Title: Il colore del tempo
Author: Federico De Roberto
Release date: May 19, 2010 [eBook #32441]
Most recently updated: January 6, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
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N. 10.—Biblioteca "SANDRON" di Scienze e Lettere—N. 10.
1900 REMO SANDRON—Editore MILANO-PALERMO
Proprietà letteraria dell'Editore Remo Sandron
Tip. F. ANDÒ—Palermo, via Celso 4^o, Succ. via S. Biagio 2
Filosofia e critica:
L'Amore L. 4,50
Una pagina della storia dell'Amore » 1 —
Leopardi » 3 —
Romanzi e novelle:
La Sorte L. 3 —
Documenti umani » 1 —
Processi verbali » 1 —
L'Albero della Scienza » 1 —
Ermanno Raeli » 3 —
I Vicerè » 5 —
L'Illusione » 4 —
Spasimo » 3,50
Gli amori » 3 —
I giornali vivono quanto le rose: l'espace d'un matin. Non è facile paragonare altrimenti che per la loro caducità un foglio stampato e il più bel fiore della creazione; ma, se il fiore ha vantaggi innumerevoli sul giornale,—e non agli occhi delle donne soltanto, o dei poeti, o degli innamorati,—il giornale anch'esso ne ha qualcuno sul fiore. E questo mi pare evidente: chè, morti gli emerocallidi, i petali secchi vanno a finire nella spazzatura; mentre coi vecchi fogli si possono fare tante cose: anche libri.
Io ho,—e non credo d'esser solo ad averla,—una speciale predilezione per i volumi messi insieme con articoli pubblicati qua e là, in tempi diversi, sopra varî argomenti, senza ordine prestabilito. Libri così fatti ci dànno il colore del tempo, e par quasi che arrestino l'attimo fuggente; non già perchè bello,—noi siamo, ahimè! altrettanti Fausti a questo riguardo;—ma perchè notevole, singolare ed insolito.
Chiedetene ad un libraio: vedrete che una buona metà dei nuovi volumi sono per l'appunto composti di capitoli eterogenei, messi insieme per amore o per forza, dopo una prima apparizione nei fogli periodici. Manca ai nostri scrittori la lena necessaria a concepire e condurre a buon fine le grandi opere organiche? È il bisogno del lucro, in questa nostra società, dove la concorrenza cresce ogni giorno e la lotta per la vita diviene sempre più aspra, quello che sminuzza in tal modo la produzione intellettuale? O non accade piuttosto così per la tirannia del giornale, nuovo mostro che si nutre di cervella e di midolle vive? Il costume democratico, come ha trasformato tante altre cose, non ha anch'esso contribuito a trasformare le forme del pensiero, e a mettere in voga le brevi, succose ed enciclopediche scritture a scapito delle ponderose, metodiche e particolari trattazioni?… Una sola di queste cause basterebbe alla spiegazione del fatto; tutt'e quattro insieme ne dànno pienamente ragione. Nè bisogna lagnarsene. Prima di tutto le nostre lagnanze sarebbero inutili; e poi questi libri hanno il loro carattere.
Prendiamone uno, a caso; prendiamo l'ultimo volume di Edoardo Rod, la sua nuova serie di Studî sul secolo XIX. Sfogliamola: vedremo succedersi rapidissimamente idee e figure, sentimenti e problemi che ieri attiravano tutta quanta la nostra attenzione,—e che l'attirano ancora.
La rapidità e la fretta sono appunto tra i caratteri salienti di questo secolo nostro. Come noi corriamo da un capo all'altro del mondo, trascinati dall'ansante vapore; come le nostre parole volano sui fili elettrici; così tutta quanta la nostra vita morale e intellettuale precipita vertiginosamente.
Che cosa diviene, dopo qualche anno, la fama di quegli uomini che parvero dominare, che dominarono infatti, la nostra età? Guardate Vittor Hugo. Chi ottenne mai in vita un più largo, sincero e spontaneo consenso d'ammirazione? Lo chiamarono il Padre; personificò realmente il secolo, «del quale aveva professato tutte le credenze, condiviso tutte le illusioni, cantato tutte le glorie, sopportato tutte le sciagure.» Ed ecco oggi l'idolo in pezzi. Hanno dimostrato in grossi volumi, pieni di documenti, che egli non fu iniziatore, che non scoperse nulla, che non disse nulla di nuovo o di originale, che ebbe un carattere ordinario, anzi mediocrissimo; che andò assiduamente dietro al successo: non gli hanno riconosciuto altro genio se non quello delle parole: fu un parolaio, un genio verbale.
L'eleganza del verbo, intanto, non si può dire che contraddistingua il nuovo stile. Il neologismo è la forza dei nostri scrittori. Mai il vocabolario greco è stato tanto in onore; mai le desinenze in ale e in ismo sono state tanto frequenti. Questa è una delle più piccole conseguenze del trionfo della scienza. Le sue scoperte, feconde di tanti pratici adattamenti, hanno affrettato il corso della vita umana: il nostro pensiero e il nostro linguaggio acquistano caratteri scientifici. La vecchia critica è morta: oggi è in vigore la critica scientifica. Ippolito Taine ne fu il precursore; Emilio Hennequin il campione. Mentre l'antica critica letteraria badava a dare giudizî, la critica scientifica, lasciando prudentemente da parte gli apprezzamenti, cercò nei caratteri particolari delle opere «sia certi principî d'estetica, sia l'esistenza d'un certo meccanismo cerebrale nell'autore, sia una condizione definita dell'ambiente sociale.» Questa critica precedè per via di tre sorta di analisi: l'analisi estetica, l'analisi psicologica, l'analisi sociologica; essa non si contentò neppure di chiamarsi critica scientifica, volle ribattezzarsi con un nome più severo: si chiamò estopsicologia. Così un cerotto contro il sudore, che è un cerotto e non impedisce il sudore, acquista il valore d'un nuovo e raro e prezioso prodotto chimico, quando lo speziale gli dà il nome di sudol…
Emilio Hennequin morì giovane, prima d'aver potuto interamente esplicare il suo metodo: se fosse vissuto, è egli certo che ne avrebbe assicurato la fortuna? Il Rod lo crede; più prudente è forse dubitarne. La critica cominciò ad avere pretensioni e andamenti scientifici quando il positivismo trionfò in filosofia e il naturalismo in arte: non occorre dimostrare come questi fenomeni fossero strettamente collegati. Ora non siamo in piena reazione? Un altro capitolo del Rod non è dedicato al risveglio dell'idealismo? Ferdinando Brunetière non ha proclamato la «bancarotta» della scienza? Siamo arrivati a questo: che la luce del giorno, secondo un filosofo, «circoscrive il nostro orizzonte»; la notte è preferibile: essa è «un'apertura sull'infinità degli spazî e sull'infinità dei mondi.» Ma allora non bisogna buttar giù la critica obbiettiva, come stiamo demolendo il romanzo impersonale e sperimentale? Un artista italiano, del quale il Rod esamina con amore gli scritti, Antonio Fogazzaro, non deve la sua fortuna all'essersi messo a quest'opera? Ottavio Feuillet, caduto nella polvere, non torna sugli altari?
Diremo dunque che il secolo, tardi ma in tempo, ha finalmente trovato la sua strada? Non ancora! Alfredo Fouillée, dopo aver sostenuto che le tenebre della notte sono preferibili alla luce del giorno, ci mette in guardia contro i pericoli dell'idealismo; e consiglia, sì, ad agire da idealisti, ma da idealisti «senza illusioni…». Non ridete: si tratta di cose serie. E la scienza, alla quale già si dava il benservito per ricorrere invece alla fede, pare da ultimo che abbia del buono, se ad essa si volgono i rivendicatori dell'idealismo «integrale» per fondare la cité future.» E che cosa si ripromette dalla scienza cotesto idealismo? Che cosa promette all'uomo? Ben poco, in verità! «I tuoi organi deboli tu li assoderai e moltiplicherai,» dice il signor Fournière; «le tue stesse ossa saranno rinnovate da una chimica che ancora non osiamo neppure immaginare. Tu arriverai, se vorrai, e bisognerà bene che voglia, a longevità che oltrepasseranno quelle dei miti ebrei. Il tuo organismo rinnovellato conoscerà altri mezzi di nutrizione e godimenti più raffinati. E mentre dominerai il tempo, conquisterai anche lo spazio. Se non troverai il mezzo di riaccendere il sole che si spegne, o di accenderne altri, lascerai questa terra invecchiata; e, alato colono, popolerai gli spazî siderei…».
Giulio Verne, come vedete, può andare a riporsi.
Questi voli della fantasia, queste immaginazioni di un mondo e d'una umanità tanto migliori dei nostri, non sono sogni, vaneggiamenti, delirî? Chi può credere seriamente che le condizioni della vita, della vita fisiologica, della natura umana, si modificheranno così? Eppure, se la ragione ricusa di ammettere il mutamento, il cuore lo vuole e irragionevolmente lo aspetta! L'ottimismo fanciullesco delle aspettazioni è un modo di reagire contro la senile tristezza degli accertamenti.
Il bilancio morale del secolo nostro è in condizioni veramente disastrose. Il Fierens-Gevaert, che lo ha compilato, vi ha scritto sopra: La tristezza contemporanea; ma il deficit dei valori etici si chiama propriamente angoscia, confusione, oscurità, pessimismo.
L'êra contemporanea comincia con la rivoluzione francese: si ottennero da essa i beneficî promessi? Tanto poco si ottennero, che quel cataclisma potè essere definito «una farsa sanguinosa». Mentre il principio dell'eguaglianza tra gli uomini era scritto col vivo sangue sgorgante dalle ghigliottine, Napoleone s'incaricava di dimostrarne la fallacia; o, per meglio dire, ne incarnava la logica conseguenza. Se ogni uomo è uguale ad un altro, un ufficialetto d'artiglieria prende il posto dei re per diritto divino e si fa padrone del mondo. Autocrate repubblicano, egli è il tipo dell'umanità moderna: egoista per istinto, democratico per educazione. In nome del principio d'eguaglianza la somma dei beni va distribuita a un numero sempre più grande di concorrenti: la parte di ciascuno è pertanto sempre più piccola.
Dio era stato soppresso; Kant aveva legittimato l'operazione affermando che ciò che non si vede non esiste. La reazione non doveva tardare; ma fu peggiore della stessa azione, e non portò il rimedio sperato. Il cristianesimo di Giuseppe de Maistre è triste, cupo ed ingrato: esso ammette la necessità del male; vuole quella legge di ferro e di sangue, che sarà più tardi proclamata dal più fiero negatore del cristianesimo e dell'altruismo: da Federico Nietzsche. Nè Chateaubriand, con tutta la sua fede, si salva; al contrario: fonda la scuola dei malinconici superbi, degli egoisti annoiati e disperati.
Il romanticismo infierisce in tutta Europa. In Italia, con Giacomo Leopardi, il «male del secolo» arriva al parossismo. Il Rousseau aveva detto che la civiltà è la grande colpevole; che gli uomini, nativamente, sono buoni; il Leopardi afferma che gli uomini, malvagi naturalmente, vogliono dare a credere di esser divenuti tali per caso.
Senza bussola, intanto, il pensiero umano erra qua e là, secondo che il vento soffia da una parte o dall'altra. Primi fra tutti, il Guizot e Augusto Comte parlano dell'«anarchia intellettuale». Nel giro di poche diecine d'anni l'anarchia diventa una dottrina, i cui apostoli lanciano bombe in mezzo alla folla innocente.
Prima s'innalza la bandiera del comunismo. Il Fourier e il Saint-Simon promettono il paradiso in terra; dànno l'esempio delle chimeriche raffigurazioni dell'umanità futura: l'uomo sarà, dicono, sbarazzato dal dolore e dalla miseria, la sua statura crescerà di sette piedi, ed egli arriverà all'età di 144 anni, «dei quali 120 di esercizio attivo in amore…». Se questo linguaggio è tenuto ai creduli più ignoranti, Augusto Comte, parlando agli spiriti eletti, bandisce, come Gran Pontefice dell'Umanità, il nuovo verbo della Religione dell'Uomo. Il regno dell'uomo è di questa terra. Non bisogna alzare gli occhi troppo in alto: il Pontefice vieta insino lo studio dell'astronomia; consente soltanto che si osservino i moti dei pianeti visibili a occhio nudo… Solo i fatti importano: il positivismo dà lo sgambetto alla metafisica. E lo Schopenhauer è il suo discepolo Hartmann passano la spugna sull'una e sull'altro; dimostrano l'inganno universale; combattono la volontà di vivere e predicono il suicidio cosmico.
Mentre costoro parlano e scrivono, gl'internazionalisti e gli anarchici cominciano ad operare. Che cosa è la patria? Già imperando Napoleone, quando i confini dei popoli si slargano, quando gli eserciti corrono da un capo all'altro del vecchio mondo, lo «spirito europeo» della signora di Staël si sostituisce allo spirito particolare delle varie nazioni; a poco a poco, col vapore e con l'elettricità, che accorciano lo spazio ed il tempo, lo spirito «cosmopolita» si sostituisce all'europeo. Non più patrie, non più società.
Il mondo unificato è felice? Le ineguaglianze sociali sono sparite? La lotta per l'esistenza è divenuta meno feroce? Il positivismo e la democrazia hanno assicurato almeno il benessere materiale? Gli appetiti sono stati eccitati, non appagati. Ed ecco i bombardatori scendere in piazza.
Erano rimaste, in tanto naufragio, alcune tavole di salvezza. Avevamo l'amore. Anche questo ci manca. Noi siamo oggi posti tra i misogini, che seguono il Leopardi e lo Schopenhauer nel loro disprezzo per le donne; e tra i femministi, che lavorano a fare della donna non la compagna, ma la concorrente e la rivale dell'uomo.
E l'arte? Non era l'arte la grande consolatrice? Lo Schopenhauer e il Leopardi, negando tutte le altre cose, non avevano attestato il sovrano potere dell'arte? In arte, oggi, come in politica, non si sa da qual parte rifarsi. Il naturalismo pareva l'ultima parola; ma non appena esso tentò di assodarsi, il simbolismo lo buttò giù; ed ecco che a sua volta il simbolismo boccheggia. «Purificate la vita con la sovrana potenza dell'arte!» dicono gli esteti; Ferdinando Brunetière predica che l'arte è essenzialmente immorale!…
L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati. Il popolo è privato della gioia che l'artista può dare; l'artista è privato del premio che il popolo accorda. Una forma d'arte aveva preso uno sviluppo straordinario, non prima sospettato: la musica. Essa pareva l'arte democratica per eccellenza, l'arte intelligibile a tutti, il linguaggio universale; ma ecco apparire il Wagner, prototipo dei ribelli incompresi. Paragonate il Wagner e lo Schopenhauer, vedrete la loro fratellanza. Il musicista dice che la soppressione della volontà di vivere, voluta dal filosofo, è terribile ma salutare; Tristano e Isotta è un inno d'amore turbato da un capo all'altro dall'idea della morte. Lo Schopenhauer, affermando che il valore dell'individuo è illusorio, compatisce i dolori degli uomini; dalla compassione, dalla carità, il Wagner è ricondotto alla fede, allo spiritualismo di Parsifal; ma il suo simbolo è oscuro ed ermetico; l'arte sua parla più alla ragione che al sentimento, è un paradosso in azione: per ottenere da essa il massimo della commozione nervosa, bisogna spendervi intorno il massimo d'intelligenza.
Chi parlerà allora a tutti, chi vorrà farsi intendere da tutti, dagli umili, dai semplici, dai poveri di spirito? Leone Tolstoi. Ma la sua religione, il suo nuovo cristianesimo, sorge dalle vive viscere della filosofia pessimista, considera l'umanità presente come un puro nulla, nega tutta quanta la nostra scienza, nega tutta quanta la nostra arte!
E quelli che affermano l'onnipotenza della scienza non sono già più contenti! La scienza, così gaia nei primordî, durante il Rinascimento, quando il Rabelais rideva del suo riso immortale, è ora triste. I suoi pratici adattamenti, i progressi materiali, le invenzioni che hanno reso più rapida e intensa la vita, hanno pure logorato la fibra umana. La nostra razza deperisce, i nostri nervi sono in convulsione. La scienza ci ha dato l'elettricità, ma ci ha dato anche la dinamite.
E sulle origini prime e sulle cause finali del mondo e dell'uomo questa scienza orgogliosa non dice una sola parola. Essa considera come entità reali le forze cosmiche, delle quali ignora l'essenza: uno scienziato, lo Spencer, glie lo ha rimproverato. Eduardo Hartmann ha definito la creazione: «la più temeraria fantasia dell'immaginazione scientifica». In questa creazione meccanica ed automatica non più miraggi, non più aspettazioni fiduciose e consolatrici. Un vescovo d'Australia ha rifiutato di ordinare pubbliche preghiere per la pioggia, dichiarando che la meteorologia è governata da leggi inflessibili; ed ha invitato i fedeli, per evitare i danni della siccità, a migliorare i sistemi d'irrigazione….
Ma, proprio mentre la fede è negata, derisa, bollata come superstizione; mentre si bandisce l'idea divina; gli uomini, più che mai bisognosi di comprendere il gran mistero, celebrano riti folli. La religione muore, ma nasce l'occultismo, il satanismo, il magismo, lo spiritismo; le tavole girano, e le teste con esse; gli altari sono abbandonati, ma la messa nera è in grande onore…
Tale è, nelle sue grandi linee, il bilancio morale compilato dal Fierens-Gevaert. Non si può dire che egli abbia avuto la mano leggera. Pur troppo tutti questi motivi di tristezza esistono: la quistione è di valutarli. L'aritmetica non è un'opinione; ma le opinioni non si possono misurare coi numeri. Esse mutano troppo, troppo rapidamente, non solo da individuo a individuo, ma in una stessa persona.
Nei bilanci finanziarî vi sono certe somme che figurano all'entrata nello stesso tempo che all'uscita: esse si annullano reciprocamente e lasciano immutato il rapporto fra l'attivo e il passivo. Le contraddizioni, in fatto di opinioni, di credenze, di fedi, sono come chi dicesse le partite di giro dei bilanci morali. Ora le contraddizioni del pensiero moderno sono continue, flagranti. Se noi mettiamo all'attivo la scienza, ripromettendoci tutto da lei, e poi la mettiamo al passivo, disperandone, le due partite si elideranno, e la scienza resterà quella che è. Il misogino e il femminista, l'altruista cieco e l'egoista spietato si equivalgono: le donne e la morale restano quelle che sono.
Guardate ciò che avviene nell'arte, in un'arte speciale: quella del romanzo. Nel romanzo trionfa l'esoticismo di Pietro Loti e il cosmopolitismo di Paolo Bourget. Ma anche qui c'è una contraddizione evidente. Uno scrittore appena ieri sepolto fra l'universale rimpianto, e oggi più che mai vivo nelle opere, ha ottenuto ed ottiene la maggiore, la più pura ammirazione, per avere candidamente osservato e riprodotto il suo cantuccio natale. Mentre altri trionfa descrivendo i costumi giapponesi e la vita dei grandi alberghi cosmopoliti, Alfonso Daudet conquista la gloria descrivendo il Mezzogiorno, scoprendo Tarascona, creando Tartarin e Numa Roumestan. C'è dunque posto per tutti.
Torniamo alla filosofia; consideriamo il caso dello Schopenhauer. Lungamente disconosciuto, costui fu ed è onorato come pochi altri. Vuol forse dire che il pessimismo è l'ultima nostra parola? Sarebbe una cosa tutta negativa; ma, non riuscendo ad affermar nulla, avremmo pure une fiche de consolation sapendo almeno negare. E il secolo, cominciato coi turbamenti, con le delusioni e con le malinconie, potrebbe recitare compunto il credo disperato del filosofo di Francoforte. Se non che: studiate la sua vita, leggete il suo epistolario: vedrete che egli stesso operava contrariamente alla sua fede; i suoi atti e le sue idee facevano a pugni. «Egli che voleva conoscere la vita, il mondo, l'universo», sono parole del Rod, «trascurava poi di conoscere sè stesso; egli che additava la volontà di vivere come la sorgente di tutti i mali, e che faceva consistere nel lavorare a distruggerla lo scopo supremo della morale, manteneva poi accuratamente la volontà sua propria, senza diffidenza, senza accorgersene, con una specie di candore; egli che scopriva con occhio penetrante l'insieme delle illusioni delle quali siamo vittime, le accoglieva per conto suo: chiaroveggente quando ne stava lontano, cieco appena si accostava ad esse».
Ma questo dissidio è forse in lui solo? Non accade altrettanto in ciascuno di noi? Gli estremi non sono tanto vicini che si dànno la mano? Di estremi, di contraddizioni, di antinomie non è piena tutta quanta la storia dell'umanità? E per cento, per mille, per diecimila individui che amano gli eccessi, e non stanno fermi in uno solo, ma trascorrono dall'uno al contrario, non vi sono milioni di uomini di buon senso che rifuggono da tutti?
Il Fierens-Gevaert aspetta un nuovo Messia che venga a salvare il nostro povero mondo. Aspettiamolo pure: sarà il benvenuto, se non lo crocifiggeranno come il primo. Ma consoliamoci nel frattempo pensando che gli uomini sani continuano a credere e ad amare, semplicemente. E, a chi ben guardi, il secolo decimonono non è poi tanto singolare quanto sembra; si può dimostrare che somiglia non poco al diciottesimo, e si può scommettere che il ventesimo gli somiglierà.
Il signor Ossip-Lourié ha pensato di riunire in un maneggevole libretto tutti i pensieri, le sentenze e i giudizî di Leone Tolstoi, traendoli con molta pazienza dalle sue opere e raggruppandoli in tredici paragrafi, nei quali si ragiona della vita e della morte, della religione e della scienza, del patriottismo e dell'istruzione, e via dicendo.
Questa specie di estratto o quintessenza del Tolstoismo è molto utile a chi vuol rendersi conto della dottrina novissima; e poichè essa è uno dei segni del tempo, e poichè una quantità non piccola di brave persone si appassionano pro e contro il filosofo di Jasnaia Poliana senza averne letto i libri, sulla fede della semplice fama, un rapido esame del breviario messo insieme dall'Ossip-Lourié non riescirà inopportuno.
Uno dei primissimi pensieri della raccolta, il terzo, dice: «Per intendere il senso della vita bisogna, innanzi tutto, che essa non sia assurda nè cattiva:—l'intelligenza viene in seconda linea». Ma il pensiero susseguente è così espresso: «La vita consiste nella ricerca dell'ignoto e nella subordinazione dell'azione alle conoscenze nuove»: dove si vede che l'intelligenza, già in seconda linea, passa improvvisamente in prima. Un poco più giù, al numero ventuno, si legge: «Il principio e la fine di tutte le cose risiedono nel cuore dell'uomo». Ed ecco l'intelligenza cedere ancora una volta il primo posto.
Passiamo ad un altro punto. Il sesto pensiero dice: «La vera vita è la vita comune di tutti, non quella di ogni uomo particolare. Tutti debbono lavorare per la vita altrui». Ma dopo qualche pagina si trova quest'altro giudizio: «Vi sono gli Stati, vi sono i popoli, vi è la concezione astratta dell'uomo; ma l'umanità come concezione concreta non esiste e non può esistere. L'umanità è una finzione». È lecito pertanto chiedere se tutti debbono lavorare per una finzione, per una cosa che non esiste.
E ancora: il settimo pensiero dice: «La vera vita non ha che vedere col passato, nè con l'avvenire: è quella del momento presente, e consiste in questo: che ciascuno faccia ora quel che deve fare». Ma il passato e l'avvenire che, secondo tale proposizione, non riguardano la vera vita, diventano a un tratto importanti, perchè (pensiero dodicesimo): «La vera vita è quella che aggiunge qualche cosa al bene accumulato dalle generazioni passate, che aumenta questa eredità nel presente e la trasmette alle generazioni future». Al numero ottantanove leggiamo anche: «Nè l'uomo nè l'umanità possono tornare indietro»; ma subito dopo, al numero novanta, è detto che: «Non si può restare a posto quando il suolo è in movimento: se non si avanza, s'indietreggia»; e che «gli uomini istruiti dei nostri tempi trascinano la società indietro, non solo verso lo stato pagano, ma verso lo stato di barbarie primitivo».
Basteranno questi esempî per dimostrare come la dottrina tolstoiana non eviti le contraddizioni sciaguratamente comuni a tutti i sistemi filosofici di questo mondo. Certo, cogliere contraddizioni fra pensieri staccati è molto facile; ma quando si colgono negli ordinati ragionamenti non si fa altro che staccarne i concetti informatori. E considerando tutta quanta l'opera del pensatore russo, se anche le contraddizioni minori venissero a mancare, la maggiore, la più grave, resterebbe; ed è questa: che mentre egli parla in nome del perfezionamento, del progredimento umano, e dovrebbe pertanto affermare che oggi si sta meglio di prima; i suoi più acuti strali sono poi rivolti contro il presente ordine delle società, e il suo ideale consiste in un ritorno ai sistemi primitivi, già condannati. «Tutta la storia dell'umanità non è altro che un graduale passaggio dalla concezione della vita personale e animale alla concezione sociale, e da questa alla divina». Una simile certezza dovrebbe essere di conforto grandissimo. Se il miglioramento, se la purificazione della vita non si opera tanto presto quanto sarebbe pure desiderabile, la lentezza è forse una buona ragione per marchiare col ferro rovente tutta quanta l'umanità? Non le si deve tenere nessun conto dei lunghi sforzi sostenuti per uscire dalla vita animale?
Invece il Tolstoi non le perdona niente. Gli uomini, dice, «vivono contrariamente alla coscienza già da lungo tempo». Vuol dire che prima vivevano meglio? Allora, invece di progredire, non si torna indietro? Ma siccome, soggiunge, «è impossibile che l'uomo sia messo senza volerlo in una situazione contraria alla coscienza», così bisogna dedurne che gli uomini si apprendono al male volontariamente, deliberatamente. «Perchè il nostro ordine sociale, contrario alla coscienza degli uomini, fosse sostituito da un ordine ad essa conforme, bisognerebbe che la vecchia e logora opinione pubblica desse luogo a un'opinione giovane e piena di vita». E ancora: «Perchè gli uomini mutino il loro modo di vivere e di sentire, bisogna che mutino il loro modo di pensare.» Certo; ma, per pensare in altro modo, che cosa occorre? Non potrebbe darsi che, tanto per vivere e sentire, quanto per pensare e giudicare in altro modo, occorresse semplicemente cambiare tutta la natura umana?
Per agire nella vita secondo «la ragione e la coscienza», come vuole il Tolstoi, e come infatti si dovrebbe, bisognerebbe che fra coscienza e ragione vi fosse accordo costante e perfetto; ora, pur troppo, i dissidî fra le due sono lunghi, gravi e frequenti. «Il dovere che incombe ad ogni uomo di prender parte alla lotta contro la natura, per assicurare la propria vita e l'altrui, sarà sempre il primo». Ciò è innegabile; ma fra la propria vita e l'altrui, o per lo meno fra l'interesse proprio e l'altrui, bisogna troppo spesso, e quasi sempre, scegliere; e per un martire o un eroe, che sacrifica agli altri sè stesso, milioni e milioni d'uomini procacciano prima d'ogni altra cosa l'utile proprio; e insomma: alla lotta degli uomini contro la natura ne succede un'altra: quella degli uomini fra loro. Il Tolstoi lo sa, lo vede: «Tutta la nostra esistenza è ordinata in modo che ogni godimento personale si acquista a prezzo di sofferenze umane». Soltanto, ciò non accade per il capriccio di pochi, di molti o di tutti; ma è l'effetto di una legge, d'una necessità, d'una fatalità. E se c'è questa fatale lotta per l'esistenza, sarà una «menzogna» la disuguaglianza degli uomini? Poichè una parte degli uomini vince, e l'altra è vinta, ciò vuol dire che essi non sono eguali; ma alcuni più forti ed abili, altri più deboli e inabili.
In realtà fra gli uomini vi sono tante differenze, che non se ne trovano neppure due soli interamente eguali. Ma, se questo è un fatto innegabile, quantunque negato, è pure un altro fatto, altrettanto innegabile e negato, che, mentre questi uomini sono tanto diseguali, sono anche simili del tutto. Simiglianza e diversità stanno insieme, e poichè sono cose contraddittorie e incompatibili e reciprocamente lesive, così dal loro contrasto, dalla loro coesistenza, che sembra assurda, ma che pure è un fatto, nascono una moltitudine di danni. Chi guarda alla diseguaglianza afferma la legge della lotta, riconosce il diritto della forza; chi guarda alla simiglianza sostiene la legge dell'amore, predica il dovere della solidarietà. Ma nessuna delle due dottrine, se non tiene conto dei fatti sui quali riposa la dottrina contraria, è accettabile. Come conciliarle?
Il Tolstoi si rivolge alla religione di Cristo; non già alle chiese ufficiali, ma alla vera dottrina cristiana. «Non solamente non c'è nulla di comune fra le Chiese e il cristianesimo, eccetto il nome; ma i loro principî sono opposti ed ostili».
Nei primi secoli egli crede che il cristianesimo fosse puro e purificasse il genere umano; un migliaio e mezzo di anni ci hanno fatto indietreggiare. Ancora una volta: dove se ne va allora il progresso? Il vero insegnamento di Gesù, dice il Tolstoi, è questo: «non resistere al malvagio»; cioè non opporgli mai la violenza, ma unicamente l'amore. «Tutta la dottrina di Gesù ha un solo scopo: dare il regno di Dio agli uomini, la pace». E, certo, alla legge naturale della lotta per l'esistenza si oppone la legge morale della pace e dell'amore; ma le due leggi sono tanto discordi e inconciliabili, che lo stesso Gesù disse: «Il mio regno non è di questo mondo». Il Tolstoi afferma che il cristianesimo, nella sua vera significazione, «distrugge lo Stato»; ma il figlio di Dio non disse anche: «Date a Cesare quel che è di Cesare»?
Lo Stato, l'ordinamento sociale, secondo il Tolstoi, sono iniqui, sempre, qualunque cosa facciano, su qualunque sentimento si fondino. La giustizia è iniqua: il giudice non esita a imprigionare una vedova e a separarla dai figli, se costei vende vino senza permesso e froda l'erario di 25 rubli. I poteri pubblici, tutti quanti, sono altrettanti strumenti di violenza e d'oppressione: essi debbono sparire, e non già per cedere il luogo ad altri, ma senza più sostituzione di sorta. Il patriottismo è una schiavitù, un vestigio cruento di altri tempi, un pretesto per tenere in piedi gli eserciti, che servono veramente ai pochi potenti contro i molti oppressi: «i veri cristiani debbono rifiutarsi al servizio militare». E il denaro è anch'esso una nuova forma di schiavitù impersonale sostituita all'antico servaggio individuale.
La scienza e l'arte non si salvano neppure. «Le scienze e le arti esisterono sempre, e finchè esisterono veramente, furono necessarie e accessibili a tutti gli uomini. Noi invece produciamo ora certe cose chiamate arti e scienze; ma si vede che le nostre produzioni non sono nè necessarie, nè accessibili agli uomini». Ancora un'altra volta, dunque, il Tolstoi nega quel progresso che aveva già affermato. Egli bolla anche gli scienziati, perchè «passano i loro migliori anni a disabituarsi dalla vita, cioè dal lavoro»; come se passare le intere giornate al microscopio, al crogiuolo o alla tavola anatomica sia darsi bel tempo; e come se gli scienziati «veri» possano coltivare la scienza e zappare la terra tutt'in una volta… Istupiditi e fossilizzati, i dotti «acquistano una presunzione che impedisce loro di poter mai tornare alla semplice vita del lavoro». Ma allora perchè non dire, più brevemente, che quella passata zappando la terra è la miglior vita, la più degna, la sola lodevole? Ma no: «la scienza e l'arte sono necessarie all'uomo quanto il cibo, la bevanda e il vestimento». Intanto la fisiologia, la psicologia, la biologia, la sociologia non riescono «se non a mettere il pensatore in contraddizione perpetua con gli altri e con sè stesso». Ahimè, questo effetto ha pure la filosofia in generale e il tolstoismo particolarmente!… «L'attività scientifica e artistica è feconda solo quando non attribuisce a sè stessa diritti, ma unicamente doveri». Doveri e diritti non sono invece correlativi, non vanno insieme, come luce e ombra? Imporre soltanto doveri non è tanto assurdo quanto pretendere solamente diritti?
E con la scienza, con l'arte, col denaro, col patriottismo, con la giustizia, se ne va anche l'amore. Nel sommario della filosofia tolstoiana compilato dall'Ossip-Lourié è trascurato un punto essenziale, sono omessi tutti quei luoghi delle opere del Tolstoi dove questi dice che astenersi dall'amor sessuale è meglio che amare; che Gesù Cristo istituì il matrimonio, ma gli preferì la castità, e la predicò e ne diede l'esempio. La castità, universalmente praticata, porterebbe alla fine del genere umano; e il Tolstoi non se ne inquieta: anzi ha detto che, se il genere umano finirà, esso si uniformerà così alla legge naturale secondo la quale i mondi debbono finire. Il vuoto, il silenzio, l'immobilità, la morte, il niente è così l'ultimo termine della sua filosofia.
La quale, tuttavia, ritorna sui proprî passi, e fa qualche concessione. Se lo scopo ultimo, se la mèta estrema della vita e del mondo è il nulla, il problema della felicità dovrebbe essere molto semplificato, anzi soppresso. Ma il Tolstoi, o perchè persuaso egli stesso dell'assurdità di certe sue affermazioni, o perchè intende distinguere la speculazione pura dalla morale pratica, indica il mezzo di esser felici.
Per esser felici, secondo la dottrina tolstoiana, bisogna che si avverino cinque condizioni. La prima è di lasciare le città e di vivere in comunione con la natura; la seconda è di lavorare, di lavorare fisicamente, con le braccia, coi sudore della fronte; la terza è la famiglia; la quarta è il commercio libero e affettuoso con tutti gli uomini; la quinta è la salute, e la morte senza malattia. Ora i potenti, i ricchi, quelli che non lavorano, che abusano della vita, che guardano dall'alto in basso i loro simili, che vivono nelle metropoli, che non educano essi medesimi i loro figli, sono infelicissimi. Viceversa: «povertà è felicità». Se questi giudizî si potessero accettare alla lettera, che cosa se ne dovrebbe concludere? Che i potenti, i ricchi, debbono fare compassione, e invece il Tolstoi li esecra, commiserando poi gli umili e i poveri, che dovrebbero invece esser degni d'invidia. Ma nè questi giudizî si possono accettare alla lettera, nè la felicità dipende dalle condizioni esteriori della vita.
Alto e nobile sempre, il pensiero del filosofo russo è troppo spesso confuso, contraddittorio e chimerico; abile e vittorioso nella critica, egli è inefficace, come tutti i critici di questo mondo, nella ricostruzione; s'accosta tuttavia più d'una volta al vero, alle verità vere ed eterne che tutti riconoscono e onorano. «La felicità», ammette anch'egli, «non dipende dalle circostanze esteriori, ma dal modo di apprenderle; un uomo avvezzo a sopportare il dolore non può essere infelice». E allora i termini del problema non vanno modificati interamente? Questo moralista che combatte il male e predica il bene, sa pure, e lo dichiara anzi espressamente, che, «da secoli, qualunque cosa lo spirito imparziale getti nella bilancia del bene e del male, il giogo resta immobile, e ciascun piatto contiene tanto male quanto bene». E questo riformatore, che crede di essere egli solo nel vero e nel giusto, fa pure atto di modestia quando afferma che «ogni pensiero è esatto e falso ad un tempo: falso, perchè è limitato dalla nostra impotenza ad abbracciare tutta quanta la verità; esatto, perchè rappresenta una delle facce del concetto umano».
Tempo fa i giornali riferirono un succoso aneddoto. Una governante di casa Tolstoi, sapendo di quanta ammirazione e di quanta curiosità è oggetto il grande scrittore, pubblicò le memorie del tempo passato presso di lui. E narrò, fra le altre cose, che il Tolstoi, vegetariano ostinato, incapace di assaggiare un briciolo delle carni che si servivano in tavola e che egli chiamava «pezzi di cadaveri», alle volte, spinto dalla fame che il magro regime non acchetava, si levava di notte, andava nella sala da pranzo e mangiava nascostamente le fette di arrosto e le ale di pollo avanzate…. Queste verità semplici ed umili che gli escono dalla penna dopo le affermazioni superbe, sono come i suoi pasti notturni: un omaggio reso all'universale costume degli uomini. E la verità più semplice, la più modesta, quella con la quale si potrebbe distruggere tutta la sua dottrina, è che «un sol uomo», come egli stesso riconosce, «non può agire contrariamente al mondo intero».
Alla succinta esposizione critica della dottrina tolstoiana non sarà inutile far seguire quella di un'altra modernissima filosofia, molto ammirata o molto derisa, senza che si sappia bene, dai più, in che cosa consiste: voglio dire la filosofia di Federico Nietzsche, il vangelo di Zarathustra, la profezia del Superuomo. La cosa sarà tanto meno inopportuna, quanto che le idee del Nietzsche sono diametralmente opposte a quelle del Tolstoi, e rappresentano, come si suol dire, l'altra faccia della medaglia.
