, ora coadiuvata dalle belle sue compagne ed ora da altre donne benefiche che non mancavano, malgrado la corruzione del prete, e da chirurghi; imperocchè, essendo la casta dei volontari composta per lo più di giovani agiati ed intelligenti, è sempre facile di trovar tra loro dei medici-chirurghi e formare delle ambulanze.
I campi celebri di Maratona co’ loro tumulti notturni—che la fervida poetica immaginazione de’ pastori dell’Attica narrava anche in tempi remoti alla stupenda battaglia dell’indipendenza greca—quei superbi campi e quei fatti gloriosi ebbero la fortuna d’esser cantati da due dei più potenti genii poetici che abbia prodotto il mondo: Byron e Foscolo.—E perchè non troveranno i loro vati anche le forche caudine ed i campi di battaglia dell’indipendenza sannita?
Milziade pugnava, è vero, contro un esercito immenso, ma composto d’effeminati dementi e di schiavi condotti alla battaglia per forza. I Sanniti, invece, avevano contro di loro le formidabili legioni che finirono per passeggiare padrone[332] sulla faccia conosciuta della terra—le vinsero ed inflissero loro la più umiliante delle ignominie, quella di farle passare curvate sotto le forche erette per oltraggiarle.
Se il Sannio fosse stato compatto come la potenza di Roma in quei tempi, forse le ugne dell’aquila dei sette colli non avrebbero lasciato le loro impronte sul mondo.—E dove sono le vestigia di quelle popolazioni guerriere, di quei superbi vincitori dell’orbe, di quei robusti discendenti dei Marzi? Essi si sedettero al desco dei dominatori, ne divisero le prede e con essi furono inghiottiti dal vortice di corruzione ove si tuffarono tutti i satelliti dell’universale tirannide!
Redenti dal risorgimento italico, perchè quelle belle razze d’uomini non appariscono più al cospetto degli altri popoli conformi alla loro natura agili, forti, intemerati, insofferenti di servaggio? Dimandatelo ai preti per cui oggi si chiaman cafoni; ai preti ch’ebbero il talento di farne popolazioni di sagrestani, curvi, gobbi, col collo torto a forza di baciamani e di genuflessioni; ai preti che insegnarono loro l’odio agli uomini liberi, alle libere istituzioni, alla scienza ed ai suoi grandi cultori, all’indipendenza patria; ai preti infine che insegnarono loro a disprezzar l’Italia e a tradirla!
Isernia, capitale dell’antico Sannio occidentale, potrebbesi intitolare, come Palermo, la conca d’oro. Circondata dalle alte cime del Matese—ove[333] tesoreggiano sorgenti abbondantissime ed inesauribili da una parte, fra cui dominano le cataratte del Volturno, dall’altra completando la corona altre delle alte cime apenniniche, ne fanno veramente un paese incantevole, ove il touriste, che fugge le aride ed infocate contrade, può trovare quanto brama di verdure, aure fresche e deliziose ed acque zampillanti e cristalline quanto quelle delle Alpi. Paesi a cui natura fu prodiga d’ogni suo benefizio, e che perciò attrassero il nero bipede che predica l’astinenza e si pasce di lussuria. Sì! il prete come il simoun isterilisce in quelle magnifiche contrade ogni fonte di progresso e di prosperità. Là, ove potrebbero sorgere dei Chicago e dei Manchester, sorgono invece delle città appena note sulle carte geografiche, come Isernia e Campobasso, con popolazioni robuste sì, ma annegate nella più crassa ignoranza.
In Isernia, come dicemmo, stabilì il suo quartier generale monsignor Corvo, onnipotente per i pieni poteri che aveva dal governo borbonico e dal papale, onnipotente per la maliziosa e maligna di lui sapienza, facile ad imporsi su d’un clero ignorante e su popolazioni governate e traviate dal clero.
Gli ordini di lui furono esattamente compartiti, e certamente il generale d’un esercito non poteva essere più ciecamente ubbidito. L’interesse della causa ch’egli serviva, e più l’odio mortale sempre crescente concepito per i rapitori delle sue donne, lo tenevano in un orgasmo indescrivibile.[334] Guai per i nostri amici, se i dipendenti di Corvo avessero avuto la metà del coraggio e dell’attività sua!
Comunque, sulla strada che doveano percorrere i trecento per giungere ad Isernia, ogni specie di ostacoli furono innalzati e adoperati a profusione. Taglio di piante e di strade, trincee, imboscate, mine, distruzione di ponti e quante scelleraggini inventa la malissima umana intelligenza, quando propensa o spinta all’esterminio della propria specie; tutto fu messo in opera dai cafoni diretti da chercuti o non chercuti reazionari.
Per fortuna Nullo ebbe sentore di tanti diabolici preparativi, ed invece di prendere la strada diretta ad Isernia, fece obliquare la colonna a sinistra, valicò i monti ad oriente e gettossi nella vallata del Sangro che percorse sino ad Alfedena; varcò una seconda volta i monti, e per Rionero incamminossi sullo stradale che conduce ad Isernia.
Da Rionero, avanti però, comincia una storia ben dolorosa per i nostri prodi amici. Il loiolesco, poco fidandosi delle attitudini guerresche de’ suoi cafoni, avea chiesto un battaglione di cacciatori al re di Napoli, e l’esercito borbonico dovendosi chiudere nelle fortezze di Capua e di Gaeta, non fu difficile ottenerlo. Cotesti soldati, già agguerriti in varii combattimenti, esperti tiratori ed armati d’eccellenti carabine, cagionarono gran danno ai figli di Roma.[335]
In tutti i zig-zag della strada che da Rionero va ad Isernia, v’erano fossi, barricate e truppe nemiche imboscate. I prodi militi di Nullo caricavano qualunque imboscata e la conquistavano a misura che si scopriva, ma ogni volta, pei tiri accertati dei cacciatori borbonici, essi lasciavano qualche vittima, ed il numero dei feriti cresceva, con grande imbarazzo dei nostri, in un paese ove tutti fuggivano, e portavano via gli animali ed ogni specie di veicoli. L’unico mezzo per portare i feriti era dunque quello delle barelle, costrutte come si poteva, e con grande spreco di gente per portarle—ciocchè menomava orribilmente il numero dei combattenti.
Così si giunse sino alle porte d’Isernia, ove Nullo, credendo di trovare seria resistenza, aveva prese tutte le precauzioni per l’attacco che ad un capo come lui suggerivano la risoluzione e l’esperienza.
Quale fu lo stupore dei nostri quando gli esploratori vennero indietro annunziando che la città era deserta di nemici e di popolazione! E veramente tutta la brigata entrò senza verun ostacolo.
Se nei paesi ove si compiacciono di scialacquare gl’invasori—come l’Italia, per esempio, ed oggi un po’ anche la Francia—si facessero ai nemici le accoglienze fatte da quei d’Isernia ai trecento, per ordine di monsignor Corvo, io sono sicuro che succederebbe come successe in Spagna ed in Russia agli eserciti del primo Bonaparte—lezione che ha fatto inviolabili i territorii di quegli[336] Stati ove la nazione era veramente decisa di non piegare il collo.
Ma che succedeva nei felici e ricchi paesi d’Italia e Francia? Giungeva il nemico—voi vedevate dal sindaco al sagrestano corrergli incontro con musi ridenti—non dico volti, poichè quelle mutrie non appartengono a razza umana—domandare di che abbisognava, ed a gara l’uno dell’altro, rompersi il collo per soddisfare ai bisogni—sollecitudini il più sovente pagate con bastonate o peggio.
Giungevano i connazionali—fossero essi francs-tireurs o volontari—stanchi, decimati dalle palle nemiche o dalla fame.........—«Via! via presto che ci compromettete. I prussiani o i turchi hanno portato via tutto: nulla più abbiamo»—e tante altre simili cantilene.
Fortuna se si era in molti, allora qualche cosa da mangiare e da bere si trovava; in pochi, anche le donne vi correvan sopra colle scope!
E qui lo spigolatore dell’Unità Italiana mi ricorderà l’antifona mia favorita; e siccome, come ogni fedele, sono anch’io un po’ di testa dura e dò poca retta agli spigolatori del dottrinarismo, qui, dico, forse per la centesima volta, devo ricordare agli Italiani che gli ho veduti anch’io i preti col crocifisso alla mano, seguiti da una folla di popolo plaudente, sventuratamente italiano, precedere la trionfale entrata dello straniero nei paesi nostri.
Nelle strade d’Isernia non si vedeva un solo[337] individuo; ed in alcune case trovaronsi pochi vecchi infermi, che la popolazione non aveva avuto tempo di trasportare. Fu cotesto provvedimento del gesuita, e ciò prova quant’era l’astuzia e la capacità di questo nemico del genere umano. Serva questo d’esempio ai nostri concittadini, sempre pronti ad inchinarsi davanti allo straniero facendo così facilissime le invasioni.
Io spero che l’Italia non cadrà più in tali grossolani ed umilianti errori; spero sopratutto che essa non avrà più mai invasioni straniere; ma in caso di tanta sventura, per il pessimo stato delle sue istituzioni, devono essere castigate coll’ultimo rigore e consacrate ad infamia eterna quelle autorità che non comandano all’avvicinarsi del nemico lo sgombro generale di tutto l’abitato ed il trasporto in luogo sicuro, anche sui monti o nelle foreste, di ogni oggetto che gli possa servire, massime il bestiame e gli alimenti per uomini ed animali, abbruciando tutto quanto non si può trasportare.
Vorrei di più, che si castigasse rigorosamente chiunque ha potuto sfuggire il nemico e non l’ha fatto, sotto l’imputazione di spia, e chiunque ha provveduto, anche con un bicchier d’acqua, il soldato straniero.
Poichè noi Italiani dobbiamo finalmente capirla, quegli invasori che i preti accolgono col crocifisso alla mano per ingannare il povero popolo, sono ladri, assassini spinti sotto falsi pretesti a derubarci del sudore delle nostre fronti[338] ed a prostituire i domestici focolari—si chiamino essi francesi, austriaci, turchi od altro—e che dovere di tutti—giacchè si tratta della causa di tutti—si è di distruggerli con tutti i mezzi possibili. Operando in tal modo ed obbligando alle armi chi vuole e chi non vuole, cioè due milioni di militi (10 per 100 come in Svizzera), la nostra Italia è invincibile.
Il loiolita, con tutta la malizia che gli conosciamo, aveva saputo adoperare tutti i mezzi e tutti gli stratagemmi di guerra in cui molti dei generali borbonici avrebbero desiderato di eguagliarlo. Egli disse tra sè: «Questi demonii di rompicolli, per argine che loro si opponga in Isernia, finiranno per superarlo: e questi cafoni, anche dopo d’aver distrutto la metà dei nemici, finiranno per darsela a gambe.—Quindi, meglio far un deserto della città, ove nulla potrà più trovarsi, e portare la guerra in una posizione vantaggiosa al di fuori, in cui, dopo fuggiti i miei codardi, almeno i nemici non troveranno altro che feriti e cadaveri».
Con tale ragionamento diabolico, e dopo d’aver ordinato quanti ostacoli era possibile al progresso dei trecento, egli comandò la completa evacuazione della città in nome del re e della religione.
L’evacuazione fu eseguita in modo da non lasciare nella città che pochissimi vecchi infermi, non trasportabili. Le vicinanze delle montagne e dei boschi presentavano dei nascondigli inaccessibili ai non pratici; ed ogni specie di vettovaglie,[339] bestiame, ecc., che avesse potuto servire ai perduti, vi fu nascosto con cura particolare.
Tutti gli uomini validi, poi, diretti dal comandante del battaglione di fanteria e da varii ufficiali del genio, venuti pure dall’esercito borbonico, organizzaronsi indietro d’Isernia verso Taliverna, Venafro ed i monti che costeggiano la strada a settentrione. Tale sistema di difesa ed offesa era degno d’una causa migliore. E si intende che monsignor Corvo volle mantenersi al comando supremo dell’esercito della fede. Ed era veramente fede ciò che portava sui campi della morte tutta quella massa d’infelici concittadini, poichè, se fossero stati guidati dalla ragione, essi avrebbero capito che servivano chi li ingannava e li vendeva, mentre pugnavano per l’esterminio dei valorosi campioni della loro causa, cioè quella degli oppressi!
Nullo, da quell’esimio capo che era, concepì tutto il pericolo della situazione; ma trovò nello stesso tempo nell’intimo dell’anima sua tutta la energia che tale critica posizione richiedeva.—Molti davano per motivo dell’abbandono d’Isernia lo spavento cagionato dai nostri alla popolazione; ma egli non ingannossi, e, senza manifestare il suo criterio, si attenne alla conseguenza che qualche stratagemma fosse meditato dal nemico, oppure che si fosse trincerato in forti posizioni sulla strada che si doveva percorrere; e così era veramente.
Il più terribile della situazione dei militi della[340] libertà, era il gran numero dei feriti—proporzionatamente all’esiguo numero degli avanzi dei trecento—ed era cotesto il maggiore dei pensieri dell’illustre capo.
Abbandonarli quei prodi compagni feriti!—nemmeno per sogno, piuttosto perire tutti che lasciare alla ferocia del prete e de’ suoi fanatici tante nobili vittime!—E così si fu obbligati di rimanere per alcuni giorni in Isernia, ove nulla si trovava perchè portato via o distrutto; ma almeno i sofferenti avevano un tetto da ricoverarsi dalle intemperie ed alcuni giacigli ove riposare le membra stanche ed addolorate. Si prepararono delle barelle in mancanza di veicoli; si sacrificarono alcuni cavalli e si trovarono pochi polli nei dintorni per avere un po’ di brodo per gl’infermi. Difficilissimo, poi, fu trovare dei panni da far fascie e filaccie per le ferite. Anche i sani trovarono difficilmente da mangiare e fu quindi ben malinconico il soggiorno dei nostri in Isernia.
