Title: Le tragedie, gl'inni sacri e le odi di Alessandro Manzoni
Author: Alessandro Manzoni
Release date: July 21, 2018 [eBook #57565]
Language: Italian
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LE TRAGEDIE
GL’INNI SACRI E LE ODI
DI
ALESSANDRO MANZONI
NELLA FORMA DEFINITIVA E NEGLI ABBOZZI,
CON LE VARIANTI DELLE DIVERSE EDIZIONI
E CON GLI SCRITTI ILLUSTRATIVI DELL’AUTORE,
A CURA DI
MICHELE SCHERILLO
PRECEDE UNO STUDIO
SUL DECENNIO DELL’OPEROSITÀ POETICA DEL MANZONI
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1907
Proprietà Letteraria
Milano, Tipografia Umberto Allegretti, via Orti, 2.
Alla gloriosa memoria
di
RUGGIERO BONGHI
con reverenza d’italiano
con affetto di concittadino
dedica
questa prima edizione critica
delle Poesie del sommo Lombardo
Michele Scherillo
Giova fissare alcune date. Il Carme in morte dell’Imbonati, la prima delle sue opere che il Manzoni reputasse degna della stampa, fu pubblicato a Parigi nel 1806. L’Urania, a Milano nel 1809. Poi, dopo un intervallo di sei anni, a Milano nel 1815, i primi quattro Inni sacri: la Resurrezione, composta il 1812, il Nome di Maria e il Natale, del 1813, la Passione, del 1815. Dopo altri cinque anni, la prima tragedia: Il Conte di Carmagnola, Milano 1820; e nel 1822, la seconda, l’Adelchi. Nello stesso anno, il quinto ed ultimo inno sacro, la Pentecoste. Intanto era venuto componendo: il proclama di Rimini, aprile 1815; lo scherzo L’ira d’Apollo; l’ode Marzo 1821, e il Cinque maggio. Dagli ultimi mesi del 1821 agli ultimi del 1827, il Manzoni fu tutto preso dalla composizione, correzione e stampa del Romanzo. Versi, dopo la Pentecoste, o non ne scrisse più o ne scrisse di tali (l’Epigramma sotto il ritratto del Monti e le Strofe per una prima comunione) che mutano in certezza il sospetto, che la bella e limpida vena si fosse presto essiccata.[1]
L’Imbonati e l’Urania sono, per così dire, i documenti ufficiali di quello che io ebbi a chiamare «il noviziato poetico»[xii] del Manzoni[2]: rappresentano autorevolmente il periodo dell’incertezza e delle titubanze, dei passi ricalcati sulle orme altrui, dell’imitazione tra pariniana e alfieriana, soprattutto montiana. L’Urania non era ancora pubblicata (solo il 5 ottobre il Manzoni avvertiva d’aver ricevuto da Milano i primi esemplari della stampa), e già il poeta se ne mostrava scontento. All’amico Fauriel, che aveva voluto prender copia di quel poemetto (a lui forse anche più caro, dacchè Urania, tra i frequentatori della Maisonnette, era chiamata la dea del luogo, la bella Sofia vedova del Condorcet), egli scriveva da Parigi il 6 settembre 1809:
«Vous avez donc voulu copier cette petite rapsodie? Vous! Si j’avais à présent l’envie et l’indiscrétion de vous occuper de ces balivernes, je dirais que je suis très mécontent de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’intérêt. Ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-être de pires, mais je n’en ferai plus comme cela».
Di versi così, con tutto quel lusso di evocazioni e di fantasie mitologiche, con quelle eleganze corinzie nel disegno e quelle sonorità attiche o alessandrine nell’espressione, ne avrebbero, sì, continuato a fare il Monti e il Foscolo; ma la sua via, la via nuova che oramai egli aveva intravista, era un’altra: e per quella ei si sarebbe messo, risoluto di percorrerla tutta. Via erta ed arta, nè prima tentata; ma meglio cadere nell’ardimentosa ascesa verso l’alta cima agognata, che ricalcare l’ampia strada tanto e da tanti battuta:
E, proprio com’egli aveva sentenziato nell’Urania (versi 191-93),
[1] Il Manzoni medesimo confessava, con l’usata modestia ed arguzia, il singolare fenomeno, scrivendo, verso la fine del 1859, alla signora Collet aver egli messo da parte l’Inno Ai Santi, «sitôt que je me suis aperçu que ce n’était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m’essoufflais à courir après elle». Vedi più avanti, pag. 486-88.
[2] Cfr. il I volume di questa ristampa hoepliana delle Opere di A. Manzoni.