Anche questa volta saremo guidati da un succoso compendio, recentemente messo insieme, con molto garbo e padronanza del tema, dal professor Lichtenberger.
Riassunto con una frase che ha avuto molta fortuna, il Tolstoismo è «la religione della sofferenza umana»; il Nietzschismo ne è la negazione. La morale del Tolstoi impone di sacrificare il bene proprio all'altrui; la morale del Nietzsche dà invece ragione all'individuo contro il «gregge». Affermando la somiglianza degli uomini, il Tostoi ne nega le diseguaglianze; vedendo le loro diversità, il Nietzsche ne disconosce la equivalenza. Tanto il Russo quanto il Tedesco sono senza perdono contro la società moderna; ma il Russo, perchè vi trova troppo egoismo; il Tedesco perchè non ve ne trova abbastanza.
Ogni civiltà, dice il Nietzsche, si costruisce una «tavola dei valori»; cioè colloca più alto o più basso, stima migliori o peggiori certe cose e certe azioni. I tipi di queste tavole morali sono due: quella dettata dai padroni, e quella composta dagli schiavi. Quando una razza forte, ardita e bellicosa sottopone i deboli e gl'imbelli, come a Roma, come nei regni teutonici, si ottiene una morale di padroni; dove la volontà, il coraggio, la forza, l'orgoglio sono onorati. Se invece i deboli, i vinti, riescono ad imporre la loro morale, sono tenuti da conto tutti i valori contrarî. La civiltà presente, la morale cristiana, sono civiltà e morale di oppressi, di schiavi. Uno dei valori oggi più apprezzati è la pietà. Orbene: questa, non solo non dev'essere incoraggiata, ma va combattuta. Perchè: prima di tutto non è vero che la pietà sia disinteressata, scevra di egoismo; al contrario. Chi è spietato, chi lotta, chi fa male ai suoi simili, vuole esercitare la sua forza, vuol dominare; il pietoso, quello che fa bene, non è mosso da uno scopo diverso; in fondo anch'egli vuol mostrare la propria virtù, la propria superiorità, ed essere ammirato e lodato. Inoltre: la pietà è deprimente, perchè ciascun individuo pietoso, oltre ai mali proprî, deve sopportare gli altrui. Di più: essa è pericolosa, perchè tende a far sussistere e perpetuare i deboli, gl'infermi, tutti quegl'individui che, nell'interesse della razza, dovrebbero sparire. E che cosa vuol dire questa pietà? Da che proviene la religione della sofferenza umana? Proviene dalla paura, appunto, della sofferenza. Ciascuno commisera e lenisce il dolore altrui temendone uno simile per sè, e sperando che altri lo lenisca a lui. Il dolore è considerato come qualche cosa che bisogna abolire. Invece, «alla scuola del dolore, del gran dolore,—non lo sapete?—sotto questo duro padrone soltanto l'uomo ha compito tutti i suoi progressi».
Nella nostra «tavola dei valori» un altro titolo altamente quotato è l'eguaglianza degli uomini: il cristianesimo considera tutti gli uomini eguali dinanzi a Dio, la democrazia li considera eguali dinanzi alla legge: il Tolstoi, come abbiamo visto, dice espressamente che la diseguaglianza degli uomini è una «menzogna». Il Nietzsche invece esige che si distingua tra forti e deboli, tra abili e inabili, tra padroni e servi.
Altro e non minore inconveniente: non si sa più comandare; quei pochi che esercitano un timido potere, quasi se ne scusano; si dicono i primi servitori del paese, gli strumenti del bene comune. Non si osa castigare; i delinquenti commuovono più delle vittime; il Tolstoi, anzi, se la piglia con l'istituto della giustizia; nega che un uomo abbia il diritto di condannarne un altro.
Ancora: la donna rivaleggia con l'uomo; invece di affidarsi a lui, perde le attrattive proprie del suo sesso, lavora di gomiti per farsi strada, si rovina i nervi, si riduce sempre più inadatta a procreare una prole robusta.
Questa è la civiltà nostra, la civiltà dei popoli cristiani. E mentre il Tolstoi la giudica troppo poco cristiana, mentre la sferza per eccitarla a tornare alla vera dottrina di Gesù, il Nietzsche la fa oggetto di un odio che muove da opposte ragioni. Egli si rivolta contro l'ideale ascetico, contro le prediche sacerdotali che impedirono all'uomo di mettersi in faccia alle cose ed a sè stesso. La scienza tenta bensì il libero esame della realtà, ma senza frutto. Lo scienziato che studia i fatti, l'«uomo obbiettivo», è un «pigmeo presuntuoso»; o, nella migliore ipotesi, uno «specchio» che riflette le cose, uno «strumento di precisione». Altrettanto, anzi peggio, dicasi del filosofo. Quelli che sembrano più spregiudicati, i «coscienziosi dello spirito», sono, in fondo, ascetici anch'essi. Vogliono arrivare alla verità, credendo che la verità sia utile per sè stessa; invece la verità vera è che l'illusione vale e giova, per lo meno, quanto la verità. L'illusione, la menzogna, è forse la condizione stessa della vita: «la falsità di un giudizio non è per noi una obbiezione contro di esso; la quistione, per noi, è questa: In quale misura questo giudizio falso è utile alla conservazione o allo sviluppo della vita, alla conservazione o al perfezionamento della specie?» Se, dunque, la verità può essere nefasta e la menzogna benefica, perchè si continua a cercare ad ogni costo la verità? Evidentemente perchè si attribuisce ad essa un pregio assoluto, un valore metafisico. Dunque l'uomo «veridico», l'uomo che ha fede nella scienza, lo scettico, l'ateo, rispetta ancora il più alto «valore» della «tavola» attuale. Costui non osa domandare a sè stesso: «Qual è il valore della morale che c'insegna e c'impone di ricercare la verità?». Costui non dice a sè stesso: «Perchè volere ad ogni costo conoscere questa Natura che noi intravediamo, oggi, come una potenza eternamente cieca e inintelligente, sovranamente indifferente al bene ed al male, magnificamente feconda, sempre intenta a produrre innumerevoli nuove esistenze per sacrificarle, impassibile, alle sue combinazioni vuote di senso?….» Gli uomini, prima, sacrificavano tutto a Dio; ora sacrificano Dio stesso a questa natura, cioè alla pietra, alla stupidità, al peso, al destino, al Nulla!…
Ed ecco il profeta Zarathustra ospitare nella sua grotta le vittime della civiltà europea.
Chi sono?
Il primo è il Pessimista che va predicando: «Tutto è vanità, niente serve a niente, inutile cercare». Poi vengono due Re che hanno abdicato perchè, non essendo i primi fra gli uomini, non vogliono più comandare. Poi ecco il Coscienzioso dello spirito, lo Scienziato obbiettivo, che ha consacrato la sua vita a studiare il cervello della sanguisuga; e il vecchio Mago, l'eterno commediante che rappresenta tutte le parti e inganna tutti, ma non sè stesso, ed è triste e disgustato; e l'ultimo Papa, che non può consolarsi della morte di Dio; e poi «il più orribile tra gli uomini», l'Uccisore di Dio; e poi ancora il Mendicante volontario, che cerca la felicità in un cantuccio di prato dove le vacche ruminano tranquillamente; e finalmente l'Ombra, lo scettico, che, dopo aver percorso tutti i dominî del pensiero, si è smarrito e va errando senza scopo per l'universo. Zarathustra non li consola: se costoro soffrono, se hanno nausea della moltitudine e di sè stessi, egli giudica che il disgusto e la sofferenza sono gli stimoli necessarî alla salute, al riscatto. Se l'umanità decade e si corrompe, essa darà luogo, morendo, a una forma superiore. Ed ecco: il profeta annunzia il Superuomo. L'uomo attuale non è uno scopo, è una «corda», un «ponte», un «passaggio» dall'animale al Superuomo. «Il Superuomo è la ragion d'essere della terra».
Che cosa sarà, quando apparirà il Superuomo? L'uomo darà luogo al Superuomo per auto-soppressione. Quando il dolore sarà arrivato al colmo, quando ciascuno soffrirà, non soltanto per ciò che egli è, ma per ciò che è la stessa condizione umana, allora, in questo eccesso di dolore, l'uomo troverà la forza necessaria per annichilirsi, dando luogo al Superuomo. E quale sarà la differenza tra i due? Sarà questa: che mentre la morale presente si rivolge a tutta l'umanità indistintamente, la morale del Superuomo sarà aristocratica, sarà il privilegio di pochi. Di più, tutta la «tavola dei valori» s'invertirà. Non la pace, il riposo, la quiete saranno stimate; ma la lotta e la guerra; la guerra benefica, la guerra indice della forza, della salute, dell'esuberanza. Non la pietà, ma la volontà sarà preferita: la pietà è «l'ultimo peccato» di Zarathustra, la prova più pericolosa, dalla quale egli esce però trionfante. Bisogna esser duri con sè stessi per creare nuovi valori, per plasmare a proprio talento la realtà. Bisogna esser duri con gli altri, coi fiacchi, con gli impotenti, con gl'incapaci di vivere. Saper soffrire è poca cosa, «ma non soccombere agli assalti dell'intima angoscia e del dubbio turbatore quando s'infligge un gran dolore e se ne sente il grido,—ciò è grande, è la condizione della vera grandezza». E infine il saggio porterà in tutte le avventure della vita la serenità, la grazia, il sorriso del fanciullo che giuoca; s'innalzerà su sè stesso, oltrepasserà sè stesso sulle ali del riso e della danza: questo è l'ultimo, il supremo consiglio della saggezza.
La critica più facile della filosofia del Nietzsche consiste nel dire che è l'opera di un pazzo. Questa critica, molto usata contro le cose insolite e nuove, gode oggi tanto più credito, quanto che si sono viste le attinenze del genio con la pazzia; ed allo stesso Tolstoi non è stata risparmiata. Nel caso del Nietzsche, d'uno scrittore che ha perduto effettivamente, durante le sue speculazioni, il bene dell'intelletto, e che sopravvive a sè stesso miseramente vegetando, la tentazione di giudicarne pazzesca tutta quanta l'opera è veramente fortissima e generale. Se non che questa critica, quanto più è facile, tanto meno persuade. Se il Nietzsche è pazzo, tutti gli altri filosofi, riformatori e profeti, non furono pazzi la loro parte?
Quel che c'è di chimerico, di stravagante, di esagerato nelle idee del Nietzsche è tanto evidente, che non ha bisogno di dimostrazione. Meno evidenti, sebbene più gravi, sono le contraddizioni e le assurdità della sua dottrina, così le implicite come le esplicite. Il Nietzsche si è apertamente contraddetto più volte, come quando ha giudicato il sistema dello Schopenhauer, del quale prima fu ammiratore sviscerato e poi oppositore vivace; come quando ha giudicato l'estetica e l'arte del Wagner, prima sublimandole, poi disprezzandole. Ma un gran numero di volte, nel formulare la dottrina sua propria, si è contraddetto senza saperlo, è caduto senza accorgersene in pieno assurdo.
Egli comincia con l'affermare, come abbiamo visto, che il mondo è retto a volta a volta da due tavole di valori: quella dei padroni e quella degli schiavi. Che i padroni, i vincitori, impongano la loro legge, come impongono materialmente le catene agli schiavi, s'intende e si vede; ma che gli schiavi, i vinti, anch'essi siano a loro volta capaci d'imporre la propria morale ai vincitori, non s'intende niente affatto. Come mai gl'impotenti avrebbero questa potenza? Con quali mezzi riescirebbero a compiere l'imposizione? Che cosa potrebbe obbligare i dominatori ad accettare la morale dei sottoposti? Se quelli che dettano legge accettano la legge suggerita da quelli che obbediscono, ciò significa che la legge suggerita dai vinti ha dentro di sè una tale virtù, una tale forza, da farsi riconoscere, accettare ed amare da coloro cui nuoce; ciò significa che nel mondo non opera la sola forza materiale, ma anche quella morale, del cuore, dell'anima, dello spirito, e che la forza del cuore è capace di vincere la stessa forza del braccio. Vincitori e vinti sì, ma i vinti non sono tanto vinti quanto sembra, se ottengono questo trionfo: di imporre la loro morale al mondo. Quindi le due tavole dei valori, differenti in apparenza, dei vincitori e dei vinti, dipendono entrambe da una imposizione, da una vittoria; e la vittoria morale vale la materiale, e i valori di quelli che il Nietzsche chiama schiavi, quei valori che egli disprezza e vuole soppressi, valgono gli altri, e in conclusione nel mondo non si vedono due tavole di valori distinte e separate, ma una bilancia che, se oscilla continuamente da una parte e dall'altra, oscilla appunto perchè tende continuamente all'equilibrio.
Ma il Nietzsche si presta a distruggere anche meglio l'opera propria; perchè, mentre afferma con gran forza di persuasione la sua filosofia, nello stesso tempo dice, press'a poco come il Tolstoi, che ogni filosofo s'illude quando crede di presentarci il suo sistema come l'opera della «pura ragione». Un'illusione simile non è dunque anche la sua? Come e perchè egli solo possederebbe la verità vera? Il suo Superuomo non è anch'esso un ritrovato mistico, ascetico, equivalente a quelli che egli scopre in ogni filosofia e in ogni religione? «Tutti gli Dei sono morti; noi vogliamo ora che il Superuomo viva.» Il Superuomo che si sostituisce agli Dei non è dunque anch'egli una specie di Dio?
Di più: ha il filosofo di mira la felicità? Scrive per renderla più facile, o meno difficile? Pare di sì, perchè combatte il pessimismo, vuole l'ottimismo, prevede il giuoco spensierato, il riso alato, la danza leggera. Allora, come mai dice che il «savio» non ignora che la gioia e il dolore vanno insieme? Chi vuol conoscere le grandi gioie, soggiunge, deve anche fatalmente conoscere i grandi dolori; il «creatore di valori» deve «marciare incontro al suo supremo dolore e alla sua suprema speranza ad un tempo». Ma se c'è questa continua alternativa di gioie e di dolori, se ogni oscillazione in un senso è compensata da un'oscillazione in senso inverso, la proporzione non resta la stessa? Mille non sta a mille come dieci sta a dieci? E allora, perchè mutare?… Così la filosofia del Nietzsche, che sembra, ed è, il contrario di quella del Tolstoi, si confonde anche in questo punto con essa. I due pensatori si accordano nel riconoscere che i beni e i mali vanno insieme, che nessuno ha interamente ragione nè interamente torto: queste due verità, già ritrovate dal semplice buon senso, sono la quintessenza delle loro filosofie antagonistiche, e di tutte le filosofie.
Finalmente: il sistema del Nietzsche si chiude con la teoria del «Ritorno eterno». Egli sostiene, e a modo suo dimostra, che nel tempo infinito c'è una somma di forze costante e determinata; quindi che l'evoluzione universale passa eternamente per le stesse fasi e percorre eternamente uno stesso ciclo. Se così è, vuol dire che non vi sono avvenimenti nuovi nè definitivi; tutto ciò che sarà, è già stato; tutto ciò che è stato, sarà. Dunque il Superuomo è già esistito; dopo che tornerà ad esistere, sparirà un'altra volta; e quest'uomo moderno, che il Nietzsche odia, disprezza e vuole soppresso, fu anch'egli e sarà ancora un numero infinito di volte. Allora, perchè tanto sdegno e tanta impazienza?
Che Sully Prudhomme sia un artista geniale, un poeta delicatissimo, è risaputo da quanti hanno sentito, con accompagnamento di musica o senza, il suo celebre Vase brisé. Che egli sia un pensatore coltissimo, un filosofo acuto, è noto a quanti hanno compulsato il suo ponderoso volume sull'Espressione nelle Arti belle. Egli non ha voluto però tener separate le sue diverse facoltà, contentandosi di scrivere ora versi ispirati ed ora ragionamenti rigorosi; ha pure composto i poemi intitolati I Destini, La Giustizia e La Felicità con cuore di poeta e mente di filosofo. Questa parte dell'opera sua è la più degna di nota, perchè si riferisce a uno dei più singolari problemi del tempo nostro.
Non da oggi soltanto si dice che la scienza e l'arte, la poesia e la filosofia, il ragionamento e l'ispirazione sono incompatibili, o se non altro antagonistici. A chi ha espresso questa opinione si è risposto che l'antagonismo asserito non esiste; che anzi i due modi di attività possono andare e andarono infatti d'accordo, in altri tempi, nei primi tempi, quando poesia e filosofia erano una cosa sola.
È vero: l'arte fu un tempo scienza; ma è pur vero che la nostra vita intellettuale è infinitamente più ricca che non quella d'una volta, e che pertanto le attività umane si sono venute, come si dice, specializzando. Un oculista può, e all'occasione deve anzi, curare una polmonite; ma la sua capacità maggiore, la sua abilità particolare consiste nel curare i mali degli occhi. Ai tempi di Ippocrate e di Galeno questa divisione del lavoro non c'era. Così, anzi a fortiori, l'arte e la scienza, già confuse, si sono separate.
Il problema è anche più complesso. L'arte, un tempo, non era soltanto scienza, ma anche religione. Il poeta, il sapiente e il sacerdote facevano tutt'uno. Ma poichè la fede è immobile, mentre la scienza vuole andare avanti; poichè la prima è cieca, mentre la seconda è osservatrice; poichè quella si contenta di affermare, mentre questa vuol dimostrare; per queste ragioni il dissidio si è venuto lentamente operando e aggravando; finchè, ai nostri giorni, grazie al progresso scientifico veramente enorme compito ultimamente, è divenuto acutissimo. Alla scienza progredita e trionfante si sono chieste e si sono fatte dire troppe cose: i suoi idolatri, da una parte, hanno creduto soltanto in lei, e l'hanno opposta e anteposta alla fede; dalla parte contraria, quanti l'hanno vista incapace, come realmente è, di rispondere a certi quesiti estremi, l'hanno rinnegata e dichiarata in istato di fallimento.
A questo dissidio nella quistione etica fa riscontro un dissidio, egualmente grave, nella quistione estetica: noi vediamo un partito il quale vuole che l'arte, che la poesia, siano scientifiche, che dalla scienza traggano l'ispirazione ed alla scienza servano di sussidio: e un altro, il quale afferma che la scienza è fatale all'arte, e che la ucciderà, se non l'ha già uccisa. Il Tolstoi, subordinando ogni cosa alla fede, al concetto religioso e morale, se la piglia, al modo che vedemmo, con la scienza e con l'arte ad una volta.
Sully Prudhomme ha espresso l'inquietitudine prodotta universalmente da questi antagonismi:
Comment prier, pendant qu'un profane astronome
Mesure, pèse et suit les mondes radieux?…
Comment chanter, pendant qu'un obstiné chimiste
Souffle le feu, penché sur son oeuvre incertain?…
Et quel amour goûter, quand dans la chair vivante
Le froid anatomiste enfonce le scalpel?…
La scienza sarebbe dunque fatale alla fede, alla poesia ed allo stesso amore?… No! Il poeta protesta e si ribella. Chi ha detto, domanda, che la poesia sia incompatibile con la verità? Se l'osservazione paziente dello scienziato solleva a lembo a lembo il velo che nasconde il mistero delle cose, il vento della strofe lo può strappare d'un sol tratto.
Et c'est pourquoi, toute ma vie,
Sì j'étais poète vraiment,
Je regarderais sans envie
Képler toiser le firmament.
Senza dubbio: il vero poeta non deve guardare con invidia l'astronomo che scruta il cielo, come l'astronomo non dev'essere neppur egli geloso del poeta: i due ufficî sono egualmente importanti e dignitosi; ma il vento della strofe non solleva nulla. Se bastasse mettersi a cantare per risolvere i problemi e discoprire le leggi della natura, chi si rovinerebbe più gli occhi e le mani sugli strumenti d'un gabinetto, chi vi si chiuderebbe a farvi calcoli sopra calcoli? Il poeta può soltanto ridire ciò che lo scienziato ha scoperto; ma la strofe del poeta dev'essere alata, vibrante, sfolgorante; e il linguaggio dello scienziato è tutt'il contrario: freddo, esatto, severo.
…. Le prisme, interrogeant leurs feux,
À ces faux paradis arrache des aveux…
J'ai vu chaque élément de leur essence vraie
Étaler sur l'écran sa redoutable raie.
Con questi versi Sully Prudhomme canta uno dei più mirabili processi scientifici: l'analisi spettroscopica. Ma dove egli adopera l'immagine poetica del prisma che confonde i falsi paradisi, non è molto scientifico; perchè col prisma non si strappano confessioni ai paradisi veri o falsi, si scompongono soltanto le luci; e quando si attiene più fedelmente alla scienza, accennando alle righe di Frauenhofer, non è molto poetico.
Dans l'éveil d'un muscle endormi
La foudre éparse se révèle,
Silencieuse, à Galvani.
Franklin l'annullait, terrassée;
Volta la gouverne, ammassée;
Ampère fait d'elle un aimant…
Neppure questa storia dell'elettricità è molto poetica; essa è inoltre poco scientifica, come poco precisa. Per dire che gli areonauti guardano il barometro, il poeta scrive:
Ils montent, épiant l'échelle où se mesure
L'audace du voyage au déclin du mercure.
L'espressione è certo abilmente trovata, ma non somiglia un poco agli indovinelli che si propongono nelle conversazioni come passatempo? «Qual è quella scala dove si misura l'audacia del viaggio dall'altezza del mercurio?» Risposta: «La scala del barometro.»
Wenzel, Dalton, en leurs balances,
Révèlent qu'entre tous les corps
Par d'exactes équivalences
Le poids régit tous les accords.
Questa è la teoria atomica. Disgraziatamente, se la strofe non è molto ispirata, neppure un professore di chimica ne sarebbe contento: in chimica vi sono combinazioni, non già accordi. Sully Prudhomme canta ancora che i cieli non ci sono più sbarrati, perchè Euclide e Pitagora hanno
Dessiné du doigt dans le sable
Sur un triangle trois carrés,
Parce qu'ils les ont comparés…
Anche questo è un altro indovinello, del quale il lettore che ha dimestichezza con la geometria trova subito la spiegazione: il teorema del quadrato dell'ipotenusa, altrimenti detto il ponte degli asini; ma il geometra rammenterà al poeta che il triangolo dev'essere rettangolo….
Sully Prudhomme non mette soltanto in versi le scoperte scientifiche; espone anche la storia della filosofia:
Qu'est-ce que l'Univers? Il vit: quelle en est l'âme?
Quel en est l'élément? L'eau, le souffle, ou la flamme?
Thalès y perd ses jours, Héraclite en pâlit.
Démocrite en riant a broyé la matière;
Il livre à deux amours cette immense poussière,
Et le repos y naît d'un incessant conflit.
Phérécyde a crié: «Je ne suis qu'une ombre!
«Je sens de l'être en moi pour une éternité».
Et Pythagore, instruit dans les secrets du nombre,
Recompose le monde en triplant l'unité.
Nessuno è dimenticato, nè fra gli antichi nè fra i moderni: da
Socrate a Fichte, da Platone a San Bonaventura, da Aristotile a
Hegel: l'enumerazione non dura meno di diciotto pagine. Il
poeta ci dice che
Condillac soutient Locke en fidèle héritier,
come pure che
Leibnitz divise l'Être en milliers de génies.
Egli ci narra:
Hobbes n'avait à l'homme octroyé de connaître
Que la ferme matière, unique fond de l'Être.
Dieu, l'esprit que sont-ils? Rien, des mots seulement,
Tout! répond Berkeley, car la matière ment…
La poesia scientifica e filosofica di Sully Prudhomme non è sempre così arida. Se scienza e arte poterono un tempo procedere insieme, ciò significa che fra le due attività non c'è antinomia assoluta. L'anima umana è una, e le sue facoltà, quando sembrano più distinte, sono insieme connaturate e confuse. Ma ciascuna di esse può avere naturalmente, o acquistare con l'esercizio, un diverso grado di forza, e trionfare dell'altra. L'esercizio delle native facoltà poetiche ha fatto di Sully Prudhomme un poeta squisito, armonioso, leggiadro, efficacissimo nell'esprimere gli stati d'animo ambigui, perplessi e fuggevoli; capace anche, secondo l'espressione del Lemaître, di vere invenzioni di sentimenti. Ma, dall'altro lato, l'abito dello studio severo, dell'indagine positiva, dell'osservazione paziente, del ragionamento astratto, ha impacciato il volo lirico e l'ispirazione vivace. Metterli d'accordo non è impossibile, ma non è facile. Egli vi è riuscito qualche volta. Il suo sonetto, nelle Èpreuves, che ha per tema Spinoza, è veramente bello:
C'était un homme doux, de chétive santé,
Qui, tout en polissant des verres de lunettes,
Mit l'essence divine en formules très-nettes,
Si nettes que le monde en fut épouvanté.
Ce sage démontrait avec semplicité
Que le bien et le mal sont d'antiques sornettes,
Et les libres mortels d'humbles marionnettes
Dont le fil est aux mains de la Nécessité.
Pieux admirateur de la Sainte-Écriture,
Il n'y voulait y voir un dieu contre nature;
A quoi la synagogue en rage s'opposa.
Loin d'elle, polissant des verres de lunettes,
Il aidait les savants à compter les planètes.
C'était un homme doux: Baruch de Spinoza.
Qui, per un incontro fortunato, c'è la scienza, c'è la filosofia, ma ci sono anche la poesia e l'arte che le animano. Sully Prudhomme deve però aver temuto che l'arte in questo sonetto sia troppa, e pensato che una poesia scientifica e filosofica debba essere più scientifica e filosofica; perchè, riprendendo lo stesso tema nel Bonheur, ecco come lo ha svolto:
Un juif cartésien, plus hardi que le maître,
Arrache, imperturbable, à ses leçons leurs fruits,
Et le condanne en forme à nommer Dieu tout l'Être,
Dont le temple infini soi-même se construit.
Spinoza dans la Bible est entré sans surprise;
Mais, pendant qu'il y plonge, il se sent la main prise
Dans le poignet de fer de la Nécessité!
Le front calme, à la suivre il n'a pas hésité.
L'Être assiste, éternel, au cours changeant des âges,
Le froid de la raison fait du monde un cristal;
L'homme en est une face où des pâles images
Répètent l'univers sous un angle fatal….
L'opera di Sully Prudhomme non risolve adunque, rispetto alla forma, il dissidio fra scienza ed arte, o lo risolve male. Egli ha voluto dimostrare che la scienza non è fatale all'arte; ma di questa compatibilità l'arte sua fredda, compassata e didascalica ci fa dubitare. Resta da considerare in qual modo egli si diporta nella quistione etica: se l'arte è da lui sacrificata alla scienza, alla stessa scienza non dovrà egli sacrificare la fede?
Questa è infatti la soluzione che troviamo nei Destini. Appena la Terra esce dal Caos, il Male comincia ad operarvi, a ordirvi le sue trame spaventose. Raffinatamente, per nuocer meglio, esso mescola al dolore qualche piacere, che dia di tanto in tanto al genere umano una tregua, dalla quale questo esca fortificato, pronto a sopportare nuovi, maggiori dolori. Ma, nello stesso punto che il Male scendeva in campo, anche il genio del Bene si destava, e contrapponeva l'opera sua a quella del nemico. Creò da principio l'amore, e credette d'aver fatto così ciò che di meglio si poteva fare per la felicità del mondo; ma poi mutò opinione:
S'il est bon de sentir, meilleur est de pouvoir.
Oui, le couple est heureux de deux corps qui s'attirent
Pour fondre lentement deux âmes qui s'admirent,
Mais la possession suprême est de savoir…
Quel plaisir comparable à l'orgueil de connaître,
De suivre à l'infini dans la trame de l'être
Le long fil de la cause enchaînant les effets!
Ma neanche questo destino gli pare finalmente il più desiderabile. Un mondo di soli intelligenti, senza giusti, sarebbe perfetto? E sarebbe bello quel mondo dove non vi fossero nè eroi nè martiri?
Je veux que l'habitant de ce nouveau séjour
Réhausse en lui les dons de puissance et d'amour
Par une conquérante et généreuse vie
Où le vouloir travaille et le coeur sacrifie…
Il sapere, la scienza, non è dunque tutto il bene: c'è qualche cosa di più e di meglio:
Non, le meilleur être possible
N'est pas un lutteur invincible,
Un amant au bonheur fatal!
C'est un ignorant qui découvre,
Un captif à qui le ciel s'ouvre,
Un pèlerin de l'idéal.
Ma finora, lasciando parlare il genio benefico, lasciandolo operare contrariamente al Male, il poeta non esprime la sua opinione personale. Il Bene si è venuto purificando: prima consisteva nel piacere, poi nel sapere, da ultimo in un amore diverso da quello dei sensi, nell'amor mistico, nell'amore del sacrifizio, nell'amore secondo il Tolstoi. Ma quando il Bene è così perfetto, quando il poeta si trova dinanzi al Bene massimo ed al Male estremo, egli osserva, come il Tolstoi e il Nietzsche, che le prosperità sono impossibili senza i disastri, i piaceri senza i dolori, e che la vita e la morte lavorano insieme, una in faccia all'altra.
Car le Bien et le Mal se prospèrent l'un l'autre.
Qu'on rêve le meilleur ou le pire univers,
Tous deux, en vérité, n'en font qu'un, c'est le nôtre,
Contemplé tour à tour par l'endroit ou l'envers.
Notre regard captif, jouet de l'apparence,
Par ses courts horizons se laisse décevoir,
Mais des biens et des maux la vaine différence
S'effacera pour lui s'il doit un jour tout voir.
Contre les ancìens dieux l'âme humaine aguerrie
N'attend certes plus d'eux ni fléaux ni bienfaits,
Mais n'est-ce pas un reste obscur d'idolâtrie
De maudire ou bénir des sorts bons ou mauvais?
Fra le contrarie voci del Bene e del Male il poeta ne ode ora un'altra: quella della Natura: e la Natura dice che ella è la stessa ragione, che i destini dell'universo si svolgono infallibilmente; che non avendo esso avuto principio nè dovendo aver fine, così non è stato giovane ne può invecchiare; che l'equilibrio delle leggi e la costanza delle cause gli conferiscono un ordine contro del quale il tempo non può nulla; che solamente le forme apparenti delle cose cambiano. E la Natura non accetta dagli uomini nè voti ne sacrifizî; pregare è insultare le leggi naturali, dubitare della loro forza inevitabile. La Natura, come diceva quel vescovo australiano del quale parlammo, non ode le preghiere:
«N'attends de mes decrets ni faveurs ni caprices;
Place ta confiance en ma seule raison».
E se questo è l'ordine che dà la Natura, il poeta lo accetta integralmente. Il suo appoggio, il suo asilo è nella ferma ragione naturale: egli non griderà, non si lagnerà, accetterà anzi tutti i dolori, se i dolori suoi sono necessarî.
Pour nourrir une fleur de tout mon sang dispose,
Si quelque fleur au monde aspire un suc pareil;
Tu peux tuer un homme au profit d'une rose,
Toi qui, pour créer l'homme, éteignis un soleil.
Qui tanta è la forza della persuasione, tanta la sincerità del sentimento, che la stessa forma diventa veramente poetica: è difficile esprimere più poeticamente il concetto scientifico secondo il quale la terra, già ardente, diventò abitabile quando i suoi fuochi si spensero. E così alla scienza egli sacrifica la fede; o per meglio dire, la scienza, la ragione, diventa la sua stessa fede.
Anche nel Zenith canta:
Les paradis s'en vont; dans l'immuable espace
Le vrai monde élargi les pousse ou les dépasse.
Nous avons arraché sa barre à l'horizon,
Résolu d'un regard l'empyrée en poussières,
Et chassé le troupeau des idoles grossières,
Sous le grand fouet d'éclairs que brandit la Raison.
È vero che, dal primo suo giorno, il genere umano ha dischiuso come un calice il cuore verso il cielo, e che nel cielo
Plane son grand espoir, de sa raison vainqueur;
ma il filosofo sa che non si può dare la scalata al cielo per andare a leggere negli stessi occhi di Dio; e il poeta narra pertanto la semplice impresa degli areonauti, i quali arrischiano la vita per osservare qualche fatto e prendere qualche nota:
La cause et la fin sont dans l'ombre;
Rien n'est sûr que le poids, la figure et le nombre:
Nous allons conquérir un chiffre seulement…
Eppure Sully Prudhomme non è fermo in questa conclusione. Se egli credesse di avere così composto il dissidio fra la ragione e la fede, non lo riprenderebbe nella Giustizia.
Quando l'anima era semplice, dice egli nella Giustizia, si slanciava verso il cielo e vi spaziava, sostenuta dall'estasi e dalla speranza; oggi la scienza ha spogliato la natura di tutte le illusioni che la facevano bella; il poeta non vede più in essa un'anima divinamente umana; e come l'orfano si rivolge alla giustizia quando non spera più nulla dalla bontà, così egli, disperando della fede, vuole interrogare la Sfinge per conoscere se almeno una legge d'equità governi l'universo.
Car le poète, lui! cherche dans la science
Moins l'orgueil de savoir qu'un baume à sa douleur…
En vain de ce qui souffre il connait la structure,
Il ne croit rien savoir tant qu'un doute odieux
Plane sur le secret des maux que l'être endure,
Tant que rien de mieux n'a remplacé les dieux.
Allora comincia dentro di lui una lotta fra la mente e il cuore, durante la quale questo combatte coraggiosamente lo scetticismo, l'ironia, lo sconforto che il freddo ragionamento genera nell'animo del cercatore. Le specie sono in continua guerra fra loro, la prosperità dell'una costa il deperimento dell'altra, le deboli soccombono dinanzi alle più forti. In una stessa specie lotte egualmente accanite si accendono fra gl'individui; l'egoismo è la gran legge alla quale ciascuno obbedisce; l'amore, altro inganno, si riduce all'istinto; la stessa Bellezza ha un fondamento materiale del suo impero giudicato divino: essa lavora all'integrità dello stampo della razza, additando i modelli migliori. Ciò che succede fra le specie e nella specie si ripete fra gli Stati e nello Stato: e, come aveva già detto Corneille,
La justice n'est pas une vertu d'État.
Si rifugerà essa dunque in un altro pianeta, poichè sulla terra è introvabile? Ma la materia non è per ogni dove identica? La stessa legge di gravitazione non regna in tutto il creato? Un rigoroso e fatale determinismo non si nasconde dietro l'apparente libero arbitrio,
illusion du choix dans la necessité?
Un atomo è l'immagine dell'universo; tutto ciò che in questo si compie, deve compiersi fatalmente; è quindi da stolti chiedere la giustizia al Destino. Così conclude la Ragione trionfante. Ma il poeta, che già si era acquetato a questa conclusione, ora non l'accetta più. Egli che si rassegnava personalmente al dolore, che quasi lo chiedeva pur di cooperare con la Natura impassibile, ora si commuove e si ribella all'idea del dolore altrui. Voleva affidarsi alla sola ragione, ora s'accorge che non gli basta. Il cuore ha ragioni che la ragione ignora.
Elle informe, elle instruit: serait-ce lui qui juge?
Que dis-je! La Justice, au lieu de fuir mes pas,
N'aurait-elle qu'en moi, dans mon coeur, son refuge?
Infatti: la legge della giustizia è umana, si rivela tra gli uomini, non nella Natura. Costei considera impassibilmente la propria opera attraverso l'occhio ignorante del bruto; la pietà e il terrore, il bisogno e la sete della giustizia sorgono e operano nella coscienza umana. Ma che cosa è questa coscienza? Dapprima il poeta aveva considerata la propria coscienza come uno specchio che non doveva far altro se non riflettere lo spettacolo della Natura, senza giudicarlo. Ora la sua coscienza, la coscienza di tutti gli uomini, è un giudice, è anzi il solo giudice. E qui il pensiero di Sully Prudhomme si oscura. Se la coscienza è giudice, se questo giudice deve rendere giustizia, come mai torna egli a rassegnarsi? Egli dice: «I mali che credevo ingiusti sono forse, non già i capricci folli o colpevoli d'un padrone, sibbene i mezzi fatali, le necessarie condizioni d'un ordine che ignoriamo». Questo è un ritorno alla rassegnazione di prima! Ed egli non si era più contentato, non si era più adattato: era sceso anzi in campo, voleva e doveva giudicare! «Lagnarsi,» soggiunge, «dell'ingiustizia della sorte, giudicare della bontà del destino alla stregua del piacer nostro, è imitare il fanciullo malavvezzo, il quale pretende che tutto debba servire ai suoi giuochi, e rigetta il farmaco e lo dichiara nocivo perchè non è dolce.» Ma se non si deve giudicare della bontà del destino alla stregua del nostro piacere, quale sarà il criterio del giudizio? Di che cosa e perchè si è lagnato il poeta? Si è lagnato
Des maux plus grands que moi;
si è lagnato perchè
Toutes les douleurs de la terre et des mondes
Font tressaillir mon âme en ses cordes profondes.