Che importava fossero italiani, e della miglior specie! Essi erano eretici! maledetti da Dio! e quindi condannati all’inferno! all’inferno, capite!—in quella bagatella di fuoco eterno che i preti han trovato sì comodo per arrostire coloro che non vogliono saperne della loro bottega e che non vogliono pascere l’insaziabile loro ventre e le sante loro lussurie!
Venne finalmente il giorno della partenza; e benchè molti nella colonna credessero le maggiori difficoltà superate, non era questa l’opinione[341] del comandante. Egli non manifestava esteriormente i suoi timori, ma nel fondo dell’anima sentiva un presentimento invincibile di sciagura.
Comunque, egli ordinò un sistema di marcia con tutte le precauzioni richieste in circostanza di pericolo. P... colla sua centuria, assottigliata dalle diverse pugne, continuò a fare l’avanguardia. La centuria di Muzio, con cui trovavasi Nullo, occupava il centro; seguivano i veicoli e le barelle dei feriti, e la retroguardia fu affidata alla centuria d’Orazio, comandata dal tenente Ezio in sostituzione del capitano ferito gravemente.
Alcuni veicoli, che prima si chiamavano dell’Intendenza, servivano pei feriti, e se qualche briciolo d’alimento esisteva nella brigata, questo era ben custodito nel sacco o nella saccoccia di alcuni militi.
Tra Taliverna e Venafro scorre il Volturno, ancora torrente e colle sponde scoscese. Lo stradale traversa quasi perpendicolarmente il fiume su cui esisteva un ponte che venne minato dai borbonici; e fu in questo luogo ove il generale Corvo ammassò tutti i suoi mezzi di resistenza. E veramente, per opporsi ai progressi dei liberi italiani, sito più conveniente e più formidabile, era ben difficile trovare.
Lina, Virginia e Marzia marciavano nel centro in coda alla centuria di Muzio, ove occupavansi anche della custodia dei feriti.—Esse avevano partecipato alle antecedenti pugne, armate di carabina, e mettendo piede a terra quando abbisognava.[342] In Isernia però erano state obbligate di cedere i loro cavalli per l’inesorabile bisogno di mangiare e di avere del brodo.
A piedi o a cavallo, noi già conosciamo l’intrepidezza delle giovani eroine, avanzi di venti combattimenti, e la romana Virginia, forse più per disprezzo della vita, ma anche perchè dotata di natural coraggio, seguiva valorosamente l’esempio delle compagne, quantunque meno adeguata alle fatiche ed ai perigli della vita dei campi di battaglia.
Esse avevano affrontato il pericolo con ilarità sino a questo giorno, dimenticando le due romane anche la consueta malinconia. Ma oggi (credo 28 ottobre 1860) certo presentimento, che si guardavano di manifestarsi reciprocamente, annuvolava i loro volti raffaelleschi.
In un momento d’alto, Lina che non poteva stare nella pelle, scostossi un poco a destra, salendo su di una piccola eminenza. Essa gettò lo sguardo, acuto e penetrante come quello dell’aquila, verso le maestose cime del Matese; ne contemplava la scoscesa catena adorna di piante secolari di quercie e di castagni, formando boschi foltissimi in alcuni punti; e mentre divagava la vista nell’imponente spettacolo, essa ad un tratto, rivolta alle compagne, esclamò:
«Vedete! vedete!» segnando ad un punto non lontano al di là del Volturno.
«Ma noi nulla scorgiamo» rispose Marzia incamminandosi al punto ove trovavasi l’amica.
«Non vedete quanta gente si aggira dietro a[343] quelle piante?» ed indicava il punto coll’indice.
Le compagne rimasero attonite. Esse avevano veduto allora ciò che non potevano prima discernere; cioè, una folla immensa che, sebbene volesse nascondersi, non mancava di mostrare la sua massa imponente. Quella folla componeva l’ala sinistra dei borbonici, destinata a caricare la diritta dei nostri, di fianco, quando fossero impegnati al fronte contro i quattrocento cacciatori dell’esercito regolare.
Alcune deboli scaramucce impegnaronsi tra gli esploratori di P... e gli avamposti nemici. La resistenza di questi però doveva essere apparente, e quando incalzati, avean l’ordine di ritirarsi sino a lasciare impegnare nel ponte il grosso dei liberali.
L’eroico martire della Polonia in quell’istante pensò ai suoi feriti; ed un tetro, malinconico, terribile pensiero, amareggiò l’anima sua gentile. Oh! i feriti abbandonati in potere d’un nemico inesorabile! che non dà quartiere! che giungerà con quel sorriso sardonico in cui l’uomo somiglia alla belva assetata di sangue! i feriti che vedranno il sarcasmo dell’omicida e che non potranno nemmeno coprirsi gli occhi colle mani per nascondersi all’orribile vista dell’esterminio de’ compagni e del proprio! A tale idea non regge il cuore—se non sia quello d’un prete!
Io gli ho provati tali sensi; e su queste spalle si sono posate le membra grondanti di sangue[344] de’ miei fratelli d’armi. E ne vo superbo! Ma quanti di loro non mi sono trovato obbligato di abbandonare sui campi di battaglia! E certo, se invidio la robusta sveltezza della gioventù, lo è anche perchè, decrepito, non posso più sollevare un fratello caduto!
Egli non pensava, il generoso figlio delle Alpi, che tra breve, caduto trafitto da piombo cosacco, ei bramerebbe la mano d’un amico per sorreggergli la testa morente.
Rivolto a Lina—che, minacciando la tempesta, s’era avvicinata all’amato del suo cuore—egli le disse:
«Torna dalle tue compagne e raccomanda i nostri poveri feriti; sopratutto che non li lascino indietro».
La vezzosa, un po’ stizzita d’essere rimandata indietro, compì esattamente la missione, ma fu presto di ritorno accanto al capo. E questi:
«Ordina a tuo fratello di passare il ponte, di prendere a destra e proteggere il nostro fianco, mentre noi procederemo avanti».
«Avanti!» esclamava il bellicoso concittadino di Nullo, cui il pericolo aumentava l’ardire. «Avanti!» ed ordinava di suonare la carica all’ordinanza sua, che a Tivoli s’era fornita d’una tromba dei zuavi pontifichaux, e nel gridare «avanti!» il nostro P..., colla sciabola alla mano, lanciossi sui cacciatori che sembravano voler difendere il ponte, ma che fuggirono all’avvicinarsi del nembo. Egli era sempre accompagnato[345] nelle pericolose imprese d’avanguardia dal coraggioso Talarico che gli serviva da guida e da compagno.
Nullo seguì subito il movimento dell’avanguardia colla centuria del centro. Egli marciava in colonna per sezioni a distanza intiera all’oggetto di fare una maggior comparsa di forze che non esistevano realmente. Ma quando il centro della sua colonna passava il ponte a passo celere, il nemico, per via d’un filo, fe’ saltare la mina, e per fortuna l’esplosione ebbe luogo tra una sezione e l’altra.
Comunque, vi furono varii morti, feriti precipitati nel fiume e, peggio ancora, il convoglio dei feriti e la retroguardia divisi dai loro compagni. Il demonio del fanatismo e della guerra aveva veramente inspirato il gesuita in quel giorno fatale, e tutto camminava secondo le previsioni sue diaboliche. Egli aveva ridotto i trecento a terribile frangente; e con tutta la fiducia che cotesti valorosi avevano nel loro capo, non mancarono alcune parole ingiuriose tra loro: «Perchè non s’erano fatte indagini più accurate prima di avventurarsi sul ponte; e se non vi aveva pensato il duce, perchè non il capo di stato-maggiore?»
Non appena la mina ebbe scoppiato, una valanga di forsennati precipitò dai monti sulla destra dei nostri. Urlavano come belve, mentre fulminavano stando dietro le piante una grandine di fucilate. Fortuna per i liberi che i cafoni non[346] erano destri a sparare il fucile. Non così i cacciatori borbonici.—Il loro battaglione, imboscato dietro varii scaglioni di trincee e di fossi, aprì un fuoco infernale di fronte, e questi soldati, addestrati ai tiri ed armati d’eccellenti carabine, in poco tempo fecero un monte di cadaveri e di feriti ad occidente del ponte del Volturno.
P... che aveva passato il ponte con circa cinquanta uomini della sua centuria, era stato obbligato di ripiegarsi sulla centuria del centro; ed in poche parole, con Nullo. Essi convennero di difendersi sul posto—alquanto coperto dalla depressione del terreno, dalle sponde del fiume e dai rottami del ponte—sinchè Ezio ed i feriti avessero potuto varcare il Volturno—ciocchè costò molte vite e gran perdita di tempo. La situazione del resto dei trecento diveniva ognor più disperata; ed il nemico ingrossava sempre più; non ostante, sin quasi verso sera ogni carica del nemico era stata respinta, ed i nostri padroni del campo di battaglia.
Nullo, P..., Muzio, Ezio e le nostre eroine sembravano leoni feriti. Menomati gl’individui, erano cresciuti i moschetti, i cadaveri fornivano di munizioni coloro che potevano sparare; ed ognuno aveva scelto un’arma buona, se non per vincere, almeno per vender cara la vita. Si era, fra questi superbi campioni del diritto, nella voluttà della morte! Chi cadeva gridava: «viva l’Italia!» Ed i nemici, verso sera, non ardivan più di giungere[347] su quel mucchio d’eroi la maggior parte feriti.
Orazio, malgrado la debolezza a cui l’aveva ridotto la ferita della fronte, aveva impugnato un fucile, e fu rovesciato da una palla al cuore mentre puntava.—Finì la vita gloriosa senza un lamento. Ezio cadeva accanto a Orazio, e verso il tramonto, dei nostri conoscenti solo Lina era rimasta illesa. Talarico nel più forte della mischia la copriva col suo corpo e, sdegnando il fucile, quando i più arditi dei nemici nelle loro cariche s’avanzavano a pugnare corpo a corpo, egli aveva trovato una scure, e guai al cafone od al cacciatore su cui cadeva la terribile lama! Anch’egli cadde finalmente!... contento d’averla difesa e beato da uno sguardo di lei nell’ultimo respiro della vita.
Corvo, colla libidine della passione e della distruzione nell’anima, malediva la notte, e malediva anche la bugiarda storia della Sacra Scrittura che contava la favola di Josuè. Scettico e libero pensatore nel fondo della coscienza, egli per un solo filo teneva ancora alla formidabile società di cui era stato sino allora il più saldo sostegno.
Comunque, egli eccitava a tutta possa i borbonici all’assalto. Correva dalle fila dei cafoni ai cacciatori esortandoli in nome del re, ch’ei disprezzava, della religione, ch’egli irrideva, ed in nome del diavolo! Prometteva onori, paradisi, ricompense, e qualche volta ricorreva anche a[348] dei rimproveri, a degli improperii e a delle bestemmie.
Egli capiva che colla notte sarebbersi raffreddati i suoi poco agguerriti villici, e voleva tentare ad ogni costo il finale esterminio del pugno di valorosi che gli stavano di fronte, che finalmente egli non poteva nascondere a se stesso una profonda ammirazione per essi ed un orgoglio d’avere concittadini tali!... A che fatale e tremenda condizione conducono le vocazioni ed i giuramenti dei preti!...
«Caricate» egli gridava «caricate quei pochi scomunicati che restano! Macellateli! voi avrete fatto opera gradita al Dio degli eserciti che combatte con voi; non le vedete le legioni d’angioli, colle loro spade di fuoco, che incendiano, abbagliano, distruggono i maledetti nemici del re e della santa religione?»
Sapeva di mentire! ma era prete ancora!
I cafoni, che colla paura in corpo degl’intrepidi e valorosissimi avversarii, vedevano tutto doppio, non scorgevano angioli certamente, ma nella loro immaginazione esaltata non mancavano d’essere eccitati dalle parole ardenti dell’energumeno! Avanzavano con grida furiose contro i liberali; ma questi, impavidi, li lasciavano avvicinare per caricarli e respingerli in confusione.
La notte favorevole ai ladri ed agli amanti, lo è anche qualche volta ai coraggiosi che sanno aspettarla intrepidi quando, sopraffatti da numero[349] grande di assalitori, sarebbe pericolosissimo il ritirarsi davanti a loro di giorno; chè la ritirata volgerebbesi certamente in sconfitta, senza contare il gran numero di perdite che ne risulterebbe. E tale fu il caso di codesto eroico avanzo della gioventù romana.
In un momento di tregua, concesso per motivo dell’imminenti tenebre della notte, Nullo, riunito a Muzio ed a P... leggermente feriti, disse loro: «Noi dobbiamo operare una marcia degna dei Mille e dell’Italia. Gli ottanta uomini circa che ci restano illesi, noi dobbiamo ordinarli in quattro sezioni ed in colonna serrata, assaltare il nemico di fronte e proseguire per lo stradale, con marcia tanto celere quanto sarà possibile, sino a raggiungere Tora ove, senza dubbio, noi troveremo il nostro prode Chiassi con un battaglione dei nostri.—I feriti!»—e qui un mortale sudore inondò il volto del guerriero ed un freddo brivido gli corse per tutto il corpo.—«I feriti, coloro che possono marciare, seguiranno la colonna, ognuno dei nostri cavalli porterà due dei feriti nelle gambe; i mortalmente feriti!...» Qui Nullo non potè proseguire le istruzioni.
Meglio distruggerli sarebbe stato! essi sarebbero morti lo stesso, ma senza insulti, senza raffinatezza di tormenti, senza essere torturati dalle iene fanatiche assetate del loro sangue.