[3] Si ricordi Orazio (Epist. I, 19, 21-2):
L’Urania è un inno, ricalcato sul modello di quelli che vanno sotto il nome d’Omero. Il poeta implora dalle Grazie («chieggo a le Grazie») che lo facciano riuscir gradito anche a Firenze. Ma nè chiama Firenze tranquillamente Firenze, nè chiama Milano semplicemente Milano: non sarebbe stato un proceder degno di chi ambiva al «nome che più dura e più onora»! Uno che se n’intendeva, il Monti, il caposcuola, aveva difatto insegnato: «Occorre parecchie volte al poeta di dover nominare una cosa, il cui semplice nome o non ha tutta in sè stesso la poetica dignità, o ripugna alle leggi del metro, o desta un’idea non abbastanza sublime e maravigliosa.... Nè senza l’aiuto di questi favolosi amminnicoli la lingua poetica si sosterrebbe».[4] Il novizio Manzoni proemia dunque, con perifrasi solenni e sonore, così:
E continua. Fin dai primi anni, quando il Desiderio ci è compagno crudele nel cammino della vita, ho nutrito una cara speranza: che l’Italia annoverasse me pure tra’ suoi poeti. L’Italia, che da lungo tempo è ospizio delle Muse; non già la culla, poichè esse nacquero in Grecia. Ma quando queste dive lasciarono i laureti achei, esse sdegnarono di porre la nuova dimora altrove che qui. È vero che vi rimasero mute[xiv] durante tutto quel tempo che i barbari recaron l’oltraggio, non ancor vendicato, alla donna latina, «dal barbaro ululato impäurite»; non però abbandonarono l’infelice amica. Che anzi, la Poesia italiana,—questa vergine bella ed aspettata dalle genti, le quali, tacendo essa, mancarono di qualunque sorriso—, si sollevò poi ad alte cose, rinascendo più vigorosa da le turpi unniche nozze.
Ognuno intende che siamo nel pieno rifiorire di quell’arte paganeggiante, il cui più insigne sacerdote fu Antonio Canova. Codesto divo Alighieri (oh il busto donatelliano del Museo di Napoli, dall’espressione così severa ed arcigna, e con le bande del cappuccio cadenti sugli orecchi!), che conduce la mirabil virgo a bagnarsi e a dissetarsi alle illibate fonti, e l’ammaestra ne le danze sacre,[5] ricorda molto da vicino il canoviano Napoleone di Brera, nudo e formoso come un Apollo e con le insegne e i simboli d’un Cesare Augusto, conquistatore dei Germani o dei Britanni. Ma come al Canova, di tra le carezzose modellature d’una Psiche o delle Grazie, sfuggiva quasi di mano la maravigliosa e vivente testa di papa Rezzonico; così al giovinetto Manzoni, ricercante sulla lira accordi e armonie achee, sbocciavan dalle labbra accenti come questi, che prenunziano il poeta novello:
Alle Muse dunque, alme d’Italia abitatrici, io intendo, continua il poeta, intrecciare un serto di lodi in pria non colte: dacchè una vile parola odo vagare tra il volgo,
Ebbene, io celebrerò gli antichi beneficii prodigati agli umani da quelle Immortali. Urania li cantò una volta al suo diletto Pindaro; io dirò perchè la dea accordasse all’alto poeta un tanto privilegio,
Non so quanta fede meriti quell’aneddoto, raccontato da qualche biografo, che il Monti, dopo d’aver letta l’Urania, esclamasse: «Costui comincia dove io vorrei finire». Questo tuttavia mi par certo, che nel nuovo poemetto il Manzoni mostrò di sapere oramai da maestro mischiare «al bello e vigoroso colorito», di cui già il Monti lo lodava a proposito dell’Adda, quella «virgiliana mollezza» che il vecchio poeta ancor desiderava nell’idillio del 1803. E non mi parrebbe nè un’eresia nè una sconvenienza quella di chi volesse vedere nell’esclamazione montiana, bensì un giudizio amabile e deferente, non un vano complimento. L’Urania è, coi Sepolcri[xvi] del Foscolo, il più bel fiore di quel rinnovamento classico della poesia, che tra noi mette capo al Monti; e sta di mezzo fra il Prometeo di questi e le Grazie foscoliane. Lo ha già osservato il D’Ancona: «il concetto del poemetto del Manzoni è quello stesso che informa il Prometeo del Monti e le Grazie del Foscolo; molto probabilmente il primo ha comunicato qualche cosa di proprio all’Urania, e le Grazie qualche cosa hanno tolto da questa».[8]
Secondo un certo suo proprio «sistema poetico», le Grazie sono per il Foscolo «deità intermedie fra il cielo e la terra, e ricevono da’ Numi tutti que’ doni che esse vanno poi dispensando a’ mortali»; e secondo un suo «sistema storico», quelle deità «diffusero i loro benefizi più particolarmente alla Grecia antica dov’ebbero origine, e all’Italia dov’hanno trasferita la loro sede». Cantando dei loro eterei pregi e della gioia che, vereconde, esse danno alla terra, il poeta chiede a quelle belle vergini
Il Foscolo, che dimorava allora in Toscana, non ha bisogno, come il Manzoni, di chiedere alle Grazie che faccian risonare il suo Inno nella nuova Atene; anzi egli può invitare il Canova al vago rito e agl’inni, proprio
tra quei
Quei colli, che la luna o l’alba scoprivano agli occhi di Galileo, che qui sedeva in compagnia delle Grazie «a spiar l’astro della loro regina»; dacchè
Lo ha pur accennato il Manzoni: le Muse, fuggitive dalla Grecia natia, cercarono asilo in Italia; ma il Foscolo compie quell’accenno, e ridice la cosa più fastosamente:
E non dimentica—e non l’avrebbe potuto!—Dante.