Allora, non dovrebbe egli giudicare veramente iniquo il destino che vuole ed impone e mantiene il dolore ed il male?
E questa umana facoltà del giudizio è una cosa buona o cattiva, utile o superflua, importante o trascurabile? Egli dice:
Combien plus sagement, avec moins de grandeur, Exempt de sympathie, affranchi de pudeur, L'animal se résigne aux fléaux sans refuge!… Il est heureux; son sort, par moments, je l'envie.
Dunque l'animale, quantunque incapace di simpatia e di pudore, è più saggio, più felice, degno d'invidia. Allora l'uomo cosciente, l'uomo giudicante, oltre che degno di compassione ed infelice, è anche meno saggio: questa sua coscienza è una stoltezza. Bisognerà chiederne conto a lui? No, certamente; perchè egli è stato fatto così, non si è fatto da sè, liberamente, responsabilmente. Allora vorrà dire che la natura, della quale è opera, avrà creato una coscienza capace di giustizia soltanto per darle il sentimento d'una ingiustizia, d'una stoltezza, d'una nefandezza nuova! E ancora: la giustizia non esiste nella natura, ma soltanto nel cuore dell'uomo; l'uomo s'accorge che l'universo è stato compito «senza virtù» e sente che il suo desiderio di virtù è stoltezza. La conclusione dovrebbe essere pertanto che la giustizia non esiste in verun luogo, nè nella natura, nè nel cuore umano!
Lo scetticismo scientifico spinge Sully Prudhomme in questa via; ma egli è anche sollecitato in contrario senso dal bisogno mistico. Egli dice che, se l'universo è grande, più grande ancora è l'anima che lo rispecchia; l'uomo acquista la nozione della propria dignità misurando l'abisso che lo separa dalla materia bruta. Non c'è bisogno di molte parole per far notare il voltafaccia. Mentre prima egli invidiava l'animale incosciente e a più forte ragione, perciò, avrebbe dovuto invidiare la materia inerte, ora afferma che tanto l'uomo vale quanto è lontano dalla informe materia! E la giustizia, che gli era parsa soltanto umana, ora diventa per lui divina:
Humaine par son but, la justice est divine
Même dans l'âme d'un mortel,
Par l'aveu du grand Tout dont elle est mandataire,
Par le suffrage entier du ciel et de la terre,
Et par le sacre universel.
Ma allora, se l'anima umana, dove ha sede la giustizia, è mandataria del gran Tutto, non potremo più dire che nel Tutto non c'è giustizia! Finchè il poeta considerava l'uomo come una particella infinitesimale dell'universo, come lo «specchio» del Nietzsche, capace semplicemente e solamente di riflettere l'universo, egli poteva dire che non c'è in quest'universo giustizia; ma dal momento che l'uomo è il rappresentante della natura, questa natura che si riassume in una coscienza capace di giustizia non si potrà più accusare d'iniquità. Ed ecco, infatti: dopo aver detto che gli esseri si dilaniano tra loro, Sully Prudhomme afferma:
La bête hésite à boire un sang pareil au sien…
Il misticismo e la fede si vendicano ancora meglio, gli prendono più interamente la mano. Se dalla materia inerte all'uomo c'è un abisso; se l'uomo, per la coscienza, è tanto superiore ai bruti, si deve credere che egli sia il termine ultimo dell'evoluzione? Un altro passo innanzi, oltre l'uomo, non sarà possibile? Certamente! L'umano genere è un termine medio, un tentativo,
une espèce éclose à contre-temps:
Tout est prématuré dans ses voeux transcendants.
Quindi egli afferma che c'è un'ascensione morale della quale i mondi sono i gradi, e che
La terre n'est qu'un lieu d'attente
Où se fait la commune entente
D'une espèce entière émigrant.
La vecchia preghiera cristiana diceva che questo nostro mondo è una valle di lacrime; il filosofo che ha soltanto creduto nei fatti positivamente accertati, finisce anch'egli col giudicarlo «un luogo d'aspettazione.» Ma egli arriva a questo giudizio per la via tortuosa che abbiamo vista. E ci dice almeno, come il Nietzsche dirà del regno del Superuomo, in qual modo sarà fatto il mondo migliore al quale dovremo un giorno approdare?
Eccoci arrivati al suo nuovo e più lungo poema filosofico: La Felicità. Qui certo egli si confermerà nella soluzione ultimamente trovata, ne darà nuove ragioni, l'assoderà.
Svegliandosi dopo morte, Fausto, l'eroe, si ritrova in un astro più bello, più luminoso, più ricco della terra; e mentre egli è ancora in preda a una incredula meraviglia, Stella, l'eroina, la donna da lui amata nel mondo inferiore, dalla quale fu crudelmente diviso, gli dice:
Pourquoi dans l'infini plein d'innombrables flammes,
Parmi tant de globes mouvant,
N'en serait-il qu'un seul visité, par les âmes
Et peuplé de corps vivants?
Pourquoi seule la terre, obscure et si petite,
Aurait-elle entre tous l'honneur,
De porter une argile où la pensée habite?…
Veramente, nel punto che due amanti separati da tanto tempo—dalla morte!—si ritrovano insieme, vi sarebbe qualche cosa di meglio da fare che discutere intorno alla pluralità dei mondi abitati; si potrebbe anche osservare che, mentre Stella e Fausto s'incontrano lassù, questo semplice fatto dovrebbe provare come la terra non abbia il monopolio della vita. Non pare quasi che il poeta ne sia egli stesso poco sicuro e che ne dubiti prima di noi? Non pare anche che, dubitando egli della stessa vitalità dei suoi redivivi protagonisti, vada in cerca di argomenti per farci credere alla verisimiglianza della finzione?
Nel nuovo mondo dove Fausto e Stella rivivono le creature non si nutrono di altre creature, come voleva la legge crudele della terra, ma di semplici frutta:
Nul être ici ne sacrifie
Les corps pour respirer construits.
La dent n'attaque ici nulle sensible vie,
Et ne mords que la chair des fruits.
Così, dopo la pluralità dei mondi e la metempsicosi, Sully Prudhomme canta il vegetarianismo o vegetarismo,—non so come si deve dire;—però noi potremmo chiedere al poeta se è ben sicuro che le piante non siano dotate di sensibilità, che non siano anch'esse forme di vita da rispettare come tutte le altre….
Dal pianeta infelice che i due amanti hanno lasciato si leva un coro di voci confuse, di lamenti e di bestemmie, di invocazioni al soccorso lanciate dalle anime penanti. Ma nessuno le ascolta, e Fausto e Stella si fermano ad ammirare una moltitudine di cavalieri nomadi, altra volta, quaggiù, abitatori delle rive del Nilo, dell'Eufrate e del Gange. Nel nuovo astro quei corpi, che il bastone e lo staffile martoriavano un tempo, si sono nobilmente sviluppati, e Fausto ne ammira la perfetta armonia delle linee, la serenità dell'espressione acquistata con la coscienza del nuovo stato libero, eternamente felice. Se il problema della felicità è così risolto per i cavalieri nomadi nella nuova vita, come mai Fausto e Stella continuano a penare? Non solo i cavalieri, ma anche gli artisti, rivivendo lassù, pervengono alla piena ed incontrastata possessione del Bello: Stella medesima lo assicura a Fausto quando costui, ammirando la bellezza dei cavalieri, vorrebbe proporli come modelli ai grandi artisti della terra.
Quel mondo, tuttavia, anche per Fausto e per Stella è migliore del nostro. In un mattino di primavera il giovane ascolta, con indicibile delizia, il canto divino degli uccelli. Quaggiù i gorgheggi dell'usignolo e lo stesso canto della sua compagna gli procuravano, benchè dolcissimi, un indefinibile tormento, un'amarezza secreta; in quel nuovo mondo la soavità dell'armonia è assoluta, la voce dell'amata fa dimenticare all'amante tutto il passato, lo immerge in una beatitudine senza nome, tanto più grande, quanto che Stella, lasciando la forma terrena conservata da principio per poter essere riconosciuta, prende una veste più pura, più bella, più conveniente a quell'eliso. E allora, mentre nuove voci dalla terra chiedono invano aiuto, i due giovani cadono nelle braccia l'uno dell'altra, e la loro felicità non ha più limite.
Ma è un inganno. Passa qualche tempo, e Fausto ci fa sapere che quella felicità non è, come pareva, intera. Egli vive, sì, in un astro più prospero della terra; ma quello che era il maggiore argomento del suo cruccio, quaggiù, sussiste ancora: come sulla terra, egli ignora anche lassù il perchè delle cose; anche lassù, come sulla terra, cerca invano di penetrare, di conoscere le origini e i fini dell'universo. In quel mondo, dove c'è tanta libertà e tanta bellezza, non si sa una sillaba di più di quel che si sapeva sulla terra. Fausto, quando sente rinascere l'antica ansia, non può far altro che dare una ripassata a tutte le teorie della filosofia terrestre. Naturalmente egli riconosce ancora una volta che questa filosofia è impotente. L'unica scienza umana era dovuta ai pazienti sperimentatori; pertanto, dopo le teorie filosofiche, l'ansioso rammenta tutti i ritrovati scientifici, per concludere una seconda volta che la scienza è, come la filosofia, incapace di risolvere il problema delle cause finali. Ma Stella, che comincia a inquietarsi dell'agitazione dell'amante, cerca persuaderlo dell'inutilità di tutte quelle ricerche:
À quoi bon, le regard péniblement tendu
Et le front consommé par de stériles fièvres,
Soumettre au froid scalpel le cher tissu des lèvres
Quand le baiser donné nous est deux fois rendu?
E Fausto, subitamente convertito:
Tout aimer suffit pour éteindre
La soif de tout savoir: aimons!
Ma ecco che ad un tratto il giovane ode finalmente quelle voci terrestri per tanto tempo perdutesi invano nell'immensità degli spazi; e siccome esse gli ricordano i dolori degli uomini, egli che, in conclusione, quantunque risorto in un mondo migliore, non è guari più lieto di loro, pensa di riscendere in questo basso mondo per confortare gli antichi simili. Che specie di aiuto possa dare questo disgraziato a disgraziati suoi pari sarebbe molto importante vedere; se non che, sulla terra dove Stella vuole seguirlo e dove la Morte li ritrasporta dopo averneli tratti, non si trovano più uomini: l'umanità è finita. Il contrattempo sarebbe imbarazzante senza la prontezza di spirito di Stella, la quale propone lì per lì a Fausto di ripopolare il deserto pianeta, di cominciare una nuova umanità, della quale essi saranno l'Adamo e l'Eva… Da questa intenzione l'Arbitro supremo giudica che essi hanno entrambi ben meritato, e senz'altro ordina alla Morte di ritrasportarli in un altro mondo, nel soggiorno veramente glorioso, dove si gode il riposo perfetto e si mira a faccia a faccia la Causa del tutto….
Così, riprendendo la terza volta il problema che tanto lo inquieta, Sully Prudhomme non conferma l'ultima soluzione, al contrario: ne dà una terza, diversa dalle due prime. Egli deve aver sentito che nessuna delle due poteva essere definitiva. La sola scienza, dopo il sacrifizio della fede, non gli bastò; il temperamento della scienza con la fede non deve averlo neppure persuaso, poichè l'ultima parola di questo Bonheur è l'affermazione di un supremo Arbitro, di una Causa universale, di un Premio eterno.
Ma possiamo noi crederla? Egli arriva a questa conclusione attraverso le contraddizioni, le stranezze e diciamo anche le stravaganze che abbiamo viste. Non è questo il segno che la conclusione non è naturale, sincera, sicura? Dopo tanti pentimenti, non si pentirà egli un'altra volta ancora? La sua curiosità non può esser finita. Non vorrà egli sapere dov'è il soggiorno glorioso, qual è la causa del tutto, chi è l'Arbitro dell'universo? E quando vorrà e non potrà sapere queste cose, non ricomincerà a dubitare?
Quando l'arte di Carlo Baudelaire fu detta, prima ancora che dal Nordau, oscura ed immorale, una voce potente sorse a difenderla: la voce di Vittor Hugo. Il gran poeta affermò che l'autore dei Fleurs du mal aveva arricchito il campo delle commozioni artistiche di un frisson nouveau. Indubbiamente altrettanto si può dire di Maurizio Maeterlinck, dei suoi versi e dei suoi drammi. E se i simboli dentro i quali egli ha chiuso il proprio pensiero non sono intelliggibili ai più, se gli ammiratori del poeta vogliono intendere tutta quanta la sua filosofia, eccola per disteso spiegata nel suo nuovo libro: La Sagesse et la Destinée. Questi titoli ci rammentano quelli dei poemi di Sully Prudhomme: Les Destins, La Justice, Le Bonheur. Dopo aver visto che cosa è la poesia di un filosofo, non sarà fuor di luogo vedere che cosa è la filosofia di un poeta. Il dissidio che inquieta e contrista questo nostro secolo ci apparirà più evidente.
Come la poesia di Sully Prudhomme è, nella forma, troppo filosofica e scientifica, procede cioè per via di definizioni e di nomenclature, così Maurizio Maeterlinck significa le sue idee con forma troppo poetica, ricorrendo troppo spesso alle metafore ed ai simboli.
Un mattino, dall'alto di una collina, egli vede «un ruscelletto cieco» che, «brancolando, dibattendosi, inciampando e vacillando continuamente in fondo a una valle oscura, cerca la via del lago dormiente, dall'altro lato della foresta, nella pace dell'aurora. Qui un masso di basalto lo obbliga a quattro lunghi giri, laggiù le radici di un vecchio albero, più lungi ancora il semplice ricordo di un ostacolo per sempre scomparso, lo fanno risalire verso la sorgente ribollendo invano, e lo allontanano indefinitamente dalla mèta e dalla fortuna. Ma, in un'altra direzione, e quasi perpendicolarmente al rivolo affannoso, disgraziato ed inutile, una forza superiore alle forze istintive aveva tracciato, attraverso la campagna e le valanghe di pietre e l'obbediente foresta, una specie di lungo canale, solido, verdeggiante, noncurante, pacifico, procedente senza esitazione, con passo calmo e chiaro, dalle profondità di un'altra sorgente nascosta all'orizzonte verso lo stesso lago luminoso e tranquillo…». Questo ruscello e questo canale non sono un ruscello e un canale reali, ma le immagini dei due destini offerti agli uomini.
Altrove lo scrittore paragona le ore convulsive della storia alle tempeste del mare: «La gente viene dal fondo delle pianure, accorre sulla spiaggia, guarda dall'alto delle ripide rive, aspetta qualche cosa, interroga gli enormi cavalloni con una specie di curiosità puerilmente appassionata. Eccone uno più alto e furioso degli altri. Si avanza come un mostro dai muscoli trasparenti. Si svolge precipitosamente dal fondo dell'orizzonte, apportatore, da quel che pare, di una rivelazione urgente e decisiva. Scava dietro di sè un solco così profondo, che rivelerà senza dubbio uno dei secreti dell'Oceano; ma, come tra le più pigre ondulazioni dei giorni senza soffio di vento e senza velo di nubi, così anche ora i fiotti limpidi e impenetrabili scorrono sopra i fiotti limpidi e impenetrabili. Non un essere vivente, non un'erba, non un sasso sorge…».
Questo periodo,—stavo per dire questa strofe,—è molto significante. Il Maeterlinck ha un bel proporsi di ragionare e di discutere: il poeta si desta, suggerisce al filosofo similitudini delle quali questi potrebbe giovarsi, se non fosse che, appena una prima immagine appare, tosto un intero quadro si svolge nella fantasia del poeta, con i più minuti particolari, e occupa tanto la sua attenzione, da fargli perdere di vista il punto di partenza, la dimostrazione filosofica. Noi vediamo qui un mare in tempesta, le onde verdi, le spume livide: dove sono più le convulsioni della storia, le folle ribelli, le vittime sanguinose?
In un altro luogo egli paragona il saggio ad «un povero bruscamente trasportato dal fondo della sua capanna in un palazzo immenso: svegliandosi, il povero cercava inquieto, nelle sale troppo vaste, i miserabili ricordi della sua camera angusta. Dov'erano il focolare e il letto, la tavola, la scodella e lo sgabello? Egli ritrovò, tremolante ancora al suo fianco, l'umile torcia delle antiche veglie; ma la luce di essa non arrivava alle volte altissime, e solo il pilastro più vicino sembrava a quando a quando vacillare nei battimenti delle alette luminose…». La descrizione continua: «Ma a poco a poco i suoi occhi si abituarono alla nuova dimora. Egli percorse le sale innumerevoli, e si compiacque tanto di ciò che la fiaccola rischiarava, quanto di ciò che restava nell'ombra. Da principio egli desiderava che le porte fossero più basse, le scale meno lunghe, le gallerie non tanto profonde che gli sguardi vi si perdessero…». E così via: noi vediamo realmente un uomo che prende possesso di un gran palazzo; non già il saggio che ricerca ed ammette tutto ciò che esiste.
Altre volte il paragone diventa una specie di parabola: l'uomo di buona fede che rientra in sè stesso dopo gli errori e le disgrazie, è come «il padre di famiglia che, verso sera, finito il lavoro, se ne ritorna a casa. Può darsi che i figli piangano, che giuochino a giuochi devastatori o pericolosi, che abbiano disordinato i mobili, rotto un bicchiere, rovesciato una lampada; si dispererà egli perciò? Certo, sarebbe stato preferibile che i figli fossero rimasti tranquilli, che avessero imparato a leggere e a scrivere; ma qual padre ragionevole, tra i più acri rimproveri, potrà trattenersi dal sorridere voltando la testa dall'altra parte? Costui non condanna le manifestazioni della vita un poco folli. Niente è perduto, finchè egli tiene con sè la chiave della casa protettrice…».
E le immagini, anche quando non si associano in tanto numero da formare un quadro o una storia, abbondano, pullulano. «La statua del destino proietta un'ombra enorme nella valle che sembra così inondata dalle tenebre; ma quest'ombra ha contorni molto netti per coloro che la guardano dai fianchi del monte…. Coloro che non nutrono nessuna speranza generosa, imprigionano il caso come un fanciullo sparuto; gli altri gli dischiudono le sconfinate pianure che l'essere umano non ha ancora la forza di percorrere, ma non lo perdono di vista…. L'essere umano sembra grande nella sua sfera, come l'ape sembra grande nella cellula del suo favo; ma sarebbe assurdo sperare che un fiore di più si schiuderà nei campi perchè la regina delle api è stata eroica nell'alveare…». E ancora: «L'ape che ha fame trova il miele nascosto nelle più profonde caverne, e l'anima che piange disperatamente scorge la gioia che si dissimula nella solitudine o nel silenzio più impenetrabile…». Se le conquiste dello spirito «non si riversano nella grandezza dell'anima, periscono miseramente come un fiume che non ritrova il mare…». Appena la libertà interiore dell'anima è menomata, il destino minaccia la libertà esteriore «come una fiera s'avvicina con lento passo a una preda lungamente aspettata». Più le illusioni cadono, «più nobilmente e sicuramente appare la gran realtà, come il sole che si scorge più chiaramente tra i rami spogliati della foresta invernale».
Con altrettanta frequenza le cose astratte diventano concrete: «L'orizzonte della disgrazia, contemplato dall'alto d'un pensiero non più istintivo, egoista e mediocre, non differisce sensibilmente dall'orizzonte della felicità contemplato dall'alto d'un pensiero della stessa natura, ma d'un'altra origine. Poco importa, del resto, che le nubi moventisi laggiù, ai confini della pianura, siano tragiche o leggiadre: ciò che acqueta il viaggiatore è l'esser giunto a un luogo elevato, dal quale discopre finalmente uno spazio infinito…». E le idee si personificano, si muovono, parlano, agiscono: «La ragione, che è la figlia primogenita della nostra intelligenza, deve sedersi sulla soglia della nostra vita morale, dopo aver dischiuso le porte sotterranee dietro le quali sonnecchiano prigioniere le forze vive…. Il destino non resta sempre in fondo alle sue tenebre; ha bisogno, a certe ore, di vittime più pure, che afferra scotendo nella luce le sue grandi mani gelate…. Il sacrifizio può essere un fiore che la virtù coglie passando; ma non per coglierlo essa si è posta in cammino…. L'anima non può esser ferita se non dalle stesse armi che non ha ancora gittate nel gran rogo dell'amore…».
Questa è poesia pura, non ragionamento. Il filosofo intende bensì la necessità di essere più chiaro e di definire esattamente le cose; ma il poeta non lo lascia, e la definizione poetica resta oscura, ambigua, imprecisa: «La saggezza è la luce dell'amore»; «l'amore è l'alimento della luce», oppure «il sole incosciente dell'anima.»
In verità, noi ne sappiamo meno di prima.
Accade, insomma, al Maeterlinck tutto il contrario di ciò che abbiamo visto accadere a Sully Prudhomme: in quest'ultimo il filosofo contraria l'artista; nel Maeterlinck l'artista attraversa il filosofo. Vedremo ancora, strada facendo, altri esempî dello stile troppo poetico col quale egli significa le sue teorie; per il momento, lasciata da parte la quistione della forma, esaminiamo quella del contenuto. Nella forma, il Maeterlinck fa trionfare la poesia; trionferà la fede nella sostanza?
Egli non considera, come Sully Prudhomme, tutte le facce del problema filosofico: si restringe alla quistione morale. Sully Prudhomme ha prima negato che l'uomo abbia diritto di giudicare intorno alla natura e alla vita: cominciando col determinismo, cioè con l'ammettere che tutto è disposto nell'universo secondo una legge rigorosa, ha finito col fatalismo, cioè con l'adagiarsi in una rassegnazione passiva, in una rinunzia totale. Ma il giorno che ha considerato il problema morale, quando il dolore suo e l'altrui lo hanno turbato, quando ha sentito il bisogno di una legge di giustizia, l'ha trovata soltanto nel cuore dell'uomo, cioè ha affermato che solo l'uomo giudica, che egli solo ha il diritto di giudicare. Il Maeterlinck invece nega questo diritto. «Noi abbiamo un bel ragionare: tutta la nostra ragione non sarà altro che un debolissimo raggio della natura, un'infima parte del tutto che essa si arroga il diritto di giudicare; ed è possibile che un raggio, perchè faccia il suo dovere, pensi di modificare la lampada dalla quale emana?… È saggio pensare ed agire come se tutto ciò che accade al genere umano fosse indispensabile». Il dottor Pangloss diceva che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili; il Maeterlinck afferma che, in ogni caso, ciò che accade è la cosa migliore.
Egli non vuol essere pertanto confuso con i semplici rassegnati: è «un fiducioso», confida nell'idea dell'universo. Vi sono due specie di uomini: gli uni, la maggior parte, non hanno imparato a separare il loro destino esteriore dal loro destino morale; gli altri, i pochi, sì. I primi sono oppressi dagli uomini e dagli avvenimenti; gli altri, quelli che hanno una forza interiore alla quale si sottomettono non solo gli altri uomini, ma gli stessi avvenimenti, conoscono sè stessi non solo nel presente ma anche nell'avvenire, e sono padroni del loro destino futuro. «L'avvenimento in sè è come l'acqua pura che ci versa la fontana, e da solo non ha, d'ordinario, nè sapore, nè colore, nè profumo. Esso diventa bello o triste, dolce od amaro, mortale o ravvivatore, secondo la qualità dell'anima che lo accoglie». Non accade agli uomini se non ciò che essi vogliono che loro accada; non già nel senso che noi possiamo influire molto efficacemente sul corso degli eventi esteriori; ma perchè «abbiamo un'influenza onnipotente su ciò che questi eventi divengono dentro di noi». Egli ci dice: «Se voi amate, non già questo amore fa parte del vostro destino, ma la coscienza di voi stesso, che avrete trovata in fondo all'amor vostro, modificherà la vostra vita. Se siete stato tradito, il tradimento non importa; importa il perdono che esso avrà fatto nascere nella vostra anima». Tutto ciò che ci accade è della stessa natura di noi stessi. «Se Giuda esce stasera, andrà verso Giuda ed avrà l'occasione di tradire; ma se Socrate apre la sua porta, troverà Socrate addormentato sulla soglia ed avrà l'occasione di essere saggio…. Le vesti, le armi e gli ornamenti del destino si trovano nella nostra vita interiore. Se Socrate e Tersite perdono il loro unico figlio, la sciagura di Socrate non sarà simile a quella di Tersite…. Pare che il dolore e la felicità si purifichino prima di battere alla porta del saggio, e che abbassino il capo prima di entrare in un'anima mediocre».
Ecco perchè la filosofia del poeta non consiste, come potrebbe parere, nella semplice rassegnazione, in una specie di fatalismo. Non che rassegnarsi al destino, il saggio, secondo lui, lo governa e lo domina. «Vi sono rapporti incessanti fra l'istinto e il destino; ma quando noi sappiamo diminuire dentro di noi la forza cieca dell'istinto, diminuiamo nello stesso tempo intorno a noi la forza del destino. Se pure il destino ci colma di sciagure immeritate e incredibili, se pure ci obbliga a fare ciò che non avremmo mai fatto, dopo che la sciagura è accaduta, dopo che l'atto è stato compito, dipende da noi che resti senza influenza su ciò che accadrà nella nostra anima. Il destino non può impedire, quando colpisce al cuore un uomo di buona volontà, che la sciagura sopportata o l'errore riconosciuto dischiudano in questo cuore una sorgente di luce. Esso non può impedire che un'anima trasformi ciascuna delle sue prove in pensieri, in sentimenti, in beni inviolabili. Soltanto la nostra ignoranza e la nostra indolenza chiamano fatale ciò che la nostra energia e la nostra intelligenza debbono chiamare naturale ed umano».
In quali rapporti stanno la ragione e la saggezza? «La ragione schiude le porte alla saggezza, ma la più viva saggezza non si trova nella ragione. La saggezza è più un certo appetito dell'animo che non un prodotto della ragione. C'è una gran differenza tra il dire:—questa cosa è ragionevole—e il dire:—questa cosa è saggia. Ciò che è ragionevole non è necessariamente saggio, e ciò che è saggio non è quasi mai ragionevole agli occhi della troppo fredda ragione». E la gran differenza è questa: che nella ragione non c'è amore, mentre ce n'è molto nella saggezza; anzi «la saggezza più alta non si distingue da quel che vi è di più puro nell'amore».
Il Fénelon disse che la nostra ragione consiste nelle nostre idee chiare; per il Maeterlinck la saggezza, il meglio della nostra anima e del nostro carattere, si trova nelle nostre idee che non sono ancora chiare interamente. «Se ci si lasciasse guidare nella vita soltanto dalle idee chiare, presto si diverrebbe degni di poco amore, di poca stima». Le ragioni per le quali siamo buoni, giusti, generosi, sono le meno chiare di tutte. Il Maeterlinck vuole così dire, senza dubbio, che il sentimento è più importante che non l'intelligenza, che le ragioni del cuore sono più gravi che non quelle della stessa ragione. «Fortunatamente, più abbiamo idee chiare, più impariamo a rispettare quelle che non sono ancora tali».
Sully Prudhomme, tranne che nei rari momenti quando afferma l'onnipotenza del cuore e dell'amore e la fede in un avvenire migliore, è pessimista; il Maeterlinck, che all'amore crede sempre, vede ogni cosa con occhio roseo. I Destini di Sully Prudhomme sono oscuri, tragici, ineluttabili; il Maeterlinck si duole appunto perchè alla parola destino diamo questi significati. Egli non afferma già che il destino sia giusto, che premii i buoni e punisca i malvagi. Vede anch'egli l'ingiustizia che dà tanta pena a Sully Prudhomme; ma se ne consola, perchè sull'ingiustizia è fondata la bontà. «Quale anima potrebbe ancora dirsi buona, se la ricompensa fosse sicura?» Dunque la felicità non è un premio. Per esser felice, al contrario, bisogna non cercar più la felicità. «Sarebbe necessario, di tanto in tanto, che un uomo cui il destino ha concesso una felicità splendida, invidiata, sovrumana, venisse a dirci semplicemente: Io ho ottenuto tutto ciò che voi invocate col desiderio ogni giorno; ho la ricchezza, la salute, la gioventù, la gloria, la potenza e l'amore. Oggi posso dirmi felice, non già a causa dei doni che la fortuna si è degnata di accordarmi, ma perchè questi doni mi hanno insegnato a mirare più in alto…. Con un poco più di saggezza io avrei potuto possedere tutto ciò che possiedo, senza che fosse stato necessario ottenere tanti beni. Conosco che sono più felice oggi che non ieri, perchè so finalmente che non ho più bisogno della felicità per liberare l'anima mia, pacificare il mio spirito e rischiarare il mio cuore».
Bisognerà dire, pertanto, col Buddha e con Schopenhauer, che la felicità consiste nella rinunzia? Il Maeterlinck se ne guarda bene; la rinunzia è l'essenza del pessimismo. Come egli non ha voluto che la sua filosofia riposasse sulla rassegnazione, così non vuole che la sua morale sia passiva. Sully Prudhomme ha espresso un voto alla Hartmann: sentendo operare dentro di sè l'istinto della riproduzione, e pensando alla infinita moltitudine di mali che insidierebbero la vita cui egli darebbe il varco, ha voluto frenare l'istinto, vietare alla nuova vita di nascere, non farsi complice dei futuri dolori. Per il Maeterlinck questa, come ogni altra forma di rinunzia, è condannevole. «La rinunzia non è spesso altro che un parassita. Se anche non indebolisce la nostra vita interiore, la turba. Quando un animale straniero penetra in un alveare, tutte le api sospendono il loro lavoro; parimenti quando il disprezzo e la rinunzia è entrata nell'anima nostra, tutte le potenze e tutte le virtù di essa abbandonano il loro ufficio per riunirsi intorno all'ospite singolare che l'orgoglio ha condotto fra loro. E ciò perchè, fino a quando l'uomo sa che rinunzia, la felicità della sua rinunzia nasce dall'orgoglio. Ora, se si deve rinunziare a qualche cosa, conviene rinunziare prima di tutto ai piaceri dell'orgoglio, che sono i più ingannevoli e i più vuoti».
Ma allora? Se le gioie non debbono essere desiderate, se non conviene neppure rinunziare ad esse, quale sarà la via da tenere? «Non già rinunziando alle gioie che ne circondano noi diveniamo saggi; al contrario, divenendo saggi rinunzieremo senza saperlo alle gioie che non si sollevano fino a noi». Non bisogna credere che soltanto il dolore c'insegni ad essere saggi; anzi «l'uomo che è saggio per essere stato infelice, somiglia all'uomo che ha amato senza essere stato amato». La saggezza del disgraziato nasconde ancora il desiderio di esser felice; la vera saggezza è quella dell'uomo felice.
Quindi il Maeterlinck non loda il pensiero inerte e triste, ma il pensiero confidente, quello che accetta allegramente le leggi inevitabili, che spinge all'azione. Sopra ogni cosa egli loda l'azione. «Un pensiero può lasciarmi sino alla morte nello stesso punto dell'universo, ma un'azione mi farà quasi sempre avanzare o retrocedere di un grado nella gerarchia degli esseri. Un pensiero è una forza isolata, errante e passeggera, che si avanza oggi e che non rivedrò forse domani; ma un'azione suppone un esercito permanente d'idee e di desiderî, un esercito che ha saputo conquistare, dopo lunghi sforzi, un punto della realtà».
Gli esseri deboli dei quali è pieno il mondo potrebbero, dopo ciò, credere che il dovere consista nel compiere un sacrifizio. Essi s'ingannerebbero. «No, la virtù suprema consiste nel sapere che cosa si deve fare, e nell'imparare a scegliere per che cosa si deve dare la vita… È, in generale, molto più facile morire moralmente, o anche fisicamente, per gli altri, che non imparare a vivere per essi». Si dice ancora che bisogna amare il prossimo nostro come noi stessi; ma se noi ci amiamo puerilmente, stupidamente, ameremo il prossimo allo stesso modo. Il dovere della nostra anima, di ogni anima, consiste nell'essere «tanto integra, tanto felice, tanto indipendente, tanto grande quanto è possibile». Quindi non è vero che l'anima diventi più grande sacrificandosi; ma diventando più grande essa perde di vista il sacrifizio. «Il sacrifizio è un bel segno d'inquietudine, ma non bisogna coltivare l'inquietudine per sè stessa…. La forza immateriale che splende nel nostro cuore deve splendere prima di tutto per sè stessa. A questo prezzo soltanto splenderà per gli altri. Sia la vostra lampada piccola quanto si voglia: non date mai l'olio che l'alimenta, ma la fiamma che la incorona…».
Che faremo allora dell'altruismo? «Certamente l'altruismo resterà sempre il centro di gravità delle anime nobili; ma le anime deboli si perdono nelle altre, mentre le forti vi si ritrovano…. C'è una bontà che esaurisce, e un'altra bontà che nutrisce. Non dimentichiamo che, nel commercio delle anime, quelle che credono di dar sempre non sono già le più generose».
Se ci duole che la virtù e la saggezza non siano premiate, ciò accade perchè noi non siamo saggi abbastanza. «Soltanto quelli che non sanno che cosa è il bene chiedono il salario della bontà. L'invidia, il tradimento, tutte le armi con le quali gli altri ci offendono, non sono efficaci contro l'anima nostra, se non quando essa ha gettato via le sue proprie…. Per accorgerci dei difetti altrui dobbiamo averli un poco anche noi…. Vi è nel mondo un'ingiustizia irriducibile; pertanto noi diventiamo veramente giusti solo quando ci riduciamo a trovare dentro di noi il modello della giustizia». Se la bontà, se l'amore trionfassero sempre, se vi fosse nel mondo questa giustizia, che è soltanto in noi, la gioia sarebbe grande; ma vi è una gioia anche maggiore nello scoprire la verità, la quale ci dice che le cose vanno al rovescio. Questa verità non è amara, nessuna verità può essere amara per il saggio. «Tutto ciò che esiste consola ed afforza il saggio, perchè la saggezza consiste nel cercare ed ammettere tutto ciò che esiste».
La saggezza non si duole di niente, non disprezza niente. «Disprezzare è facile; meno facile è comprendere; e nondimeno, per il vero saggio, non c'è disprezzo che non finisca, o tosto o tardi, col mutarsi in comprensione». Le anime ordinarie sono tormentate dal desiderio dello straordinario: ciascuno dovrebbe invece dire a sè stesso che più le cose che ci accadono ci sembrano normali, generali, uniformi, più noi arriviamo a discernere e ad amare in esse le profondità e le felicità della vita, più ci avviciniamo alla tranquillità ed alla verità della gran forza che ci anima…. Non bisogna credersi disgraziati perchè si possiede una felicità che non sembra straordinaria a chi ci sta intorno…. È bene convincersi che i momenti più invidiabili, in una felicità umana, sono i più semplici».
Sarà pertanto da lodare la prudenza? No; o, se non altro, è da biasimare la prudenza bassa di chi aspetta accanto al fuoco una felicità che non verrà. «Non chiamiamo saggio colui che, nel dominio dei sentimenti, non va infinitamente oltre ciò che la ragione gli permette e che l'esperienza gli consiglia di aspettarsi. Non chiamiamo saggio l'amico che non si abbandona all'amico perchè prevede la fine dell'amicizia, o l'amante che non si dà interamente per paura di annichilirsi nell'amore». Bisogna vivere, agire; ma «la sola cosa che ci resta dopo il passaggio dell'amore, della gloria, di tutte le avventure, di tutte le passioni umane, è un sentimento sempre più profondo dell'infinito, e se questo sentimento non è restato, nulla ci è accaduto». Sarà lodevolissimo fare di tanto in tanto un'azione eroica, «ma è più lodevole ancora, e richiede una forza più costante, il non lasciarsi mai tentare da un pensiero inferiore…. È più facile fare talvolta un gran bene che non far mai il minimo male; far talvolta sorridere, che non far piangere mai».
Questa esposizione del pensiero di Maurizio Maeterlinck non è breve; tuttavia molte cose si sono dovute tralasciare. Il libro è composto di una serie di meditazioni apparentemente disordinate, in realtà concatenate talmente che non è agevole cogliere le idee salienti; bisogna invece, come abbiamo tentato, seguire a passo a passo tutto il ragionamento. Ciò che si è fin qui detto basterà a dare un'idea del sistema; ciò che ne diremo ancora lo spiegherà meglio e ne mostrerà i difetti.