Bello è l’uomo che si sacra alla morte per una causa santa! E fattone il proponimento, egli la[350] affronta con rassegnazione, colla tranquilla ilarità d’uno sposo![58]
Che Dio (l’Infinito) benedica gl’italiani che nell’anima generosa nutriranno il sacro proposito di non lasciare mai più la loro bella patria ludibrio di soldato straniero!
Nullo aveva alla sua destra Lina che portava in anca Marzia gravemente ferita in una spalla.—Egli portava Virginia ferita nel petto; Muzio e P... avevano ciascuno un ferito. P..., che non volle abbandonare il posto d’onore dell’avanguardia, aveva con sè il suo tromba con il braccio destro rotto da una palla ed impugnando l’istrumento colla sinistra. Al momento di principiare la marcia, un’ultima disperata carica dei borbonici obbligò la piccola colonna dei liberi a fermarsi. Ma trovati in ordinanza ed eseguendo l’ordine di non scaricar le armi che a bruciapelo, le due fila di fuori—i nobili figli della libertà italiana—cacciarono i soldati del prete come polve, e ciò permise loro d’imprendere subito dopo la marcia meno molestati.
Un incidente, favorevole ai nostri, successe pure nell’ultima carica del nemico. Il gesuita, disperato, furibondo di vedere fuggire le prede, tanto fece da persuadere i capi del suo esercito[351] di tentare un’ultima carica. Ma i suoi soldati, già stanchi ed impauriti dall’intrepidezza dei nostri, abbiam veduto come se la svignarono a gambe, e s’udirono varii dei fuggenti, tanto acciecati dal terrore, che passando vicino ad una pianta e prendendola per un nemico, gridavano: «Signor liberale: mi arrendo, mi arrendo!»
Non fu la sola fuga degli avviliti cafoni, la fortuna del valoroso avanzo dei trecento; ma Corvo stesso, che, come capo supremo, trovavasi a cavallo, e che, rabbioso di non poter spingere i suoi all’assalto, s’era avanzato primo, e venuto alle mani con P..., più forte e più svelto di lui, fu rovesciato da cavallo da una sciabolata attraverso il muso, e consegnato prigioniero nel centro della colonna.
Fu valevole cattura quella del Loiolita; ed alcuni dei villici, che, più vicini a lui, l’avevano veduto cadere, lo diedero per morto; e colla perdita del capo ebbero pretesto di ritirata tutti quei paesani, che preferivano certamente una cena in seno alle loro famiglie—alle avventure guerresche, nelle quali erano stati trascinati dai preti, ed alla gloria del paradiso.
Non così i cacciatori dell’esercito borbonico: trincierati dietro alle barricate, essi sostennero tenacemente l’urto della colonna dei liberi; e solo dopo una mischia accanita, essi volsero le spalle e si arrampicarono sulle falde dei monti, di dove danneggiarono ancora per un pezzo i nostri, e ne turbarono la marcia.
[58] Nell’ultima guerra nord-americana un milite a cui dovevano amputare una coscia, chiese un violino e si mise a suonare mentre l’amputavano.—Il maggiore Brida al combattimento di Melazzo, ferito al collo, cadeva gridando: «Viva l’Italia!»
Tora era veramente occupata dal colonnello Chiassi, lombardo, uno dei migliori generati dal risorgimento italiano.—Chiassi, di cui l’Italia andrà superba anche nelle generazioni future le più remote.
Chiassi era uno di quei pochi, che accoppiavano al merito di gran cittadino e d’esimio guerriero, la modestia d’una vergine; e devo confessarlo, l’Italia, fra le nazioni ch’io conosco, è certo una delle meno povere in questo genere di tipi che onorano l’umana famiglia. Sì! patria mia, consòlati nelle tue sventure.—Ogni nazione ha i suoi uomini illustri, i suoi prodi, e forse popolazioni delle tue più robuste,—e ne ripeterei la causa se volessi imbrattare di nero anche[353] questo foglio. Sì, consòlati! e rialza la maestosa tua fronte con orgoglio!
Nullo, Chiassi, Mameli, Cozzo, i Cairoli, Pisacane, Fabrizi, Ferraris, Calvi, Masina, Cottabene, Montanelli, Elia[59], e tanti altri figli tuoi, che diedero la gloriosa vita per il tuo riscatto, a nessun popolo della terra è dato di generarli migliori!
Dai suoi esploratori, Chiassi, senza sapere chi fossero, seppe esservi gente nostra che si batteva verso Venafro, ed uscì immediatamente per proteggerla.—Ma avvisato tardi, ei giunse al principio della notte, a distanza di poter udire le ultime scariche. Non partecipò al conflitto, ma prendendo la retroguardia delle reliquie dei trecento, coll’imponenza della sua apparizione, trattenne il battaglione di cacciatori borbonici dall’inseguire i nostri e molestarli.
La riunione dei fratelli Romani, e dell’esercito meridionale, in cui militavano giovani d’ogni parte della penisola, fu proprio commovente! Si fecero avanzare quanti veicoli fu possibile rinvenire in Tora e nelle vicinanze, e vi si adagiarono nel miglior modo i feriti.
Chiassi, dopo d’avere inviato le sue disposizioni in paese, continuò a fare la retroguardia alla decimata e stanca colonna degli amici. La marcia perciò non fu più molestata, verso mezzanotte tutta la forza fu accomodata dentro al paese, e[354] poco dopo accomodati tutti i feriti nelle case particolari, per mancanza di adeguati ospedali.
Pochi giorni prima, parte dell’esercito meridionale aveva passato il Volturno al di sopra di Capua, e l’esercito italiano del settentrione, avanzando a grandi giornate, i borbonici si ritirarono verso Gaeta, ultimo baluardo di Francesco II.
[59] Lombardo caduto a Condino: valoroso e modesto come Chiassi.
Il gesuita, che forse, obbedendo allo spirito malvagio della setta a cui apparteneva, e che sembrava avere per meta di snaturare la natura umana, pervertirla, prostituirla, ingolfarla in ogni specie di culto del male e d’inimicizia del bene, il gesuita, dico, aveva cercato la sola soddisfazione della lussuria nella bellezza.
Egli, forse pria d’ora, per uno scetticismo brutale ed indecente, aveva disprezzato le vezzose creature contaminate da lui, quando di loro padrone; oggi che le vedeva fuggite alle sue libidini di prete, ed in potere altrui, sentì in sè[356] stesso l’uomo, e sentì quanta somma di tesoro avea perduto. Ogni sentimento allora di dovere di setta, di disprezzo, d’odio, sparì davanti al nobile senso dell’amore che avevano meritato le sventurate sue vittime.
E fu amore selvaggio, il suo, amore, per cui egli avrebbe dato fuoco, non solo alla mina del ponte, ma alla mina dell’orbe s’egli ne avesse avuta la miccia alla mano! Amore! che, come abbiamo veduto, lo fece precipitare sotto la lama omicida del guerriero alpigiano, e da capo supremo d’un esercito, ridotto a vile prigioniero ferito d’una masnada ch’egli detestava più della morte!
Condotto nel centro della colonna in marcia su Tora, e trascuratamente vigilato dai militi stanchi, egli tentò la fuga, facilitato dall’oscurità della notte, e pervenne ad uscire dalla colonna, arrampicandosi a destra verso le falde dei monti.
Ma fatalità, o giustizia! Una palla dei cacciatori borbonici, forse l’ultima degli ultimi tiri sparati sul fianco destro dei nostri, lo colpì sul naso, fra i due occhi, quasi all’istesso punto, ove aveva ricevuto la prima ferita; ambe ferite dolorose, ma non mortali per disgrazia sua, che quasi lo acciecarono completamente. Egli cadde, ma rialzossi subito, e cogli occhi appannati dal sangue e dalle tenebre, cercando scampo colla fuga, precipitossi nuovamente nelle fila de’ suoi nemici, ove, riconosciuto, lo legarono colle mani[357] di dietro, e lo ricondussero con più vigilanza di prima.
Il villaggio di Tora è dominato da un castello, residenza degli antichi signori del medio-evo; oggi palazzo municipale—ed è certamente il più importante edifizio del paese. Chiassi ed il suo stato maggiore l’occupavano prima dell’arrivo di Nullo; ma giunto costui con gran numero di feriti, negli spaziosi appartamenti del castello, vi si collocarono molti letti, e vi si poterono accomodare quasi tutti.
Un aneddoto curioso successe il primo giorno dell’arrivo di Chiassi in Tora. I preti, disperati di veder occupato il loro paese dagli eretici, inventarono la storia, che nel palazzo, di notte, vi si sentiva, cioè si udivano dei rumori soprannaturali, e si raccontava di più, che un sacrestano ch’ebbe l’ardire di volervi passare una notte, disparve, e non se ne seppero più notizie, probabilmente portato via dagli spiriti degli antichi signori del castello, che non tolleravano stranieri.
«Oh bella!» disse Chiassi al curioso annunzio «questa è prova che merita d’essere tentata, e la voglio tentare da solo».
Egli fece quindi preparare una stanza per lui solo, e da cena, la stessa sera, e pregò i suoi ufficiali di alloggiarsi per quella notte nell’osteria del paese.
Cenò il nostro Chiassi con quella pacatezza e con quel sangue freddo che tutti gli abbiamo conosciuto, anche nei maggiori pericoli; fumò[358] il sigaro e sdraiossi dopo sul letto per lui preparato. Non spogliossi totalmente, non per timore, ma per abitudine contratta in quei tempi grossi d’avvenimenti.
Toltisi però gli stivali dai piedi, ed assicuratosi al capezzale un revolwer e la sciabola, coricossi, e non tardò a prendere il sonno, stanco d’una giornata laboriosa.
Era circa la mezzanotte—ora che credo generalmente preferita dagli spiriti per eseguire le loro notturne peregrinazioni:—il colonnello russava, e credo in modo da essere inteso anche dagli spiriti che hanno l’udito fino.
Ad uno spirito armato di pugnale ed avvicinandosi a piedi scalzi ed adagio al dormente, futuro eroe di Bezzecca, non sarebbe forse stato difficile di troncargli la vita, e tale metodo sarebbe stato forse più gradito ai preti di quello adoperato per spaventare l’intemerato milite di tutte le battaglie italiane. Pare però, che i colpi arditi non fossero usati dagli spiriti del castello di Tora.
Il colonnello Chiassi, l’udito del quale era tanto fino quanto quello degli spiriti, udì in quell’ora un gran diavoleto di ululati, di rumori di catene—come quando i marinai a bordo delle navi si dispongono a dare fondo alle àncore—e tanti altri schiamazzi da assordare anche un campanaro.
Egli in silenzio, aspettò alcuna apparizione—giacchè lo schiamazzío si stava avvicinando.—E realmente, dopo poco, comparì un fantasma[359] spaventevole, d’un’altezza spropositata, gettando fuoco dagli occhi, dalla bocca e dalle narici, ed accompagnato da una folla d’altri spiriti, non così alti, ma anch’essi gettando fuoco da tutti gli orifizii.
Tutt’altri che il nostro Chiassi avrebbe cominciato per regalare agli spiriti la mezza dozzina di palle del suo revolwer. Egli però non tenne l’apparizione da tanto: e scalzo com’era, quindi più svelto, sguainò la durlindana, e precipitossi sul comandante degli spiriti.
Alla prima sciabolata—per di dietro, s’intende, poichè il formidabile capo non aveva aspettato di fronte il milite dell’Italia—alla prima sciabolata—dico—a gambe se la diede lo spirito, preceduto da tutta la brigata di spiriti che sembravano ancor più svelti di lui.
Chiassi non volle lasciar l’impresa a metà; e siccome la sua sciabola, cadendo sulla cervice del fantasma, lo aveva quasi spogliato—infrantumandoli—d’una massa d’oggetti da mascherata, questi trascicavano al rimorchio dello spirito capo, e ne impedivano la celere fuga. Dimodochè l’agile nostro guerriero potè aggrapparlo per il colletto, e trascinarselo dietro verso la sua stanza.
«Misericordia!» gridava lo spirito quando si sentì nelle unghie d’una mano d’acciaio—«misericordia!» e Chiassi: «furfante! vieni che voglio appiccarti al principale balcone del palazzo per divertire domani i tuoi poveri ed ingannati concittadini».[360]
«Dio mi perdoni! per il ventre di vostra madre che è l’effigie di Maria Santissima!» E per di qui—e per di là, raccomandandosi a quanti santi vi sono sul catalogo dei cherchuti! Ma, il nostro prode, che sapeva ciò che sono i santi della bottega—da Domenico di Guzman al Loiola ed al benemerito Arbues—storceva alquanto il colletto, acciò lo spirito cominciasse ad assaggiare un tantino il gusto del capestro a cui era destinato.
Dobbiamo osservare, che Chiassi, nel perseguire i fantasmi teneva come loro la parete dei corridoi e delle stanze, lasciando a destra od a sinistra i mezzi.
Egli aveva letto—non so in che libri—che questa storia di fantasmi nei castelli finiva sempre colla vittima precipitata nei trabocchetti. E ben gli valse tale studio, poichè in un momento di distrazione, avventurandosi nel mezzo d’un corridoio, il capo degli spiriti gridò al colonnello; «In qua! per l’anima di Dio!»—«Assassino»—esclamò Chiassi, profittando però dell’avviso. E realmente il malandrino confessò esservi due trabocchetti nello spazio che avevano percorso insieme.
Chi ha la pazienza di leggermi conosce forse ciò che sia un trabocchetto. Figuratevi un pezzo di tavolato di legno non inchiodato sul pavimento, e sorretto da un asse sul mezzo su cui gira liberamente. Le sue dimensioni sono circa due metri di lunghezza ed altrettanto di larghezza,[361] dimodochè schiudendosi, l’individuo che vi si precipita, non può sostenersi in nessun senso.