In verità, codesta figurazione di Dante, che, a guisa d’un Genio disdegnoso (o d’un’Aquila sdegnosa, com’è nel rimaneggiamento dell’Orlandini), appollaiato sopra un mirto, starnazza le ali sotto gli occhi della sua donna «beata e bella»[xviii] che guarda dall’alto; e intanto, cerca cieli e abissi e monti sorgenti dalle acque, e sparge folgori e raggi e speme e terrore e pentimento, e canta sciagure quasi un novello Calcante: non è nè perspicua nè cospicua. Come del resto non è ben chiara la poetica perifrasi indicante Milano; che nemmeno essa manca. La compagna della sonatrice d’arpa «viene ultima al rito, a tesser danze all’ara»: dicono fosse al secolo la signora milanese, molto bella, Maddalena Marliani Bignami.
In una lettera, non si sa a chi diretta ma scritta, pare, nel febbraio del 1809, il Foscolo si confessa tutto preso dall’idea di comporre e menar a termine i suoi Carmi: un genere poetico che vantava tutto suo proprio. Scriveva:
«Quanto all’Omero e a’ Carmi, io dormo in vista, sed cor meum vigilat. E non distolgo mai la mente dai Carmi: non ch’io n’attenda onore, nè ch’io creda che la fama giovi a far men vana e più prudente l’umana vita; ma da que’ Carmi (genere di poesia ch’io, tortamente forse, credo nato da me) mi pare che ne’ miei scritti sgorghi pienamente ed originalmente, senza soccorso straniero, quel liquido etere che vive in ogni uomo, e di cui la natura ed il cielo hanno dispensata la mia porzione a me pure. Però li vagheggio sempre con tutti i pensieri; nè passerà quest’anno senza ch’io n’abbia compiuto uno almeno; nè ristarò finchè mi sentirò battere il cuore ad ammirare ed amar la natura. Ma queste forti e soavi palpitazioni s’indeboliscono presto, ed ho quasi toccata la mèta della fredda meditazione».
Una tanta compiacenza del Foscolo per un genere di poesia ch’egli, tortamente forse, credeva nato da lui, derivava dalla[xix] festosa accoglienza fatta ai Sepolcri. «L’oscillazione che produsse questa creazione nel cervello di Foscolo», ha osservato il De Sanctis,[11] «fu così potente, che per lungo tempo gli tenne agitate le fibre, quasi armonia già muta che si continua ancora nel tuo orecchio. E altri Sepolcri vi fermentavano sotto altri nomi, e uscivano fuori a frammenti,... senza che gli fosse possibile venire ad una compiuta formazione.... Da quei frammenti, insieme connessi e aggiustati, uscirono ultimamente le Grazie». Un’opera mancata: non più una poesia, ma «una lezione con accessorii poetici»; un concetto ancor esso vichiano, ma che rimane nell’astrazione e cerca la sua espressione in una forma «raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come pietra preziosa».