Quantunque il Maeterlinck offra la sua morale come «un bel sogno un poco indeterminato», sono tuttavia evidenti i suoi sforzi per dare consistenza al sogno, per credere e far credere di avere con esso risolto i formidabili problemi che ha preso ad esaminare. Il difetto di tutti i sistemi è quello di essere troppo sistematici, di seguire troppo rigidamente certe premesse sino alle ultime loro conseguenze. Il Maeterlinck si studia manifestamente di evitarlo, a segno che scrivendo il suo libro per lodare e diffondere il bene, comincia con affermare la necessità del suo contrario. Il Tolstoi e il Nietzsche, nel corso dei loro ragionamenti, hanno pure riconosciuto questa necessità, che è di gran peso contro i loro sistemi; Sully Prodhomme ha detto:
Le Bien et le Mal se préscrivent l'un l'autre;
il Maeterlinck asserisce sin dal primo principio che «un mondo dove non vi fosse più, a un certo punto, se non gente occupata a soccorrersi vicendevolmente, non persisterebbe a lungo in quest'opera caritatevole…. Vi sarà sempre un certo numero d'uomini incontestabilmente utili grazie a certi altri uomini che sembrano inutili…». Egli nota anche come tutta la morale, tutta la virtù, tutto l'eroismo umano si riducono quasi sempre a scegliere fra due partiti incresciosi: o vivere lasciando perire la miglior parte della mente e del cuore, o perire interamente per salvare i sentimenti più belli e i pensieri migliori. Non c'è bisogno di dire che egli consiglia il secondo partito; tuttavia, quantunque insista nel senso dell'eroismo, del sacrifizio, della bontà, pure tempera quel che vi potrebbe essere di troppo rigoroso nei comandamenti di questa morale, che il Nietzsche chiamerebbe «morale da schiavi» e che il Tolstoi farebbe sua.
Abbiamo visto, per esempio, che il Maeterlinck loda l'altruismo; ma egli vuole l'altruismo illuminato delle anime forti, che non si perdono, che non si annichiliscono. Dice qualche cosa di più: ammette che «l'egoismo d'un'anima chiaroveggente e forte è più efficacemente caritatevole che non tutta la devozione d'un'anima debole e cieca». Quantunque non lo nomini mai, si sente che egli vuole più d'una volta correggere l'altruismo mistico del Tolstoi. «Piangere con quelli che piangono, soffrire con quelli che soffrono, tendere il proprio cuore a tutti i passanti perchè lo feriscano o lo carezzino», non è, secondo lui, il dovere per eccellenza: «le lacrime, le sofferenze, le ferite in tanto sono salutari in quanto non scoraggiano la nostra propria vita. Non lo dimentichiamo: qualunque sia la nostra missione su questa terra, qualunque sia lo scopo dei nostri sforzi e delle nostre speranze e il risultato dei nostri dolori e delle nostre gioie, noi siamo prima d'ogni altra cosa i ciechi depositarî della vita. Ecco l'unica cosa certa, ecco il solo punto fisso della morale umana. Ci fu data la vita non sappiamo perchè; ma sembra evidente che ciò non sia stato per indebolirla o perderla. Noi rappresentiamo anzi una forma specialissima della vita su questo pianeta: la vita del pensiero, la vita dei sentimenti; pertanto tutto ciò che è capace di diminuire l'ardore del pensiero, l'ardore dei sentimenti, è probabilmente immorale…». Ma così, per correggere gli eccessi della morale remissiva, non rischia egli di cadere nella morale prepotente,—se pure la prepotenza si può dire morale? Questa difesa gelosa, questo culto della propria vita non potrebbe, non deve, legittimare il peggiore, il più feroce egoismo? La sua intenzione era quella di cercare un temperamento; ma è caduto in una contraddizione.
Bisogna, ha detto, che la vita del pensiero e dei sentimenti sia quanto più ardente è possibile. Poichè questo precetto potrebbe incoraggiare l'orgoglio, la superbia, l'egoismo e il concetto di una grande diversità fra gli uomini, egli soggiunge che tra chi pensa e chi non pensa «c'è un fosso, non un abisso»; e che «pensare è spesso ingannarsi», e che «un mondo dove non vi fossero altro che pensatori, perderebbe forse la nozione di più d'una verità indispensabile». Ed ecco come dal Nietzsche egli torna al Tolstoi.
Certo egli è, in fondo, più col Tolstoi che non col Nietzsche. Del filosofo russo condivide l'idea che non bisogna punire il malvagio. Chi fa il male, dice, cerca a modo suo la felicità. «Perchè punirlo? Non possiamo prendercela col povero diavolo perchè non abita un palazzo: è già abbastanza disgraziato vivendo in una catapecchia». Egli afferma che «noi abbiamo torto di cercare una giustizia esteriore, visto che non ce n'è…. Perchè cercare la giustizia dove non può essere? Esiste ella altrove fuorchè nell'anima nostra?… L'idea alla quale l'universo pensa meno che a tutte le altre è quella di giustizia…. Fuori dell'uomo non c'è giustizia…». Queste parole sembrano di Sully Prudhomme: il poeta filosofo e il filosofo poeta si dànno a questo punto la mano. Se non che, soggiunge il Maeterlinck, l'uomo «deve apprendere a collocare altrove, e non in sè stesso, il centro del suo orgoglio e delle sue gioie». Ora, come mai si potrà collocare fuori di noi il centro dell'orgoglio e della felicità, se fuori di noi non c'è giustizia? Che argomento d'orgoglio, che oggetto di gioia può essere un mondo dove non c'è giustizia? E come mai, se noi siamo una parte di questo mondo, una sua emanazione, un suo portato, possiamo avere l'idea d'una cosa che in esso non si trova?…
I beni della terra, i sorrisi della fortuna, ha detto, sono necessarî, sono preferibili ai dolori, perchè la saggezza che si acquista nel dolore è turbata dall'aspettazione della gioia; mentre quanto più il saggio è felice, tanto meno è esigente, quanto più la felicità si prolunga, tanto più si acquista un concetto «indipendente» della vita. Ma, certamente inquieto per le conseguenze perniciose che si potrebbero trarre da questa affermazione, egli soggiunge che un bel destino esteriore «non è indispensabile». Egli ha lodato sopra ogni cosa l'azione, l'attività; ha giudicato insino preferibile agire talvolta contrariamente al proprio pensiero che non osar mai di agire secondo i proprî pensieri. «L'errore attivo è raramente irrimediabile, le cose e gli uomini s'incaricano di raddrizzarlo tosto; ma che cosa possono essi fare contro l'errore passivo che evita ogni contatto con la realtà?» Ed anche questa volta si corregge: «Ma agire», soggiunge, «non è necessariamente trionfare. Agire è anche tentare, aspettare, pazientare. Agire è anche ascoltare, raccogliersi, tacere». Per avere ragione, estende così il significato della parola, lo torce sino a includervi il significato contrario. Ma allora, per voler troppo provare, non prova più nulla.
E ancora: egli ha detto che l'amore è ciò che vi ha di meglio al mondo; poi dice che se il saggio, amando, raccoglie ingratitudine, non deve dolersene. «Non è desiderabile che l'uomo si chiuda in qualche cosa, sia pure nel bene. L'ultimo gesto della virtù sia il gesto d'un angelo che schiude una porta». Allora il pensiero, la ragione, l'intelligenza varranno più che la bontà? Ma non aveva egli detto prima tutto il contrario?… «L'inutilità dell'amore insegna a volgere gli sguardi oltre l'amore». Ma che cosa vi potrà essere ancora oltre l'amore, se esso è «tutto»?
La sola cosa della quale noi possiamo far parte ai nostri simili, dice in un altro luogo, è la forza, la fiducia, l'indipendenza della nostra anima. «Perciò il più umile degli uomini è obbligato di mantenere e d'ingrandire l'anima sua, come se sapesse che un giorno ella dovrà essere chiamata a consolare o a rallegrare un Dio. Quando si tratta di preparare un'anima, bisogna prepararla per una missione divina». Poco dopo dice tutto il contrario, loda i saggi che non escono dalla vita, che restano nella realtà: «Non basta amar Dio e servirlo come meglio si può, perchè l'anima umana si affermi e si tranquilli. Non si arriva ad amar Dio se non con l'intelligenza e i sentimenti acquistati e sviluppati a contatto degli uomini. L'anima umana resta profondamente umana. Si può insegnarle ad amare molte cose invisibili, ma una virtù, un sentimento interamente e semplicemente umano la nutrirà sempre più efficacemente che non la passione o la virtù più divina». Senza dubbio anche questa volta il pensatore si contraddice per amore della verità, per stringere quanto più da presso è possibile la verità. Ragionando della perfezione dell'anima, vuole naturalmente che questa perfezione sia divina; ma poi deve rinunziare ad essa e tornare all'umile umanità; perchè, tanto è vero che la perfezione più perfetta è la divina; quanto è vero che all'uomo bisogna proporre una mèta che egli possa raggiungere, cioè umana. Questo è vero principalmente e sciaguratamente: che la verità è molteplice e multiforme; e che quando noi crediamo di averla afferrata, allora ci sfugge. Il Maeterlinck ne è pure persuaso, poichè dà il maggior prezzo alle intenzioni. «Amare lealmente un grande errore vale spesso meglio che servire meschinamente una grande verità». Se l'errore fosse errore indubitabilmente, tutta la buona volontà, tutto lo zelo che vi si portasse non servirebbero ad altro che a renderlo più grave; ma forse la distinzione tra verità ed errore non è tanto sicura; e in questo senso il criterio delle intenzioni è da seguire. Ma di ciò bisogna forse tener conto al Maeterlinck sopra ogni cosa: che egli stesso, sin dal principio, ci ha messi in guardia, quando ci ha detto che la saggezza si trova talvolta nel contrario di ciò che il più saggio afferma; e quando, prima ancora di ragionare tanto sottilmente intorno alla saggezza, ha avvertito che non bisogna definirla troppo strettamente per tema d'imprigionarla. «Tutti coloro che lo tentarono fanno pensare a un uomo che spegnesse una luce per studiare la natura stessa della luce. Costui non troverà mai altro che un lucignolo annerito e un po' di cenere».
Anch'egli, dunque, col Tolstoi, col Nietzsche, con gli altri maestri dell'età presente, se ne va dietro, in conclusione, all'umile buon senso antico.
Tre secoli addietro, nel 1595, a Wittenberg, furono pubblicamente sostenute cinquanta tesi per dimostrare che la donna non è una creatura umana. Oggi cinquantamila fra tesi, dissertazioni, conferenze, volumi e articoli di giornali attribuiscono al sesso femminile non solo le dignità che gli sono proprie, ma anche quelle che non gli convengono. Questa propaganda è uno dei segni particolari dell'età presente: come tale merita di fermare la nostra attenzione.
I femministi cominciano col sostenere che il loro partito non chiede nulla di nuovo; che la donna già esercitò la supremazia della quale fu arbitrariamente privata ed alla quale ha nuovamente diritto. In Assiria, dicono, la madre aveva maggiori diritti del padre; ed anche oggi, fra le popolazioni turaniche, quando un figlio diffama il padre, è passibile di una semplice ammenda; mentre, se insulta la madre, gli si rade la testa, gli si nega la terra e l'acqua e spesso lo si chiude in prigione.
Prima di tutto è da osservare che questo costume significa semplicemente come alla madre si debba maggior rispetto e venerazione che non al padre, come l'insultare la madre sia un delitto tra i più gravi e nefandi. Anche presso di noi, senza che si rada la testa ai figli snaturati capaci di commetterlo, tale è l'opinione generale. In secondo luogo, quando pure tra i costumi antichi e tra quelli dei popoli selvaggi se ne trovasse qualcuno che veramente dimostrasse la supremazia sociale della donna,—e non già quella soltanto familiare della madre,—bisognerebbe forse per ciò concludere che hanno torto la civiltà e il secolo nostro, e che hanno ragione i tempi andati e le genti incivili? «Dagli Sciti ai Galli, dagli Iberi ai Germani di Tacito», dice il più autorevole tra i femministi, il Bebel, «noi vediamo la donna prendere, sin dai più remoti tempi, in mezzo alla famiglia ed alla società, il posto eminente che ha perduto nelle età successive». Vogliamo per ciò dire che gli Sciti, i Galli, gl'Iberi e i Germani erano più nel vero e nel giusto di noi? Se bisogna credere al progresso,—e i femministi debbono crederci; perchè, in caso contrario, come potrebbero sperare nei miglioramenti futuri?—se veramente dobbiamo dire che la storia del genere umano dimostra un successivo nostro perfezionamento, bisogna allora anche ammettere che la supremazia della donna è oggi scomparsa perchè non era ragionevole, non tollerabile, non sostenibile. Vogliamo dire che le società umane, progredite per certi rispetti, sono andate indietro per altri? Questo modo di ragionare è pericoloso; perchè chi distinguerà in quali cose abbiamo peggiorato e per quali altre siamo andati avanti? A Sparta si lasciavano morire i bambini deboli e mal fatti, per la salvezza della razza; è preferibile l'antico costume a quello presente di sostentare finchè è possibile le vite grame?
E poi: quale fu veramente questa supremazia femminile ai tempi antichi, ed in che cosa consistette? Nella medesima Sparta le fanciulle erano educate come i giovani, si addestravano nelle palestre insieme con quelli. Noi possiamo lodare l'educazione spartana: non la lodava però Aristotile, che poteva meglio di noi valutarne gli effetti. «Il legislatore di Sparta», dice lo Stagirita, «ha ordinato le istituzioni dello Stato in modo che gli uomini siano educati conformemente alle loro attitudini; quanto alle donne, le ha molto neglette: esse vivono licenziosamente in mezzo a quel popolo guerriero». Alla distanza di parecchie migliaia d'anni un dottore americano,—esagerando certamente, ma l'esagerazione è sintomatica,—così descrive gli effetti dell'educazione virile delle fanciulle americane: «Le nostre fanciulle non sono più capaci di perpetuare la razza; e se si continua ad impartir loro questa educazione, fra cinquant'anni bisognerà far venire le donne dalle altre parti del mondo». Il Nietzsche va più in là, come abbiamo visto: giudica che per ogni dove i costumi presenti rendono la donna incapace di perfezionare la specie umana.
Ma torniamo all'argomento. Era forse segno di supremazia femminile, a Roma, la facoltà di battere le donne con le verghe fino alla morte per il semplice sospetto d'ubbriachezza? O l'obbligarle a restare confinate nel focolare domestico, dove solo l'uomo poteva celebrare il culto degli avi? E quando le vere virtù muliebri, la modestia, il pudore, il timore degli Dei, il rispetto filiale, tutti gli affetti familiari furono dimenticati, e le donne si emanciparono, la società romana si rafforzò, oppure andò all'ultima rovina?
Il padre Roesler, grande confutatore, nella Quistione femminista, del Bebel, giudica tuttavia che, se non nell'antichità, almeno nel medio evo la donna fosse più libera o meglio protetta che non oggi: era sovrana, dettava sentenze, impugnava le armi, sosteneva tesi giuridiche, esercitava la medicina. Questo modo di giudicare somiglia troppo a quello, tanto famoso quanto criticato, dell'Inglese a Calais: vedendo una donna con i capelli rossi, scrisse nel suo libro di viaggio: «Le Francesi sono rosse». Le donne, nell'età di mezzo, esercitarono la medicina, sostennero discussioni legali, combatterono, giudicarono? Ma quante fecero queste cose? Dieci, cento, mille? E le altre? E la più gran parte? E quasi tutte? Non continuarono quasi tutte a fare ciò che avevano fatto sempre? Secondo Gringoire e Filippo da Novara le donne dovevano filare e cucire; non leggere nè scrivere. Lo stesso autore non avverte che Bertoldo di Ratisbona predicava: «L'uomo per la guerra, la donna per la tessitura»? E che la parola tedesca weib, donna, ebbe la stessa origine del verbo weben, tessere? E che schwertmagen, il nome col quale si designano i parenti dal lato paterno, viene da schwert, spada, e quello della parentela materna, spillmagen, da spindel, fuso?
Ma concesso che parecchi secoli addietro le quistioni poste dal moderno femminismo fossero tutte risolte, bisognerebbe allora far voti perchè quei tempi tornassero tali e quali: con le monacazioni più o meno spontanee, con le corti d'amore più o meno dissolute, con le cinture di castità e tutto il resto. Noi possiamo, considerando un periodo storico, lodare certi costumi e biasimarne altri; ma i costumi, le leggi e tutti i fenomeni sociali sono collegati in modo che non è possibile isolarli e mantenerne a piacimento alcuni ed evitarne altri. Per una logica, per una necessità contro la quale non possiamo nulla, un'epoca è quella che è, con tutte le sue virtù e tutti i suoi vizî; tener conto delle virtù sole sarebbe desiderabile, ma non è possibile: bisogna prenderla, purtroppo, con le une e con gli altri. Ora, a questo patto, chi vorrebbe tornare addietro?
Una cosa è certa: che, a parte alcune eccezioni episodiche, le quali in conclusione confermano la regola, in ogni tempo e in ogni luogo fra uomini e donne si è mantenuta la differenza imposta dalla loro organica diversità. Occorre definire questa diversità? È proprio necessario indicare quali membri e quali organi sono più piccoli e deboli o più forti e gagliardi in ciascuno dei due sessi? Si deve proprio percorrere la scala di tutti gli esseri viventi per dimostrare che dovunque sono sessi, sono differenze, e che più si sale, più queste si aggravano? Basta la diversità della funzione sessuale, basta l'ufficio della maternità assegnato alla donna, per fare di lei un essere singolarissimo, profondamente diverso dall'uomo, capace di cose alle quali egli è inadatto, incapace delle cose alle quali egli è chiamato. La maternità è la missione della donna. Le restano bensì forze per attendere ad altre cose: ma queste forze, tanto le fisiche quanto le morali, sono molto minori di quelle dell'uomo.
I femministi, per poter dimostrare che la donna è capace e degna di essere interamente agguagliata all'uomo, cominciano col negare l'importanza della maternità, con l'affermare che l'ufficio materno è uguale al paterno, e che, quando pure fosse diverso, la diversità è soltanto formale, trascurabile, senza conseguenze. Al congresso femminista di Parigi un'oratrice svedese ha dichiarato che è ora di finirla con l'esaltazione della madre. «Alla Vergine che tiene eternamente un bambino fra le braccia io preferisco», ha detto, «la Venere di Milo, che è senza braccia». Per fortuna, non occorre dimostrare la sciocchezza di simili proposizioni. Ma, anche tra coloro che non arrivano a questi estremi ridicoli e odiosi, molti si rifiutano di ammettere che la donna, perchè destinata a concepire, a procreare, ad allattare e ad educare la prole, debba, pur meritando il rispetto e la protezione degli uomini, tenere un posto a parte nel consorzio umano. A costoro si può rispondere ciò che dice l'Albert nell'Amore libero. Questo scrittore, inconciliabile nemico del presente ordinamento, non solo dei rapporti dei sessi, ma di tutta quanta la vita, afferma tuttavia che «la prima condizione di ogni superiorità è di svilupparsi conformemente alla propria natura». L'uomo si è dunque sviluppato nel senso della potenza muscolare e cerebrale, che è la sua dote; la donna nel senso della maternità. Per credere che le donne debbano, o soltanto possano, fare la concorrenza dell'uomo, dice egli, «bisogna negare, o quasi, un fatto, l'esistenza e l'importanza del quale ci sembrano notorie. Questo fatto è lo stesso sesso, con tutte le sue conseguenze, con le sue obbligazioni, con la sua ripercussione nell'essere intero». E ancora: «Il principio della divisione del campo dell'attività umana fra le due serie di esseri che vi si muovono è stato senza dubbio male interpretato, esagerato in un certo senso, disconosciuto nell'altro; ma non per ciò vien meno la sua alta importanza, tanto a cagione della funzione materna della donna, quanto delle attitudini che ne derivano in lei. Se sarebbe assurdo respingere la cooperazione sociale della donna fuori della famiglia, cooperazione che del resto è sempre esistita, altrettanto assurdo sarebbe pretendere che l'attività produttrice di lei, nel senso stretto di questa espressione, non debba essere limitata da lei stessa, divenuta cosciente e libera come comporta e quanto comporta la natura sua propria, e francamente subordinata all'ufficio che il sesso le assegna nella vita». Per queste ragioni «è nell'ordine naturale che l'uomo,—individuo o consorzio,—lavori in una certa misura al posto della donna che procrea ed alleva. E checchè si possa dire sotto l'impero del paradosso, o per una reazione nelle idee,—reazione che del resto si spiega,—questa cooperazione, prima divisione del lavoro, è normale. Essa resterà, con forme e gradi diversi, secondo il diverso momento dell'evoluzione. La propaganda femminista, o piuttosto una certa propaganda, non arriverà a sopprimerla».
Ora, se è così, se gli uomini dedicano parte delle loro forze alle donne, se le donne debbono essere mantenute o protette dagli uomini, diremo che uomini e donne sono eguali? Egualmente necessarî riguardo alla vita, sì; ma diseguali le une dinanzi agli altri. Come tra uomini e uomini c'è somiglianza e diversità ad un tempo, così, anzi a più forte ragione, tra uomini e donne c'è equivalenza e diseguaglianza insieme. Dice l'Albert che «nei primi tempi, quando la lotta per la vita era dura, l'uomo dovette imporsi alla donna come provveditore della famiglia». Dovette imporsi: perchè? Perchè, senza dubbio, la donna, la madre, non era capace di provvedere alla famiglia, o provvedeva ad essa poco e male; e perchè l'uomo aveva questa capacità, o ne aveva una maggiore e migliore. Allora, continua l'Albert, «con l'aiuto del diritto del più forte e della brutalità antica, si stabilì la diseguaglianza dei sessi». Questa diseguaglianza sarebbe dunque una cosa artificiale? Ma se l'uomo esercitò il diritto del più forte, ciò deve voler dire che egli aveva questa maggior forza; e se aveva una forza maggiore, ciò deve importare che egli non era eguale alla donna.
La storia del genere umano dimostra da un capo all'altro del mondo questa superiorità virile. Tutte le mitologie, l'assira, la babilonese, l'egiziana, la greca, deificano l'uomo e la donna, ma il principio maschile è preminente. Giunone è sottoposta a Giove, Iside a Osiride, raggiante simbolo della luce. Nessuna donna può, in Egitto, sacrificare agli Dei nè alle Dee: solo gli uomini sono capaci del sacerdozio. Gli uomini hanno due vesti, le donne una sola. Ecco: essi cominciano ad abusare della loro maggior forza per farsi la parte più bella; ma già nei papiri di ventidue secoli prima di Cristo si legge il consiglio di moderazione che oggi la nostra morale diffonde: «Se tu sei saggio, ama la donna tua; senza discordie, senza litigi, nutriscila, adornala, rendi felici tutti i giorni della sua vita: ella è un bene, e il suo possessore deve stimarne il valore…». La funzione della maternità, la possibilità di dare al marito figli non suoi, rende oggi come cinque mila anni addietro l'infedeltà della moglie più grave che non quella dell'uomo: gli onori funebri resi alle donne egiziane erano proporzionati alla loro virtù coniugale, alla fedeltà verso lo sposo; come oggi i Turchi, così un tempo gli Assiri, chiudevano le donne in un luogo della casa dove nessuno poteva penetrare. Questa era ed è una prepotenza; ma, per opporsi alle prepotenze assurde e ridicole, i femministi avanzano oggi pretese non meno ridicole e assurde. Le vedove non debbono essere condannate a una vedovanza eterna, come nella Grecia più remota, o a morire incenerite sullo stesso rogo del morto marito, come tra gl'Indiani antichi e moderni; ma la fedeltà della moglie sarà sempre più apprezzata, più doverosa che non quella del marito. «Se l'adulterio della donna è punito come una colpa grave,» dice l'Albert, «e se il codice scusa insino l'uccisione della colpevole in caso di flagranza, mentre l'adulterio dell'uomo è considerato come una bagattella, e punito soltanto in circostanze speciali difficili ad osservarsi, ciò accade semplicemente per evitare che eredi illeggittimi s'introducano nella famiglia». Ma il giorno che non vi sarà più nè proprietà nè denaro, e che la famiglia non sarà creata per trasmettere queste cose, anche quel giorno l'adulterio della moglie, della compagna, della donna, sarà più grave; perchè ella potrà, come ora, concepire adulteramente, e l'attribuzione di figli non proprî dispiacerà all'uomo come e quanto gli dispiace ora. Se diversa dev'essere, come abbiamo visto che l'Albert vuole che sia, la cooperazione sociale dei due sessi, attesa la diversità delle loro funzioni, diversa sarà anche la loro responsabilità.
Il nodo della quistione è questo: poichè gli uomini sono superiori alle donne, come più intelligenti, più attivi, più liberi, così c'è da parte loro una tendenza a trascurarle, a sottoporle, ad opprimerle, e talvolta anche a sopprimerle; ma poichè le donne, rispetto alla specie, valgono altrettanto quanto gli uomini, e uomini e donne sono egualmente necessarî alla continuazione della vita, così c'è un'altra tendenza a considerare nulli e vani i vantaggi maschili ed a parificare in tutto e per tutto i due sessi. In China la nascita delle femmine è considerata come una calamità; spesso le figlie sono buttate via, muoiono abbandonate per le strade; così pure in India: in certi villaggi indiani, non molti anni addietro, si contava una sola fanciulla sopra cento ragazzi. L'abuso della supremazia maschile non potrebbe essere dimostrato meglio che da questa infamia. Se i Chinesi e gl'Indiani riuscissero a sopprimere tutte le donne, si troverebbero in una situazione piuttosto difficile. Se volessero soltanto ridurne il numero, le difficoltà della scelta e l'asprezza della lotta sessuale crescerebbero, e il danno sarebbe tutto loro. Da noi le bambine non si lasciano morire, ma son accolte con minor festa: come più civili, noi sostituiamo ad una infamia una sciocchezza. La funzione vitale è ugualmente importante, la dignità umana è ugualmente grande nei due sessi; ma, se ripetiamo troppo spesso questa verità, ecco alcune donne, e i femministi con esse, pronti ad abusarne. In ogni tempo, ma specialmente nel nostro, il pensiero umano procede in questo modo: per esagerazioni.
Nell'antico Egitto i figli maschi non dovevano mantenere i vecchi genitori; quest'obbligo incombeva alle figlie. In un gran numero di società barbare e selvagge gli uomini non lavorano: obbligano le donne a lavorare per essi. Quando ciò accade perchè essi sostengono le più gravi fatiche della guerra contro i nemici o contro le forze naturali, nulla di più giusto: le cose, allora, stanno press'a poco come nelle società civili, dove le donne lavorano per gli uomini in casa, e gli uomini per le donne fuori di casa, attendendo, invece che alla guerra, ai commerci, alle industrie, alle professioni. «Non è il caso,» dice l'Albert, citando l'autorità del Geddes e del Thomson, «di vituperare scioccamente, come fanno la maggior parte dei femministi, il selvaggio che resta sdraiato, al sole, intere giornate, di ritorno dalla caccia, mentre la donna sua, pesantemente chinata, macina e lavora senza lamento e senza tregua; anzi, tenendo conto degli estremi sforzi che costa a lui la lotta incessante contro la natura e i proprî simili, per il nutrimento e la sussistenza, e tenendo conto della conseguente necessità di utilizzare ogni occasione di riposo per rifarsi e vivere la sua vita tanto corta e precaria, ma indispensabile alla donna ed ai figli, si vedrà che questa grossolana economia domestica è la migliore, la più morale, la più umanamente praticata, date le circostanze». Ma dove gli uomini costringono le donne a mantenerli senza far nulla, o lavorando meno di loro, essi infrangono la legge naturale; e queste infrazioni sono, in verità, rarissime. Poichè l'uomo è più forte della donna, ma la donna è necessaria all'uomo, la conseguenza logica e naturale è che egli adoperi una parte della propria forza a proteggere, a mantenere questa creatura debole della quale ha bisogno, e che a sua volta lavora un poco per lui e moltissimo per la prole comune. E, tranne le eccezioni, questa è veramente la regola alla quale obbedisce tutta quanta l'umanità. Ora invece i femministi vogliono che la donna faccia la concorrenza all'uomo: cosa altrettanto innaturale ed assurda quanto la pretesa di quegli uomini che vogliono lasciar le donne macerarsi per loro.
Il cristianesimo, dice il padre Roesler, operò una rivoluzione nei rapporti dei sessi, conferendo alla donna una dignità che prima non le era attribuita, afforzando il vincolo matrimoniale, difendendo la famiglia. E il fatto non si può negare; non è negato neppure dall'Albert, che attribuisce alla rivoluzione cristiana «il più gran progresso morale: l'amore sessuale moderno, prima sconosciuto». Ma questa rivoluzione non fu tanto radicale quanto pare: e lo stesso padre Roesler lo riconosce, e se ne loda; perchè, infatti, la supremazia dell'uomo fu mantenuta. Ora questa soluzione pare veramente la più conforme ai due fatti naturali e contraddittorî, ma certi: cioè, da una parte, l'eguaglianza dei sessi dinanzi alla specie, la loro reciproca dipendenza, l'impossibilità per ciascuno di essi di fare a meno dell'altro; e, dall'altra parte, la supremazia muscolare e intellettuale degli uomini. Le società barbare, considerando soltanto questa supremazia, avvilirono la donna; il cristianesimo, considerando l'eguale importanza dei sessi, la sollevò; ma non oltre certi limiti, cioè riconoscendo la naturale preponderanza dell'uomo. Noi possiamo seguire questo ragionamento in uno dei maggiori Padri della Chiesa. San Paolo dice che l'uomo è il capo della donna come Gesù Cristo è il capo della Chiesa; che l'uomo è immagine della gloria di Dio, mentre la donna è immagine della gloria dell'uomo; e fin qui l'apostolo ragiona al modo antico; ma tosto egli soggiunge che, se la donna è stata tratta dall'uomo, l'uomo non esiste senza la donna, e che entrambi hanno la stessa dignità: «nel Cristo non c'è differenza alcuna tra uomo e donna, perchè entrambi egualmente partecipano ai benefizî della creazione e della redenzione».
La soluzione cristiana della quistione sessuale è dunque un temperamento, e come tale potrebbe darsi che fosse la più ragionevole, la più pratica e veramente la migliore. Da principio, dovendo lottare contro l'eredità della morale barbara, il cristianesimo abbondò nel senso di ciò che oggi si chiama femminismo; il linguaggio di San Giovanni Boccadoro dovrebbe, per esempio, piacer molto ai suoi moderni campioni: «Dio,» dice il Santo, «non impone sull'uomo tutto il fardello della vita, e non fa dipendere da lui solo la perpetuità del genere umano. Anche la donna ha ricevuto un grave ufficio affinchè sia stimata. Iddio non le assegna un destino minore di quello dell'uomo; la Scrittura ce lo rammenta con queste parole: Diamogli una compagna simile a lui». Ma più tardi, quando l'evangelica esaltazione della donna degenerò nella goffa glorificazione che ne fece la cavalleria, una reazione in senso inverso si manifestò con la Riforma, la quale non si oppose agl'istinti poligamici degli uomini e tolse le donne dal trono ideale dove erano state collocate, per farne semplici e troppo spesso umili massaie.
Queste fluttuazioni del pensiero e queste modificazioni del costume umano, che il padre Roesler e molti altri studiosi hanno notato, dipendono dal contrasto dei due fatti naturali dianzi definiti. Un esempio curioso della perplessità del giudizio lo troviamo in quella dottrina morale del Maeterlinck che abbiamo già esaminata. Senza entrare direttamente nel dibattito, egli crede alla supremazia maschile quando afferma che l'uomo è più morale: «Tra un uomo e una donna di eguale potenza intellettuale, la donna impiegherà sempre una parte molto minore di questa potenza a conoscersi moralmente». Un centinaio di pagine più innanzi sostiene che, nella vita ordinaria, «la donna è quasi sempre superiore all'uomo che ha dovuto accettare…». La quistione femminista è appunto per ciò, e sarà sempre una quistione: perchè, quando si considera l'innegabile eguaglianza morale e ideale dei due sessi, e l'abuso sciocco o nefando della maggior forza maschile, l'esaltazione della donna sembra ragionevolissima; quando si considera la non meno innegabile loro diseguaglianza reale, specifica, e l'inferiorità della donna, sembra ragionevolissima la sua subordinazione.
Nel temperamento trovato dal cristianesimo c'è un punto del quale il padre Roesler si loda moltissimo: l'istituto della verginità, il celibato monastico. Anzi, per lui, questa è la vera soluzione della quistione femminista. «I nostri padri», dice, «avevano dunque trovato la soluzione della quistione femminista: non solamente, tra loro, i numerosi monasteri offrivano un ritiro sicuro alle donne senza famiglia; ma le grandi anime potevano prendervi tutto il loro slancio, e la donna rimasta nel mondo godeva degli esempî della religiosa, come pure del rispetto col quale costei era considerata». Per giudicare a questo modo, bisogna anche credere che astenersi dalla funzione sessuale sia meglio che compierla; e tale è infatti il pensiero del Roesler. Come il Tolstoi, egli giudica che il vero cristianesimo, se loda il matrimonio, gli preferisce la castità. «Maritarsi è bene», dice con San Paolo; «ma non maritarsi è meglio». Questo giudizio, in un mistico come il Tolstoi, in un negatore dei fatti, in un nemico della scienza, è logico; non è logico nel Roesler, il quale, per stabilire razionalmente i rapporti dei sessi, ha voluto studiare la fisiologia, la biologia e la zoologia. Le scienze della natura avrebbero dovuto insegnargli che le leggi della natura non si trasgrediscono impunemente. Se i sessi sono stati creati per accostarsi, impedire i loro accostamenti è operare contrariamente alla loro ragion d'essere; questa non è una soluzione del femminismo; è al contrario, come nel Tolstoi, una forma di nihilismo. Che la castità sia possibile, in certe condizioni, per certi temperamenti, non si nega: ma la legge è quella della procreazione. E se i voti di castità furono e sono, per certe creature, facili e benefici, per moltissime altre furono e sono terribile cagione di orribili disordini. Il femminismo, non che essere risolto con la castità, deve assicurare, al contrario, la formazione della coppia umana: esso non cerca la soluzione nel celibato, vuole anzi l'amore libero.
I critici della presente legislazione dell'amore hanno buono in mano. Tanti sono gl'inconvenienti delle leggi e dei costumi, che non occorre rappresentarli: noi tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, celibi e coniugati, ne conosciamo per prova i danni. Al giovane, cui non è offerto altro appagamento del bisogno d'amore se non l'amaro e velenoso piacere che si compra; alla moglie, che non può vivere insieme con chi non ama; alla sciagurata, che vive del mercato di sè stessa; agli amanti, cui i pregiudizî sociali vietano di unirsi agli adulteri, che debbono nascondere l'amor loro e tremare per la loro vita, lo stato presente non può piacere. Su questo punto tutti possono mettersi d'accordo. La quistione è un'altra, la quistione è questa: gl'inconvenienti lamentati sono eliminabili? Dipendono da un artifizio maligno che si può combattere, o da fatalità naturali contro le quali siamo impotenti?
I fautori dell'amore libero accusano la società. Tutto il danno viene da lei. Essa, badando agli interessi materiali, cupida soltanto di denaro, contrasta l'amore, la passione pura, ideale. Questi critici non lodano già lo stato di natura. Allo stato di natura, anzi, riconoscono che l'amore nel senso umano, migliore, più grande ed alto della parola, non esiste: esiste l'accoppiamento. L'infima e primitiva umanità è appena capace di una scelta sessuale simile a quella che esercitano gli stessi animali; le prime coppie umane sono appena durature quanto quelle di certi uccelli e di certi mammiferi; anzi meno. L'amore, da questi germi, si è sviluppato a poco a poco: la facoltà di scelta è divenuta passione morale, la tendenza a rendere stabile la coppia si è mutata nel bisogno d'un legame indissolubile, eterno.