Il fondo di tali trabocchetti è generalmente ad una profondità da rompersi il collo cadendo. I preti ed i signori feudali—tutta gente famosa per tale sorta di divertimenti—avevano perfezionato l’opera, sino a guarnirne il fondo con delle punte d’acciaio o di ferro, su cui le sventurate vittime rimanevano inchiodate.
Dopo gli avvenimenti mentovati, e riconosciuto essere il capo degli spiriti quel biricchino di sacrestano, sparito secondo la storia dei preti, e che non fu appiccato perchè i liberi sono una classe di gente che non somiglia agli autocrati ed alle loro spie, i satelliti sitibondi di sangue; dopo aver constatato anche essere gli spiriti minori altrettanti birbanti di cafoni che accompagnavano il sacrestano per la mercede di poche lire, dopo tutto ciò, dico, il colonnello Chiassi abitò il castello col suo stato maggiore, sino all’arrivo dei fratelli feriti, a cui tutti gli appartamenti furono ceduti.
Alla richiesta loro, Virginia e Marzia, furono collocate nella stessa stanza. Esse soffrivano molto per le gravi ferite, aggravate ancora da una marcia disagiata. Comunque, tanto era l’affetto scambievole delle due vezzose donne, che sembravano mitigare le loro sofferenze colla vicinanza.
Pallidissime, colla nera capigliatura sciolta, i grandi loro occhi nerissimi, torbidi dai lunghi[362] patimenti, contemplavansi reciprocamente, senza articolar parola. Marzia poteva veder la compagna senza muoversi, perchè ferita nell’omero sinistro, essa appoggiavasi, per soffrir meno, sul destro. Non così Virginia che, per vedere la sua Marzia, doveva faticare cogli occhi soverchiamente inclinandoli, poichè ferita nel bel mezzo del petto, era obbligata di stare supina, coll’ingiunzione d’immobilità assoluta, posizione necessaria nelle ferite gravi, e raccomandata dai chirurghi: terribile però, per chi deve soggiacervi molti mesi. Essa la vedeva meglio, quando sollevata alquanto colla testa per bere.—E beavasi, poverina, nella contemplazione di lei che le stava di fronte.
In una circostanza, in cui medicavasi la ferita di Marzia, e si dovevano scoprirle le spalle, un ahi! dolentissimo sgorgò dalle fauci della contessa, la quale svenne, e per un pezzo si credette passata all’altra vita. Marzia ne fu disperata, e molto lottarono Lina e le signore che gentilmente l’assistevano, poichè a tutta forza essa voleva scendere da letto per soccorrere Virginia.
All’oblivione si è condannati, quando si è vecchi! e noi per un pezzo andammo avanti, dimenticando Elia, il padre di Marzia, il torturato del Santo Ufficio!
Dacchè egli aveva raggiunto i trecento alla partenza da Roma, la sua esistenza era stata macchinale al punto d’esser tenuto in generale per demente. La sola vista della graziosa sua figlia,[363] e le amorose cure e carezze di lei, sembravano galvanizzarlo, lo richiamavano in sè, e da essa sola egli accettava alcuno scarso alimento. Così l’infelice vittima della più orribile delle istituzioni umane, continuò il suo viaggio, dividendo i disagi dei compagni ed i perigli, per cui nessun timore egli sentiva, divenuto impassibile ad una vita di dolori e di miserie.
Che importava al vecchio discendente d’Abramo d’essere colpito da una palla! egli sapeva che bisognava finirla o in un modo o nell’altro, e quando più penibili d’una palla nel cuore, si effettuano modi nella transizione di questo nostro soggiorno sulla terra, per un’altra vita che nessuno conosce, ma che pure è nuova materia sotto forme forse di ceneri o di vermi. Solo un legame lo tratteneva in questo mondo—legame indissolubile, prezioso, dilettevole—l’affetto per Marzia! Per quella bellissima creatura amata da tutti, e da lui idolatrata. Benchè, sventuratamente, nelle tribolazioni e negli ultimi aneliti dell’esistenza, giungasi a tale scetticismo, in cui impallidisce, affievolisce anche il più fervido dei sensi—l’amore!—davanti all’inesorabile legge del destino, tuttavia tale indebolimento della materia e dell’intelligenza non aveva potuto distruggere il senso sublime, che solo teneva in vita il povero vecchio.
Si capisce facilmente quale poteva essere la situazione d’Elia nell’ospedale improvvisato; servire la sua Marzia, sarebbe stata l’intima aspirazione[364] del suo cuore. Ma che poteva egli fare colle sue membra slogate? Appena poteva, sorretto da un infermiere, muoversi da una sedia all’altra; e così passava le sue ore, contemplando la giovane ferita, essere unico, che, per poco ancora, lo vincolava in questa valle di malanni.
L’esclamazione della contessa, però, così solenne, così straziante, sembrò galvanizzare quel corpo inerte. Egli rizzossi, e dal volto di Virginia, il suo sguardo portavasi sulle spalle nude della sua Marzia: fissossi in un punto della spalla destra della fanciulla, ove, sopra la cute d’una carnagione d’alabastro, scoprivasi un neo nero nero, proprio del colore della capigliatura.
«È lei! è lei!» esclamò il vecchio, volgendo lo sguardo da Marzia a Virginia; «è lei!» Egli solo aveva interpretato giustamente il grido doloroso della donna svenuta,—e cadeva nell’abituale torpore, rialzandosi però a tratti, come se avesse voluto iniziare una confessione importante alla stessa,—ed una lacrima finalmente bagnava quella guancia inaridita da tanto tempo dagli anni e dai patimenti.
Molto stette la contessa Virginia a ritornare in sensi; vi volle tutta la perizia del chirurgo, chiamato per trarla dallo svenimento, e tutte le cure gentili di Lina e delle compagne.
«Signora,» disse il medico alla più anziana delle donne che assistevano le inferme; e con un segno additò a lei di seguirlo.—Giunti a poca distanza, egli parlò sommessamente: «Bisogna[365] evitare a quell’infelice signora, qualunque motivo d’emozione.—Essa non è curabile; comunque, per ragioni d’umanità, convien far men penosi che sia possibile gli ultimi momenti di lei». Una lagrima, fu la risposta della generosa abitatrice di Tora. E dobbiamo confessare che, malgrado l’essere cotesta contrada anche infesta dalla mala pianta del chercume, i nostri feriti furono molto ben trattati in generale, e massime le belle ed interessanti figlie di Roma. E speriamo con ragione, che la razza italica riprenderà il suo ascendente nel mondo, quando giungerà a sradicarla—fino all’ultimo filo, s’intende—perchè, se no, si riprodurrà sempre come la gramigna.
Le prescrizioni mediche, siano esse da attuarsi in casa particolare, o negli spedali, sono, generalmente, non eseguite puntualmente: e qui non fu veramente colpa delle signore infermiere, se tali prescrizioni vennero pure infrante. Il vecchio Elia, che da parecchi momenti era divenuto un energumeno da non poter più stare nella pelle, approfittò d’un istante in cui le donne sollevavano la testa della contessa, per darle da bere, e presentò agli occhi di lei una collana d’oro, con in fondo una croce bellissima, dello stesso metallo, tempestata di diamanti ricchissimi, che abbagliavano la vista col loro splendore. All’atto, il vecchio aggiunse i seguenti nomi: «Virginia e Silvia!»—«Silvia!» esclamò la contessa—ed i suoi occhi vitrei fissaronsi sul prezioso gioiello, come se stato fosse un talismano,—e la[366] bella testa rovesciossi sul cuscino, qual fiore che al soffio ardente del vento del deserto, si piega sullo stelo, per non più raddrizzarsi.
Eppure l’ora finale della bella tradita non era ancora suonata. Essa si scosse in un momento dopo, come tocca da corrente elettrica, aprì gli occhi, e li rivolse su Marzia con tale avida espressione d’amore, che solo una madre può capirla ed apprezzarla!
«Mia figlia!» esclamò essa—e la spossatezza, l’emozione, non le permisero altra parola. Essa ricadde!
Che pensieri tetri! che riflessioni non dovevano solcare l’anima di questa donna sventurata!—«Dunque non era morta, come dicevami quell’infame, il frutto innocente delle sue diaboliche depravazioni!» diceva con se stessa: non era dunque morta questa figlia delle mie viscere, tanto amata senza conoscerla—e tanto bella, e tanto buona, tanto graziosa,—ch’io perseguitai come se fosse stata una belva!—Oh! se nella derelitta mia esistenza l’avessi avuta per compagna!» Essa prese la mano di Muzio, che mesto stava al suo capezzale contemplandola, la portò alla bocca, e la bagnò di lagrime. Il pianto sembrò alquanto raddolcire il suo cordoglio, e con uno sforzo di cui prima non si sentiva capace, essa alzò un tantino la testa per meglio contemplare la figlia dell’amor suo.
Lascio pensare qual era l’anima della povera Marzia a tale per lei commoventissima scena, di[367] cui essa certamente era una delle principali attrici. Essa, abbrancossi al collo della sua Lina, per quanto lo comportava la ferita, e pianse dirottamente, senza poter articolare una sola parola.
La contessa Virginia era dunque sua madre: essa non era più un’orfana;—e ben glie lo diceva il cuore, quando, non ostante la persecuzione subíta, non aveva potuto a meno di nutrir affetto per essa. Ed in tutto il decorso del disagiato viaggio, quanto erasi aumentato l’amore reciproco, da non poter più esistere divise—ed ora!... probabilmente un avello riunirà gli avanzi di due preziose creature, nate alle delizie della vita, e condannate dalla lussuria pretina ad una morte prematura, umiliata e dolorosa.
L’aveva, finalmente, trovata la sua madre, povera orfana! E probabilmente come l’aveva sognata qualche volta: sì cara, sì bella, sì amante! Il suo cuore ben le diceva prima d’ora, che quell’interessante donna era più d’un’amica! La ritrovava sì, ma senza la consolazione di poter prodigare su quella bocca, che l’aveva beata bambina, cento baci di filiale amore! La ritrovava, ma, forse,... essa ritrovava un cadavere!
«Dio! conservatemi la madre mia!» Tale fervida preghiera essa innalzava in silenzio verso l’Infinito, mentre sentivasi bagnata dalle proprie e dalle lagrime della sua compagna, intenerita dalla situazione dell’amata sua Marzia.
Dopo un copioso sfogo di pianto delle due amiche, Marzia alzò la destra, che non era ferita,[368] segnò verso Virginia e gridò con un ingenuo, infantile, affettuoso senso d’orgoglio: «Là vedi mia madre!»
Lina era stupefatta: non sapeva che decidere: ma indovinò qualche cosa. Avvicinò celeremente il vecchio, e, scuotendolo per il braccio con violenza, gli disse: «narratemi!»
Intanto Muzio e P... non abbandonavano il capezzale delle loro amate; e Nullo, quando ebbe finito le cure d’obbligo verso la brigata, veniva anch’egli a dividere la custodia e le angoscie dei suoi cari.
La contessa deteriorava sempre, ed alcuni segni di delirio cominciavano a manifestarsi. Una sete cocente la tormentava, e già essa più non articolava altro che «acqua!» Le sollevavano la testa per bere, e qualche volta sollevata, lasciavasi ricadere sul cuscino, chiudendo gli occhi con violenta e convulsa rapidità, come volendo sottrarsi alla fissazione d’uno spettro che solo essa scorgeva.
—Sarà delirio, pensavano gli astanti—e compiangevano la bella sofferente.—Non era delirio! e veramente il fantasma del suo tentatore era cagione dello stato convulso, in cui si trovava. Essa, nè volendo, nè potendo esprimersi, lo credeva spettro di lui. E chi aveva conosciuto l’avvenente Monsignor seduttore, certo avrebbe avuto grande difficoltà a riconoscerlo nello stato presente.—Corvo, come già narrammo, colpito nel naso, tra i due occhi, da due ferite, era diventato deforme,[369] dalla gonfiezza e lividezza di quella parte del volto.
Per una di quelle combinazioni che succedono negli accomodamenti di notte, massime in una notte di confusione, come quella in cui i feriti erano giunti a Tora, e forse, anche per l’attrazione che avevano per lui le due donne, erasi trovato posto in un camerino, allato alla maggiore stanza delle ferite, e casualmente, con una porticina di comunicazione di rimpetto al letto di Virginia.
Che il morale dell’individuo sia modificato dalla buona o cattiva fortuna, dall’abbondanza o scarsità dei cibi, e dalla loro qualità, più o meno buona, è cosa provata.
Il soldato inglese, per esempio, ch’io credo uno dei migliori del mondo, ha la fortuna d’appartenere ad una nazione ricca, potentissima, e le di cui tradizioni guerriere non sono certamente seconde a nessuna: quindi benissimo pagato, equipaggiato, nutrito, e con un morale da affrontare il diavolo.
Se i Monsignori di Roma, invece di copiose prebende, che godono nell’ozio, e che gonfiano le loro potenze sensuali, fossero obbligati a piegar la schiena sotto il piccone o la marra, molto più sobri certamente essi sarebbero, e più temperanti.
Obbligati alla vita reale, guadagnando il pane col sudore della fronte, essi non si occuperebbero di imposture, di corruzioni, e l’umanità, invece di esser divisa tra gaudenti fannulloni, e sofferenti[370] lavoratori, vedrebbe i suoi figli marciare fraternamente al progresso.—Il prete è un uomo come gli altri, lo capisco anch’io, ed in lui non è l’uomo che osteggio, ma il carattere bugiardo e nocivo.