Gli è che il Foscolo era, senza che se n’accorgesse, fuori della corrente, divenuta impetuosa, dei tempi nuovi. Il secolo decimonono lo aveva investito mentr’egli aveva ancora lo sguardo rivolto al passato, e aveva gettato «il disordine nella sua coscienza». La nuova onda religiosa travolge il suo scetticismo, le nuove idealità politiche rendon vacillante la sua fede repubblicana, il forte vento del nord, che portava di qua dalle Alpi le nuove idee d’arte poetica, turbava il suo classicismo, già compromesso dalle Lettere di Jacopo Ortis e dal Carme sepolcrale. Amico del Pellico, il quale aspirava a pieni polmoni le aure dei tempi nuovi, ammiratore del giovane Manzoni, stanco del Monti e dell’arte sua, egli «avrebbe forse avuto la forza di ricreare in sè l’uomo nuovo, se la sua educazione fosse stata più moderna e meno classica; ma lo spirito moderno era appena una vernice appiccicata sopra il vecchio classicismo». Così, fra tanto rinnovamento morale e letterario, filosofico e politico, il poeta pariniano delle Odi e alfieriano delle Tragedie, l’artista canoviano delle Grazie, il classicista cosciente dei Sepolcri ma incosciente romantico dell’Ortis, «finì chiudendosi nella sua toga come Cesare, e morì sul suo scudo, uomo del secolo decimottavo». Il poemetto delle Grazie chiude, in ritardo, quel secolo; il secolo nuovo è dischiuso dagl’Inni sacri di Alessandro Manzoni.[xx] Curioso a rilevare: il Manzoni era stato presentato al mondo letterario dal Foscolo, con quella noticina ai Sepolcri dov’era proclamato «un giovine ingegno nato alle lettere e caldo d’amor patrio». Ebbene, tra quel Carme e gl’Inni è un abisso. L’uno è come la voce «dell’umanità senza l’anima e senza Dio»: gli altri son come le voci desiose e sospiranti dell’umanità angosciata al Cielo, per chieder la pace, la giustizia, la redenzione; per implorare da Dio, poichè gli uomini s’eran mostrati inetti, il riconoscimento e l’attuazione «tra i nati all’odio» di quei principii di libertà, d’uguaglianza e di fraternità, che avevan fatto versare, pur di recente, nuovo sangue e nuove lagrime.
[4] Monti, Del cavallo alato d’Arsinoe, lettera terza.
[5] Anche più giù (vv. 326-7) il poeta dirà che, senza le Grazie, «nè gl’Immortai son usi Mover mai danza o moderar convito». E senza danze, non pareva possibile una poesia di sapore classico!
[6] C’è, nel concetto e nel concento di questi versi, qualcosa che ricorda il magnifico brano del Mezzogiorno pariniano (v. 285 ss.): «Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra....». Cfr. la mia edizione, la 2ª, delle Poesie di G. Parini, Milano, Hoepli, 1906, pag. 273.
[7] Già nel Parini (Mezzogiorno, v. 882 ss., pag. 290) era un notevole accenno a Urania, confortatrice de’ suoi «irti alunni, smarriti, vergognosi, balbettanti», a opere grandiose di civiltà: le piramidi, gli obelischi, le dighe.
[8] Poesie di A. Manzoni scelte e annotate ad uso delle scuole da A. D’Ancona; Firenze, Barbèra, 1892; pag. 17.—È degno di ricordo che il Monti si proponesse, in una prima forma vagheggiata della Musogonia, «di ricondurre in terra le Muse a beneficare il genere umano, traendo gli uomini dalla vita selvaggia, congregandoli in società, e insegnando loro la virtù, la giustizia, e tutte le arti e tutte le scienze». Così egli scriveva nell’Avvertimento premesso al poema nell’edizione veneziana del 1797.—Codesto era un tema poetico di moda. Anche il Gray aveva, nel Progress of the Poesy, adombrato lo stesso concetto. Cfr. B. Zumbini, Sulle poesie di Vincenzo Monti; Firenze, Le Monnier, 1886, pag. 198 ss.
[9] Il Foscolo stesso nella versione dell’Iliade (II, 848): «e la vallea di Mileto Cui pingui ombrano i buoi».
[10] L’alta regina Amalia Augusta di Baviera, regia sposa di Eugenio Beauharnais, consacrava un candido cigno alle Grazie, «grata agli Dei del reduce marito Da’ fiumi algenti ov’hanno patria i cigni».
[11] Nuovi saggi critici; Napoli, 1879, pag. 160.
Il periodo veramente fecondo dell’operosità poetica del Manzoni va dal 1812, in cui egli scrisse La Resurrezione, al 1822, in cui pubblicò La Pentecoste: un decennio glorioso per la nostra letteratura, del quale ogni anno è contrassegnato da un capolavoro. Un inno sacro apre la serie, un altro inno sacro la chiude.