Già si potrebbe a questo punto osservare: se ciò è avvenuto durante quello stesso processo storico che ha portato il mondo al presente ordinamento, possiamo dire che gli ordini attuali sono tanto contrarî all'amore? Non potrebbe darsi, al contrario, che l'amore sia nato insieme con questi ordini, e per effetto di essi? I giovani, le fanciulle segnatamente, sono tenute nell'ignoranza delle funzioni sessuali: questo fatto è denunziato dall'Albert come un abuso di confidenza commesso dalla famiglia contro l'amore, come uno dei numerosi espedienti adoperati dalla società moderna per impedire all'istinto sessuale di epurarsi. Non potrebbe darsi, invece, che le cose andassero al contrario? Il costume dell'ignoranza, del mistero, è certamente nocivo; ma, se nuoce, non nuoce appunto nel senso di far credere l'amore una cosa più arcana, più pura, più sublime che in realtà non è? E dalla scienza della realtà sessuale impartita senz'altro alle fanciulle e ai giovanetti, dalla loro libera educazione in comune, non potrebbero derivare altri inconvenienti nel senso opposto? L'Albert dovrebbe sospettarlo, egli che pur nota come una forma di prostituzione, l'etairismo, nacque dalla libertà sessuale accordata alle giovani prima del matrimonio. La verità vera non è forse che vi sono inconvenienti in tutti i sistemi? E gl'inconvenienti non dipendono dall'ambiguità della natura umana, che non è tutta bruta nè tutta pura, nè tutta senso nè tutta sentimento, nè tutta spirito nè tutta materia? Come ha detto Sully Prudhomme
Tout ce que son génie ouvre en haut de carrière
En bas la pesanteur à ses pieds l'interdit…
L'amore libero dovrebbe essere fondato sull'intimità fisica e morale degli amanti. Ma nè il senso e il sentimento vanno sempre d'accordo, nè vi è nel genere umano, come in tutto il mondo vivente, un assortimento così rigoroso delle creature, una tale convenienza fra gl'individui presi a due a due, che le coppie siano indissolubili. I più nobili fautori dell'amore libero non intendono già che esso debba consistere nella possibilità di cambiare dall'oggi al domani di amante, nel rompere e riannodare le unioni continuamente, a capriccio: vogliono tutto il contrario. L'Albert, per esempio, dice espressamente che l'unione dev'essere unica e costante, che nel reiterare le prove prima di contrarla vi sarebbe «sciupio di forza umana e disordine nell'economia della vita». Ma la scelta della creatura unica con la quale poter vivere eternamente è impossibile, perchè la creatura unica non esiste. Si è riso abbastanza dell'ansiosa e patetica ricerca dell'anima sorella al tempo che il romanticismo era in voga! Se ne è riso perchè l'anima sorella, l'anima unicamente conveniente all'anima nostra, non c'è. Quando abbiamo creduto di trovarla, ci accorgiamo, più o meno presto, che non fa più per noi come credevamo dapprima, che non è più quella che pareva, che ve ne sarebbero molte altre migliori, più convenienti, o capaci, se non altro, di ridarci, nei primi tempi, l'illusione di una assoluta convenienza; e allora vogliamo riprovare quest'illusione, che è molto dolce paragonatamente ai disinganni prodotti dai malintesi, dal disaccordo e dalla guerra di tutti i giorni. E se l'amore libero non deve implicare la possibilità di mutare continuamente di amante, non sarà anch'esso una specie di matrimonio? Il nome, più che la cosa, sarà mutato. Nel matrimonio attuale c'è un dovere materiale di restare accanto alla persona che abbiamo scelta; nell'amore libero ci sarà un dovere morale; ma, oltrechè il dovere morale dovrebbe essere più rigoroso del materiale, qualunque dovere, sia materiale o morale, sia scritto o pensato, non è tutto il contrario del piacere? «Non v'ha nulla che ci tenti come le cose proibite. Non vi sono persone altrettanto disposte a odiarsi e fuggirsi come quelle alle quali è stato comandato di restare insieme». Parole delle quali nessuno può negare la verità: ma quando i nuovi amori, dopo la prima unione libera, saranno vietati, non più dal codice, dai giudici e dai carabinieri, ma dalla nostra coscienza, dal ricordo del primo impegno, dal rimorso di annullarlo, il frutto proibito cesserà forse di eccitare la nostra bramosia?
La società moderna è contro l'amore, dicono, perchè gli antepone la proprietà, il denaro, il ventre; viceversa l'amore si vendica terribilmente, producendo drammi, tragedie, rovine d'ogni sorta e affermando così la propria onnipotenza. Questi sono fatti e non si possono negare. Ma che cosa significano essi? Significano che tra l'amore e l'amor proprio, fra l'istinto della conservazione individuale e quello della riproduzione della specie, c'è un contrasto, un dissidio, un conflitto. Certo, considerati all'origine, i due istinti si possono identificare: l'individuo si conserva per riprodursi, e si riproduce per conservarsi, per non perire del tutto, per durare in un altro individuo a lui simile e da lui generato. Ma questa identità essenziale, filosofica e metafisica, non vieta che realmente, praticamente, nella specie umana, che i due istinti vengano in urto, e che ora vinca l'io ora l'altro o l'altra; che ora trionfi l'amore, ora il denaro; ora gridi il ventre, ora… un altro organo. E se il ventre ha, come dicono i critici della società attuale, più culto ed onore che non l'amore, ciò dipende appunto dal fatto naturale che l'istinto della conservazione, nella nostra specie, opera continuamente, incessantemente, dal primo all'ultimo giorno della vita, ed è assolutamente indomabile; mentre quello della riproduzione comincia ad operare un buon tratto dopo la nascita, finisce di operare prima della morte,—della morte naturale, per vecchiezza,—nè opera continuamente, ma ad intervalli, ed è anche, relativamente, domabile. «Nella sfrenata concorrenza degli appetiti,» dice l'Albert, «nel conflitto mortale dei bisogni, l'uomo moderno si sente perduto se si disvia dal segno al quale è ribadito: nutrire il proprio corpo. Egli sa inoltre che l'ebbrezza d'amore trascina lungi dai calcoli meschini e che l'amore disperde le più elementari precauzioni dell'interesse personale». È difficile dir meglio. Sì, l'istinto della riproduzione, dal quale dipende il sentimento dell'amore, questo istinto che dovrebbe fare tutta una cosa con quello della conservazione personale, quest'amore che dovrebbe confondersi con l'amor proprio, gli si oppone, invece, terribilmente; ma non sempre: quello che opera sempre, che urla sempre, è il bisogno di nutrire il corpo. Ma, se è così, è naturale e fatale che la società, cioè l'insieme degli individui umani, posponga l'amore all'amor proprio. Se è così, possiamo sperare che la passione d'amore si affrancherà dalle passioni strettamente egoiste? Sciaguratamente, se è così, noi dobbiamo prevedere che il dissidio durerà finchè durerà l'attuale costituzione organica dell'animale-uomo.
L'amore libero, dice l'Albert, dev'essere «la vita sessuale indipendente dalla vita individuale». Ma questa indipendenza, questa autonomia, non esiste. Prima di tutto le due vite, i due istinti operano insieme in uno stesso individuo e lo sospingono in vario senso e vengono in contrasto; poi, e qui è la gravità maggiore, mentre ciascun individuo è indipendente e autonomo nell'esercizio della vita sua propria, dipende strettamente dall'individuo dell'altro sesso per l'esercizio della vita sessuale. E dal contrasto appunto di questa parziale indipendenza e di questa parziale soggezione, nasce un'altra enorme serie di inconvenienti. E se pure ciascun individuo di un sesso, soffrendo del contrasto, trovasse nell'individuo dell'altro sesso un contrasto egualmente forte, meno male ancora; ma nei due sessi la forza di questo contrasto è diseguale. Una delle cose più notevoli, nelle relazioni dei sessi, è questa: che mentre essi sono entrambi egualmente necessarî a compiere l'ufficio della propagazione della vita, l'appetito dell'amore è più gagliardo negli uomini che non nelle donne, in tutti i maschi animali che non nelle femmine. E di qui un numero infinito di altri danni.
Il padre Roesler ha lodato la verginità ed affermato che essa sarebbe, come fu, una soluzione della quistione femminista. Ora, se egli può dire e credere questa cosa, ciò accade perchè la verginità, l'astinenza, è nelle donne relativamente facile, mentre agli uomini è molto più difficile. Ma poniamo che tutte le donne capaci di castità si ritraessero dal mondo: esse avrebbero risolto il problema per conto loro; per tutte le rimanenti e tutti i rimanenti, cioè per il consorzio umano, la quistione si aggraverebbe; poichè, scemato il numero delle donne disponibili, la lotta sessuale diverrebbe acutissima. E quando si dice lotta sessuale, non s'intende soltanto quella che i maschi, che gli uomini concorrenti e rivali, sostengono tra loro; ma anche, e principalmente, quella tra uomini e donne. Questa lotta esiste ed è sempre esistita, non solamente nel genere nostro, ma anche in tutto quanto il regno organico: ai nostri giorni la biologia e la psicologia non hanno fatto altro che metterla in evidenza; nel momento che scrivo, uno studioso italiano, Pio Viazzi, ne ha fatto oggetto di un libro, intitolato appunto La lotta di sesso.
I sessi implicano diversità; senza diversità essi sarebbero un controsenso. Le diversità non sono soltanto negli organi, ma anche nelle funzioni, negli atteggiamenti, negli appetiti. Il maschio è attivo e ardente; la femmina è passiva e tepida. Questi due esseri diversi sono destinati ad accoppiarsi, a intendersi, ad amarsi; e ciò accade realmente, e la legge d'amore regola il mondo; ma l'intesa non si avvera semplicemente, facilmente, subito: al contrario, è preceduta da una contesa, e prima, durante e dopo l'amore c'è un lievito d'odio. «L'amore,» dice ancora l'Albert, «è fatto di uguaglianza». No, purtroppo,—o per fortuna. Giacchè, se l'attrazione è un bene, una fonte di piacere, essa nasce dalla diseguaglianza, dalla diversità. Ma la diversità non è cagione soltanto di attrazione, o di attrazione pura: l'avversione, fatalmente, la intorbida. «Oggi,» continua l'Albert, «l'uomo e la donna stanno l'uno in faccia all'altra nella situazione di due esseri d'ineguale importanza. La nozione d'una stretta equivalenza non ha potuto ancora stabilirsi fra le due serie di esseri che collaborano per una parte eguale, sebbene in modo diverso, all'opera vitale». Sì, uomini e donne importano egualmente; ma i loro portamenti sono diversi; e la diversità dei portamenti non è piccola, lieve, trascurabile o semplicemente correggibile. In avvenire, prevede questo scrittore, in una civiltà migliore, più pura, più disinteressata, veramente civile, «l'amore non implicherà più, come oggi, quella parte di odio che allontana l'idea dell'unione vera, franca e leale. Non sussisterà più, tra l'uomo e la donna, quel secreto pensiero d'ineguaglianza che dà tanto spesso all'amore moderno il carattere d'una lotta snervante e subdola». Questa cosa accadrà se la natura degli esseri umani cambierà; finchè saranno come sono, e come sono sempre stati, la lotta continuerà. Non è sempre esistita? Lo stesso Albert, che pure accusa la società, non dice che le diverse abitudini morali degli uomini e delle donne sono effetto «d'una lunga tradizione e di una costante esperienza?» Ora dai fatti di esperienza costante derivano le leggi; e la lotta sessuale è una legge della quale possiamo dolerci, ma contro la quale la buona volontà è inefficace. «Le brutalità passionali, come tutte le altre, sembrano essere il risultato degli ostacoli che la società oppose all'espansione degli individui». Ma negli ostacoli opposti dall'ordinamento sociale si potrà trovare l'occasione delle brutalità: la loro ragione, la loro origine è nella inimicizia, nell'avversione che si sovrappone all'amore. Quando i maschi e le femmine animali si feriscono, si dilaniano, si uccidono, ciò non accade per gli ostacoli frapposti dal gregge o dallo sciame; ma perchè ì maschi non intendono le femmine, e tanto meno le femmine intendono i maschi; e il risultato finale dell'intesa, che pure si ottiene, è pagato con le violenze, gli errori, gli orrori e i dolori.
La prostituzione è una piaga, una vergogna, un danno. Noi possiamo rintracciarne le origini sacre e le profane; possiamo denunziare e combattere le condizioni che la favoriscono, le occasioni che la provocano: ma la causa prima, la ragione essenziale che la fa sussistere è ancora nella diversità dei sessi, nel maggior prezzo che ha l'amore, la sensazione d'amore, per l'uomo; nel minor prezzo che ha per la donna: il pagamento ristabilisce l'eguaglianza: pagamento indiretto, ma pur sempre materiale, sotto forma di protezione, di aiuto, di compagnia; pagamento morale, sotto forma di gratitudine; pagamento diretto, brutale, col denaro. Quando le donne non si fanno pagare, gli uomini hanno il dovere di mantenerle, di sostenerle, o più semplicemente di amarle. Il matrimonio è veramente molte volte una specie di prostituzione. Ma se noi sopprimeremo la società attuale, col suo stato civile e con la sua moneta, i matrimonî-mercati, o per dir meglio le unioni-mercati sussisteranno, e la prostituzione con essa; perchè noi non potremo impedire che la donna tepida o frigida calcoli e speculi sugli ardori maschili e si dia a quegli uomini dai quali crede di poter ritrarre maggiori vantaggi.
E, per concludere, l'amore libero come l'intende l'Albert, e come merita di essere inteso, è l'amore perfetto, l'ideale dell'amore, l'amore affrancato da tutte le soggezioni, l'amore sottratto ad ogni pericolo, l'amore garentito da ogni danno. I due istinti di conservazione e di riproduzione sono diversamente proporzionati: nell'amore libero debbono essere tutta una cosa. Fra l'autonomia e la dipendenza delle creature sessuate c'è un contrasto: questo contrasto deve sparire. Il senso e il sentimento operano a volta a volta, o diversamente: queste alternative e queste diversità non debbono più esistere. Ogni individuo d'un sesso può amare una quantità d'individui dell'altro; questa possibilità deve finire, ci dev'essere invece un rigoroso assortimento di tutte le coppie. Uomini e donne vedono, pensano, operano diversamente: essi devono ridursi eguali in tutto… o quasi in tutto.
Questo è uno dei caratteri salienti del tempo nostro: la credenza e la previsione che le fatalità naturali dalle quali ci vengono i danni si possano combattere, eludere e sopprimere. Ma, dall'altra parte, se non si credesse così, se non si nutrisse questa speranza, se tutti fossimo convinti che tutto è ineluttabile, che cosa faremmo?…
Fino a pochi anni addietro, quando i sociologhi in vena di profezia si proponevano la quistione della fine della nostra civiltà,—giacchè le civiltà fioriscono e finiscono come tutte le altre cose di questo mondo,—i sociologhi, dico, pensavano che la civiltà nostra soccomberebbe per opera di una nuova grande invasione barbarica, e vedevano nei Cinesi il nemico formidabile. Innumerevoli, le orde dei Gialli caudati si sarebbero rovesciate dai vergini altipiani asiatici sui vecchi paesi europei, ed avrebbero tutto abbattuto e travolto.
In pochissimo tempo non solamente l'ipotesi si è dimostrata fallace, ma il fatto contrario, l'invasione europea in Cina, ha cominciato ad avverarsi. Comunque, le due razze stanno per venire in urto: il caso è degno d'esser considerato.
Gli uomini vogliono e debbono intendersi; ma non vi riescono facilmente, alla prima. La Cina è un paese tanto diverso dal nostro, e di accesso così difficile, che i libri dei viaggiatori europei non ne danno un'idea adeguata. Posto anche che l'accesso fosse agevole, e la diversità non troppo grande, saremmo noi buoni giudici in casa altrui? Certo, se si trovasse un Cinese a cui la nostra civiltà fosse familiare, costui potrebbe meglio di ogni altro svelarci il suo paese. Questo Cinese si è trovato, ed è il colonnello Tcheng-ki-tong, addetto militare durante dieci anni all'ambasciata del Celeste Impero a Parigi. Disgraziatamente lo scrittore asiatico ci rassomiglia troppo, se non altro nella pretesa di mettere il naso nelle faccende altrui; perchè nel suo libro intitolato I Cinesi dipinti da loro stessi non tanto dipinge i suoi connazionali, quanto critica noi…
«Il carattere essenziale della civiltà europea», dice egli, «è di essere invadente. Non ho bisogno di dimostrarlo. In altri tempi le orde dei barbari invadevano egualmente, non già per diffondere i benefizî d'uno spirito nuovo, ma per saccheggiare e rovinare gli Stati fiorenti. Gl'inciviliti seguono oggi la stessa via, ma presumono d'instaurare così il regno della felicità sulla terra. La violenza è il punto di partenza del progresso. Mi lusingo di poter credere che il metodo non è perfetto…».
Gli daremo noi torto su questo punto? Avrà ragione la civiltà europea di imporsi con le cannonate? I suoi benefizî sono tanti da farle perdonare i mezzi cruenti? Leone Tolstoi risponderebbe subito no; Federico Nietzsche affermerebbe che il diritto del più forte basta a legittimare la lotta dei popoli progrediti contro i più deboli…. Certo il colonnello Tcheng-ki-tong ha ragione di dolersi perchè, dischiusi i porti cinesi ai commercianti europei, le prime cose che questi importarono furono le armi da fuoco. «Domandate a un Cinese come chiama gl'Inglesi; vi risponderà: mercanti d'oppio. Allo stesso modo vi risponderà dicendo che i Francesi sono missionarî. Egli non conosce altrimenti questi stranieri; e si capirà facilmente che ne serbi un ricordo indelebile, poichè i primi rovinano la sua salute a spese della sua borsa, e gli altri sconvolgono le sue idee. Io qui accerto soltanto il fatto; perchè può darsi, in fine dei conti, che l'oppio e le religioni nuove siano progressi straordinarî…».
L'ironia del colonnello ha ben altri soggetti intorno ai quali esercitarsi. Che la civiltà della Cina sia antichissima ed originale, che questo popolo relegato in fondo al maggior continente, oltre i monti e oltre i mari, chiuso da una muraglia di sassi e da un'altra, più salda, di idee, di giudizî e di pregiudizî tutti suoi, sia pervenuto da solo, senza sussidio straniero, a un'altezza morale e a un ordinamento sociale degni di molto rispetto, non si può ragionevolmente negare. A chi lo considera come barbaro, sublimando invece le idee, le abitudini, i costumi nostri, il colonnello Tcheng-ki-tong dà pertanto qualche lezione molto sottile.
«Gli esempî dei sacrifizî abbondano nella nostra storia nazionale. Così taluno si spoglierà del proprio vestito per darlo all'amico povero incontrato per via. Questo caso è molto frequente; ma i caritatevoli non sono da noi santificati come San Martino…». Fare il bene, in Europa, è cosa straordinaria e meravigliosa; in Cina assistere gli amici è un uso, non una virtù.
«Io ho tentato di spiegare ai miei compaesani che cosa s'intende per matrimonio di convenienza; essi hanno sempre capito che fosse un atto di commercio, un affare…». Questa botta è tanto più felice, quanto che in Cina i matrimonî si fanno dalle famiglie, senza che gli sposi si conoscano prima del giorno delle nozze; ma tutto lo studio dei parenti è di sceglier bene, badando alle qualità morali, e non alle doti. E i matrimonî si fanno senza assistenza di autorità civili o religiose, solo dinanzi alle famiglie degli sposi, agli amici e a Dio,—quasi come vorrebbero i fautori dell'amore libero… E i vecchi celibi e le zitellone sono d'una rarità straordinaria; e c'è il divorzio, ma se la legge lo permette, l'uso lo biasima, e pochi, nei casi estremi, lo praticano. La moglie, in Europa, diventa minorenne, è posta sotto tutela, non può disporre neanche di ciò che le appartiene: in Cina può vendere e comprare, firmare effetti di commercio, accasare i figli, dar loro la dote che crede, e via discorrendo. Esiste laggiù, è vero, il concubinaggio, che agli Europei non parrà istituzione molto delicata; ma, in Europa, «col pretesto della delicatezza, si commettono delitti più grandi, quando i figli illegittimi sono buttati via…».
Passiamo alle invenzioni, alle scoperte, che sono il vanto della civiltà occidentale. Molti e molti secoli prima di noi i Cinesi trovarono la polvere da sparo; ma se ne servirono per tirare fuochi d'artifizio, non già «per far saltare il mondo»; e trovarono anche la stampa, ma non la impiegarono «a corrompere gli spiriti e ad eccitare le passioni inutili». I Cinesi non hanno accettato le ferrovie, perchè non hanno giudicato necessario correre all'impazzata; ed anche perchè, lacerando esse la faccia della terra, passando sulle tombe, offenderebbero il sentimento di religioso rispetto che quel popolo nutre per i morti e gli antenati. «I nostri popoli non si sono dunque ancora decisi a lasciarsi invadere dal cavallo di fuoco; e veramente non si può farne loro una colpa, se si pensa che lo stesso Istituto di Francia rifiutò di ammettere la scoperta di Fulton, relativa all'adattamento del vapore alla locomozione delle navi. Essi meritano pure altrettanta indulgenza quanta i dotti dell'Accademia..».
Noi non staremo a confutare il bravo colonnello; ma vedete che egli è a giorno delle nostre cose molto meglio che noi delle sue. Quando parla dei proverbî cinesi, concettosi e pratici, in gran parte simili agli europei,—giacchè l'uomo, chi ben guardi, è sempre e dovunque lo stesso,—egli dice che ve ne sono alcuni capaci di offendere le orecchie francesi, e soggiunge che non li ha tradotti non conoscendo abbastanza il latino da poterli travestire. «Ma forse un giorno mi deciderò a riparlarne, quando avrò letto Rabelais…».
Tcheng-ki-tong ha trovato i massimi soggetti di stupore in società, nella buona società. Se un attore è invitato in un salotto parigino, ha il posto d'onore; i gentiluomini e gli accademici passano in seconda linea. «In Cina noi osserviamo un'etichetta rigorosa. Mi dicono che rispettarla, in Francia, non è ben fatto: lo credo…». E l'assalto dei buffets, nelle grandi feste ufficiali! Un Cinese che osservasse le cose d'Europa con la leggerezza degli Europei nel giudicare quelle cinesi, potrebbe scrivere nelle sue note di viaggio: «Le persone che compongono la classe più alta, quando sono in presenza del Capo dello Stato, non si mettono a tavola, ma vi si precipitano con furia guerresca…». In Cina le donne si riuniscono tra loro; gli uomini non possono prender parte a questi convegni. «È probabile che i nostri legislatori, diminuendo quanto è possibile il numero delle occasioni che possono mettere in presenza uomini e donne, abbiano agito nell'interesse della famiglia». E nelle conversazioni cinesi «le persone bene educate non parlano di politica».
Che dire dell'abito europeo? Il colonello non capisce come noi possiamo vestirci con la orribile marsina, con la marsina livellatrice, comune ai servi ed ai signori. Sarà forse perchè in Europa regnano i principî liberali e democratici? «Io domando ancora a me stesso, dopo dieci anni di soggiorno a Parigi, dopo tanti studî pazienti, quale può essere, nelle istituzioni del mondo occidentale, il principio veramente degno d'esser chiamato democratico e liberale. Mi hanno parlato del suffragio universale: ma è una rosa dei venti, un principio senza principî…. Cosa strana: nessuno potrebbe proporre l'elezione degli accademici per mezzo del suffragio universale senza coprirsi di ridicolo; e poi si ammette che il suffragio universale debba esso scegliere i legislatori. Crederei che scegliere i legislatori sia più difficile che non scegliere gli accademici…». In Cina, invece, solo lo studio e gli esami e i concorsi che provano il profitto negli studî, portano gli uomini a tutti i gradi della scala sociale; e tutti i cittadini, indistintamente, hanno il diritto di concorrere; e i più umili, gl'infimi, possono arrivare alle più alte cariche dello Stato.
«Noi siamo più di 400 milioni di abitanti in Cina», dice ancora il colonello, «e non abbiamo nè notai, nè avvocati; e i titoli di proprietà, gli atti, i contratti, in una parola tutte le cose che riguardano gli affari, non sono perciò meno regolari che in Europa».
E nondimeno egli non chiede che i Cinesi siano lasciati a godersi questa loro civiltà; nè, tanto meno, che l'Europa prenda esempio dalla Cina; chiede soltanto, e in verità non potrebbe essere più discreto, che, se gli Europei vogliono diffondere in Cina ciò che hanno trovato di buono, adoperino la persuasione, e non già la forza. E riferisce un aneddoto per difendere i proprî connazionali dell'accusa di essere refrattarî alla civiltà europea. «In Francia, si narra, il popolo non volle sul principio mangiar le patate, perchè gli furono imposte. Avevano reso la patata obbligatoria; il popolo non ne volle, non volle neppure assaggiarla. Fu necessario l'esempio della Corte; fu anche necessario, se la storia non mente, proibire le patate; e allora tutti ne mangiarono. Ecco la vera civiltà, quella che si fonda sulla conoscenza del cuore umano, il quale è lo stesso sotto tutte le latitudini». E il buon Cinese aggiunge un motto che dimostra come egli abbia studiato anche i per finire dei giornali spiritosi: «Quante patate, quanti pomi di terra (ricordiamoci che scrive in francese) non ci farebbero mangiare, con le belle maniere! Ma non hanno finora importato fra noi altro che il pomo della discordia!»
La vera grandezza del popolo cinese, il suo massimo titolo al nostro rispetto,—e forse anche a qualche cosa di più,—è la sua morale. Un libretto dove il signor di Lanessan, già governatore generale dell'Indo-Cina, ha raccolto con molta pazienza ed accorgimento tutte le massime dei libri sacri del Celeste Impero e dell'Annam, riassume chiaramente il pensiero etico e filosofico della razza gialla.
La filosofia, in Cina, non è privilegio di pochi studiosi: per una sessantina di lauree, i candidati sono laggiù da dieci a dodicimila. Tutti indistintamente i Cinesi ricevono un'educazione filosofica; le sentenze più importanti dei libri classici sono incise con caratteri d'oro sulle pagode erette ai genî, sulle case dei letterati; sono spiegate ai figli dei contadini come a quelli dei Mandarini, nelle scuole aperte a tutti, frequentate da tutti, nelle città sterminate come nei più miseri villaggi. E che dicono queste sentenze?
Dicono, prima di ogni cosa, e contrariamente alle credenze dei popoli occidentali e cristiani, che la natura dell'uomo non è macchiata da peccati originali. La natura umana, nativamente buona, può bensì corrompersi, e appunto perciò occorre dirigerla e sostenerla, sin dai primi anni, con l'educazione. Chi sarà virtuoso sarà felice; felicità e virtù sono, secondo i moralisti cinesi, tutt'uno.
Nè essi credono all'eguaglianza degli uomini, Gli uomini sono tutti originariamente buoni; ma la natura dell'uno differisce da quella dell'altro. Alcuni di essi arrivano, «senza soccorso straniero», senza bisogno di meditare, di riflettere lungamente, a comprendere la legge del perfezionamento umano: sono gli uomini santi. Vengono poi, in seconda linea, gli uomini, saggi, i quali hanno bisogno di studiare molto, di sforzarsi, di vegliare assiduamente su sè stessi per comprendere ciò che è bene. Saggi e santi formano insieme la categoria degli «uomini superiori», i quali si distinguono profondamente, anche nell'apparenza, dagli «uomini volgari». Ma, per la loro stessa superiorità, essi hanno molti doveri: primo fra tutti è quello di servire d'esempio agli altri. «Gli errori dell'uomo superiore sono come lo eclissi del sole e della luna: se egli commette uno sbaglio, tutti lo vedono; se si corregge, tutti lo contemplano». E non basta neppure che egli dia il buon esempio: bisogna anche che lavori direttamente a istruire gli altri uomini. In Cina l'istruzione non è obbligatoria, ma l'ignoranza è generale argomento di sdegno e di spregio. «Quelli che pensano soltanto a mangiare e a bere tutto il giorno, senza impiegare la loro intelligenza a qualche oggetto degno di essa, fanno pietà. Non vi è il mestiere di barcaiuolo? Lo esercitino: saranno saggi, a paragone di prima… Gli uomini hanno dentro di loro il principio della ragione; ma se, soddisfacendo gli appetiti, vestendosi di panni caldi, costruendosi comode case, mancano di istruzione, allora si avvicinano ai bruti». Così, per effetto della diversa istruzione, gli uomini nativamente non eguali si allontanano ancora più gli uni dagli altri; ma ciascuno può, a forza di volontà e di perseveranza, divenire «saggio», arrivare alla categoria degli «uomini superiori». Meng-Tseu dice: «Chi si mette a fare una cosa somiglia a chi scava un pozzo. Se, dopo averlo scavato fino a settantadue piedi, non continua fino alla sorgente, è lo stesso come non averlo cominciato». Le persone i cui studî progrediscono poco, i cui sforzi per migliorarsi non riescono prontamente, non debbono scoraggiarsi: «Ciò che gli altri farebbero in una volta, esse lo faranno in dieci; ciò che gli altri farebbero in cento, esse lo faranno in mille».
Questa possibilità dell'eguaglianza nell'istruzione, nella conoscenza dei doveri, è la ragione dei costumi politici della razza gialla, i quali sono più democratici di quelli dei paesi più democratici d'Europa e di America; con questo, però: che la democrazia non degenera mai in demagogia. Gli uomini del popolo, sanno che, volendo, col lavoro, con lo studio, con la buona condotta, avrebbero potuto sollevarsi, prender posto tra i «saggi,» tra i reggitori; perciò non li odiano, non si ribellano ad essi. La gerarchia è scrupolosamente osservata: ciascuno sa obbedire e rispettare i superiori, e comandare e compatire i sottoposti.
Ogni uomo deve attendere a migliorare sè stesso; per compiere questo dovere bisogna studiare «l'essenza delle cose» e «i principî delle azioni»; così si arriva a conoscere la propria «destinazione». Nel Ta-Hio è detto: «L'uccello giallo mien-män dal canto lamentoso stabilisce la sua dimora nelle folte cavità delle montagne. Il filosofo ha detto: nel fissar lì la propria dimora, esso dà prova di conoscere il luogo della sua destinazione; e l'uomo sarà da meno dell'uccello?» La «destinazione» dell'uomo è indicata dalle inclinazioni naturali; perchè ciascuno consegua la propria, bisogna «non snaturare le inclinazioni rette, come quella che ci fa evitare un odore sgradevole e amare un oggetto piacevole e seducente». E la prima inclinazione, la più retta, la fondamentale, è quella che unisce la madre al figlio e il figlio alla madre. Tutte le madri, senza che nessuno le ammaestri, hanno gli stessi sentimenti verso la prole; tutte intendono e contentano i loro piccoli prima ancora che questi sappiano significare i loro bisogni: i cuori delle madri e dei figli sono uniti dal più saldo legame. Su questo legame è fondata tutta quanta la morale sociale, politica e individuale dei Cinesi: i sentimenti materni e filiali si debbono estendere ai prossimi, a tutti quanti gli uomini; il principe dev'essere «la madre» dei suoi popoli. «Tutti dicono: l'impero, il regno, la famiglia. La base dell'impero esiste nel regno, la base del regno esiste nella famiglia, la base della famiglia esiste nella persona». I femministi dovrebbero esserne contenti.
Questa filosofia, invece, sembrerà troppo semplice a noi occidentali, amanti dei voli metafisici, ricercatori appassionati della quadratura del circolo. Ma il pensiero cinese è semplice, pratico, positivo.
Noi perdiamo il nostro tempo intorno al problema del libero arbitrio; i Cinesi si contentano di dire, con Meng-Tseu: «La natura dell'uomo somiglia al salice flessibile, l'equità e la giustizia somigliano a un canestro: con la natura dell'uomo si fa l'umanità e la giustizia come si fa un canestro con un salice flessibile». Da noi filosofi e teologi si accapigliano a proposito della morte, dell'anima, della divinità: in Cina queste polemiche sono ignote o molto più rare. «Ki-Lu domandò come bisogna servire gli Spiriti e i Genî. Il filosofo disse:—Quando non si è ancora in grado di servire gli uomini, come mai si possono servire gli Spiriti e i Genî?—Permettetemi, aggiunse il primo, che ardisca domandarvi che cosa è la morte?—Il filosofo disse:—Quando non si sa ancora che cosa è la vita, come si potrebbe conoscere la morte?» Pertanto la morale cinese non insegna ad aspettare il premio e il castigo delle azioni in un'altra vita, in un mondo migliore: i buoni, i laboriosi, i saggi, sono premiati in terra dall'affezione dei parenti, dalla devozione degli amici, dal rispetto dei concittadini, dalla soddisfazione della loro propria coscienza; e così pure in terra sono puniti i cattivi: chi uccide provoca la vendetta, chi è ingordo di lucro è disprezzato, e chi non adempie i propri doveri non avrà mai posto fra gli uomini superiori, non potrà mai istruire e governare gli altri uomini, che è, secondo i Cinesi, il massimo premio del lavoro, dello studio e della virtù.
Altra differenza col nostro modo di vedere. Secondo noi, in tutta la natura si combatte per l'esistenza; i Cinesi, quantunque vedano che gli esseri si nutriscono divorandosi scambievolmente, affermano tuttavia che non si fanno male tra loro. La lotta per l'esistenza, il cozzo degli elementi sono, secondo i Mandarini, accidenti che non infirmano le grandi armonie della vita e della natura. Come la loro filosofia è ottimista, così la loro morale è altruista. Dicono anch'essi che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo si facesse a noi stessi; ma questa virtù passiva non basta loro: soggiungono che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. «Il filosofo disse:—Vorrei procurare ai vecchi un dolce riposo; agli amici ed ai conoscenti esser sempre fedele; ai piccoli e ai deboli prodigare cure materne». L'egoista, chi bada soltanto al bene proprio, è infelice «per una scodella di riso».
È curioso vedere come, nel senso della bontà, la morale cinese abbia già detto ciò che, da parte dei nostri moralisti, sembra più nuovo ed ardito. Quando Meng-Tseu, per esempio, consiglia agli uomini superiori di non educare da loro stessi i figli, perchè, dovendo ricorrere alle correzioni e ai castighi, se ne potrebbero alienare gli animi, un lettore disattento del Hia-Meng potrebbe credere d'avere in mano un volume del Tolstoi. E come il Tolstoi se la prende con la giustizia, dicendola iniqua, così il popolo, in Cina, è eccitato dai filosofi a resistere ai decreti e alle sentenze non giuste. E dove lasciamo l'avversione per la guerra? «Se c'è un uomo che dica:—Io so perfettamente ordinare e dirigere un esercito, io so perfettamente dare battaglia,—quest'uomo è un gran colpevole». Mencio arriva sino a classificare le industrie secondo il bene o il male che i loro prodotti fanno agli uomini. «L'uomo che fabbrica frecce è più inumano di chi fabbrica scudi e corazze. Lo scopo di chi fabbrica frecce è di ferire gli uomini, mentre quello di chi fabbrica corazze e scudi è d'impedire che gli uomini siano feriti. La stessa differenza c'è fra l'uomo il cui mestiere è di far voti di felicità alla nascita dei bambini, e l'uomo il cui mestiere è quello di costruire feretri. Bisogna perciò stare molto attenti prima di scegliere una professione».
Ed anche più curioso è vedere come questa filosofia, la quale va tant'oltre nel senso della bontà e dell'amore, racchiuda poi i germi delle dottrine ispirate da sentimenti opposti,—tanto è vero che la verità è complessa e sta nel mezzo. Già quando i libri sacri della Cina parlano dell'«uomo superiore», la mente ricorre subito al Superuomo del Nietzsche. Quando nel Lun-Iu si legge: «L'uomo superiore non è un vano utensile impiegato agli usi volgari… Chi non si crede incaricato di compiere un mandato, una missione, non può essere considerato come uomo superiore», pare di avere sott'occhio una pagina del Zarathustra. L'affermazione della ineguaglianza degli uomini conduce il filosofo tedesco e i Cinesi alle stesse conseguenze pratiche. Meng-Tseu dice: «Gli uni lavorano con l'intelligenza, gli altri con le braccia. Quelli che lavorano con l'intelligenza governano gli uomini, quelli che lavorano con le braccia sono governati dagli uomini. Quelli che sono governati nutriscono gli uomini, quelli che governano sono nutriti dagli uomini. È la legge universale del mondo».
Ma, fra i due estremi, fra le opposte sollecitazioni degli istinti e dei sentimenti, la morale cinese tenta una ragionevole conciliazione. E questo è il principale, il migliore, il più invidiabile carattere alla dottrina di Confucio e di Mencio. Tra le massime più concettose riferite dal Lanessan, alcune sono tanto belle, come idea e come forma, che meritano veramente di stare fra le nostre migliori.
«Chi pensa soltanto ad ammassare ricchezze non è umano; chi pensa soltanto a esercitare l'umanità non è ricco.
«Se siamo tre che viaggiamo insieme, troverò necessariamente due istitutori: sceglierò l'uomo dabbene per imitarlo, e il cattivo per correggermi.
«Non dobbiamo affliggerci di non esser conosciuti dagli uomini; ma, al contrario, di non conoscerli noi stessi.
«Amare, e riconoscere i difetti di chi amiamo; odiare, e riconoscere i pregi di chi odiamo, è cosa ben rara sotto il cielo.
«Fau-Tchi domandò che cosa è la virtù dell'umanità; il filosofo disse:—Amare gli uomini. Domandò ancora che cosa è la scienza; il filosofo rispose:—Conoscere gli uomini.
«Se, la mattina, avete udito la voce della ragione celeste, la sera potete morire».
La guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti d'America ha rivelato molte cose che non era difficile prevedere, ma che pure hanno destato qualche stupore in più d'uno.
Alla stessa guerra molti non credettero, non vollero credere finchè l'eco delle cannonate non li costrinse. Che la vecchia Spagna ingorda e prepotente fosse disposta, come in altri tempi, a menar le mani, costoro ammettevano senza difficoltà; ma che la giovane e civilissima America assalisse il popolo spagnuolo, sia pure per «liberare» Cuba e le Filippine, non concedevano. L'America che non aveva eserciti, che non ne aveva voluti, che si era pensatamente astenuta dalle contese politiche, che badava soltanto a sè, alla sua prosperità, si sarebbe difesa come una leonessa se l'avessero aggredita; ma per nessuna ragione avrebbe dato l'esempio dell'aggressione. È vero che, qualche diecina d'anni addietro, gli Americani si erano fraternamente sgozzati tra loro; ma ciò non era stato senza una grave ragione; e poi, tanto tempo era passato, e quella nazione aveva tanto rapidamente progredito! Essa ci era additata come maestra di tante cose, come un modello di perfezione: duole vedere, quantunque bisognasse pure ricordare, che la perfezione non è di questo mondo.