Oggi, poi, la colpa del malore-prete ricade intieramente sulle monarchie, che potrebbero sanarne la società, e non lo fanno, perchè sono perverse, perchè vogliono servirsi dell’agente prete per corrompere i popoli, ch’essi desiderano mantenere nell’ignoranza e nel servaggio.
La trasformazione del gesuita, che noi vedemmo principiata da varii giorni, erasi ingigantita, e le due donne infelici, di cui egli era stato il corruttore ed il carnefice, erano divenute oggi indispensabili alla sua esistenza, ed egli avrebbe dato mille volte la vita per farsi perdonare la sua malvagia condotta, e reintegrarsi in quell’affetto che, per loro sventura, egli aveva posseduto pur troppo.
Figuratevi qual era l’inferno che travagliava quell’uomo passionato! al male, sì! ma passionato quanto può esserlo l’individuo che, tiranno della propria natura, passa tutta la vita nel frenarla o prostituirla, rovesciandone e calpestandone le leggi più sacre, colla più disonesta, schifosa ipocrisia!
Quell’uomo! lì! vicino ad esse, ch’egli aveva oltraggiate, tuffate nel vituperio, ed assassinate poi! Esse! creature sì squisite, sì gentili, atte, sotto gli aspetti materiali e morali, a formare la felicità della famiglia!..... se possibile fosse la[371] felicità sulla terra!..... e se possibile fosse la famiglia umana senza impostori!
Ora, che il suo cuore di prete era vicino a cambiarsi in quello d’un uomo, cioè a farsi capace di sentire l’amore celeste, egli sentiva ingigantirsi quell’amore, da padroneggiarlo intieramente. Ora, rialzato dall’abbietta sua condizione di corruttore, alla sublimità dell’uomo che ama con tutta la sua potenza, ora..... quelle impareggiabili creature, morranno!.....—perchè tale era il suo presentimento—morranno! e malediranno il fattore delle loro sventure, senza nemmeno l’ombra della possibilità d’un perdono!
Così poco propenso come mi sento a compassionare qualunque di cotesti nemici del genere umano, compatisco l’inenarrabile affanno di questo sciagurato!
Lui vicino ad esse, deforme! non riconoscibile! e sì schifoso! sì detestabile! Lo stato suo era quello d’un demente, e d’un demente all’ultimo stadio della frenesia. Ciò spiega i varii tentativi da lui fatti per introdursi nella stanza che racchiudeva ciò che per lui, oggi, era tutto nel mondo—quel tutto in possesso di altri, e, presto, della morte!—ed il furibondo rimorso che lo dominava e lo tratteneva indietro.
Muzio, che, seduto al capezzale della donna amata, s’era accorto della fissazione di lei verso la porticina, e dei tremiti convulsi, indovinò finalmente, che qualcuno spiava da quella parte. Alzossi ed incamminossi per vedere chi era. Non[372] l’avesse mai fatto: la contessa, con un grido straziante, chiamò: «Muzio!..... non andate da quella parte: un fantasma!..... la morte!.....» e ricadde un’altra volta svenuta.
Molto stentossi per richiamare quell’avanzo di vita, che, gradualmente si spegneva, e che si procurava di prolungare, con cordiali, per alcune ore, e con un quasi continuo abbeverarlo, essendo le fauci aridissime.
Povera Marzia! qual era lo stato dell’anima tua gentile, in cotesti dolorosi frangenti! Anche tu mortalmente ferita, non erano i fisici tuoi dolori che più ti amareggiavano; ma bensì i patimenti della madre tua.—Essa, dibattevasi negli ultimi aneliti della vita, ed avvicinavasi a quello stadio d’insensibilità che preludia la morte. Il di lei delirio appannavale la vista, al punto di non distinguere la falce sospesa su l’essere suo—la condanna di morte sua; dipinta su tutte le fisionomie, dal chirurgo che l’aveva abbandonata alle curatrici gentili, sino al diventato stupido credente nella futura apparizione del Messia.—Ma tu, povera Marzia! tutto discernevi: spasimi, dolori, convulsioni! E, tutto discernendo, tutto sentendo, tu non potevi sollevare quell’amato capo, quell’adorato volto che un bacio tuo avrebbe beato!
Una lagrima bagnava il bel volto della giovine guerriera! e certo, non era timore di morte, quella lagrima. La morte, essa l’aveva affrontata, con giubilo, venti volte sui campi di battaglia! accanto alla sua Lina, ed al suo....., non ardiva[373] nominarlo il bellicoso milite della libertà italiana, che sedeva al suo capezzale, che aveva la guancia umida com’essa, e che sembrava raccogliere tutti i sospiri di lei, e bearsene come di etere sacro! E tutte le donne piangevano a tanto strazio di patimenti delle due angeliche creature!
In quel mentre, un uomo col volto fasciato, ma a passi precipitati, lanciossi nella stanza, inginocchiossi fra i due letti delle ferite, e gridò disperatamente: «Perdono! Perdono!»
La contessa Virginia fu elettrizzata da quel grido, drizzossi sul busto con una sveltezza straordinaria, e gettando il suo sguardo sul miserabile prostrato, esclamò con voce straziante: «Marzia! Marzia! quel scellerato è tuo padre!» Essa ricadde per non più rialzarsi; e Marzia, presentendo la morte della genitrice, gettossi giù dal letto, abbrancossi alla defunta, le prodigò mille baci, e rimase su di lei svenuta!
Lina aveva richiesto schiarimenti al vecchio Elia, sugli avvenimenti incomprensibili, che si effettuavano in presenza di loro. Ma tanta fu la precipitazione degli avvenimenti stessi, che non fu possibile al canuto di appagare il desiderio della fanciulla.
Ridotto però il Monsignore nella sua stanza, trasportata Marzia nel proprio letto, e rifasciata la ferita, minacciante emorragia, e portato fuori il cadavere della Contessa, Elia potè soddisfare la giusta curiosità di Lina, non allontanandosi però dal letto della sua cara Marzia, rinvenuta dallo svenimento, ma spossatissima.
«Io passavo tranquillamente l’esistenza colla mia Rebecca, nel ghetto di Roma, con una piccola bottega da merciaio. Non ero ricco, ma potevo,[375] col mio commercio ed una vita sobria, essere indipendente da chicchessia.
«Il mio matrimonio colla donna eletta dal mio cuore era stato beato dalla nascita d’una fanciulla, e benchè ambi fossimo robusti, e robusta la bambina, noi avemmo la disgrazia di perderla all’età di sei mesi.
«In quel tempo frequentava la casa mia una donna romana, per nome Silvia, d’un’onestà che io ebbi occasione di sperimentare molte volte. Moglie d’un artista, essa pure passava vita agiata, senza essere molto ricca. Voi sapete, come noi ebrei, paria dei cristiani,—più di noi numerosi—apprezziamo sempre un protettore nella classe più forte. E Silvia, oltre d’essere pratica costante della mia bottega, era veramente la protettrice nostra. Alla morte della mia bambina (e qui una lagrima solcò la guancia rugata ed arida del vecchio figlio d’Israele), Silvia mi disse: «Una signora, amica mia, ebbe in questi giorni una fanciulla, e per mancanza di latte, desidera avere una balia. Vorrebbe la Rebecca incaricarsene, non per bisogno certamente, ma per essere l’amica mia, una preziosa persona, e la bambina di meravigliosa beltà?»
«Rebecca, aveva cuore eccellente, ed addoloratissima della perdita fatta, accettò la proposta.
«Il giorno seguente, una ricca carrozza fermossi davanti alla mia porta, ed una signora velata ne discese, poi Silvia, con una creatura di pochi giorni, splendidamente adorna. Al collo vi[376] aveva questa collana, ch’io le rimetto oggi (e la consegnava nella destra di Marzia). Di più: la signora scoprì la spalla destra alla bambina, e mi mostrò il neo che cagionò oggi la commovente sorpresa alla madre—sorpresa che svelò all’anima mia istupidita dalle torture tutta una storia ben interessante e molto terribile.
«Pria di congedarsi, la signora prodigò tanti baci, piangendo, alla bambina, e fu in quel momento, che, scostato il velo, io vidi il più bel sembiante di donna, ch’io avessi mai veduto: splendido volto i di cui lineamenti mi rimasero impressi sempre, tanto più che mi erano ricordati da Marzia, crescendo essa con una somiglianza sorprendente della madre.
«Io vi ho tenuto luogo di padre, Marzia mia! e, certo, come figlia vi ho sempre amata, e sempre vi amò teneramente quella mia cara compagna, che le atrocità dei preti precipitarono nella tomba immaturamente».
E qui il povero vecchio spargeva calde ed amarissime lagrime, bagnando la destra dell’amatissima sua figlia adottiva: e lo sfogo del pianto sollevò quel cuore travagliato da tanti dolori morali e materiali. Egli, finalmente, ripigliò il suo racconto.
«La morte m’aveva la prima volta portata la desolazione nel mio focolare: un nero serpe mi gettò nella sventura, una seconda.—Quel rettile, invaghitosi della mia Marzia, insinuossi con ogni ipocrisia nel mio negozio, e voi sapete se si[377] può, in Roma, respingere la visita d’uno di cotesti demoni, dal sacristano al monsignore. Egli presentossi da principio col pretesto di comprare qualche cosa nella mia bottega, poi finse di volerla fare da protettore, e finalmente, malgrado le mie paterne ammonizioni, egli finì per sedurre la mia cara e rapirla!
«Dopo rapita all’amor mio da quell’infame—che la madre vostra chiamò scellerato or ora, e ch’io riconobbi pure, malgrado l’orribile sua metamorfosi—io seppi del vostro ritiro in un convento, e poi più nulla, sino alla vostra comparsa in Roma, per quella ridicola ed abbominevole conversione con cui i chercuti vollero ingannare il mondo, per sostenere la crollante loro baracca.
«Per me, l’esistenza ha cessato d’arridermi; e se un filo mi vi tiene ancora, siete voi quello, mia amatissima figlia».
I singhiozzi interruppero nuovamente il veglio, per cui cessò la sua narrazione, e P..., vedendo la fanciulla fortemente commossa e spossata, lo prese per un braccio e lo allontanò colla sedia un po’ distante dal letto.
Un silenzio tetro succedette alle scene violenti, già descritte, e al racconto del canuto, Marzia aveva ritrovato il padre, per saper ch’egli era uno scellerato! E la madre!..... per vederla morire! Povera Marzia! v’eran ben motivi d’essere addolorata, e di peggiorare lo stato già ben grave della sua ferita! Gli astanti, nelle loro meste meditazioni,[378] erano silenziosi, e sul loro volto stava dipinto il profondo rammarico che loro cagionava l’interessante e bellissima infelice. Lina piangeva dirottamente, e cercava di nasconder le sue lagrime, immergendo il volto nel seno dell’amica.
P... stesso, assuefatto a vedere mucchi di cadaveri e di feriti, non aveva potuto trattenere il pianto, a tanta sventura d’una fanciulla ch’egli idolatrava.
I circostanti si facevano illusione sulla vita di Marzia, e tutti contavano sulla giovinezza e sul coraggio di lei.—Meno la giacente.—Essa, sentiva vicina la mano della morte, e non s’illudeva. Lo sforzo fatto per abbracciare la genitrice morente aveva, senza dubbio, precipitata la crisi, e la ferita, penetrante vicino alla clavicola, manifestava nell’interno un’emorragia lenta, ma che pur troppo, doveva finire, in termine più o men lungo di ore, per troncare l’esistenza della valorosa eroina dei Mille.
Lina, ed il fratello P... non abbandonarono un solo istante il capezzale della morente, e, tanto l’una, quanto l’altro avrebbero dato la vita, per salvare quella dell’amata donzella.[380]
«Lina» disse Marzia, «la porterai in memoria mia, questa collana, dono di mia madre!» ed una lagrima solcò la guancia della sofferente, che per un pezzo, non potè articolare altra parola. «La porterai dovunque, non è vero? e sempre, anche sui campi di battaglia, ove ti toccherà ancora di pugnare per questa Italia infelice, ed ove, certo, ti ricorderai della tua compagna di Calatafimi,—di colei che tanto andava superba di averti più che sorella! Sì, sui campi di battaglia, ove certamente, io starò vicino a te, coll’anima, ma ove, il clangore delle trombe guerriere non spingerà più nella mischia queste membra ridonate alla polve!»
Lina, piangeva dirottamente, senza poter rispondere a lei che amava tanto!
«E tu, mio fidanzato, mio sposo! me li concederai questi titoli per me sì preziosi, e lo puoi: perchè la morte spazza fin le sozzure! Se no, ti avrei confessato esser io contaminata, e di te indegna! Io..... l’ancella d’un prete!..... Io la prostituta!.....»
E qui essa innalzossi sul letto, cogli occhi fuori dell’orbita, e con un’energia come se fosse nella salute più florida, e con tale accento di cordoglio e di disperazione da spaventare, esclamò:
«Sì! la prostituta di mio padre!..... »
Un rumore tremendo si udì nella stanza vicina, come d’una lotta accanita tra gente, e grida, e colpi, e stramazzate per terra.
Muzio, indispettito che tanto baccano avesse[381] luogo vicino ad una morente, passò in quella stanza, e contemplò il miserando spettacolo del gesuita, che si stracciava le vesti, e batteva il capo contro le pareti, per cui, strappate le fasciature del viso, trovavasi tutto insanguinato. Egli era diventato pazzo furibondo, e con fatica fu legato, per essere condotto al manicomio.
Tutti piangevano, intorno al letto di Marzia, e dato sfogo all’odio possente suscitato dai procedimenti dell’abbominevole chercuto, tutti lamentavano la società italiana, cotanto ancora travagliata dalla istituzione bugiarda del prete; e lamentavano tanto tesoro di bellezza, di valore e d’intelligenza, contaminato e precipitato in un letamaio, per la indecente lussuria di quella setta immonda.
Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di un supremo coraggio, e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, essa, in seguito dell’orgasmo necessario ad una manifestazione vera e solenne verso gli amati dal suo cuore, riprese alcuni momenti di calma, che le permisero di articolare ancora le seguenti parole: «O Lina» essa diceva alla cara compagna: «Lina! quante volte nei bivacchi della superba nostra carriera, io sognava, od ardiva sognare alla vita beata, che avrei vissuto presso di te e del fratello tuo, là, nelle belle vallate dei nevati baluardi d’Italia. Ma era sogno, poichè, svegliata, io avevo la coscienza di non meritarla tale felicità![382] d’essere indegna della preziosa amicizia tua, e dell’amore d’un tanto prode! Un presentimento, che si avvera oggi, però, mi faceva tranquilla ch’io non sarei giunta ad infestare la santità della vostra dimora, e prostituire il letto maritale di questo mio valoroso, a cui chiedo, coll’anima, perdono, d’essermi lusingata della ventura di farmi sua.—Lina! stimolata dal tuo coraggio, io t’ho seguita da vicino, e fedele, su venti campi di battaglia; il tuo esempio, certo, mi solleticava, ma ora ti dirò ciò che non sapevi.—Sappi, adunque, che non solo la causa santa del nostro paese mi stimolava al pericolo, ma anche il desiderio di finire una vita abborrita e contaminata. Se mi sono esposta, non v’è dunque merito, e vado superba di morire della morte dei prodi! Non sdegnate, o miei carissimi, di bearmi con un ultimo bacio d’affetto!»
Marzia accennò colle labbra un bacio verso Lina,—e avuto il contraccambio da questa, imitata da P..., e dai cari presenti—non articolò più parola, e passò tranquilla all’infinito!
L’esequie delle due carissime donne—madre e figlia—ebbero luogo senza pompa. Ognuno degli avanzi dei trecento volle accompagnarle all’ultima dimora—con Chiassi e tutta l’ufficialità sua. Un incidente inaspettato, però, quasi tradusse in tragedia la pia cerimonia.
Mentre il convoglio passava sotto le finestre del manicomio, uno de’ suoi abitatori precipitossi da una delle più alte, nella strada, e per fortuna[383] cadde, senza offendere i passanti, fracassandosi il cranio sopra il selciato.
Tanto potè il rimorso sul gesuita: ciocchè prova, che la perversa istituzione, il di cui studio è quello di voler annientare l’uomo sotto la duplicità della menzogna e della depravazione, rivestendolo della cocolla e della sottana, è una maledizione per la umanità, che può da essa esser traviata, ma che risorgerà infrangendone il putrido catafalco.
A voi, caduti alle falde del Tifate, o miei giovani e prodi compagni, io consacro queste mie ultime righe, sulla ultima nostra battaglia, nella brillante epopea del 60, che voi avete illustrato colla vostra bravura e col vostro sangue. Voi, finalmente, dopo dieci vittorie, gli sbaragliaste quegli avanzi dell’esercito borbonico, là sulle alture di Caserta Vecchia.
E voi, a cui l’Italia deve tanta parte del compimento delle sue aspirazioni di tanti secoli; voi che già tante volte avete insegnato allo straniero a rispettarla, ed a cui insegnerete ancora, come qui oggi si accolgano gli invasori insolenti, potete voi sperare che Italia, sì propensa a rammemorare delle miserie, si ricordi, che le vostre[385] ossa biancheggiano insepolte sulle falde dei monti e nelle pianure della Campania?
Il 1º ottobre, verso le cinque della sera, si telegrafava a Napoli: «Vittoria su tutta la linea» ed a quell’ora l’esercito borbonico ritiravasi precipitosamente dentro Capua, e parte gettavasi a traversare il Volturno.
Tutti i nostri dell’esercito meridionale avevano fatto il loro dovere, con quel valore che distingueva i capi ed i militi a cui avevo l’onore di comandare. Bixio alla destra,—Medici, Avezzana e Simonetta al centro,—Mielbitz, Türr ed Eber alla sinistra,—e Sacchi tra il centro e la destra; Sirtori, capo di stato maggiore, aveva inviato la riserva a tempo. E se si aveva combattuto con valore ed accanimento, lo accertava il gran numero di cadaveri, che copriva le pianure Capuane, e le falde del Tifate, nonchè il gran numero di feriti.
In seguito alla carica delle riserve—narrata antecedentemente—le comunicazioni di S. Maria e S. Angelo erano state sgombrate dal nemico, ed io potei salire il monte per capacitarmi dell’esito finale della battaglia.
Già dissi prima, essere il monte S. Angelo dominatore delle due sponde del Volturno, e dell’intero piano di Capua, vantaggio immenso che noi avemmo in quella giornata sui nemici, e che non cesserò di raccomandare ai miei giovani concittadini che sono destinati alla milizia.
Quando si può, tenersi vicino al campo di battaglia,[386] ed in alto per poterlo vedere. I generali borbonici invece, situati nella pianura, poco o nulla potevano scoprire.
Certo della vittoria, discesi dal monte nel villaggio, e mi ricordai allora—già di notte—di non aver preso alimento nella giornata. Qualcuno, mi disse essere i carabinieri genovesi dal parroco. Ciò mi sollevò il cuore, certo di non morire di fame in tale casa, ed in compagnia di quei miei prodi fratelli d’armi. E non m’ingannai: basta dire che, non solo squisiti manicaretti mi presentarono, quei miei incomparabili, ma persino il caffè.
Siccome, però, la felicità è un fantasma sulla terra, e che pare stanziare solo nell’immaginazione umana, subito dopo il caffè, invece di potermi sdraiare un’ora, e riposare le mie stanche membra, un messo mi rimise un dispaccio da Caserta, in cui mi si diceva: «Caserta, seriamente minacciata da un considerevole corpo nemico, scendendo per Caserta Vecchia».
Addio riposo. E non v’era tempo da perdere. Ordinai al maggiore Mosto, di far preparare i suoi carabinieri genovesi; si diedero alcune altre disposizioni, e con alcune centinaia d’uomini mi avviai, verso la metà della notte, alla volta di Caserta.
Giunto presso Caserta all’alba, inviai il colonnello Missori, con alcune delle sue guide a cavallo, ad esplorare il nemico: ciocchè egli eseguì da quel prode cavaliere che si conosce; ed io mi recai in[387] città, per intendermi col generale Sirtori, sul da farsi. Essendo in conferenza col capo di stato maggiore, avemmo avviso: discendere i borbonici dai monti, e già impegnati coi nostri avamposti.
Sirtori, alla testa di poche truppe, marciò risolutamente sul nemico, di fronte, e lo respinse coll’ordinaria sua bravura.
Io raccolsi quanto mi fu possibile di gente nostra restante[60] e marciai sul fianco destro del nemico per girarlo, ciocchè riuscì perfettamente.
Il corpo borbonico, che stavamo attaccando, era di circa cinque mila uomini, e lo stesso che aveva schiacciato l’eroico battaglione di Bronzetti, composto di poche centinaia d’uomini, a Castel-Morone, ove quel nuovo Leonida aveva preferito morire con tutti i suoi, piuttosto che arrendersi.
Composto per la maggior parte di famosi cacciatori napoletani, già assuefatti a combatterci a Calatafimi, a Palermo ed a Melazzo, quel corpo attaccò furiosamente Caserta, lasciando sul vertice della collina una numerosa riserva, che avemmo pur la sorte di sbaragliare e perseguire sino a Caserta Vecchia.
Con noi, in quel giorno, avemmo la fortuna di avere commilitoni due compagnie dell’esercito regolare italiano, e l’esercito nostro può giustamente andar superbo del loro contegno nella battaglia. Duolmi di non ricordare il nome del comandante[388] e dei corpi a cui appartenevano quei prodi militi. Una delle due compagnie era di bersaglieri. L’esito del combattimento fu dei più felici, e ben pochi nemici poterono salvarsi: ciocchè cagionò anche pochi morti e feriti dalle due parti.
Già nella notte avevo telegrafato al generale Bixio di portarsi colla sua divisione verso Caserta Vecchia: e quel valoroso capo mostrava all’alba la maggior parte de’ suoi battaglioni sulle alture, alla sinistra del nemico.
Il generale Sacchi, che occupava le posizioni verso il Volturno, tra Monte S. Angelo e Caserta, collo stesso ordine e colla stessa solerzia, comparì pure alle spalle del nemico, pronto a caricarlo. Dimodochè i borbonici trovaronsi rinchiusi in un cerchio di ferro, e furono quasi tutti obbligati ad arrendersi.
Nel 2 ottobre 1860, ebbe compimento la gloriosa spedizione dei Mille. L’esercito regolare italiano, che secondo Farini[61] «aveva la missione di combatterci—per impedire alle armi della giustizia di giungere almeno sino a Roma» ci trovò amici; e comunque sia, io sono fiero di non essermi lordato del sangue di quei miei concittadini, anch’essi, finalmente destinati, per la maggior parte, ad abbassare l’insolenza dello straniero, che le nostre discordie avevano assuefatto a disprezzarci.
[60] Ricordo fra le frazioni di corpi, che marciarono con me, i bravi calabresi di Stocco. Quel prode generale era stato ferito a Calatafimi, e non ricordo se si trovasse in quel giorno a Caserta.
[61] Dispaccio di Farini a Bonaparte.
Dopo il 2 ottobre, il compito dell’esercito meridionale era finito, e non potendo far meglio, convenne lasciar fare a chi tocca. Io approfittai quindi della mia inutilità negli affari di guerra, per fare una visita ai miei fratelli d’armi feriti.
Ne ho già veduti dei cadaveri e dei feriti—in questa mia tempestosa vita—su varii campi di battaglia, e per fare un po’ come gli altri, ho cercato d’indurire il cuore alla vista delle stragi, delle mutilazioni, dei macelli umani!
Comunque, se indurito dall’abitudine, ho potuto contemplare con indifferenza i morti, anche numerosi, i sofferenti però m’hanno sempre commosso, e, se ho potuto, ho cercato di alleggerirne i patimenti.[390]
Tu, Italia! hai molti preti, molte malve, molti epuloni, che non lavorano, e mangiano per cinquanta alle spalle dei poveri; tu hai molti ladri, piccoli e grandissimi, e cotesti costituiscono il tuo abbassamento e le tue miserie! Ma....... hai molti prodi! E se i primi sono tenaci nelle loro bugiarde dottrine, nei loro furti e nelle tue miserie, i tuoi veri figli progrediscono in idoneità per servirti, e non soffrire di vederti oltraggiare da chicchessia.
Calpesta sotto i piedi le paure di chi ti governa; cotesta è gente a pancia grossa e molto interessata, com’è naturale, a salvarla dalle prepotenze straniere o dalla fame interna.
Nell’avvenire, però, non sarai insultata: ne rispondono le generazioni che sorgono—bambine, nell’ultima metà di questo secolo, ma che non ne aspetteranno la fine per essere giganti.
Io li ho veduti feriti, mutilati o morenti tutti quei superbi campioni dell’onore e della libertà Italiana: Gradenigo, Rossetti, Risso, Masina, Boldrini, Manara, Montaldi, Montanari, Ciceruacchio, Giovagnolli, Manin, Taddei, Ferraris, Rossi, Cozzo, Denobili, Specchi, Debenedetti, Cottabene, Bronzetti, Elia, Bandi, Mameli, Maiocchi, Cucchi, Sgarellino, Bovi, Vigo, Franchi, Lombardi, Dandolo ed i martiri fratelli Cairoli, Debenedetti e Bronzetti, che riassumono uno dei più splendidi martirologi che mai abbia annoverato la storia. Accanto ai Bandiera, a Pisacane ed a Imbriani, io collocherei altre migliaia di martiri, se vi arrivassero[391] la mia memoria ed il mio ingegno. Lascio quindi ad altri, più di me capaci, la cara e patriottica commemorazione.
Io gli ho veduti morenti! e narro di loro cogli occhi umidi ed il cuore commosso. Sì! morenti quei miei cari giovinetti! leoni sul campo di battaglia, ora giacenti sul letto del dolore! Molti non giungevano ai tre lustri! Le loro belle capigliature—bionde, nere, castagne—poichè esse ponno additare alle varie latitudini di questa bella nostra penisola—le loro belle chiome erano scapigliate, ed a molti intrise di sangue!
Io piango scrivendo!.....
I loro occhi infantili—in cui han cessato di bearsi le genitrici sventurate—i loro occhi, rivolti a me, animaronsi, come se volessero rassicurarmi, consolarmi nel mio cordoglio e dirmi: «Non è nulla! il dover nostro l’abbiamo fatto, e moriamo contenti, giacchè la vittoria sorrise alle armi dei valorosi!»
A molti, il loro ultimo pensiero era rivolto a questa terra, che per loro, per il nobile sacrificio della loro vita, non sarà più ancella di prepotenti—e morivano esclamando: «Viva l’Italia!»—E l’Italia li ha scordati: poveri giovani!.....
Le loro madri cercheranno invano ove caddero, ove morirono, ed ove furono sepolti, forse, dalla commiserazione di qualche bifolco!
E l’Italia lascia in piedi il monumento eretto dai suoi barattieri, corruttori e carnefici al mercenario straniero! Oh s’io potessi ricordarmi di[392] tutti i vostri nomi, miei cari, belli, giovani compagni! Io, con questa mano già indurita dagli anni, inerte, li consacrerei in queste povere pagine alla gratitudine di generazioni men ciarliere, ma che sapranno dovutamente apprezzare il sublime olocausto dell’esistenza vostra preziosa.