Scoppiata la guerra, si videro, come in tutte le altre guerre, gli spettatori tenere dagli uni o dagli altri; ma poche volte le contrarie ragioni dei belligeranti sono state sostenute con tanto calore e simpatia. Di questa discordia, e delle sue cause, non sarà inutile dire qualche cosa.
Nell'aprile del '98 Pierre Loti, il poeta del mare, il pittore dei paesaggi esotici, il romanziere delle signore, si trovava in Francia, a Hendaye, presso il confine spagnuolo, quando lesse sui fogli pubblici che gli Stati Uniti movevano guerra alla Spagna. Alla notizia dell'aggressione americana egli ebbe improvvisamente coscienza delle sue simpatie per gli aggrediti. Corse a Madrid con l'incerta speranza di poterli servire, di poter versare il proprio sangue per loro. Dissero alcuni che egli era andato per chiedere di poter fare il corsaro contro gli Americani: «Ahimè», scrive egli, «quanto rimpiango che non sia vero e neppure possibile!» Non glie ne manca il desiderio, bisognerebbe però avere una nave da corsa che potesse filare venti nodi, almeno.
Non potendo battersi, egli manifesta come può le sue simpatie per il popolo castigliano. Se, durante la guerra, gli Spagnuoli pensano a divertirsi e ad andare a spasso, dice che così rivelano la loro nobile fierezza. «Questo popolo è deciso e pieno di confidenza nel suo buon diritto, questo popolo ha il coraggio amabile, il coraggio allegro, la vecchia gaiezza latina,—comune agli Spagnuoli ed ai Francesi…». Lo scrittore chiede un'udienza alla Regina reggente, e la prega di voler gradire la reverente espressione delle simpatie francesi. Nella stessa Corte, non che nel paese, egli trova «la vera, la sana democrazia», la democrazia che è sentimento della fratellanza umana. E giudica che il popolo sia più sano che non in Francia, e ironicamente dice che esso ha bisogno di progresso, e dei benefizî dell'istruzione laica, e di molti giornali, e di meno incenso e di meno preghiere nelle vecchie chiese, per agguagliare la Francia… E rimpiange i tempi andati, quando la Spagna avrebbe sicuramente vinto, perchè il valore personale decideva le battaglie; mentre ora, ahimè, «la guerra è divenuta brutta, putente di carbon fossile, chimicamente barbara; e i nemici d'Oltremare hanno più denaro, più macchine, più petrolio…». Nondimeno, nel veder sfilare i soldati spagnuoli, «eroici sempre», prevede che gli Americani potrebbero ancora aver la peggio, e che forse dovranno provare qualche sanguinosa sorpresa. E grida: «Ollè, ollè, viva la vecchia Spagna, addormentata soltanto sotto la Spagna d'oggi, capace ancora di ridestarsi per una poesia, per una canzone, per una furia di chitarre…».
Con meno eleganza di stile, le simpatie del romanziere per la Spagna furono espresse da moltissimi altri, l'anno scorso, in tutta l'Europa latina. Non furono tutte simpatie platoniche, si raccolsero anche denari: io conosco un ragazzetto di dieci anni che andò attorno con la sua brava scheda di sottoscrizione e mandò al ministro della guerra, a Madrid, un vaglia di dodici lire.
Molte cose spiegano questa simpatia. Tra i Latini, il sentimento dell'affinità di razza; tra i Latini e i non Latini la mancanza di cerimonie nella sfida americana, il presentimento che gli Spagnuoli fossero più deboli, e che dovessero quindi fatalmente soccombere nella lotta ineguale; e da ultimo la secreta paura che un giorno o l'altro gli Americani possano far sentire la loro potenza al resto d'Europa.
Nel caso di Pierre Loti noi vediamo l'influenza d'un'altra causa. Come artista, egli ama e difende la vecchia Spagna pittoresca, cavalleresca e poetica, la Spagna di Cervantes e Lope de Vega, di Velasquez e di Murillo; la Spagna di Granata e dell'Escurial. Tra gli artisti come lui questo sentimento è generale; tanto più notevole mi pare il caso d'un altro artista, latino come il Loti, che intende la forza e la grandezza americana.
Quando uno scrittore riesce ad ottenere l'ammirazione universale non a grado a grado, provando e riprovando, ma d'un colpo, con un'opera singolare, il suo felice successo non è senza scotto; perchè il pubblico, in ogni opera successiva, vorrebbe trovare le stesse qualità che lo sedussero nella fortunatissima; e non trovandole, se ne duole e quasi glie lo rimprovera. Gustavo Flaubert, dopo il trionfale incontro di Madame Bovary, ebbe un bel mettere fuori quel capolavoro di verità che è l'Educazione sentimentale, quei capolavori di fantasia e di erudizione che sono Salammbò e la Tentazione di Sant'Antonio: i lettori lodarono moderatamente, scrollando il capo ed esclamando: «Sì, va bene; ma non è più la Signora Bovary!…» La cosa andò tant'oltre, che il romanziere, piccato, si mise in capo di riscattare la proprietà letteraria di quel suo troppo fortunato volume, di ritirarne dal commercio tutti gli esemplari e di distruggerli, per non sentirsi più chiamare «l'autore di Madame Bovary».
Io credo che un pensiero simile dovè passare per la mente di Giuseppe Giacosa, quando gli entusiasmi eccitati dalla Partita a scacchi e dal Trionfo d'amore impedirono ai loro esclusivi e quasi gelosi ammiratori di apprezzare esattamente le diverse qualità delle altre opere sue. Al tenero e delicato cantore di Paggio Fernando e di Jolanda, al trovatore sentimentale, all'immaginoso evocatore del medio evo cavalleresco ed erotico, la maggior parte del pubblico, sedotta dall'arte squisita, richiese altri idillî dello stesso carattere, evocazioni simili, versi di eguale fattura; e, non avendone, e trovandosi dinanzi a opere di tutt'altro sapore, fu ingiusto con esse.
I giudizî del nostro poeta sul popolo americano contribuiranno ad alienargli l'animo dei suoi primi ammiratori. Alcuni anni addietro, per assistere alle prove della Dame de Challant che Sara Bernarhdt doveva recitare in America, il Giacosa raggiunse la grande attrice agli Stati Uniti. Le sue Impressioni d'America sono il frutto di quel viaggio. Egli non parla, e non può parlare della guerra; ma pochi libri spiegano meglio del suo le vittorie americane; perchè pochi osservatori hanno saputo come lui cogliere ed esprimere ed apprezzare i caratteri essenziali del popolo e della civiltà americana.
Leggete il capitolo su Nuova York: dalle prime righe il Giacosa fa notare come vi primeggi l'azione: «la gran città agisce prima di mostrarsi»; dalle prime pagine egli mostra la saldezza che hanno le opere umane laggiù. «Fino dove l'occhio giunge, da ogni lato, nello spessore delle città litorali, sopra l'immenso corno dell'Hudson, su pel gran braccio di mare della East River, è un accavallarsi di giganteschi edifizî che rappresentano nelle nebbiose lontananze un vario ondeggiare di colli digradanti al mare. Quelle moli hanno di lontano la gravità riposata delle cose eterne e sembrano sorte col suolo. Io non vidi mai in altri luoghi l'opera dell'uomo, sola, scompagnata da ogni elemento naturale, naturalizzarsi così interamente e darmi un così pieno inganno di paesaggio».
Uno dei segni particolari dello spirito americano è l'individualismo, che spiega ad un tempo la forza e i difetti della razza yankee. Il Giacosa lo mette in evidenza e ne trova una causa nell'abitudine di operare e di attendere ai guadagni in luoghi lontani dalla casa, in quartieri che, finita la giornata di lavoro, restano vuoti, deserti. «È certo che la casa, l'home degl'Inglesi, esercita sull'animo nostro un'azione mitigante, lo predispone e lo inclina all'esercizio delle virtù altruistiche. Chi abbandona la mattina i dolci luoghi della vita domestica e va e rimane per traffichi fino a sera in luoghi dove non ne resta nessuna traccia, e dove non c'è traccia nemmeno di altre vite somiglianti che gli ricordino la propria, si avvezza in breve a sdoppiare quasi interamente la propria natura, a separarne gli elementi affettivi dai volitivi ed intellettuali, lascia a casa l'umanità amorevole e soccorrevole per armarsi soltanto negli affari di un egoismo aspro ed ingrato».
La permanenza dei caratteri etnici particolari alla razza nonostante l'esteriore uniformazione ai costumi europei, è ben dimostrata dal Giacosa nel capitolo sull'Intemperanza. «A parole, i fashionables del caffè Del Monico professano una estetica delicata che deve costar loro una continua autovigilanza. Quella tenuità di pensamenti e di movimenti, che è il non plus ultra della sciccheria, stride col loro fisico poderoso e bisognoso d'azione. Il formidabile individualismo onde trassero nel tempo ricchezza e grandezza, si adagia a stento nella disciplina convenzionale della nostra gente per bene. Quando si mettono per godere, vogliono godere oltre misura. Cento doganieri dell'estetica appostati sull'entrata di un salone a respingerne ogni oggetto non bollato per raffinatissimo, non possono impedire che la raccolta di troppe cose squisite esprima un gusto se non eteroclito, eterodosso. Ogni particolare della vita di quei gaudenti otterebbe l'accessit dal più schifiltoso fra i dittatori della moda e della delicatezza parigina, ma il loro complesso tradisce per lo più quella inclinazione a fare in grande che è propria degli arricchiti. Eppure esiste in America una aristocrazia plutocratica, i cui titoli nobiliari risalgono a nonni milionarî. Ma quel sottile smeriglio che è il milione da lungo tempo posseduto, non venne ancora a capo di levigare del tutto la ruvida scorza che salì dal ceppo agli ultimi rami. È certo che in America la lunga ricchezza non produsse ancora quello che a noi pare supremo fiore dell'eleganza spregiudicata e sicura: l'amore del semplice».
Ma il Giacosa non augura niente affatto all'America l'estetica tradizionale; egli apprezza, al contrario, e loda quella particolare idea del bello non disturbata da preconcetti storici, quell'«estetica sociale» adattata al benessere e confacente allo sviluppo della razza umana, che si viene formando oltre l'Atlantico ed è anche una delle nostre nuove inquietudini. Accortamente egli nota come una delle peggiori conseguenze del rispetto alle tradizioni, presso di noi, sia la paura del ridicolo, dalla quale invece gli Americani sono affrancati. «Il ridicolo in America non fa presa, e dove non fa presa non esiste, perchè non è che un fantasima creato dalla paura. Anche nei paesi latini, dove può tanto, chi più lo teme più c'incappa dentro e, diciamolo, più merita di incapparci. Il ridicolo è un prodotto delle società da lungo tempo costituite, le quali finiscono sempre col chiudersi in un formalismo dommatico. Esso aiuta le serrate di classe, contrariando l'entrata d'ogni classe a chi ne sta fuori e l'uscita a chi ci è dentro. Cane di guardia dello statu quo, non morde mai chi si appaga a quel grado di mediocrità che tutti possono conseguire, ma si avventa contro i solitarî che lo soverchiano. Educatrice a qualità discrete, a gentili eleganze ed a virtù negative, la tema del ridicolo impigrisce l'esercizio delle attività individuali e frena i movimenti iniziatorî. Perciò i paesi dove esso più agisce sono spesso retrogradi e sempre consuetudinarî; e perciò ivi l'eccentricità, cioè l'essere dissimile dai più, induce sempre un'idea di ridicolo. Ora se badiamo al procedere della civiltà, noi troviamo che il minor numero di uomini eccentrici s'incontra nei popoli stazionarî e il maggiore nei progressivi. L'America informi».
Originale, libero, pronto ad apprezzare tutto ciò che è nuovo e vivo e utile, lo spirito americano si distingue ancora per quella particolare specie di scetticismo che il Giacosa definisce: «previsione generica di doversi un giorno ricredere su tutte le cose attualmente credute» e che non è ignota al pensiero europeo contemporaneo. Però, mentre i discepoli del Renan e e gli ammiratori di Anatole France sono increduli e impotenti, l'incredulità degli Americani non attenua «il consenso e la fede in quanto è oggi tenuto in conto di verità;» al contrario: «la verità attuale prende nelle loro menti un carattere di tranquilla certezza e le move a praticarla con sicura energia. Solo sanno che la verità di oggi non è quella di ieri e non sarà quella di domani. E quella di ieri fu ieri una propria e reale verità, ed esercitò tutti i benefici influssi che esercita la verità, e sarà una verità quella di domani, quantunque destinata a cedere il posto ad una successiva. Alle prime questo pare un linguaggio anfibologico, ma non è indifferente pensare che lo spirito umano proceda per via di successive verità, piuttosto che di successivi errori. In sostanza la cosa viene a dire che i concetti di verità e di errore non sono assoluti, ma relativi; e negli effetti pratici se ne deduce la conclusione che ognuno deve aver fede nel tempo in cui vive e prenderlo sul serio ed agire in esso con sicurezza. Ogni verità, anche se transitoria, è una forza. I dubbiosi non producono bene, perchè agiscono tepidamente. Chi crede che l'azione che egli va compiendo corrisponda al vero, ci spende intorno la massima somma di energia ed opera senza esitazioni e senza mollezze. D'altra parte il sapere che il vero non è eterno nè immutabile, rimove il pericolo degli accecamenti ostinati e dell'intolleranza. E perchè la sicurezza è rasserenante e giocondatrice, questi spiriti hanno una gaia contentezza del presente ed una gaia aspettazione del futuro, e la loro ironia, scevra affatto di amarezza, si esercita tanto a spese delle fedi immobili, quanto del dubbio permanente».
Ma se all'ammirazione del Loti per la Spagna noi abbiamo potuto contrapporre quella d'un artista come il Giacosa per l'America, troviamo un altro scrittore, un sociologo, il Guyot, il quale se la piglia direttamente coi fautori dei Castigliani in un libro severo come una requisitoria: l'Evolution politique et sociale de l'Espagne.
Mentre il Loti loda la vecchia fede castigliana, il Guyot trova nella superstizione una delle maggiori cause della decadenza del popolo iberico e della perdita delle sue colonie. La superstizione si accanì laggiù dapprima contro gli Ebrei ed i Mori; quando li vinse, li disperse e li uccise credendo di aver fatto una gran cosa, il paese del quale questi lavoratori avevano formato la ricchezza si trovò povero ed esangue. In ogni città conquistata sui Mori un terzo delle terre apparteneva alla Chiesa. Nel principio del secolo XVII c'erano nello Stato 120 mila chiese e cappelle, 200 mila preti, 10 mila conventi popolati da 100 mila frati e monache: mezzo milione di Spagnuoli appartenevano al clero. A Salamanca quindicimila studenti non studiavano altro che Aristotile e San Tommaso. Cervantes morì francescano. E quando non vi furono più Ebrei nè Mori da perseguitare, l'Inquisizione perseguitò gli stessi Spagnuoli cristiani. Essa imprigionò gli arcivescovi, vietò i bagni come costume pagano, si mescolò nelle cose civili sino ad occuparsi delle riscossioni doganali. In soli trent'anni del secolo scorso condannò quattordicimila persone e ne bruciò vive settecentottantadue.
Nelle colonie, sino ad ieri, il regime clericale era sovrano. Le Filippine pagavano un tributo di 66 milioni allo Stato, e di 116 milioni ai preti ed ai frati. L'insegnamento, in quelle isole, era affidato ai domenicani; i quali proibivano la lettura di Paolo e Virginia. Il governatore aveva il titolo di Vice-Patrono della Chiesa. Per reazione, 25 mila persone si erano raccolte in 180 logge massoniche; una setta misteriosa, il Katipunam, si proponeva di scuotere il giogo dei frati e degli Spagnuoli. Qual era il risultato economico di tale stato di cose? Era questo: che le Filippine importavano dalla Spagna, dalla madre patria, il solo tredici per cento, e tutto il resto dall'Inghilterra e dalle colonie inglesi.
E in America? Il Messico, Cuba, tutte quante le terre occupate sul principio dagli Spagnuoli erano popolatissime. I teologi discussero se gl'Indiani pelli-rosse avevano un'anima, mezza anima, o niente anima: finirono con l'accordare loro un'anima, e questa fu la rovina degl'infelici. I Mori e gli Ebrei erano stati scacciati dalla penisola iberica; gl'indigeni furono soppressi nelle colonie. Cortes bruciò vivi quelli che gli opponevano resistenza; Sandoval ne fece incenerire quattrocentosessanta in una città sola. Las Casas dovette presentare a Carlo V una memoria sulla Distruzione delle Indie; un concilio se ne occupò, e nel 1543 fu decretata la protezione degli indigeni. Ma gl'indigeni da proteggere erano ridotti a ben pochi: un milione di essi erano stati distrutti nel Perù, a Cuba ne restavano appena quattromila. Quando non ce ne fu più nessuno, i conquistatori si accorsero di aver fatto male a uccidere gli schiavi che lavoravano per loro; e allora cominciarono ad importare i Negri dall'Africa. Nel 1820 la tratta fu abolita ufficialmente, ma a Cuba continuarono ad arrivare da 30 a 60 negrieri l'anno. Nel 1885, data dell'abolizione definitiva, c'erano ancora venticinquemila schiavi. Anche qui le conseguenze di questo regime furono disastrose. Nonostante le tariffe combinate a posta per favorire il commercio della madre patria, nonostante tutti i monopolî, Cuba mandava alla Ispagna 38 milioni di franchi ogni anno, e agli Stati Uniti 340 milioni!
Un tempo, si osserverà, le cose non andarono così. Quando si pensa che il sole non tramontava mai negli Stati di Carlo V, quando si pensa che soltanto le colonie perdute dagli Spagnuoli durante questo nostro secolo si estendevano per sei milioni e mezzo di chilometri quadrati ed erano popolate da quaranta milioni di abitanti, si deve pur dire che, decaduta oggi, la Spagna fu strapotente in altri tempi. Il Guyot nega insino questa potenza passata. Egli riconosce che i Mori arricchirono la penisola, ma afferma che la miseria cominciò con la loro cacciata. Il tesoro pubblico si esaurì; Alfonso X, nel 1261, coniò monete calanti; il maestro di casa di Errico I non aveva più credito a Burgos, e non sapeva come fare per nutrire il suo padrone. Scoperta e conquistata l'America, l'oro rinsangua le esauste finanze nazionali: si calcola che ne sia entrato in Ispagna per quattro miliardi, cioè una media di quaranta milioni all'anno. Ma questo fiume d'oro serve ad alimentare la politica imperiale nei Paesi Bassi e in Germania; e le derrate crescono di prezzo, e la vanità e la boria nazionale aumentano, e con esse l'incapacità a lavorare. Invece d'un benefizio, quest'oro è una nuova causa di rovina. Filippo II, dopo San Quintino, non può continuare la guerra per mancanza di denaro: egli batte moneta in ogni modo, insino annobilendo gli Ebrei mediante una tassa di cinquemila ducati. Filippo V vende sessantamila ufficî municipali. Cervantes parla d'una proposta, secondo la quale ogni Spagnuolo dovrebbe essere obbligato a digiunare una volta il mese, ed a versare il prodotto di questa economia nel tesoro reale. Sotto Carlo II le difficoltà sono senza fine maggiori: vendite di pubblici impieghi, doni imposti alle città, tasse straordinarie sui ricchi, diminuzione e soppressione di paghe: tutto serve a far denaro. I banchieri genovesi ne prestano al 25 e al 40 per cento. Quando il re muore, il cardinale deve fargli recitare a proprie spese le messe funebri. L'esercito si compone di ottomila soldati, dei quali metà sono stranieri; la marina da guerra conta due soli vascelli in mediocri condizioni. La popolazione della penisola è ridotta a cinque milioni di abitanti, dei quali la marchesa di Villars dice che si nutrono «fiutando il sole».
Il quadro del Guyot ha tinte ancora più fosche.
Prima delle colonie d'America, la Corona spagnuola aveva perduto i Paesi Bassi. Secondo Grozio, l'Inquisizione aveva fatto laggiù centomila vittime. Il duca d'Alba vi portò la strage, il saccheggio, tutti gli orrori. Appena una parte di quelle provincie si rende indipendente, tosto prospera, s'arricchisce, commercia con la Cina e il Giappone; la parte rimasta alla Spagna si trascina nella miseria finchè non recupera anch'essa la libertà.
L'esperienza secolare non giova: Weyler, a Cuba, imita il duca d'Alba. Secondo i rapporti dello stesso governatore, nella provincia di Matanzas cinquantamila persone muoiono di fame e di miseria, centodiecimila in quella di Santa Clara, centotrentacinquemila in quella dell'Avana, ottantacinquemila in quella di Pinar del Rio; totale: trecentottantamila. Campos condanna alla deportazione, dalla quale nessuno ritorna, duemila Cubani sospetti; Weyler ottomila e quattrocento.
Fu guerra civile e fratricida quella dei Cubani e degli Spagnuoli? Ma gli Spagnuoli si sono dilaniati fra loro, nel loro stesso paese. Carlisti e Cristini hanno combattuto ferocemente durante mezzo secolo. Cabrera, dopo la battaglia di Moella, fece sgozzare cinquemila prigionieri. I «pronunciamenti» dei generali non si contano più: la parola castigliana è entrata nel patrimonio di tutte le lingue. Riego, Espartero, Narvaez e i loro compagni e seguaci sono a volta a volta padroni del paese, sciolgono e convocano le Cortes, fucilano le persone a centinaia senza giudizio, colmano le prigioni, vuotano il tesoro, confiscano i beni, incendiano le città….
Se il Guyot rammenta e mette in evidenza tutte queste cose, egli non è già mosso da eccessiva simpatia per gli Americani. Quando può, dice la verità anche a costoro. Le finanze spagnuole sono rovinate; ma le americane non prosperano. Per mantenere il regime protezionista ed esercitare in grande la corruzione elettorale, i governanti americani istituiscono le «pensioni liberali», trovano novecentomila veterani, vedove e figli di soldati della guerra di secessione; e, venticinque anni dopo che la guerra è finita, distribuiscono a tutti costoro le entrate delle dogane, settecento milioni di pensioni. E per proteggere i proprietarî delle miniere d'argento, il Tesoro pubblico è costretto a sovraccaricarsi ogni anno di quattro milioni e mezzo d'oncie del metallo invilito! E il debito pubblico sale a più di nove miliardi! E protezionisti a casa loro, questi Americani sfondano, per il vantaggio che ne sperano, le porte di Cuba tenute serrate dai protezionisti spagnuoli!
Nel dire tante amare verità agli ammiratori della Spagna, il Guyot è mosso pertanto da un altro sentimento: dal timore che la Francia sia trascinata ad una stessa sorte. Gl'Italiani che parteggiarono per il popolo iberico non avrebbero dovuto, per moderare i loro entusiasmi, temere dell'avvenire: sarebbe bastato che pensassero al passato. Il danno che noi avemmo dalla dominazione spagnuola fu tanto, che non è ancora cessato. Ecco un libro che lo denunzia e lo misura: la Descrizione del Regno di Napoli, composta nel 1713 da Paolo Mattia Doria, e pubblicata, dopo quasi due secoli, da Michelangelo Schipa. Per mantenere i loro dominî tra noi, gli Spagnuoli corruppero, inquinarono, pervertirono i nostri costumi: la servitù materiale, la schiavitù, sarebbe stata preferibile a quest'opera di dissoluzione sociale. Ma forse essi non intesero pervertirci, ci comunicarono semplicemente, naturalmente, i loro difetti e i loro vizî. E se riuscirono a comunicarceli, bisogna pure riconoscere che vi eravamo predisposti.
«A quel massimo degli umani intelletti, Paolo Sarpi, ragionevolmente parve lo straordinario ingegno una prontissima passività a ricevere e riprodurre in sè anco le minime impressioni degli oggetti o sensibili o intelligibili, e però non altro che una straordinaria e male invidiata malattia, la quale i moderni fisiologi nel moderno linguaggio chiamerebbero lenta encefalite».
Queste righe di Pietro Giordani potrebbero trovar posto nei Precursori del Lombroso del dottor Antonini. Dove il prosatore piacentino diagnosticava una encefalite lenta, i filosofi contemporanei vedono, con l'autore dell'Uomo di genio, una nevrosi, una psicosi, una forma di epilessia. Max Nordau è stato seguace tanto fervente del Lombroso, che ha esteso la teoria oltre le intenzioni del maestro, sino a considerare la più gran parte degli ingegni artistici universalmente ammirati ai nostri giorni come il prodotto di una degenerazione; e Degenerazione appunto ha intitolato il libro nel quale ha discusso l'opera del Wagner e del Baudelaire, del Nietzsche e del Verlaine, del Tolstoi e del Maeterlinck, dello Zola e dell'Ibsen, non già da critico, ma da clinico; e da clinico non pietoso e neppure sereno, ma sgraziato e furioso contro i pazienti. Ora egli mette fuori un volumetto sulla Psico-fisiologia del genio e dell'ingegno, dove il lettore si fermerà stupito a questo passo: «Se io non dico nulla sulle cause che producono il genio, perchè sono ancora ignote, dirò qualche parola sulle relazioni del genio con la pazzia. Altri ha voluto assimilare le due cose. Per un gran numero di alienisti il genio è una nevrosi. Il mio illustre maestro Lombroso è più preciso: il genio è una forma di epilessia; dunque sempre patologico, dunque sempre degenerato. Io credo che questo sia un errore…».
È proprio Max Nordau quello che scrive così? Abbiamo in mano un libro dell'autore di Degenerazione, o non piuttosto quella Fisiologia del Genio dove Giovanni Gallerani ha sottilmente confutato le affermazioni del Lombroso e della sua scuola intorno alla natura patologica delle menti sovrane?
Le parole citate sono proprio del Nordau. E se il caso d'un discepolo ribelle al maestro è sempre notevole, tanto più notevole è questo, quanto che si riferisce ad una quistione palpitante, come si dice, di attualità.
Veramente il Nordau non crede di essersi ribellato al Lombroso, ed è sicuro di essere rimasto d'accordo con sè stesso. Egli distingue i genî autentici da quelli che ne usurpano il nome ed il posto; e dice che, mentre il genio falso è certamente degenerato, il vero genio non è insano; può talvolta patire gravi disordini cerebrali, ma non già perchè nativamente infermo, bensì come scotto della rara potenza dei suoi organi. Lo scrittore crede pertanto di non lasciarsi cogliere in contraddizione: se nel suo primo libro diede nominatamente dell'idiota e del mentecatto a tanti ingegni novatori, ora li mette tutti in un fascio, biasimando che si chiami genio «l'imbecille estatico che si atteggia a profeta o ad artista e che sbalordisce con la sua assurda stravaganza la parte più disgustosa dell'esercito dei filistei: gli snobs estetizzanti…».
Ma il tentativo del Nordau per evitare la contraddizione non è riuscito. Lasciamo per un momento da parte la distinzione fra genî autentici e pseudo-genî, fra genî di primo e di ultimo ordine: consideriamo il genio cui il Nordau concede di chiamarsi tale. Come il Gallerani, egli dice che la potenza di questo spirito straordinario, non solo non dipende da una lesione, da una infermità, ma è anzi l'effetto della perfezione, organica. Note anatomiche speciali egli nega al semplice ingegno; negli uomini d'ingegno non si troverebbe un sostrato organico particolare, uno sviluppo tutto proprio dei centri nervosi. Ogni uomo normalmente costituito può quindi essere uomo d'ingegno e riuscire ottimamente in una disciplina qualunque. Portando alle ultime conseguenze questo suo concetto, il Nordau afferma che l'ingegno non esiste, o almeno che con questo nome non bisogna intendere nulla di specifico: le persone che emergono in una determinata scienza o arte debbono questo risultato non ad una speciale qualità del loro cervello, ma al caso, cioè alle circostanze esteriori per forza delle quali furono spinte a coltivare quella scienza o quell'arte, e all'«applicazione», cioè alla severità, all'assiduità, alla coscienza con la quale la coltivarono.
Tale modo di vedere non persuaderà molti; già il Sighele ha dichiarato che, senza la sua grande ammirazione per il Nordau, questa proposizione dello scrittore tedesco lo farebbe sorridere. Lo scrittore italiano giustamente osserva come tra due fanciulli posti nelle identiche condizioni, educati allo stesso modo, mandati a frequentare la stessa scuola, appariscano attitudini, vocazioni, tendenze diverse ed opposte: il fatto si ripete ogni giorno sotto i nostri occhi, e non si può spiegare senza ammettere quelle doti innate, quelle capacità originarie che il Nordau disconosce. La vocazione per una determinata attività è il più delle volte, a suo giudizio, una cosa tutta negativa; in altre parole: un giovane si mette a studiare, per esempio, la matematica, non già perchè si senta chiamato alla scienza, ma perchè è negato all'arte. Ora queste repugnanze, che sarebbero l'origine delle vocazioni, il Nordau le spiega con una deficienza organica, con una mancanza di sviluppo. Per non voler concedere un sostrato organico alle attitudini, egli lo ammette nelle inattitudini. È lecito dubitare dell'utilità di questa sostituzione e credere che sarebbe stato più semplice assegnare un fondamento anatomico alle capacità.
Negate le naturali qualità dell'ingegno, egli le riconosce nel genio, ed afferma che l'uomo di genio differisce dall'uomo normale per uno speciale sviluppo di due centri cerebrali: i centri del giudizio e della volontà. Ma dove siano e come siano fatti questi centri, egli non dice e non può dire, perchè ancora nessuno li ha visti. «Quali sono», gioverà riferire le sue stesse parole, «questi centri, non sappiamo ancora esattamente; ma col tempo saranno scoperti». Siamo dunque nel campo della pura ipotesi; e certo, data l'angustia dello spirito umano paragonatamente alla formidabile e paurosa grandezza dei problemi che gli sono proposti, l'ipotesi non è uno strumento da disprezzare; ma, prendendo le mosse da semplici supposizioni, il Nordau arriva a conclusioni troppo assolute e veramente discordi. La sua massima argomentazione contro il principio lombrosiano della patologia del genio è la seguente: asserito dapprima che il genio è evolutivo, egli stesso comincia a dubitarne, e presume soltanto che consista nella prima comparsa, in un singolo individuo, di funzioni nuove e perciò di tessuti nuovi, o almeno straordinariamente modificati, i quali diverranno «forse» tipici nella intera razza; quindi chiede: «Ora c'è esempio che una neoplasia patologica sia evolutiva?» Egli ha già dimenticato il «forse» di due righe prima, ha preso per un fatto comprovato ciò che è e che egli stesso riconosce essere una mera ipotesi. E lasciamo anche andare che, mentre nelle operazioni del genio assegna una parte minima al caso, vuole poi che questo caso sia arbitro dei destini dell'ingegno; e lasciamo anche andare che, dopo aver fatto dipendere l'ingegno, oltre che dal caso, anche dall'«applicazione», la quale non è altro che volontà, sostiene poi che solo nel genio il centro della volontà è straordinariamente sviluppato, mentre nell'ingegno resta assolutamente eguale a quello di tutti gli uomini normali.
Si dovrà pertanto affermare quel che il Nordau nega, cioè che il genio e l'ingegno differiscono in quantità, non mai in qualità? La conclusione non è questa. Tra la costituzione fisiopsicologica dell'uomo comune e dell'uomo d'ingegno, di un qualunque militare, per esempio, e di un buon condottiere, non è possibile che non vi sia differenza alcuna, nè di qualità, nè di quantità; si potrà tutt'al più concedere che la differenza sia soltanto di quantità; ma quella che passa tra un buon condottiere e Napoleone è senza fine maggiore, così profonda e radicale, che Napoleone, l'uomo di genio, pare veramente d'un'altra tempra. Il concetto lombrosiano secondo il quale la diversità consisterebbe in una anomalia, ha fautori convinti ed avversarî vivaci: certo è però che il Nordau, dopo averlo seguito, lo nega senza suggerirne uno più soddisfacente.
Ora, come si spiega il mutamento dello scrittore tedesco?
Questa teoria lombrosiana ha suscitato, specialmente negli ultimi tempi, vivaci opposizioni; ma esse procedono da ragioni che non possono essere quelle del Nordau. Ha principalmente nociuto al concetto del Lombroso l'abuso che se n'è fatto. Molti studiosi che lo condividono, e lo stesso maestro che lo ha formulato, ne hanno cercato e addotto nuove prove; ma le prove, certune almeno, si sono ritorte contro di esso.
Per esempio: Cesare Beccaria avrebbe patito di megalomania, perchè, come scrive il Verri, «quando è lodato è pazzo di vanità, ha dello spirito, è brillante. Fate che si cominci a trascurarlo, ch'egli per lo stesso principio vi abbandona e mette la coda in mezzo alle gambe come un bambino». Ma ciò accade non soltanto al Beccaria, sibbene a tutti i filosofi e ad ogni semplice mortale: la lode solletica e la trascuraggine umilia. È questo un sintomo patologico, o non piuttosto il giuoco naturale delle passioni, la legge eterna dell'umana natura? Il grado, l'intensità di questa reazione potrebbe dimostrarne la gravità, il carattere morboso; ma noi non possiamo misurare le reazioni avvenute in chi non è più, sulla fede di ciò che ne scrisse un amico, il quale per suo proprio conto obbediva alla stessa legge delle stesse passioni. La megalomania, da un'altra parte, pare che dovrebbe essere quella di chi ha un concetto di sè troppo grande e sproporzionato alle reali sue qualità; quindi il genio non potrebbe essere, per definizione, megalomane. E, per considerare un altro caso, tutte le volte che l'uomo si propone il problema metafisico, l'ignoranza e il dubbio lo inquietano e turbano: questo è un effetto naturale, non già follia. Tanto più che, dove manca il dubbio, dove si trova una fede cieca, la scuola antropologica vede un'altra follia, una monomania. In tutti questi casi, e negli altri simili, volendo trovare le prove morali della degenerazione e della pazzia, bisognerebbe procedere con somma prudenza; perchè i giudizî sui fatti morali sono molto difficili, e discutibili, e discussi; e perchè, adducendo tutte le passioni e tutti i sentimenti come altrettante prove di pazzia, si potrebbe estendere il giudizio e considerare, secondo ha fatto un certo grossolano buon senso, tutto quanto il mondo una gabbia di matti, e per conseguenza non trovare in nessun luogo l'uomo sano o, come si dice, normale. Quindi, lasciate da parte le prove mal sicure, bisognerebbe cercare le valide e innegabili; invece, l'accumulazione delle prove dubbie dà argomento di critica agli oppositori.
Ma questa non può essere la ragione del mutamento del Nordau. Perchè, non solamente egli non s'inquieta dell'ambiguità delle prove; ma, al contrario, non ha proceduto, nella sua Degenerazione, se non per via di interpretazioni abusive, di esagerazioni arbitrarie, di deduzioni temerarie.
Un'altra ragione per la quale l'affermazione della nevrosi del genio dispiace e suscita opposizione è relativa all'importanza pratica della nuova teoria. Vi sono molti che la condividono, che la credono ormai innegabilmente dimostrata. Ma questi, pure riconoscendo che l'insistenza dei suoi propugnatori è legittimata dagli attacchi degli avversarî, pensano che le prove dubbie possano essere accettate ed accumulate per eccesso di zelo, e ne domandano naturalmente il perchè. La verità è sempre amabile in sè stessa, anche quando non è feconda di conseguenze utili, di pratici adattamenti; ma naturalmente, umanamente, il maggior zelo si rivolge alla difesa delle verità utili; ora, quando si sarà dimostrato a tutti, e insegnato anche nelle scuole, che i genî sono alienati e degenerati, qual è la conseguenza pratica e dov'è l'utilità? Si metteranno al manicomio, o si sopprimeranno, come a Sparta i deboli e contraffatti? No, certamente. Si cureranno le malattie delle quali sono infermi? Neanche, se le malattie sono lo scotto e la condizione del genio, se sono lo stesso genio. Allora, che cosa si farà? Niente, o ben poco. I genî non saranno soltanto ammirati, ma anche compatiti; non soltanto lodati per la loro grandezza, ma anche biasimati per le debolezze e gli errori; la qual cosa, in verità, si è fatta sempre. Alcuni, tuttavia, combattono la teoria del Lombroso perchè temono precisamente che sia diretta, o possa portare a comprimere, a deprimere i sentimenti d'ammirazione che il genio eccita nella mediocre e infima umanità, e a scemarne l'importanza sociale. E ciò che dice, per esempio, il Roncoroni, potrebbe avvalorare il timore. Questo studioso, che il Lombroso cita a titolo di lode, afferma che il genio, il genio quale si è manifestato finora, «non è la più elevata espressione della specie. Infatti, in esso si trova un grande sviluppo di alcuni elementi psichici che, per quanto elevatissimi, non sono, per le necessità del consorzio civile, e conseguentemente per il progresso della specie, così necessarî come quegli elementi, filogeneticamente più evoluti, che in lui vediamo alterati». Ciò significa che la grandezza del genio è poco importante, è poco utile, mentre utilissime e importantissime sono le qualità che a lui mancano? La proposizione sarebbe innegabile se tutti i genî fossero grandi per un verso e deficienti per un altro; ma non pare che le cose stiano a questo modo; perchè noi vediamo, a cagion d'esempio, un genio grandissimo per i sentimenti egoisti, come Napoleone, e un altro grandissimo nel senso diametralmente opposto, come Francesco da Assisi; la stessa opposizione vediamo tra il genio filosofico del Nietzsche e quello del Tolstoi; vediamo ancora altri genî grandi per la forza della fede, ed altri per la forza del dubbio, e via discorrendo. E se le buone qualità sono scontate dalle cattive, se le qualità buone non sono buone del tutto, e viceversa, i benefici effetti del genio compenseranno i perniciosi; i genî non saranno considerati nè come indispensabili nè come inutili al procedere dell'umanità; e quella del compenso e dell'equilibrio parrà veramente una delle maggiori leggi al mondo.