Sì, l’Italia rammenterà il vostro eroismo, quando, passati questi schifosi tempi di miserie, di depredazioni e di garanzie alla menzogna—che ridicolissimamente occupano tutti gli istanti di queste cime regolatrici del mondo—essa potrà vivere dignitosamente e liberamente senza offendere, ma senza temer nessuno.
In uno stanzino dell’ospedale di Caserta, lo trovai finalmente, quel caro e simpatico Cozzo—quel prototipo della brillante gioventù palermitana—oggi vispa, audace, valorosa come lo fu alcuni secoli fa, quando esterminava sino all’ultimo i boriosi antenati dei moderni Chauvins.—Cozzo, che vedevo raramente in tempi ordinari, ma che m’appariva sempre nei giorni di battaglie, ove maggiore era il pericolo, e vi assicuro che quell’aspetto suo, d’una risoluzione ferrea e calma nello stesso tempo, mi era di buon augurio.
Anche Cozzo baciai coll’affetto di padre, ed a lui diressi alcune poche parole di conforto, senza speranza nella mia coscienza..... Su quell’angelico volto, la morte aveva già scolpito l’impronta della terribile sua falce! Egli mi sorrise, con un sorriso..... ch’io porterò impresso nel mio cuore tutta la vita! Era sorriso d’affetto.—Cozzo sapeva[393] ch’io l’amava tanto!—e lo trovò, quel caro sorriso, nelle mortali sue angoscie.
Lia era al capezzale di Cozzo.—Lia, la contadina della conca d’oro[62], la bella fanciulla dall’occhio nero e fulgidissimo come quello dell’aquila. Essa procurava di sorridere al suo caro, quando gli occhi loro s’incontravano; ma poi, da lui non vista, struggevasi in dirottissimo pianto.
Cozzo aveva il petto rotto da una palla borbonica, e lesa incurabilmente, una parte vitale.
Egli affrontò la mitraglia nemica, alla testa della colonna che decise della vittoria nel 1º ottobre. Rimase sul campo esangue, colla sua Lia accanto, sinchè, terminata la pugna, essa lo fece trasportare nella stanza in cui lo baciai moribondo.
La sua effigie posa sul mio capezzale, in mezzo a quelle dei Bronzetti e sotto quelle dei Cairoli e degli altri martiri i di cui ritratti ho potuto raccogliere.—Felice me! che, nell’avventurosa mia carriera, ho potuto servire il mio paese con tali compagni!
[62] Valle di Palermo.
Tornai sul luogo della mia nascita e gridai: «Gli amici della mia gioventù, ove sono?» E l’eco mestamente rispose: «Ove sono?» ...
Nella fortunata campagna del 60, quando i pezzenti della Democrazia Italiana passeggiavano nei parchi regi, tra i fagiani ed i daini, e tergevano i loro rozzi calzari sui reali tappeti—in una stanza del sontuoso palazzo di Caserta, io sognai di Roma.
Roma! il più commovente, il più prezioso, il più stimolante sogno della mia vita—sempre! perchè sempre innamorato della grandiosa sua storia, ma massime dall’età di diciotto anni, in cui ebbi la fortuna di potere tra le macerie delle immense sue rovine, ispirarmi al gran concetto dell’emancipazione della mia patria e della famiglia[395] umana:—Roma! ch’io visitai imberbe, per mia ventura, e ch’io salutai per la prima volta con affetto d’amante:—Roma! alle cui ispirazioni certamente, io devo il poco operato nella tempestosa mia vita; Roma, infine, il cuore dell’Italia, l’ideale dell’Italia! e che per essere la più preziosa delle sue gemme, fu sì accanitamente conculcata, percossa, oltraggiata da tutte le tirannidi, da tutte le imposture, che, per meglio corromperla, trasformarla, contaminarla, vi posero il loro seggio di serpe! E fecero del più grande dei popoli il più infimo! Roma! per cui questo corpo, oggi cadente, fu forato tre volte. E quando sul Gianicolo fui ferito in un fianco, alla sua difesa, io esultai con me stesso al pensiero di morire su d’un colle sì glorioso e per la santa causa della repubblica.
Era un bel giorno (così il sogno); dall’alto del Campidoglio io assisteva al sorgere del figlio maggiore dell’Infinito[63] che spuntava dalle cime dell’Apennino.
Italia aveva conquistato il suo capo nel nido di vipere che avvelenavano Roma da tanti secoli; era caduto il fulmine, e vi aveva incenerito persino gli acciai degli strumenti di tortura e di roghi. Vi era un governo di tutti e per tutti, non so se lo chiamassero Repubblicano, ma so che il tempio di Temi—della vera—funzionava egualmente per tutti.
Comunque, non era un governo bordello, come quello d’una repubblica vicina nostra. Ognuno, indisturbato, andava per i fatti suoi; soltanto, siccome il putridume e la depravazione di costumi erano menomati sì, ma non scomparsi, essendo recente ancora la caduta dei tiranni, abbisognava una mano forte e volontà ferma per ripulire a dovere la società, ed un savio ed energico uomo era stato eletto dalla maggioranza del popolo con votazione diretta, per aver il fastidio di reggere la cosa pubblica temporariamente.
Egli non aveva leggi scritte: un mazzo di zolfanelli—senza[397] petrolio, come vedremo presto—aveva fatto ragione d’ogni parto di certi famosi legislatori che hanno fatto del mondo una Babele.
La giustizia era da lui amministrata sulla piazza pubblica, e con tempi piovosi, nel maggiore dei templi del mondo, non più consacrato all’idolatria ed alla menzogna, ma ai capilavori dell’arte, ed agli uomini grandi e valorosi, che avevano illustrato l’Italia e sparso il loro sangue per essa.
Egli aveva un solo segretario, e li vidi io stesso ambedue mangiare un pezzo di pane e formaggio, per non lasciar la cattedra, in cui si conformavano di stare anche l’intiero giorno, se occorreva.—Tutto il loro lusso era un bicchiere di vino buono all’ora del pasto, ed acqua nel corrente della giornata.
Una centuria di militi cittadini serviva per fare ubbidire le deliberazioni del savio, giacchè non c’era più in Italia di gente armata, se non che circa due milioni di cittadini che supplivano a qualunque specie di servizio, e le di cui occupazioni diurne erano le officine e l’agricoltura, quando la patria non abbisognava di loro.
Tutta la sequela dei legislatori era stata inviata ad occuparsi di cose utili, e gli sgherri ed i preti, grandi e piccoli, a bonificare le paludi Pontine.
Accanto alle ceneri del nido di vipere e dei rottami ardenti vi si vedeva un altro incendio di cartaccie, a cui i bimbi avevano appiccato il fuoco, e con delle lunghe canne, gli stessi attendevano[398] a spingere nel fuoco i fogli renitenti. Vi si scorgevano le parole: Leggi fondamentali dello Stato: 1º articolo: La religione cattolica apost.... e qui le irrompenti fiamme ne facevano giustizia. In un altro foglio semi-spento, che i ragazzi con più ardore scaraventavano sul fuoco, leggevasi: Imposta sul macinato; in altri: Imposta sul sale; prerogative, privilegi, dotazioni, ordini della Corona d’It....., non so più di che santi; e quei diavoli di fanciulli spingevano tutto ciò nel fuoco con tanto ardore ed accanimento, quanto i reverendi del Sant’Ufficio, in tempi andati, le sventurate vittime dell’Inquisizione.
Dal Capitolino io avevo assistito ad uno dei più solenni spettacoli della natura: il levar del sole, all’aspetto venerando d’un vero reggitore di popolo, sedente sull’antica sedia Curale, nel centro del Foro Romano e dispensando la vera giustizia, non quella del privilegio e del carnefice, come la intendono i moderni Soloni.
Tal quadro era forse impresso nella mia giovine immaginazione, dacchè quarantacinque lustri avanti, io per la prima volta passeggiavo rispettoso ed attonito in quel Foro, ove dettavansi dai nostri antenati i destini del mondo, e vicino, lontano, nella buona o cattiva fortuna, giammai si cancellarono nel mio spirito le impressioni raccolte in quella visita avventurosa.
Dal Capitolino scesi verso il Tevere, passai il ponte che difese Orazio Coclite, e che i preti chiamarono di San Bartolomeo, e m’incamminai[399] verso il Gianicolo in cerca dei tumuli dei nostri Achilli italiani che, contro gli sgherri del Bonaparte sostennero l’onore italiano vilipeso e calpestato da loro.—Tumuli! E chi doveva innalzare tumuli ai superbi difensori dell’orbe? Chi? I preti? i preti, secolari traditori d’Italia, innalzarono tumuli, mausolei ai soldati stranieri che avevano sgozzato italiani, ma che avevano salvato la religione (la pancia agli scarafaggi).
Chi lo aveva da innalzare un sarcofago ai valorosi caduti del 30 aprile, del 3 giugno, dei monti Parioli, di Mentana?—Chi?—I nuovi venuti[64], i ministri del governo italiano?—gli uomini delle garanzie papali?—Ma essi hanno paura di Roma, si sgomentano al solo suo nome, e poi hanno ragione; i pigmei non arrivano a posarsi sulle sedie dei giganti, non si sentono degni di atteggiarsi tra i monumenti della grandezza umana, ove posarono in tutta la loro maestà sublime i padroni del mondo!—Sì, hanno ragione cotesti piccinissimi ermafroditi seguaci d’ogni potere che loro garantisca il ventre, caporioni della setta dei consorti che si ponno paragonare al maiale del Casti:
No! essi non son degni di sedere in presenza di quel Panteon che fu centro del mondo conosciuto.[400] Essi, tremanti sempre davanti a qualunque prepotenza, non ponno pesare al cospetto di quelle macerie ove prestando l’orecchio s’ode ancora l’eco delle maschie ed eloquenti favelle che parlavano ai figli di Marte quando decidevano se un re dei Cimbri, uno delle Gallie od uno della Mauritania doveva trascinare il carro del trionfatore repubblicano.
Sul Gianicolo, sì! lo trovai un monumento coll’iscrizione: «Audinot ed il valoroso esercito di Buonaparte vincitore degli eretici e salvatore dell’infallibile Dio in terra!» Cotesti bestemmiatori e traditori dell’Italia l’avevano eretto il mausoleo della maledizione! E migliaia d’italiani passavano ogni giorno davanti a quel sacrilegio senza minarlo e farlo saltare in aria.
Ma portento!... mentre era assorto in tante e sì dolorose meditazioni, io contemplai una folla di Romani armati d’arnesi di distruzione che in un momento atterrarono quella nostra vergogna! Poi altri Romani io vidi occupati a disseppellire le ossa dei nostri martiri, e sulle rovine del mausoleo maledetto innalzare un tumulo somigliante a quelli che adornano le pianure di Morat e di Maratona, e lo vidi coprirsi d’una piramide di bronzo che mi sembrò della forma di quella di Cecilia Metella. Sui lati della piramide scorgevansi molti nomi, in lettere cubitali, degli eroi caduti per l’Italia sul maggiore dei sette colli.
Fui ben felice nello scorgere i nomi di quei valorosissimi: Masina, Manara, Montaldi, Mameli,[401] Melara, Ramorino, Peralto, Carbonin, Daverio, Davide, Ceccarelli, Cavallotti, Settignani, Minuto, Pelizzari, i Cairoli, i Franchi, Oziel, Bronzetti, Debenedetti, Montanari, Schiaffino, Ciceruacchio.—Che nomi! dicevo tra me, e mi pavoneggiavo d’essere stato fratello d’armi di quello stuolo di prodi!
Sopra un altro lato della piramide scorgevansi i nomi non meno gloriosi di Ugo Bassi, Mosto, Ferraris, Perla, Imbriani, Rossetti, Rossi, Risso, Molinari, Taddei[65], Tukery, Coccelli[66] e tanti altri nomi di martiri che le venture generazioni pronuncieranno con orgoglio e rispetto!
Salendo la scala marmorea, che adorna al settentrione il palazzo dei Quattro Venti—scala famosa ove morì il prode dei prodi, il bolognese Masina alla testa d’un pugno dei più valorosi assaltando petto a petto i soldati del Buonaparte, già trincerati ed in gran numero nel palazzo—salendo quella scala, io mi trovai su d’un belvedere ove la vista spaziavasi meravigliosamente sulla vasta e deserta campagna romana.
Ma miracolo!... in un istante, invece delle micidiali paludi Pontine, presentavansi agli occhi miei magnifici campi coltivati che mi ricordavano la ubertosa e ben coltivata valle del Po coll’incantevole sua vegetazione.[402]
Invece del deserto, graziosissime cascine con orti verdeggianti ed alberi carichi d’ogni specie di frutta, pianure immense coperte di biade color dell’oro.
E ciò che più mi stupiva nello stato mio di ammirazione, era il brulichìo di gente tutta occupata ai diversi lavori della campagna.
Qui i carri carichi d’ogni ben di Dio e maestrevolmente guidati da preti, dal sacrestano agli eminentissimi; e, ben fissando, scopersi nella folla dei chercuti anche un santissimo padre, non più panciuto e colle pantofole dorate, ma calzato con un buon paio di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo. Egli mi sembrava occupato a dirigere i lavori ed a stimolare alcune schiene diritte di quei buoni curati che avevano passato la loro vita tra il fiasco e la Perpetua.
Là altri servi di Dio, facili a distinguersi dalle chieriche, che colla vanga, colla zappa o coll’aratro, lavoravano la terra ch’era una delizia.
Le strade ferrate solcavano la vasta e ricca campagna in tutte le direzioni, e mi sembrò di distinguere sulle locomotive, facendo le funzioni di macchinisti, fochisti, ecc., una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubblica sicurezza, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima.
Ora, dicevo tra me, capisco la meravigliosa trasformazione della campagna romana mettendo all’opera tutta cotesta schiera di fannulloni.—E che sarà quando i quattro o cinquecentomila giovani[403] che formano oggi ciò che si chiama esercito regolare, saranno resi alle officine ed alla campagna di cui sono i più robusti coltivatori?
Lì consiste il principal morbo dell’Europa—lì la causa vera delle perenni sue guerre; e la pace potrà esser duratura soltanto quando gli eserciti permanenti saranno sostituiti dalla nazione armata mettendo, s’intende, i preti a bonificare le paludi Pontine.
«Non più imposti governi nè guarentigie all’impostura, ma governo scelto da noi e culto del Vero» si udiva cantare da molti operai e contadini (non dai preti e dagli altri fannulloni cresciuti all’ombra d’uno stipendio vergognoso ed ora obbligati a piegar la schiena al lavoro).
«Vengano avanti al giudice supremo tutti cotesti uomini a nuove grandi fortune senza fatica, e lo ragguaglino sul modo da loro usato per accumularle».
Ed allora si scorgevano nella folla dei subalterni predoni gli uomini delle regìe, i ministri che, oltre al loro stipendio, avevano accumulato dei milioni appropriandosi un tanto per cento sui prestiti con cui avevano rovinata la nazione; scorgevansi, dico, cotesti messeri che si facevano piccini piccini e nascondevano l’antipatico ceffo dietro alcuni inferiori della stessa risma ch’erano stati complici dei loro misfatti.
«Noi (son sempre i manuali che cantano) lo possiam provare l’acquisto di questi cenci; possiam provare la fame patita dalle nostre povere[404] famiglie che, malgrado l’abbondanza presente, conservano ancora sulle loro fronti sparute i solchi dei patimenti, e gli stenti, e le desolazioni da noi sofferte.
«Noi le possiam provare le nostre miserie su cui si satollarono tutti cotesti epuloni, lenoni e mascalzoni venduti corpo ed anima ai potenti».
Inaspriti e stimolati dal melanconico canto, tutti quei poveri braccianti avanzavano in massa colle loro falci, zappe e vanghe in aria per dar addosso ai preti e compagni..... Ma una voce potente come quella del tuono, uscita dal Foro, ristabiliva la calma in un momento.
«Ite ai vostri lavori!» tuonava la favella del savio.
«Ai tiranni ed ai preti conveniva la vendetta e la strage, essendo la loro potenza edificata sulla violenza e sulla menzogna; a voi, uomini liberi, umanitari e che avete il culto del Vero, conviene la tolleranza, e solo con essa potrete raggiungere la sublime meta di affratellare i popoli tutti della terra».
E tutti tornavano alle loro occupazioni, e si udiva nella folla la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto.
«Tolleranza» gridavano altri «meno però per i lupi, le vipere ed i preti, sinchè tornati alla condizione d’uomini onesti, se ne son capaci».
[63] Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono numerosi fascicoli per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla; io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. (Col dottrinarismo intollerante per il mezzo, certo sarà un affare un po’ serio).
Per parte mia accenno e non insegno.
Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo.
V’è il tempo infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza, quindi incontestabile.
Resta l’intelligenza infinita.
È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia?
La soluzione di tal problema è superiore alla mia capacità, e sinchè non si risolva matematicamente, io mi attengo ad un’idea che nobilita il mio povero essere, cioè: all’Intelligenza Infinita, di cui può far parte l’infinitesimale intelligenza mia, siano esse emanazione della materia o no.
Di più, devo confessare, che non capisco come sian la stessa cosa: l’incudine, il ferro che batte il fabbro, e la sua idea di farne una marra. Non capisco come sian la stessa cosa: il pianeta, l’orbita elittica, in cui rota e traslata, la legge che ha circoscritto il suo moto in quell’orbita, e la mente di Kepler che scopriva questa legge....... Accenno!
Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?.....
[64] Mi si perdoni un anacronismo—era un sogno.
[65] Taddei, brillante ufficiale dei Mille, morto poi alla battaglia di Custoza.
[66] Il tenente Coccelli venuto da Montevideo coi 73 nel 48. Uno dei più brillanti ufficiali di quella schiera.
I preti diventati uomini laboriosi ed onesti.
Tutte le cariatidi della monarchia—come i primi—consueti al dolce far niente ed a notare nell’abbondanza, oggi piegando la schiena al lavoro.
Non più leggi scritte[67].—Misericordia! grideranno tutti i dottori dell’universo, oggi obbligati anch’essi a menare il gomito per vivere.
Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione—e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo.
Era però un sogno!—Io mi svegliai beneficato certamente dalla visione—amareggiato però subito dopo dalla nauseante realtà della società odierna.
E cercai quindi, addolorato, di ripigliare la strada dell’isolata e deserta mia dimora.
FINE.
[67] Circa la religiosa osservanza delle leggi scritte, si legga una lettera del re d’Italia a Bonaparte;
«Garibaldi è stato arrestato due volte contro le nostre leggi, e lo sarebbe stato una terza senza la crisi ministeriale.
«19 ottobre 1867.»
[68] Se si troverà qualche nome o casato scritto erroneamente, dovrà attribuirsene la colpa alla poca chiarezza di alcune firme dei sottoscrittori. Se poi qualche nome fosse stato ommesso, ne sarebbe stata cagione il non essere ritornate in tempo utile le schede firmate.
[69] Schede giunte il giorno 20 quando già era stampato l’Elenco generale.
Elia colonn., Beducci, Saltara Ugo, Mengozzi, Morollet, ecc. | Ancona | 364 |
Tosi Raffaele | Rimini | 222 |
Sgarallino A. | Livorno | 200 |
Pantaleo Giovanni | Napoli e Sicilia | 149 |
Wolff avv. A., Tivaroni e Sandri | Padova | 145 |
Griziotti avv. A. | Pavia | 142 |
Imbriani M. R. | Napoli | 132 |
Bertacchi e Cucchi | Bergamo | 121 |
Guarneri Zanetti | Pescarolo | 120 |
Vivaldi Pasqua | Genova | 110 |
Marchi avv. Alf. | Treviso | 107 |
Pescatori Erminio | Trieste | 100 |
Giornale Il Secolo | Milano | 82 |
Marchi G. ed Augusto Dei | Livorno | 70 |
Cons. Prov. (Duca S. Donato) | Napoli | 70 |
Cavalli dott. Luigi | Vicenza | 68 |
Dell’Isola Luigi | Torino | 65 |
Robecchi Lavino | Milano | 62 |
Delvecchio avv. Pietro | Mondovì | 60 |
Brattiano Giorgio | Bucarest | 60 |
Ceretti Celso, Serj, Bonettini ed altri | Mirandola | 59 |
Guidi Campoverde | Londra | 56 |
Mattei avv. Ant. | Treviso | 55 |
Negretti Gaetano | Lucca | 55 |
Giornale La Favilla | Mantova | 52 |
Mauroner Leop. | Trieste | 50 |
Pallavicino M.a Anna Triulzio | Torino | 50[450] |
Roncalli e Benedetti | Foligno | 50 |
Riboli dott. Timoteo | Torino | 50 |
Adamoli Domenico | Varese | 46 |
Prandina dott. | Milano | 46 |
Castellani Aless. | Roma | 44 |
Musolino Dep. | Roma e Calabria | 41 |
Zanoia e Morandi C. | Torino e Pistoia | 40 |
Mayerà Silvio | S. Marco Argentaro (Cerreto) | 39 |
Tanara e Campanini | Parma | 38 |
De-Virte Luisa | Ripafratta | 38 |
Farlatti colonn. Luigi | Genova | 36 |
Rocca avv. F. | Mantova | 35 |
Billi Dep. Pasquale | Napoli | 30 |
Gattelli Giov. | Ferrara | 26 |
Zanardelli Dep. | Brescia | 25 |
Bocca fratelli | Torino | 25 |
Belluzzi pr. Raff. | Bologna | 23 |
Bovi colonn. P. | Bologna | 22 |
Carnielo Dep. An. | Feltre | 22 |
Giornale Gazzettino Rosa | Milano | 22 |
Le Piane Nicola | Napoli | 20 |
Rossi P. Ferdinando | Trieste | 20 |
Bizzarri rag. e Boniventi | Torino | 20 |
Balbiani A. e Ghisla | Tramezzo (Como) | 20 |
Brigola G. | Milano | 20 |
Bruzzesi colonn. G. | Milano | 20 |
Canevazzi ing. E. | Persiceto (Bologna) | 20 |
Faustini Pietro | Terni | 20 |
Villani M.se | Desio | 20 |
Borella ing. Pietro | Casalmaggiore | 18 |
Bonardi fratelli | Brescia | 17 |
Bellasi ing. Pietro, De-Michelis e Faccioli Carlo | Como | 17 |
Missori colonn. | Milano | 16 |
Aquilanti Franc. | Maddalena | 14 |
Angeloni Dep. | Napoli | 14 |
Dotto Dauli pr. Carlo | Napoli | 14 |
Lattuada Carlo | Intra | 14 |
Nunziante gen. Duca di Mignano | Roma | 12 |
Mario Ugolino | Lendinara | 11 |
Ferrari Gaetano | Sinigaglia | 11 |
Avezzana gener. | Napoli | 10[451] |
Anselmi Dep. | Napoli | 10 |
Bernieri cav. Cesare e Di-Stefano | Aless. d’Egitto | 10 |
Canella Fabio | Aquila | 10 |
Cairoli B. Dep. | Groppello | 10 |
Carcani Dep. Fabio | Trani | 10 |
Bresciamorra Dep. | Napoli | 10 |
Guerrazzi F. M. | Livorno | 10 |
Germanetti D. | Ivrea | 10 |
Giacometti C. Paolo | Gazzuolo | 10 |
Mario White Jessy | Lendinara | 10 |
Morosini Flaminio | Gargnano | 10 |
Mordini Ant. Pref. | Napoli | 10 |
Micheli Giov. | Codogno | 10 |
Municipio di | S. Maria Capua Vetere | 10 |
Mazzoleni Dep. | Milano | 10 |
Miceli Dep. L. | Cosenza | 10 |
Pozzi avv. Ernesto | Lecco | 10 |
Podestà bar. And. | Genova | 10 |
Rasponi conte Gioac. | Ravenna | 10 |
Ruggeri G. B. | Roma | 10 |
Rubattino comm. Raff. | Genova | 10 |
Strambio fratelli | Belgioioso | 10 |
Racchi Achille | Mantova | 10 |
Daccò ing. Luigi | Roma | 9 |
Pozzoli Rinaldo | Milano | 9 |
Bozzoni Angelo | Caserta | 9 |
Gaffuri | Tramezzo (Como) | 8 |
Antonini Giacomo | Firenze | 8 |
Macchi Dep. Mauro e sig.a Haab | Roma | 7 |
Riccabone Frane. | Torino | 7 |
Bonazzini Giuseppina | Tramezzo (Como) | 6 |
Lazzati Cristina | Milano | 6 |
Quartaroli e Sassi | Forlì | 6 |
Winter Anna | Londra | 6 |
Abignente Dep. | Roma | 5 |
Bronicardi ing. Adolfo | Firenze | 5 |
Castelazzi A. Dep. | Mortara | 5 |
Del Carlo avv. E. | Lucca | 5 |
Sottoscrizioni per un numero minore di 5 copie, raccolte da diversi | 119 | |
Nº Totale | 4322 |
Bollettari o Manifesti inviati fin dal settembre 1873 | ||
a tutti i | Senatori | |
Deputati | ||
Conoscenti | ||
Amici | N. 1264 | |
portanti ciascuno dieci schede, pari a | N. 12640 | |
Schede ritornate sottoscritte a tutt’oggi 20 luglio 1874 (meno le estere) | 4322 |
Schede sottoscritte | N. 4322 pari a L. 21610 | ||
Schede esatte | 3806 | pari a | L. 19030,00 |
Schede da esigersi | 516 | pari a | 2580,00 |
4322 | L. 21610,00 |
Per cinque copie manoscritte, una per l’edizione italiana, quattro per le traduzioni in lingue straniere, al fine di non sciupare l’autografo | L. 500 — |
In Bollettarii, Manifesti o Programmi | 48 — |
Bollo e Numeratore | 42 — |
Ad uno scritturale per impianto di registri, invio dei bollettarii, copiatura di lettere per la corrispondenza cogli incaricati, sottoscrittori, ecc., ed assistenza alla trasmissione dei pacchi | 300 — |
Trasmissione raccomandata dei manoscritti, e lettera al Ministro Russo a Pietroburgo per i diritti d’autore | 13 80 |
Dispacci, lettere assicurate e raccomandate, vaglia postali, giornali, mancie, ecc., dal settembre 1873 sino ad oggi | 193 70 |
Rimborso di spese postali agli Incaricati, che le chiederanno, circa | 300 — |
Ricopiatura e coordinazione dell’elenco generale, aggiunte, ecc. | 60 — |
Spese di stampa per copie cinque mila, e venti in carta distinta | 4812 50 |
Trasmissione affrancata o raccomandata dell’opera ad ogni associato, circa | 1400 — |
Al Generale per ora in rendita consolidato italiano fino dal dicembre 1873 Lire ottocento, a 71,00 per %, pari a | 11360 — |
Somma da esigere | 2580 — |
Totale L. 21610 — |
Torino, 20 luglio 1874.
Per la Commissione
Dott. Timoteo Riboli.
L'ortografia originale è stata mantenuta.
Minimi errori tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza annotazione.
L'indice è stato spostato all'inizio del volume.
Sono state effettuate le seguenti correzioni (il testo corretto è tra parentesi):