Ora, per tornare al Nordau, qui pare che sia propriamente l'origine del suo dissidio con la scuola italiana. Tutta la sua ipotesi dello sviluppo speciale di speciali centri nervosi tende a stabilire una gerarchia dei genî, e delle facoltà dalle quali dipendono, gerarchia in forza della quale la sensibilità e il sentimento sarebbero inferiori al raziocinio ed alla volontà. Le produzioni artistiche lo fanno sorridere perchè, derivando soltanto da una speciale potenza sensoria e sentimentale, eccitano commozioni, ma non suggeriscono pensieri. Volentieri egli ripeterebbe con un antico matematico al finire di una sinfonia: Qu'est-ce que cela prouve? Nulla, evidentemente: la Nona Sinfonia non prova nulla, ma il Binomio di Newton non fa nulla provare. Tuttavia tale distinzione non dev'essere tanto radicale, se è vero ciò che alcuni matematici moderni vengono affermando e che il visconte d'Adhémar ha ultimamente esposto in uno studio pubblicato nella Revue des deux mondes. Questi matematici, adunque, sostengono che con i loro lavori non pensano tanto di raggiungere certi risultati positivi, quanto di procurarsi una commozione estetica; e la geometria e l'algebra e tutte le scienze esatte non sarebbero soltanto fonti di un godimento artistico, ma anche supreme forme dell'arte. Se questo agguagliamento della scienza all'arte si deve giudicare effetto di una esagerazione, non meno esagerato in senso contrario è il concetto del Nordau, secondo il quale fra arte e scienza c'è un abisso, e tutto il credito è da accordare alla scienza e l'arte ha un valore infimo. Un pianista come Listz è per lui altrettanto geniale quanto un perfetto ballerino: in entrambi l'eccellenza dipende dallo sviluppo dei centri di coordinazione dei movimenti. Il solo senso del colore produce un Mackart, cioè un uomo che sa combinare abilmente le tinte piacevoli come le sanno combinare il clamidodera, il ptilonorinco ed altri uccelli australiani costruttori di pergole multicolori. Un Beethoven o un Raffaello egli concede che si distinguano dai cani ammaestrati: ma saranno da considerare come veri genî? No. «Se il genio è giudizio e volontà a un grado di perfezione straordinario, che cosa farò dei genî emozionali, dei poeti e degli artisti? Ho ancora il diritto di ammettere che i poeti e gli artisti possano essere genî? Ebbene: questo diritto mi pare per lo meno contestabile…». I genî di prim'ordine, i soli veramente degni del nome sono i grandi capitani, i grandi legislatori, i grandi ordinatori degli Stati: con la massima lucidità di giudizio essi hanno una volontà talmente forte da sottoporre e disciplinare tutti gli altri uomini. Poi vengono i grandi inventori e scopritori, nei quali la volontà è meno geniale, perchè non lotta contro le vive forze dei simili, ma contro le resistenze passive della natura. In terzo luogo vengono i genî di solo giudizio, senza corrispondente sviluppo della volontà, cioè i pensatori, i filosofi. Finalmente, nella quarta categoria, quasi come una concessione, il Nordau comprende i poeti e gli artisti. «Questa gerarchia è la sola naturale, perchè poggiata su basi organiche», perchè determinata «dalla dignità dei tessuti e degli organi»; in altre parole: perchè le facoltà del giudizio e della volizione che formano i genî delle tre prime classi sono facoltà esclusivamente umane, senza riscontro nell'inferiore mondo dei bruti; mentre i genî di quarto ordine, i poeti e gli artisti, riconoscono la loro eccellenza dalle facoltà sensitive, le quali non sono del tutto nostre, ma comuni a noi ed agli animali.
Ora, prima di ogni altra cosa, un evoluzionista come il Nordau si vanta di essere può sostenere senza contraddizione che il giudizio e la volontà appartengano esclusivamente all'uomo, che siano apparsi in lui di punto in bianco, che non si riscontrino in grado embrionale, rudimentale, infinitamente piccolo anche nei bruti? Vuol egli mettere da parte tutta una scienza, la psicologia comparata? Certo, la distanza tra le facoltà mentali degli uomini e quelle dei bruti è enorme; ma altrettanto enorme è la distanza dalle facoltà sensitive e sentimentali nostre a quelle degli animali. Nessuno ancora ha visto un animale piangere o ridere; e l'artista che eccita in noi questi moti non li eccita automaticamente; anch'egli si serve del giudizio e della volontà. Certo le capacità si diversificano, si sviluppano variamente e si specificano in un senso o nell'altro; non abbiamo bisogno di ripetere ciò che già dicemmo ragionando dei rapporti della scienza e dell'arte; ma, perchè esse sono distinte, diremo che l'artista non ha nessuna delle facoltà umane dello scienziato, e viceversa; mentre sappiamo che sapienti e poeti furono un tempo, da Empedocle a Leonardo, e possono ancora essere, sebbene troppo raramente, un genio solo? Diremo, col Nordau, che il genio artistico «non è altro che un organetto» capace solo di ripetere meccanicamente certi pezzi di musica, mentre il genio scientifico crea liberamente? Dice egli sul serio quando afferma che il genio scientifico, filosofico, politico è «affrancato» dalle commozioni, dai sentimenti? Dove sono queste separazioni così profonde tra uomini ed uomini? Non sarà creazione, se il Nordau non vuole, quella del poeta; ma allora chi al mondo ha creato mai nulla? C'è qualcosa di nuovo sotto il sole? La creazione, se questa parola si può adoperare, non è tanto degli ordinatori di popoli, quanto degli speculatori di dottrine, quanto dei trovatori di immagini?
La classificazione dei genî non si deve pertanto fondare sulla «dignità» dei loro diversi attributi, i quali sono tutti degni egualmente; potrà solo dipendere dall'utilità delle loro opere. Un legislatore sarà maggiormente venerato che un filosofo, perchè l'opera sua maggiormente importa alla maggior parte degli uomini; uno scienziato avrà più lodi che un artista, perchè le sue scoperte sono più feconde di risultati positivi. Ma l'artista non lavora proprio ad altro che a procurarci un momento di piacere? Non può anch'egli parlare al nostro giudizio? E dato pure che non produca null'altro che sensazioni piacevoli, queste sono del tutto sterili e senza importanza notevole? La poesia non ha la sua utilità nella vita; non è, a giudizio di tanta parte del genere umano, ciò che le dà sapore e prezzo? Dice il Nordau: «Se in una tribù di Pelli Rosse sorgesse un Descartes o un Newton, sarebbe considerato come un membro inutile all'orda: ogni fortunato cacciatore d'orsi, ogni guerriero che porti già le cuti di molti cranî di nemici alla cintura, gli sarà anteposto». Certamente; ma questo esempio ha un significato contrario a quello che il Nordau gli vuole attribuire. In mezzo a Pelli Rosse non sorgono e naturalmente non possono sorgere altro che cacciatori e guerrieri; lo stesso autore ha bene osservato che in una città abitata tutta quanta da ciechi un solo veggente chiederebbe invano che si illuminassero di sera le vie. Ora, se le strade sono illuminate in tutte le città del mondo, ciò accade perchè la gente non è cieca; e se gli artisti che il Nordau tratta con tanta irriverenza sono apprezzati ed amati, ciò accade precisamente perchè la gente è capace d'intenderli. Essi non ci sono già piovuti dalla luna; escono anzi dalle vive viscere di questa nostra società dove non usa più portare alla cintura il cuoio capelluto dei nemici uccisi in guerra, ma si provano nuovi bisogni morali che chiedono urgentemente di essere appagati. E se lo stesso Nordau riconosce che soltanto per un ricordo dei tempi selvaggi e barbari si accorda anche oggi «il posto supremo al soldato», come poi vuole che Alessandro e Cesare e Bonaparte siano da chiamare genî più alti, più puri, più esclusivamente umani di Platone, di Dante, di Shakespeare? Non si potrebbe sostenere con fortuna precisamente l'opposto?
E la stessa idea di questa classificazione, di questa gerarchia, non è poco felice? Se il paragone non fosse, come dice il motto, odioso, non sarebbe inutile? Quando avremo dimostrato che Washington vale più di Vittor Hugo, forse non leggeremo più la Leggenda dei Secoli, o dovremo mettere la statua del suo autore sopra un piedistallo dieci centimetri più basso? E se, per confessione del Nordau, i filosofi dell'avvenire non stimeranno le dottrine del Darwin «più di quanto noi stimiamo oggi le teorie filosofiche di Parmenide o d'Aristotile», se il tempo distrugge le leggi come i quadri, le statue come i regni, le dottrine come gli edifizî, se tutte le cose umane sono egualmente caduche, perchè queste distinzioni?
Ma io dimentico che uno dei libri più singolari di Max Nordau porta un titolo molto significante. Si chiama Paradossi, e da quanto pare non è ancora finito.
Nemico dell'arte, Max Nordau non si contenta di fare il critico, il sociologo, il filosofo, il polemista; egli fa anche l'artista. Il caso è ancora più notevole che dapprima non paresse.
Dei suoi romanzi di un tempo non mette conto parlare; bisogna invece leggere l'ultimo, quello che egli ha pubblicato dopo la Degenerazione e la Psico-fisiologia del genio, cioè dopo i libri dove ha peggio trattato gli artisti e la stessa arte.
Il nuovo romanzo di Max Nordau, che nella traduzione italiana s'intitola Battaglia di Parassiti, porta nell'originale tedesco il titolo di Drohnenschlacht, che vorrebbe più precisamente significare battaglia di fuchi, e alluderebbe ai maschi delle api, i quali sono uccisi quando la loro funzione è compita. Uno dei principali personaggi, Augusta Hausblum, chiarisce questa allusione. Rovinata da un giovanotto scapestrato quando era una modesta e zelante istitutrice, spinta al suicidio, salvata contro sua voglia, caduta nell'abbiezione, ella si è lasciata sposare da un vecchio banchiere straricco, il barone Agostini; in questa nuova situazione dichiara all'avventuriero Henneberg: «L'uomo ha voluto perdermi: gli renderò la pariglia. Sono rimasta già troppo a lungo operaia. Ora voglio diventare regina, e i fuchi debbono lavorare e morire per me».
Pare così che il Nordau abbia voluto discutere nel suo libro la quistione sessuale, il problema dell'amore, la dottrina del femminismo. Questa medesima baronessa Agostini dice alla giovanetta Elsa Koppel, anima d'artista, essere una strana aberrazione nelle donne il correre dietro alla gloria. «Ella non conosce ancora l'ufficio della donna, nè segnatamente i suoi diritti. Tendere alla gloria, signorina, equivale a voler piacere agl'indifferenti. Ora bisogna fare il contrario. Gl'indifferenti debbono affaticarsi per piacere a noi. Noi non concorriamo alle corone, le dispensiamo altrui. Nel torneo della vita non siamo i giostranti, siamo i giudici del campo sotto il baldacchino di velluto. Gli uomini debbono sudare per essere lodati da noi. Noi li eccitiamo a farsi animo e a dimostrare il meglio che sia in loro. Qualche volta veramente anche il peggio. Ma ciò dipende in molte guise da noi. Se non li spronassimo continuamente, gli uomini poltrirebbero e diventerebbero brutti e sudici animali, buoni solo a rimpinzarsi, a fumare e ad accopparsi l'un l'altro».
Se questa è veramente la tesi che il romanziere ha voluto studiare, bisogna dire che l'ha smarrita per via, oppure che ne ha derivato conclusioni molto diverse dalle previste; perchè nella sua battaglia di fuchi non periscono i fuchi soltanto, ma la stessa regina; e peggio ancora, lo scopo della lotta, la conservazione della specie, la continuazione della vita, non è ottenuto.
Henneberg ha incontrato Augusta quando costei era ridotta a vivere vendendosi, e con lei ha passato qualche settimana piacevolmente nelle isole Hyères. La disgraziata, dopo il primo tentativo di suicidio, ne medita un secondo; ma, confortata dall'affetto che Henneberg le dimostra, si riaffeziona alla vita, e spera che egli la redima, sposandola. Henneberg ricusa. Il barone Agostini le offre invece il proprio nome. Ella accetta. Diventata baronessa Agostini, rientrata nella legge, restituita all'onor civile, amata cecamente dal vecchio marito, ella intende serbarglisi fedele. E come Henneberg, al contrario, pretende riaverla, ella gli resiste strenuamente. Allora quest'uomo che non ha voluto sposarla quando era libera, aspetta che il vecchio Agostini muoia per sposarla da vedova!… Frattanto specula alla Borsa, mette su banche, società, sindacati, per far denaro, per mantenere un lusso smodato, per assicurare una gran sostanza alla donna che aspetta di far sua. Il barone Agostini è associato alle sue imprese. La fortuna sorride lungamente agli speculatori; un brutto giorno le cose cominciano ad andar male e rapidamente precipitano. Agostini, quando si vede ridotto sul lastrico, minacciato della prigione, d'un processo infamante, si uccide. Henneberg corre da Augusta e le propone di fuggire con lui: egli vuol mettersi al sicuro per evitare le responsabilità del fallimento, lasciando cadere nel baratro quanti hanno avuto fiducia in lui, i suoi socî, i suoi azionisti, i suoi amici. La baronessa, misurando a un tratto la viltà di quest'uomo, lo discaccia. Egli si prepara a fuggir solo; ma, vinto, accasciato, perduto, si uccide anch'egli. E Augusta impazzisce.
Qual è la moralità della favola? Agostini si è portato con Augusta da galantuomo: l'ha desiderata, l'ha sposata, l'ha riscattata, ha lavorato per lei. E quando non le può dare la ricchezza e l'onoratezza del nome, preferisce sparire. Che la donna salvata e redenta cagioni la rovina del suo redentore non pare una conclusione molto morale. Agostini ha il torto dì essersi unito con una donna molto più giovane di lui. Max Nordau ha voluto forse dimostrare che i vecchi non debbono prender moglie, o non la debbono prendere troppo giovane?… Un altro torto di Agostini consiste nell'avere intrapreso speculazioni non troppo chiare: vuole forse l'autore dimostrarci che la farina del diavolo se ne va tutta in crusca?… Queste conclusioni sono bensì morali, ma non riescono molto nuove.
Henneberg, per conto suo, ha ottenuto i favori di Augusta quando costei li accordava facilmente. La sua funzione di fuco è stata esercitata. Egli potrebbe avere gran torto nell'ostinarsi a riottenere questa donna proprio quando, dopo averla rifiutata come moglie e spinta ad accettare un altro partito, ragionevolmente e doverosamente ella non vuol più saperne di lui. Nondimeno, dopo il suicidio di Agostini, egli la otterrebbe, se non rivelasse troppo brutalmente la bruttezza dell'animo suo. Ella ne è naturalmente nauseata. Ma lo sciagurato paga con la morte le sue brutture; dimostra, morendo, di non essere tutto orribile come pareva. E la donna che voleva esercitare una specie di potere sovrano, che voleva essere come la regina dell'alveare, quando vede morire uno dopo l'altro questi due uomini, questi due fuchi, non ammette più che dovessero morire, non riconosce nella catastrofe il compimento della legge alla quale si appoggiava e della quale si faceva banditrice; ma perde la ragione, come al quarto atto di un melodramma. Allora dove se ne va il concetto della battaglia degli uomini per l'amore, per l'acquisto della donna, per la continuazione della specie? Agostini e Henneberg lottano e muoiono per niente. Augusta, che voleva fare la forte, che voleva sostenere l'impassibilità e la supremazia del suo sesso, è vinta a sua volta.
Qual è dunque il significato, il perchè di tutte queste cose?
Nel romanzo del Nordau non il solo amore è lo scopo della lotta; ma anche, e principalmente, il denaro. Parassiti non sono soltanto i fuchi, gli amanti, ma anche gli speculatori, i giocatori in Borsa, gli adoratori della faccia di Mammone. Henneberg e Agostini hanno intorno una folla avida, cupida, rapace. Anche le brave persone sono invase dalla febbre dell'oro. Koppel, ottimo insegnante, integerrimo padre di famiglia, smentisce tutta una tranquilla vita di lavoro, tradisce i principî socialisti un tempo professati, per buttarsi a capo fitto nella speculazione. Ed all'amico Henneberg che gli rimprovera il voltafaccia, che lo accusa di essersi messo dalla parte di quelli che prima giudicava parassiti, risponde: «Valersi ai propri fini della folla senza nome non mi pare una definizione molto calzante del parassitismo.» Gioca pertanto sui titoli russi, sulle azioni del Mercurio: una grande impresa nella quale è mescolata un'infinità di gente: il generale Zagal, il conte di Beira, il Kohn, avventurieri scaltri, poveri illusi che sognano e quasi raggiungono la fortuna, ma che un triste giorno, alla catastrofe della Società, si trovano con un pugno di mosche in mano, pieni di debiti, con l'usciere e i gendarmi alle costole.
Ora chiunque legge queste pagine ricorda necessariamente un altro gran romanzo straniero: l'Argent di Emilio Zola. Certo non si può dire che la favola messa insieme dal Nordau o i personaggi da lui presentati somiglino alla favola ed ai personaggi del romanzo francese—quantunque un'attenta analisi potrebbe scoprire certe affinità. Per esempio: tanto nella Battaglia di Parassiti come nell'Argent assistiamo al rapido crescere ed al precipitare di una grande impresa bancaria; come si uccide Agostini nella Battaglia, si uccide il povero Mazaud nell'Argent; lo Zola ha contrapposto ai loschi affaristi la figura di Sigismondo, il sognatore di una nuova êra liberata dalla nefanda guerra per il lucro, e Max Nordau contrappone ai proprî imbroglioni la figura di Klein, una specie di filosofo, di stoico, che muore, come Sigismondo, architettando certe sue teorie incomprensibili ai più. Ma, ripeto, nonostante questi punti di confronto, favola e personaggi sono, nei due romanzi, diversi. L'argomento, invece, la tesi, il fenomeno sociale studiato è lo stesso. Ora il paragone tra le due opere è inevitabile. Se pure il Nordau non si fosse mai occupato dello Zola, si potrebbe anche giudicare il suo libro senza far paragoni, senza dar peso alla identità dei due argomenti. Noi potremmo credere che lo scrittore tedesco ignorasse il romanzo parigino; potremmo ammettere che, conoscendolo, abbia voluto riprenderne il soggetto, per quella libertà che ha lo scrittore di scegliere i soggetti che più gli piacciono, non importa se trattati bene o male da altri. Ma non ha il Nordau espresso un giudizio intorno allo Zola? Non ha egli dato a questo scrittore del degenerato e del mentecatto? Non ha detto che l'arte sua è la negazione della verità, della verisimiglianza, della naturalezza? Non ne ha enumerati ad uno ad uno tutti i difetti? Non ne ha disconosciuti tutti i pregi? Allora è naturale, è necessario che la critica e il pubblico domandino:—O vediamo un poco che cosa ha saputo fare il Nordau, sano ed accorto, equilibrato e prudente, abile ed oculato, al posto di quel povero Zola, matto, incosciente e mediocrissimo!…
La Battaglia di parassiti, così com'è, può piacere. Non vi mancano le osservazioni sottili ed acute, vi si trovano alcuni caratteri bene studiati, una certa logica nello svolgersi degli avvenimenti, qualche felice nota umoristica—come quella dei banchieri Zeil, ebrei che prestano denaro al Papa, e degli Agostini, cattolici che aiutano il Gran Turco. Ma quando si paragona il romanzo del Nordau a quello dello Zola, tutt'altro è il giudizio: l'opera dello scrittore tedesco appare povera e scolorita. Tra Saccard e Gundermann, nell'Argent, si combatte una battaglia veramente epica: quei due tipi hanno un rilievo straordinario, sono di statura gigantesca. Intorno a loro formicola tutto un mondo, una umanità piena di vita, indimenticabile. Chi ha scordato Busch, il sozzo affarista riscattato dal cieco amore che porta al fratello, a quel povero tisico che muore sognando una società rigenerata, in quella stessa casa dove si ordiscono i più immondi ricatti? Chi ha scordato quella Méchain che va attorno col sacco pieno di polizze scadute, di cambiali protestate, di titoli avariati, e che raccatta per pochi soldi un mucchio di azioni della Banca Universale, una sola delle quali valeva un tempo più di tremila lire? E i due sposini Jordan, poveri e sereni e felici, immuni dal contagio in mezzo a tanti dannati, a tante vittime della cupidigia? E l'ingenuo e illuso ingegnere Hamelin; e sua sorella, la povera signora Carolina; e la folle baronessa Sandorff, e le disgraziate contesse di Beauvilliers, e le povere orfanelle cui è stato insegnato a pregare il buon Dio perchè aiuti il signor Saccard, e che continuano a recitare l'innocente preghiera dopo che lo sciagurato ha rovinato mezza Parigi; e l'accecato Dejoie, che perde per lui i denari e la figlia, e nondimeno crede ancora in lui e prega il giudice di liberarlo per potergli affidare una seconda volta la fortuna, la vita e l'onore?…
Questo non è il luogo di giudicare l'opera di Emilio Zola, di additarne le esagerazioni e i difetti; ma con tutti i suoi difetti e le sue esagerazioni non mette egli in piedi creature di carne e ossa, non le anima d'un soffio possente, non rende il colore, il calore, il movimento della vita? Max Nordau gli rimprovera la mancanza di proporzione, l'accumulazione di troppi fatti; dice che i suoi romanzi sono, perciò, «mostruosamente e visibilmente falsi». Soggiunge che «egli esercita continuamente, nel modo più esteso ed intenso, quell'antropomorfismo e simbolismo atavistici che sono conseguenza di una mente non sviluppata, o misticamente confusa, naturale nei selvaggi, mentre nei degenerati di tutte le categorie costituisce una forma retrograda dell'intelletto… Egli vede qualunque fenomeno straordinariamente ingrandito, misteriosamente minaccioso, ributtantemente sfigurato…. La critica, senza comprendere l'importanza psichiatrica di tale carattere, ha già da lungo tempo rilevato che in qualunque romanzo di Zola predomina un fatto, sotto forma di idea incoercibile, formante il perno dell'opera, e influente come simbolo terribile sulla vita e sulle azioni dei personaggi…» Queste osservazioni sono giuste in parte, e si adattano specialmente all'Argent Ma il giorno che Max Nordau ha ripreso il tema dello Zola, che altro ha fatto se non seguirne l'esempio? In questa Battaglia non è accumulata una gran quantità di osservazioni, di casi, di episodî relativi alla febbre del denaro? La Borsa, il Giuoco, la Speculazione non è uno dei personaggi principali del romanzo, non vi agisce, non vi ordisce le sue seduzioni, i suoi raggiri, le sue perfidie? La differenza è questa: che lo Zola, esagerando, ingrossando, calcando la mano, ci persuade, ci scuote, ci trascina; mentre il Nordau ci lascia freddi e indifferenti.
La teoria dell'ambiente, dalla quale lo Zola prende le mosse, riesce efficace, secondo il Nordau, in antropologia e in sociologia; ma in arte è «un pervertimento, una confusione». E non ha scritto egli un romanzo d'ambiente? Il suo Koppel, che pareva un uomo sano, non è travolto dall'esempio, non respira il contagio con l'aria, non resta soggiogato dalle circostanze? Lo Zola, «che ride degli idealisti, scrittori dell'eccezionale e dell'inverisimile, ha preso per oggetto dell'opera sua ciò che di più eccezionale si può trovare: un gruppo di degenerati, di maniaci, di deliquenti, di donne perdute e di mattoidi, i quali per la loro morbosa costituzione sono fuori della specie, non appartengono alla società normale, ma ne restano esclusi e sono con essa in lotta continua; estranei al tempo e al paese nel quale vivono, per la loro natura non sembrano neppure membri di un qualche popolo civile del presente, bensì un'orda di selvaggi primitivi, dei più remoti secoli». Ma forse che Henneberg e Zagal e il re di Laos e Pfister e la famiglia Rigalle sono stinchi di santi, gente per bene, tipi ordinari? «Il campo nel quale si muove lo Zola è quello del romanzo popolare a fascicoli, vale a dire di un romanticismo deperito, che non svolge i suoi sogni nei palazzi come il romanticismo già in voga, ma nelle taverne, nelle carceri, nei manicomî, e si tiene tanto lontano dallo strato medio della vita normale quanto già il romanticismo antico in direzione opposta». Ma crede forse il Nordau di essersi per proprio conto tenuto nello «strato medio della vita normale»? Crede che storie di fortune e di rovesci, di suicidî e di pazzie come quelle narrate nella sua Battaglia accadano tutti i giorni? Egli che se la prende non solo con lo Zola, ma anche con gli altri naturalisti; che accusa il Goncourt di farci «ballare dinanzi agli occhi tipi senza carne, composti di fumo e di nebbia,» è poi sicuro di non aver composto con la stessa ricetta qualche personaggio del suo romanzo, come Henneberg, ribaldo capace di pagare con la vita le sue ribalderie; o meglio come l'Augusta, angelo caduto nel fango, mercantessa di baci che diviene poi moglie esemplare, spirito emancipato e ribelle che si mostra poi ligio a quanto credeva pregiudizio? Egli che accusa e deride gl'impressionisti alla Daudet non si è proprio ricordato, sia pure inconsciamente, di nessun personaggio del Daudet, quando ha descritto la famiglia Masmajour e il re di Laos e il generale Zagal?…
Lo Zola ha più volte dichiarato di aver fatto, coi suoi romanzi, altrettanti esperimenti scientifici. Tutto ciò che il Nordau dice di questo preteso romanzo sperimentale, ingiurie a parte, è giusto. Il romanziere non fa esperimenti, propone a sè stesso e risolve a modo suo i casi umani e i problemi sociali; ma se l'affermazione d'aver fatto opera di scienza è da parte di Emilio Zola insostenibile, crede forse il Nordau di aver fatto opera di clinica quando ha affibbiato allo Zola, al Wagner, al Tolstoi, al Maeterlinck, all'Ibsen e a tanti altri una quantità di malattie, di manie, di psicopatie, sulla fede degli aggettivi e degli avverbî che questi scrittori hanno adoperati?
Criticare, da che mondo è mondo, è stato sempre facile. Difficilissimo è mettersi al posto del criticato e fare meglio di lui. Finchè Max Nordau scriveva libri come la Degenerazione, poteva esser creduto molto abile; questa Battaglia di Parassiti è stata un'imprudenza.
Quando si studiano i sinonimi, i primi e quasi direi classici esempî che i maestri ne dànno sono coraggio e temerità, timidezza e paura. Fra questi moti dell'animo passano differenze che ciascuno di noi sa valutare, per averle direttamente provate, dentro di sè. Fanciulli, se non potevamo entrare di notte in una stanza buia, eravamo paurosi; se invece, sapendo benissimo la nostra lezione, la presenza del signor ispettore, in iscuola, ci imbarazzava, eravamo timidi. Con gli anni, se la paura cessa—o per meglio dire cambia d'oggetto; perchè i più bravi ne conoscono, dinanzi a certi spettacoli o a certe idee, i freddi sudori—la timidità inceppa troppe volte chi sembra più sicuro di sè.
Questa incapacità di vivere merita di essere studiata, perchè è uno dei caratteri del nostro tempo. Il «male del secolo», la malinconia romantica il pessimismo filosofico ne sono altrettante manifestazioni. Pare che la volontà, l'energia operosa e la stessa attività vitale vadano di giorno in giorno scemando. A vantaggio del pensiero? Può darsi. A scapito della salute fisica e morale senza dubbio.
Il pensiero contemporaneo ha, come abbiamo visto, andamenti scientifici. L'invasione della scienza nel campo che ora esaminiamo si è manifestata con la riduzione di tutti quanti i fatti morali ad altrettanti casi clinici. Il genio non è sano, paga con incapacità, disequilibri e infermità la sua forza; ma ogni sentimento forte, ogni vivace passione dei genî e dei non genî sono considerati come patologici. Veramente il fatto, riguardo alle passioni, non è del tutto nuovo, visto che passione viene appunto da patire; ma oggi noi tutti abbiamo una tendenza ad aggravare la cosa.
Dell'amor proprio e dell'ambizione diciamo che sono megalomania; la cautezza è abulia o follia del dubbio; chi opera risolutamente è invece impulsivo. La vaghezza del nuovo è neofilismo, la predilezione dell'antico è misoneismo o archeofilismo. Ogni tanto accade, non solo ai profani, ma anche agli studiosi, di imbattersi in una parola nuova che occorre interpretare con l'aiuto del greco. E siccome il vocabolario greco è molto ricco, e le combinazioni di parole sono infinite, così noi potremo dare nomi ellenicamente scientifici a tutti quanti i sentimenti e le cose. Già in una fabbrica milanese la cioccolatta è diventata teobroma.
Il Dugas, che ha preso a studiare la timidezza, non propone un nome scientifico per essa; ma la considera come una vera malattia, come un vero disordine delle diverse facoltà psichiche: della volontà, dell'intelligenza e dei sentimenti. Come disordine della volontà, soggiunge, la timidezza si può chiamare più propriamente goffaggine, ed è una specie di paralisi o scompiglio dei movimenti, per cui noi restiamo inerti o siamo incapaci di atteggiarci e di muoverci bene. Come disordine dello spirito, la timidezza si può chiamare attonitaggine o assenza: essa si rivela con l'impossibilità di seguire i ragionamenti altrui, o con l'incapacità di ordinare i nostri; sarebbe, in altre parole, ii contrario della presenza di spirito. Finalmente, come disordine affettivo, la timidezza si può chiamare stupore, e consiste nella perdita o nella confusione dei sentimenti. «Mi sembra», dice l'Amiel, che conobbe troppo bene questa particolare varietà, «mi sembra di esser divenuto una statua sulle rive del fiume del tempo. Mi sento anonimo, impersonale; ho l'occhio fiso come un morto, lo spirito perplesso e universale come il nulla o l'assoluto; sono in sospeso, sono come se non fossi…» E il male è che tutti e tre questi stati dell'animo sono coscienti. Esser goffo o attonito senza saperlo non è esser timido; timido è chi sa di dover essere, in certe occasioni, attonito e goffo.
Il Dugas, se ammette che il male dipende quasi sempre da speciali condizioni organiche, riconosce pure che è determinato da cause esteriori; non lo considera soltanto da scienziato, ma anche da filosofo, da moralista. L'origine morale del consorzio sociale, egli dice, è la simpatia, intesa in senso largo, cioè come corrente nervosa che si propaga da un individuo all'altro e fa che ciascuno di noi tenda ad uniformarsi istintivamente a coloro tra i quali vive, a imitare i loro atti, a condividere le loro idee, a partecipare ai loro sentimenti. Il timido-nato è incapace assolutamente di questo adattamento; i timidi, che chiameremo intermittenti, o d'occasione, sono tali quando si trovano in presenza di gente nuova, di persone con le quali non hanno dimestichezza, o dalle quali, per una ragione o l'altra, repugnano. Mettete un uomo cordiale insieme con un individuo chiuso e freddo: sarà subito intimidito; intimidito sarà un uomo di spirito dinanzi ad uno stupido. In tutti questi casi la timidità dipende da vera e propria antipatia, dall'impossibilità della simpatia. E, a guardarla per il sottile, bisognerebbe dire che antipatia e timidezza sono universali e fatali. Se noi siamo veramente inaccessibili gli uni agli altri; se, come aveva già detto il Taine, «nessuna creatura umana è mai compresa da nessuna creatura umana», la simpatia, e perciò l'adattamento, riescono impossibili. Ma le cose non vanno fortunatamente così: nella maggior parte del casi antipatia e simpatia operano insieme; mentre una corrente respinge, un'altra corrente di egual forza attrae: più che dal soppravvento dell'antipatia, come vuole il Dugas, la timidezza nasce appunto da questo contrasto.
Avvicinate un uomo comune, mediocre, ad un genio: osserverete subito nel primo confusione ed impaccio; ma possiamo dire che dipendano soltanto dall'antipatia? Certo, quando l'uomo comune pensa alla sua mediocrità, alla distanza che lo separa dalle vette del genio, si sente tanto umiliato da provare avversione; ma egli prova pure, nello stesso tempo, ammirazione per la magnificenza del genio e gratitudine per le commozioni ineffabili che questo gli ha procurate; e l'ammirazione e la gratitudine che tendono ad esprimersi sono forme di simpatia grande e vivace: la timidezza dura quanto il contrasto.
Il Dugas avrebbe potuto scrivere un bel paragrafo intorno alla timidezza sessuale. Fra uomini e donne, con l'istinto e col bisogno della simpatia e dell'accordo, vi sono differenze organiche, intellettuali e morali che producono, in un grado più o meno forte, e per un tempo più o meno lungo, freddezza ed ostilità; anche qui la timidità nasce dal dissidio.
Molto acute sono le osservazioni dell'autore intorno al sentimento di vergogna che accompagna la timidità: i timidi si guardano dalla gente dalla quale temono di essere scoperti; ma se la pigliano anche con loro stessi, per l'incapacità di fare come gli altri. «La timidezza», ha detto Benjamin Constant, «ricaccia nel nostro cuore le impressioni più profonde, snatura sulla nostra bocca tutto ciò che tentiamo di dire e ci consente di esprimerci soltanto con parole ambigue, o con un'ironia più o meno amara, come se noi volessimo vendicarci sui nostri sentimenti del dolore di non poterli manifestare». Ma se la timidezza è spesso una falsa vergogna, essa è anche una specie di pudore. Dinanzi a certi spettacoli che li commuovono sino alle intime fibre, i timidi restano muti; quantunque sappiano che i loro sentimenti, se li significassero, sarebbero approvati e lodati, essi tacciono per discrezione, per rispetto di sè stessi, per non scemare e disperdere i sentimenti loro, comunicandoli. Un poco d'egoismo non si trova in fondo a questo stato d'animo che il Dugas approva?
Un appunto che non si può tralasciare di fargli è il seguente: assegnando come causa della timidezza una sensibilità eccessiva, egli dimentica di notarne un'altra, che è la smodata immaginazione. Se i timidi sono impressionabilissimi, se non credono di essere indifferenti a nessuno, se dovunque vedono testimonî intenti a spiare e a giudicare i loro atti e i loro pensieri, questo effetto è in gran parte dovuto a un'immaginazione vivace e incapace di sottoporsi alla realtà. I maggiori timidi che il Dugas cita ad esempio nel suo libro si trovano fra i romantici, a cominciare dal Rousseau; ora i segni particolari dei romantici sono la sensibilità troppo acuta e l'immaginazione disordinata. Il Dugas si accosta anch'egli a questo giudizio, ma per altre vie, quando osserva che nei timidi, con l'esaltazione e la sottigliezza dei sentimenti, si produce la coscienza d'essere originali, la presunzione d'essere rari ed unici; coscienza e presunzione che sono comuni a tutti i romantici.
Da questa idea della propria singolarità, i timidi sono spinti ad isolarsi; e la solitudine, se da una parte genera egoismo, procura dall'altra aspirazioni nobili ed alte. Giacchè la timidezza ha del buono e del cattivo: è una disposizione morbosa, ma anche una crisi normale, e pertanto può essere incoraggiata e combattuta, secondo i casi. Come difficoltà di adattamento, essa è un fatto ordinario. L'uomo non nasce con la scienza della vita; questa scienza dev'essere appresa a poco a poco: tutte le volte che noi abbiamo il sentimento della nostra imperizia siamo intimiditi, la qual cosa, naturalmente, ci accade molto più spesso nella fanciullezza che non nella maturità. E come stimolo a vincere le difficoltà che ci si presentano, a riflettere sui nostri atti, a saperli adattare al conseguimento dei fini, la timidezza è giovevole. Il timido non è sempre inventivo; ma chi non prova mai difficoltà di sorta è sempre un mediocre imitatore degli altri. Esser sicuri di sè stessi è senza fine preferibile ad esser timidi; ma la sicurezza vera e degna dell'uomo non è quella che dipende dalla cecità mentale o morale, o della presunzione; sibbene quella che proviene dalla timidezza superata e vinta. Ma quando la timidezza è tale che, invece di stimolarci a trionfarne, ci accascia e confonde, allora è di grave danno.
Anche in tali casi, tuttavia, essa può avere qualche vantaggio. L'incapacità di adattarsi alla vita pratica, che è dei timidi nati ed ostinati, spinge alla vita speculativa o immaginativa, alla scienza o all'arte. Il Wagner ha detto: «Se noi avessimo la vita, non avremmo l'arte. Se io potessi ritrovare la mia gioventù, la salute, la natura, una donna veramente amante, guarda: darei tutta l'arte mia.» E i difetti del timido nella vita, la sua smania di originalità, il suo scrupolo di perfezione, sono altrettante qualità del timido che si dà all'arte. Ciò è vero tuttavia sino a un certo segno. Lo sviluppo delle doti artistiche non è sempre agevole nel temperamento timido; alle volte anzi è del tutto impedito, come nell'Amiel, il quale diceva di sè stesso: «Tu hai lasciato, per timidità, l'intelligenza critica divorare dentro di te il genio creatore». E se il troppo ricercare la perfezione riduce all'impotenza, il troppo compiacersi nella singolarità conduce alla stravaganza, che è forse peggio.
Per concludere: l'educazione deve saper discernere ciò che nella nativa timidezza di ogni uomo è qualità favorevole, da ciò che è pericoloso; e moltiplicare lo condizioni vantaggiose e combattere le funeste.
Le pagine che il Dugas dedica a questo punto del problema morale sono fra le più belle. Il mezzo migliore per vincere la timidità perniciosa, per acquistare la fidente padronanza di sè stessi è il medesimo, egli dice, che il Pascal suggerisce agli scettici perchè credano: fare come se si credesse. Il timido deve agire e parlare come se non fosse tale, dimenticando le proprie repugnanze, addomesticandosi con le persone e le cose dalle quali vorrebbe star lontano. I più timidi fra i timidissimi si trovano pure a loro agio in molte occasioni: da che cosa viene questa loro sicurezza? Dall'assuefazione. Bisogna dunque mutare in abituale tutto ciò che incute timidità.
Questa educazione morale, sulla quale torneremo or ora, è un mezzo di riuscita molto più sicuro che non il rimedio fisico adoperato da un timido degno di passare alla storia. Costui ricorreva… alla cocaina. Siccome la cocaina ha la virtù di rendere l'occhio momentaneamente immobile, così egli ne prendeva una buona dose per poter guardare in faccia i proprî interlocutori e non esserne sgominato!
In verità questo secolo, se non fosse il secolo della scienza, sarebbe quello della critica. L'occupazione prediletta, non solamente dalla folla incapace di far altro, ma anche dalle persone illuminate, è quella di criticare uomini e cose. Certo il fenomeno si spiega con la grande facilità della critica paragonatamente alla difficoltà della creazione; ma poichè esso, quantunque antichissimo, pure si è tanto aggravato ai nostri giorni, conviene vedere se non c'è un'altra ragione, presente, attuale, che spieghi la recrudescenza.
La ragione c'è ed è grave, e consiste nell'infiacchimento delle volontà. La timidezza della quale abbiamo ragionato ne è un semplice caso.
I libri sacri dicono che l'uomo fu condannato, per non aver osservato la legge divina, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Sarà forse per il fallo antico; ma quello di guadagnarsi il pane, come ogni altro lavoro, attento, paziente, continuato, fu ed è tuttavia considerato, da tutti quanti gli uomini, come una pena. Dai selvaggi ai fanciulli, che sono i selvaggi delle società civili, mettersi a fare qualche cosa che richieda attenzione e perseveranza, è difficile e repugnante. Ciò accade anche agli uomini ragionevoli. Il più gran numero delle persone che finiscono gli studî conseguendo una laurea o un diploma, spendono nel rimanente della loro vita la scienza acquistata in gioventù, giudicandola sufficiente, rinunziando ad accrescerla. I più forti lavoratori, quelli cui più sorride il premio delle fatiche scientifiche, letterarie o artistiche, conoscono quell'istinto d'inerzia, quel senso di fastidio, d'anticipata stanchezza e di sfiducia che bisogna ordinariamente superare prima di mettersi all'opera.
Questa universale indolenza non impedisce gli scatti dell'energia. Se di tanto in tanto gli uomini non fossero capaci di risoluzioni e d'azioni, perirebbero certo in poco tempo tutti quanti. Quando gli istinti gridano, quando i bisogni urlano, la volontà opera; ma, ottenuto l'appagamento necessario, lo sforzo cessa, e il dolce far niente torna ad essere lo stato prediletto. L'uomo è tanto superiore al bruto, possiede tante facoltà alte e nobili che sono la sua forza e il suo orgoglio; pure, nella maggior parte dei casi, la sua attività tende a manifestarsi come quella degli animali, a scatti, volta per volta, secondo che la necessità del momento richiede. Lo sforzo è penoso; senza immediato bisogno non si affronta. Il bisogno, la necessità, che sono per conto loro altrettante pene, lo fanno accettare come il solo mezzo adatto ad acquetarle; durante lo stato penoso determinato dal bisogno, la pena dello sforzo passa inavvertita, assorbita dalla pena maggiore. Le facoltà intellettuali, che sono privilegio degli uomini, dovrebbero, facendo antivedere i futuri bisogni, dandoci coscienza delle molte e continue difficoltà, persuaderci della convenienza dello sforzo continuato, dell'energia costantemente sostenuta, dell'attenzione sempre vigile; ma queste cose repugnano. Se gli uomini ne fossero capaci, se ne fossero capaci tutti, chi può dire che cosa sarebbero la scienza e la civiltà?
Uno psicologo francese, Giulio Payot, facendo queste osservazioni nell'Educazione della volontà, crede, col Ribot, che i primi sforzi di attenzione volontaria furono dovuti alle donne delle tribù selvagge, costrette, per evitare le bastonate, a un lavoro regolare, mentre i loro uomini si riposavano beatamente. Questo giudizio, fra parentesi, potrebbe far credere che l'autore sia femminista; ma, se egli trova la capacità riflessiva nelle donne selvagge, dice pure che le nostre donne sono altrettante marionette—«marionette artificiosamente composte, e coscienti senza dubbio, ma col principio di tutti i loro movimenti nella regione dei desiderî involontarî e delle suggestioni esteriori»; e che si ha un bell'impartir loro gli alti insegnamenti: «esse non arrivano alla solida cultura. Possono mandare a memoria una quantità di cose; ma non aspettate da loro nessuno sforzo d'immaginazione creatrice. Difficilmente si ottiene che esse abbiano una personalità; e il Manuel, da lunghi anni presidente della Giuria d'aggregazione delle signorine, lo accerta in molti dei suoi rapporti annuali».
Ma lasciamo stare il femminismo, del quale abbiamo già tenuto troppo lungo discorso, e torniamo alla volontà. Il Payot dà un buon esempio storico dell'indolenza abituale e degli impeti momentanei di tutto un popolo. «Gli Arabi», dice, «hanno conquistato un vasto impero. Essi non lo hanno conservato perchè è loro mancata la costanza degli sforzi con la quale si ordina l'amministrazione di un paese, si fondano le scuole, si creano le industrie». Un esempio più semplice, ma più vicino a noi, è quello offerto dal novanta per cento degli studenti, che tutti gli anni, d'estate, insaccano scienza per passar l'esame, e che, ottenuta la promozione, tornano all'ozio consueto. Un certo numero di essi studenti stanno di mezzo tra gli oziosi e i diligenti: il Payot li dice intenti ad un «lavoro ozioso:». Sono quelli la cui attività manca di direzione; «poichè l'energia della volontà si rivela non tanto negli sforzi molteplici, quanto con l'orientazione verso un medesimo fine di tutte le potenze dello spirito. Ecco qua un tipo di ozioso molto frequente: è un giovane vivace, gaio, energico. Resta di rado senza far nulla. Durante il giorno ha letto qualche trattato di geologia, un articolo di Brunetière su Racine, sfogliato alcuni giornali, riletto qualche nota, abbozzato uno schema di dissertazione, tradotto alcune pagine d'inglese. Non un solo istante egli è rimasto inattivo. I suoi compagni lo ammirano per la potenza del lavoro e la varietà delle occupazioni. Per lo psicologo, c'è in questa molteplicità di lavori soltanto l'indizio d'una attenzione spontanea abbastanza ricca, ma non ancora divenuta attenzione volontaria. Cotesta pretesa potenza di lavoro svariato non rivela se non una gran debolezza di volontà».
Fermiamoci qui un momento. Il Payot se la piglia legittimamente contro questo tipo di studente che chiama sparpagliato; ma non pensa che la colpa non è tutta imputabile all'infelice. L'attività dello studente si sparpaglia perchè egli non è capace di concepire e di porre in esecuzione un piano di studî; ma a produrre quest'effetto non ha anche contribuito l'eterogenea molteplicità delle cose che gli hanno dato da studiare? Il Payot parla della geologia, della letteratura e della lingua inglese; ma bisogna mettere nel conto la fisica e la geografia, la chimica e la storia, la filosofia e la botanica, il latino e la zoologia, la statistica e il greco. Diremo noi, come il Payot inclina a credere, che la colpa sia di chi ha compilato i programmi degli studî? La riforma dei programmi eviterà mai questo prodigioso cumulo di discipline? Non dipende esso dal prodigioso accumularsi del sapere umano? E che diremmo di programmi i quali trascurassero la diffusione di parte del sapere? Ecco qua: mentre scrivo, Errico Panzacchi pubblica un articolo, che è molto lodato, per dimostrare la necessità d'impartir nelle scuole l'insegnamento della storia dell'arte, e Ugo Ojetti lo approva, notando come un caso scandaloso che uno studente di lettere ignorasse dove è posta e da chi scolpita la statua di San Giorgio. Non è veramente scandaloso? Non bisogna istituire il nuovo insegnamento? La storia dell'arte, necessaria agli artisti, non è utilissima a ognuno? E, con la storia dell'arte, non vi sono tante altre cose non meno utili e necessarie a sapersi? Tutte le volte che il patrimonio intellettuale si accresce,—e questo fatto accade tutti i giorni,—non è naturale che le nuove nozioni siano partecipate agli studiosi, a tutti gli studiosi? E il patrimonio intellettuale non è di tanto cresciuto, che abbiamo visto la necessità di creare nuove scienze, di conferire la dignità di discipline indipendenti ai rami delle antiche discipline? Non abbiamo creato la psicologia, la statistica, la fisiologia, la sociologia, la biologia, la chimica organica, l'antropologia, la psichiatria, e via discorrendo? Se i cervelli non ci resistono, se le attenzioni più deboli si sparpagliano, la colpa non è tutta loro; la colpa è anche del tempo troppo sapiente, della civiltà troppo progredita in mezzo alla quale sono nati. L'avvocato, il medico, il professore hanno una biasimevole tendenza a vivere della scienza acquistata bene o male durante gli studî; ma, se anche essi volessero, potrebbero seguire tutto quanto il movimento delle loro discipline? Non avrebbero, in verità, neppure il tempo di sfogliare quel che si stampa. Il progresso della scienza è dovuto agli specialisti, a quelli che scelgono un capitolo, un paragrafo, un comma del gran libro dello scibile, e che dimenticano interamente il resto. Dall'altra parte stanno i volgarizzatori enciclopedici, quelli che sanno di tutto un poco e niente a fondo. Noi parlavamo, iniziando questi nostri ragionamenti sopra alcuni caratteri del tempo presente, della rarità delle opere di lunga lena, organiche, metodiche. Guardiamoci intorno: quali sono le pubblicazioni più copiose? Sono le memorie e i giornali. La memoria, che in poche pagine presenta il frutto di anni e anni di ricerche sopra un punto particolarissimo della scienza; il giornale, che sfiora la sociologia, la statistica, l'etnografia, la psicologia, la storia, la letteratura, la biologia, tutte quante le scienze. Il Payot nota bensì il danno prodotto dal giornale; ma non pensa che il giornale prospera appunto perchè soddisfa un bisogno della nostra società; e il bisogno di tutti quanti noi è quello di far presto; ai nostri giorni si corre, bisogna correre, sui tranvai, sulle ferrovie, sui piroscafi o sulle biciclette; bisogna volare col pensiero sui fili elettrici e sulle colonne del giornale. Presto e bene raro avviene, dice il motto; e la mediocrità è naturale conseguenza della fretta. Il trionfo delle velleità sulle volontà, l'esaurimento delle energie ne è un'altra.
E il Payot non tiene conto di un'altra fatalità del nostro tempo, dalla quale anche dipende l'abulia, l'incapacità di volere e di agire. Questa fatalità è il trionfo dell'analisi.
La psicologia dimostra che un atto concepito è un atto cominciato, che fra l'idea dell'atto e l'atto stesso non c'è differenza essenziale. Dobbiamo concluderne che pensiero ed azione sono tutt'uno? In fisica abbiamo un certo numero di forze: la luce, il calore, l'elettricità. Uno studio attento ha portato ad affermare che esse non sono tanto diverse quanto sembrano, che anzi l'una si può mutare nell'altra, e che insomma la forza è unica e varie ne sono soltanto le manifestazioni. Ma che cosa importa questa nozione? Perchè l'elettricità è o può essere calore, diremo noi ad un assiderato di prendere in mano i fili di una corrente elettrica per riscaldarsi? Perchè il calore è luce, consiglieremo a chi non ha candele di mettersi a scrivere dinanzi alla bocca di un forno? Nel mondo delle forze vi sarà unità fondamentale; ma le manifestazioni dell'unica forza sono tanto diverse come se dipendessero da forze realmente diverse. Così nel mondo della materia. Abbiamo in chimica una quantità di sostanze che si possono considerare come risultanti dal diverso aggruppamento molecolare di una sostanza unica, elementare, primordiale; ma il fiele ed il miele, l'acqua e la pietra saranno perciò la stessa cosa?
Altrettanto dicasi del mondo morale. Vedemmo già che la riflessione dalla quale dipende la scienza, e l'ispirazione dalla quale nasce l'arte, sono in fondo tutt'uno: ma vedemmo pure che arte e scienza, non che confondersi, si sono sempre più distinte. L'energia vitale è una sola: non si può agire senza pensare, non si può pensare senza agire; ma ciò non vieta che questi due modi dell'attività umana si distinguano sino ad opporsi e ad escludersi. Chi si butta a capo fitto in una pugna, e dà e riceve colpi mortali, non può risolvere casi di coscienza. Archimede che medita sopra un problema, non solo non fugge all'avvicinarsi del nemico, ma non lo sente neppure avvicinarsi. Ora l'abito di riflettere continuamente, assiduamente, troppo, impedisce, od ostacola la capacità di risolversi, di agire; viceversa l'azione incessante diffusa, febbrile, non è compatibile con la meditazione. Per crederle compatibili, il Maeterlinck ha dovuto dire che agire è «aspettare, tacere e raccogliersi». Appunto uno dei caratteri del nostro secolo, di questo tempo progredito, sapiente, cosciente, troppo cosciente, è la preminenza del raccoglimento, dell'analisi di coscienza, dell'esame interiore, del pensiero speculativo. Quella stessa moltitudine di cognizioni che disvoglia tanti dallo studio per la sua troppa varietà, invoglia altri allo studio; e che altro è lo studio se non riflessione ed analisi? E gli uomini di studio non sono, per l'esperienza che ogni giorno ne vediamo, tutto il contrario degli uomini d'azione? L'infiacchimento della volontà operosa, fattiva, non è soltanto effetto del pensiero riflessivo; ma anche causa. Noi non operiamo molto perchè pensiamo troppo; e pensiamo troppo perchè operiamo poco. I due fenomeni sono ad un tempo causa ed effetto l'uno dell'altro. La guerra contro i simili e contro la natura è la dura legge dei popoli selvaggi: essi non hanno dimora stabile, errano di luogo in luogo come un gregge, si riparano, combattono, agiscono; non pensano, o pensano quel tanto che bisogna per agire. Le società civili, che non emigrano più, che non si dilaniano più—o quasi—che sono assicurate quanto è possibile dai nemici naturali, studiano, meditano, pensano. Cercate un Amiel tra gli Unni: sarà alquanto difficile trovarlo; viceversa gli Attila sono—almeno per ora—scomparsi. Noi non abbiamo grandi cose da fare, perciò pensiamo; e quanto più pensiamo, tanto meno capaci diventiamo di operare.
Il Payot, mettendo come condizione della volontà operosa la riflessione meditativa, nega che tra le due vi sia antinomia. Egli dice che il concetto dell'incompatibilità dipende da una confusione. Azione e riflessione sono incompatibili, spiega, se si confondono gli agitati con gli uomini d'azione veramente degni del nome. «L'agitato è il contrario dell'uomo d'azione. L'agitato ha bisogno d'agire: la sua attività si manifesta con l'azione frequente, incoerente, fatta giorno per giorno. Ma siccome nella vita, in politica, etc., si riesce soltanto per mezzo della continuità dello sforzo in una stessa direzione, quest'agitazione sussurrona fa molto rumore, ma poco o punto profitto. L'attività orientata, sicura di sè stessa, implica la meditazione profonda. E tutti i grandi attivi, come Errico IV e Napoleone, hanno, prima d'agire, lungamente riflettuto». Alle quali osservazioni si risponde che la distinzione fra agitazione e attività è giusta, ma non prova nulla, o ben poco. Certo: fra il pensiero profondo e l'agitazione scomposta e pazzesca c'è opposizione evidente; ma ciò non vuol dire che tra riflessione indefessa e attività fruttuosa vi sia identità. In alcuni grandi uomini, molto rari, che sono per ciò oggetto di tanta ammirazione, pensiero ed azione possono darsi la mano; ma, se è vero che essi sono eccezioni, non bisogna addurli come prova della regola. Il gas dà luce e calore insieme, ma ciò non vuol dire che non vi siano calori oscuri e luci fredde. E poi, se la grandezza dell'azione implica la grandezza del pensiero, la reciproca non è altrettanto vera. Per fare grandi o anche piccole cose, bisogna certo aver pensato poco o molto; ma si può pensare moltissimo senza far quasi nulla. E questo è appunto il pericolo, anzi l'inconveniente lamentato. Suggerire di meditare per agire è inutile, se non dannoso. Non il pensiero ci fa difetto; al contrario: noi pensiamo troppo. A chi affoga non pare che sia da offrire un bicchier d'acqua.
È vero che il Payot consiglia la riflessione meditativa come mezzo di affrancarsi dai pregiudizî, di confutare i luoghi comuni del pensiero volgare, pigro e fiacco, di eccitare nell'animo gagliardi impulsi e vivaci repulsioni. Non è possibile, in questo senso, negare l'efficacia dell'abito riflessivo. I cretini e gli apati non riescono a far niente. La grandezza del pensiero interiore è condizione delle grandi cose, dei grandi fatti; ma il pensiero può esaurirsi sterilmente, inutilmente; e l'abuso è da evitare.
Altro punto della quistione. L'energia della volontà non è possibile in un corpo debole: l'educazione dev'essere dunque non soltanto intellettuale e morale, ma anche fisica. E questa cosa è certa. Certa cosa è pure, come nota il Payot, che non bisogna confondere la salute con la forza muscolare, e che gli esercizî violenti in onore presso gl'Inglesi e gli Americani sono tanto criticabili quanto lodevoli i razionali esercizî ginnastici ai quali si dà la gioventù svedese. «Le grandi vittorie umane non si guadagnano più in nessun luogo coi muscoli, bensì con le scoperte, con i grandi sentimenti, con le idee feconde: e noi daremmo i muscoli di cinquecento lavoratori della terra, più quelli totalmente inutili di tutti gli uomini sportivi, per la poderosa intelligenza di un Pasteur, di un Ampère o di un Malebranche». Ma la quistione è appunto questa: che il numero dei pensatori, o più semplicemente degli individui pensanti, tende sempre a crescere; e se i Pasteur, gli Ampère, i Malebranche sono rari, numerosissimi sono invece gl'infelici che pagano col nervosismo, con la neurastenia, con la rovina della salute, l'abuso delle facoltà intellettuali. «È cosa evidentissima», dice il Payot, «che l'ufficio della forza muscolare diminuisce di giorno in giorno, poichè l'intelligenza la sostituisce con le forze incomparabilmente più potenti delle macchine; e da un'altra parte la sorte degli uomini dotati di muscoli possenti è di essere assimilati sempre più alle macchine…». Ma, se l'ufficio della forza muscolare diminuisce di giorno in giorno, diminuisce per conseguenza la stessa forza: un organo non adoperato s'indebolisce, una forza non esercitata si perde. E questo è il danno del quale siamo spettatori: nelle vene della classe pensante e dirigente scorre un sangue pallido; i suoi muscoli sono flaccidi, i suoi nervi troppo impressionabili. Non è sempre vero, come afferma il Payot, che «la debolezza corporea va accompagnata con la fiacchezza della volontà, con la brevità e il languore dell'attenzione». Se ci fosse bisogno di addurre esempî per dimostrare come una mente altissima, un'intelligenza sovrumana, un'anima miracolosa possano sussistere in un corpo stremato ed agonizzante, basterebbero gli esempî del Leopardi e dello Spinoza. La sensibilità, l'immaginazione, tutte le facoltà che dipendono dal sistema nervoso, sono grandi, squisite, straordinarie, a costo troppo spesso del sistema nervoso, del suo equilibrio, della sua salute. Questo fatto dà appunto ragione della teoria lombrosiana sulla nevrosi del genio. Vedete: ciò che si chiede è una generazione capace di volere, di volere fortemente, indefessamente; orbene: Vittorio Alfieri, per aver voluto in questo modo, è stato ascritto, forse non senza ragione, tra i psicopatici.
Ma, lasciando stare i genî e la psicopatia, guardando la media umanità, noi vediamo che l'abuso delle facoltà mentali corrisponde alla depressione della volontà e allo squilibrio nervoso. Dallo scoppio dell'epidemia romantica sino ai nostri giorni il danno è andato crescendo. Esso è fatale, è lo scotto che bisogna rassegnarsi a pagare.
La qual cosa non vuol dire che i tentativi per ottenere qualche temperamento siano biasimevoli. Il Payot avverte accortamente che un grande ostacolo all'impresa dell'educazione della volontà è nelle teorie del determinismo e del libero arbitrio. Esse sono diametralmente opposte, ma fanno male egualmente. I deterministi, sostenendo che l'uomo non è capace di fare ciò che vuole, o meglio che egli vuole ciò che deve volere, che la sua libertà è illusoria, che tutti i suoi atti e tutti i suoi pensieri sono rigorosamente prescritti, alimentano la sfiducia generale, una sfiducia fatale. Bisogna negare questo determinismo per poter attendere ad affrancare, a liberare la volontà. Così noi abbiamo veduto che Sully Prudhomme, determinista, finisce con l'essere fatalista; mentre il Maeterlinck espressamente afferma che «il carattere è ciò che più facilmente si modifica in un uomo di buona volontà». Ma se l'opera della padronanza di noi stessi ha fondamento sul concetto del libero arbitrio, questo può riuscirle, e le riesce infatti pericolosissimo, facendola credere troppo facile, semplice e naturale. «Alla formula del Fouillée», dice il Payot «secondo la quale l'idea della nostra libertà ci fa liberi, il Marion oppone precisamente questa affermazione più praticamente vera ed utile: che, stimandoci liberi, noi omettiamo di assicurarci di quale e quanta libertà possiamo godere… La libertà morale, come quella politica, come tutto ciò che ha qualche valore in questo mondo, dev'essere conquistata lottando, e continuamente difesa. Essa è la ricompensa dei forti, degli abili, dei perseveranti. Nessuno è libero se non merita di esser libero. La libertà non è né un diritto, né un fatto; è una ricompensa, la ricompensa più alta, la più feconda di felicità…».
Abbiamo detto nel precedente capitolo come il Dugas consigli di combattere il vizio dei timidi; la conquista della libertà morale, l'educazione della volontà è un'impresa molto simile e per certi rispetti quasi identica. Questa è la ragione per la quale il Payot consiglia lo stesso metodo del Dugas a coloro che egli chiama abulici, e che noi diremo svogliati, nolenti. Come quel timido che ricorreva alla cocaina per dar fermezza al proprio sguardo, chi vuol vincere il torpore fisico o intellettuale, o domare le eccitazioni dei sensi, può adoperare qualche farmaco; ma su questi mezzi fisiologici il Payot riconosce che non vale la pena di fermarsi. Egli si ferma sui mezzi morali, e ricorre, come il Dugas, all'autorità del Pascal, non che di Ignazio di Loiola, i quali raccomandano gli atti esteriori della fede come espedienti molto adatti a far nascere nell'animo il sentimento corrispondente. Tuttavia a questo processo il Payot non attribuisce un'efficacia unica e illimitata. Noi non possiamo qui seguirlo in tutta l'esposizione dei mezzi diretti a compiere l'affrancazione della volontà. Egli comincia col dimostrare la qualità sentimentale della facoltà volitiva, quindi afferma la necessità di coltivare gli stati affettivi; enumera poi i benefici effetti dell'attenzione e dell'azione che, con l'aiuto del tempo, diventa consuetudine; non che gli effetti funesti delle illusioni, dei sofismi. Abilmente espone tutte le difficoltà che si oppongono all'educazione della volontà, ma spiega come si possano vincere, e come le nostre stesse disfatte non siano inutili, poichè ci scottano, ci ammaestrano e ci preparano ad ulteriori trionfi. Le sue dimostrazioni, se anche non fossero feconde di pratici risultati, sono almeno confortatrici; se non ci dànno la possibilità di affrancarci, ce ne dànno l'illusione e la speranza. E in questo nostro tempo di colore oscuro, pieno di gemebondi predicatori della sciagura universale e irreparabile, di cogitabondi solutori di problemi insolubili, di critici dilettanti ed impotenti, non è piccola cosa.
=Edouard Rod=: Nouvelles études sur le XIX siècle. Parigi,
Perrin.
=Fierens-Gevaert=: La tristesse contemporaine. Parigi, Alcan.
=Ossip-Lourié=: Les pensées de Tolstoi. Parigi, Alcan.
=Henri Lichtenberger=: La philosophie de Nietzsche. Parigi,
Alcan.
=Sully Prudhomme=: Les Destins, La Justice, Le Bonheur.
Parigi, Lemerre.
=Maurice Maeterlinck=: La sagesse et la destinée. Parigi,
Fasquelle.
=P. Augustin Roesler=: La question féministe. Parigi, Perrin.
=Charles Albert=: L'amour libre. Parigi, Stock.
=Pio Viazzi=: La lotta di sesso. Palermo, Sandron.
=Tcheng-Ki-tong=: Les Chinois peints par eux-mêmes. Parigi,
Calmann Lévy.
=J. L. de Lanessan=: La morale des philosophes chinois.
Parigi, Alcan.
=Pierre Loti=: Reflets sur la sombre route. Parigi, Calmann
Lévy.
=Giuseppe Giacosa=: Impressioni d'America. Milano, Cogliati.
=Yves Guyot=: L'évolution politique et sociale de l'Espagne.
Parigi, Fasquelle.
=Paolo Mattia Doria=: La descrizione del Regno di Napoli.
Napoli, Pierro.
=Max Nordau=: Psycho-Physiologie du génie et du talent.
Parigi, Alcan.
=Max Nordau=: Degenerazione. Milano, Dumolard.
=Max Nordau=: Battaglia di Parassiti, Milano, Treves.
=Giovanni Gallerani=: Fisiologia del Genio. Camerino, Savini.
=Cesare Lombroso=: Genio e degenerazione. Palermo, Sandron.
=Scipio Sigheio=: Mentre il secolo muore. Palermo, Sandron.
=Robert d'Adhémar=: Art et Science. Revue des deux mondes, 1900.
=L. Dugas=: La timidité. Parigi Alcan.
=Jules Payot=: L'education de la volonté. Parigi, Alcan.
Alba (duca d') pag. 193.
Albert: 128-132, 134, 135, 141-143, 145, 146, 148, 149, 151.
Alessandro: 216.
Alfieri: 265.
Alfonso X: 192.
Amiel: 239, 245, 261.
Ampère: 264.
Antonini: 199.
Archimede: 260.
Aristotile: 123, 189, 217.
Baudelaire: 91, 200.
Bebel: 122, 125.
Beccaria: 206.
Beethoven: 212.
Bernhardt: 182.
Bertoldo: 125.
Bourget: 23.
Brunetière: 13, 19, 255.
Buddha: 104.
Cabrera: 194.
Campos: 194.
Carlo II: 192.
Carlo V: 190,91.
Cesare: 35, 216.
Cervantes: 181, 189, 192.
Chateaubriand: 16.
Comte: 17.
Confucio: 172.
Cortes: 190.
Constant: 242.
Dante: 216.
Darwin: 217.
Daudet: 23, 233.
De Maistre: 16.
Descartes: 215.
Doria: 195.
Dugas: 239-43, 246, 267.
Empedocle: 214.
Errico I: 192.
Errico IV; 262.
Espartero: 194.
Fénelon: 102.
Fouillet: 13.
Fierens-Gevaert: 15, 22, 24.
Filippo da Novara: 125.
Filippo II: 192.
Filippo V: 192.
Flaubert: 181.
Fogazzaro: 13.
Fouillée: 14, 266.
Fourier: 17.
Fournière: 14.
France: 187.
Gallerani: 200, 202.
Geddes: 134.
Giacosa: 182-83, 188.
Giordani: 199.
Goncourt: 233.
Gringoire: 125.
Grozio: 193.
Guizot: 17.
Guyot. 188, 189, 191, 193-95.
Hartmann; 18, 21, 104.
Hennequin: 12, 13.
Hugo: 11, 91, 216.
Ibsen: 200, 234.
Ignazio di Loiola: 267.
Kant: 16.
Las Casas: 190.
Lanessan: 163, 172.
Leonardo: 214.
Leopardi: 16, 18, 19, 265.
Lichtenberger: 45
Listz: 211.
Lombroso: 199-201, 206, 209.
Lope de Vega: 181.
Loti: 23, 178, 181, 189.
Mackart: 212.
Maeterlinck: 91-93, 98, 99, 102, 105, 110, 111, 114, 117,
137, 200, 234, 260, 266.
Malebranche: 264.
Manuel: 254.
Marion: 266.
Meng-tseu (Mencio) 165, 168, 170, 172.
Napoleone: 16, 18, 205, 210, 262.
Narvaez: 194.
Newton: 211, 215.
Nietzsche: 16, 45, 46, 48, 52-57, 72, 80, 82, 110, 111,
113, 117, 124, 157, 171, 200, 210.
Nordau: 91, 200-206, 208, 210-217, 221, 226-228, 231-234.
Ojetti: 256.
Ossip-Lourié: 29, 38.
Panzacchi 256.
Parmenide: 217.
Pascal: 246, 267.
Pasteur: 264.
Payot: 253-256, 258, 261, 263-268.
Platone: 216.
Rabelais: 20.
Racine: 255.
Raffaello: 212.
Renan: 187.
Ribot: 253.
Riego: 194.
Rod: 10, 13, 24.
Roesler: 124, 135, 137-139, 147.
Roncoroni: 209.
Rousseau: 16, 243.
Saint-Simon: 17.
San Francesco: 210.
San Giovanni: 187.
San Paolo: 136, 139.
San Tommaso: 189.
Sarpi: 199.
Schipa: 195.
Schopenhauer: 17-20, 23, 53, 104.
Shakespeare: 216.
Sighele: 202.
Spencer: 21.
Spinoza: 68, 265.
Sully Prudhomme: 61, 63, 65-70,
75, 77, 80-83, 87, 91, 92,
98, 103, 111, 114, 142.
Staël 18.
Taine: 12, 241.
Tcheng-ki-tong: 156, 158, 160.
Thomson: 134.
Tolstoi: 20, 29, 32-36, 38, 40, 45-48, 53, 55, 56, 63, 72,
110-113, 117, 139, 157, 170, 200, 210, 234.
Velasquez: 181.
Verlaine: 200.
Verne: 15.
Viazzi: 148.
Villars: 193.
Wagner: 19, 53, 200, 234, 245.
Washington: 216.
Weyler: 193, 194.
Zola 200, 227-234.
Il secolo agonizzante Pag. 7
Il tolstoismo » 27
Il superuomo » 43
La poesia di un filosofo » 59
La filosofia di un poeta » 89
Il femminismo » 119
Due civiltà » 158
Vincitori e vinti » 175
Il genio e l'ingegno » 197
Critica e creazione » 219
La timidezza » 235
La volontà » 249
MILANO—REMO SANDRON, Editore—PALERMO
Biblioteca di scienze sociali e politiclie
1. *Guyot Y.* La tirannide socialista L. 1 50
2. *—* I principî dell'89 e il socialismo » 1 50
3. *Marx C.* Il Capitale. Estratti di P. Lafargue con introduzione critica di Vilfredo Pareto e replica di P. Lafargue, con ritratto, 3^a ediz. » 2 —
4. *Colajanni N.* Gli avvenimenti di Sicilia e le loro
cause, 2^a ediz. » 2 —
5. *Morselli E.* La pretesa «Bancarotta della scienza»
(Una risposta) » — 50
6. *Tarozzi G.* La vita e il pensiero di Luigi Ferri (esaurito) » — —
7. *Tangorra V.* Gli eccessi di produzione in Giammaria Ortes
(esaurito). » — —
8. *Ferri E.* Discordie positiviste sul Socialismo (Ferri
contro Garofalo) 2^a edizione » 1 —
9. *Virgilii F.* Il problema agricolo e l'avvenire sociale.
2^a edizione notevolmente accresciuta » 4 —
10. *Zerboglio A.* Il socialismo e le obiezioni più comuni » 2 —
11. *Starkenburg H.* La miseria sessuale dei nostri tempi.
Trad. pref. e note di L. F. P. 2^a ediz. » 1 50
12. *Lafargue P.* L'origine e l'evoluzione della proprietà,
preceduta da un'Introd. di Achille Loria » 2 —
13. *Ferrari C.* La nazionalità e la vita sociale. » 3 —
14. *De Greef G.* Regime parlamentare e regime rappresentativo » 1 —
15. *Lombroso C.* La funzione sociale del delitto. 2^a ed. » — 50
16. *De Marinis E.* Le presenti tendenze della società e del pensiero e l'avvenire, 2^a ediz. » 1 —
17. *Ferraris C. F.* Il materialismo storico e lo Stato » 3 —
18. *Spencer H.* Istituzioni domestiche » 3 —
19. *Niceforo Alfr.* La delinquenza in Sardegna, con pref. di E. FERRI (Note di sociologia criminale) » 2 —
20. *Spencer H.* Istituzioni cerimoniali » 3 —
21. *Novicow G.* Coscienza e volontà sociali » 4 —
22. *Niceforo Alfr.* L'Italia barbara contemporanea.
Studî ed appunti sull'Italia del Sud » 2 —
23. *Sombart W.* Socialismo e movimento sociale nel secolo XIX.
Traduz. autoriz. e rived. dall'A. » 1 50
24. *Lerda G.* Influenza del Cristianesimo sull'Economia.
Note ed appunti » 1 —
25. *Ferraris G. F.* Teoria del dicentramento amministrativo L. 1 50
26. *Morasso M.* Contro quelli che non hanno e che non sanno » 4 —
27. *Labriola A.* La teoria del valore di C. Marx. Studio
sul III. libro del «Capitale» » 3 —
28. *Tambaro I.* Le incompatibilità parlamentari, 2^aedizione
interamente rifatta » 1 50
29. *Gatti G.* Agricoltura e Socialismo. (Le nuove correnti
dell'economia agricola) » 4 —
30. *Engels F.* La rivoluzione scientifica del signor Eugenio
Dühring (in lavoro) » — —
31. *Giudice A.* Il Valore o Le fondamenta scientifiche del
Socialismo » 2 —
32. *Croce B.* Materialismo storico ed economia marxista.
Saggi critici » 3 —
33. *Modigliani Gius. Em.* La fine della lotta per la vita
tra gli uomini. Saggio. » 2 —
34. *Restivo F. E.* Il socialismo di Stato dal punto di
vista della Filosofia giuridica » 3 —
35. *Nasi N.* Politica estera.—Commissariato civile in
Sicilia. Discorsi » 1 —
36. *Renda A.* La questione meridionale. Inchiesta » 2 —
1. *Lombroso C.* Genio e Degenerazione. Nuovi studî e battaglie L. 4 —
2. *Taormina G.* Ranieri e Leopardi. Osservazioni e ricerche con documenti inediti » 1 50
3. *Sergi G.* Leopardi al lume della scienza. » 3 —
4. *Sighele S.* Mentre il secolo muore. Psicologia contemporanea » 3 —
5. *Patrizi M. L.* Nell'estetica e nella scienza. Conferenze e polemiche » 4 —
6. *Fornelli N.* L'opera di Augusto Comte » 3 —
7. *Viazzi P.* La lotta di sesso » 3 50
8. *Piazza G.* L'arte nella folla » 4 —
9. *Marchesini G.* La teoria dell'utile. Principî etici fondamentali e applicazioni » 3 —
10. *De Roberto F.* Il colore del tempo » —
11. *Morello V. (Rastignac)*. Nell'arte e nella vita » 4 —
12. *Caselli C.* La lettura del pensiero. Memorie ed appunti di un esperimentatore
13. *Gentile*. L'insegnamento della Filosofia. Saggio pedagogico
End of Project Gutenberg's Il colore del tempo, by Federico De Roberto