A chi non ripugna l’immaginoso e il romanzesco nella vita dei grandi uomini, il colpo di scena, il miracolo, piace di vedere una barriera, o un sipario, tra il Manzoni dei due carmi paganizzanti e il Manzoni degl’Inni. E piace di prestar fede all’aneddoto raccontato da qualche biografo, che fa del Manzoni dinanzi alla chiesa di San Rocco a Parigi un quissimile di Paolo sulla via di Damasco. Narrano ch’ei fosse, lì vicino, colto da un malore repentino, ed entrasse. Imbruniva, e nel tempio si pregava. Quei canti sacri che parean lamento lo avrebbero profondamente commosso; e in un subito, l’indurito miscredente e volterriano si sarebbe trasformato—taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio!—in un convinto e fervente cattolico. «Ma così», ha esclamato il D’Ovidio[12], «si convertono forse le nature fantastiche e sentimentali![xxi] Ben altro ci volle, certamente, per ismuovere quel giovane che dovea presto mostrare un animo, ricco bensì di potente fantasia e di vivace sentimento, ma capace di dominar l’una e l’altro con una riflessività ed una razionalità senza pari!»[13].
Il vero è che, proprio a giudizio del Manzoni, il ricorrere al miracolo per ispiegare certe conversioni o rivoluzioni o evoluzioni psicologiche, è da menti ristrette e da fantasie volgari. Si ripensi a quel vero miracolo d’analisi ch’è la conversione dell’Innominato. Chi prima, allora, gridò al miracolo, fu il sarto, il buon uomo che aveva in gran parte formata la sua cultura sul Leggendario dei Santi. A Lucia, che viene ospite gradita in casa sua, egli non esita un momento a dire (P. Sposi, cap. 24): «Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto!». La sicurezza gli veniva dai suoi studi: «perchè non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene». Così quel singolare ravvedimento era giudicato colle norme del Leggendario, ed era consacrato autorevolmente con quel nome che doveva riuscire meglio accetto a chi avrebbe potuto dire, rinarrandolo,—io c’ero! «Ma è però una gran cosa», soggiunge, rimuginando con nuova compiacenza quel ravvicinamento mentale da lui consumato, «d’aver ricevuto un miracolo!». Onde il romanziere, con arguta malizia: «Nè si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perchè aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome».
Sono le frange appunto che possono far parere fuori dell’ordine naturale, cose che un occhio disnebbiato ed esperto riconosce naturalissime. Ci vuole la cultura del sarto, per riguardare il cardinale come quell’«uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, nè anche in Milano»; e per sentire la necessità d’immaginare il miracolo. Ma nulla di meno manzoniano. L’artista psicologo ha, con la sua analisi mirabile, inteso a spiegare umanamente quella conversione che nel Seicento potè parere miracolosa.
E si può, anzi si deve ammettere, che al romanziere sia di molto giovato l’avere sperimentato in sè medesimo una evoluzione psicologica molto affine a quella che doveva rappresentare; ma l’insistenza stessa con cui ha voluto sfrondare la corona del soprannaturale onde le plebi avevan redimita quell’antica conversione, moveva forse dal desiderio di sgombrare d’intorno a sè quella nebbia di leggenda agiografica, che non poteva non dargli noia. Oltre il resto, egli, da buon cattolico, doveva pensare che le conversioni dove interviene troppo palesemente il dito di Dio, non sono edificanti, e non stimolano l’imitazione o l’emulazione. Al Manzoni, osserva il D’Ovidio, «seguiva quel che suole ai fedeli più colti e più discreti, di credere cioè e voler assolutamente credere ai miracoli antichi e, per dir così, storici, del cristianesimo; ma di proceder con molta circospezione quanto ai miracoli recenti e non sanciti dalla Chiesa.... Così è che negli Inni sacri i miracoli sono con sincera fede cantati, e dai Promessi Sposi con ischifiltosa critica eliminati».[14]
Pur troppo a noi non è dato di conoscere le fasi di quel dramma intimo, per cui il Manzoni passò dallo scetticismo alla fede ardente e incrollabile. Egli fu anche in questo diverso da quei letterati di Francia e d’Italia che intrattenevano, e intrattengono, con molto compiacimento proprio, il pubblico dei lettori narrando di sè stessi. Oggettivo nell’arte, più e meglio di qualunque altro nostro scrittore, non esclusi il Boccaccio e l’Ariosto, rimase, quanto agli affetti e ai movimenti della[xxiv] sua anima, un uomo chiuso; uno di quelli, ha detto il Negri, «che, tutto assorti nel sentimento della propria responsabilità, e guidati da una specie di pudore intellettuale, sanno custodire gelosamente dentro di sè tutto quanto non vogliono, di proposito deliberato, comunicare agli altri». Il Manzoni «sta sempre in guardia, e non ha mai permesso ad alcuno di penetrare nel fondo della sua coscienza più in là di quanto egli volesse». Si può, ricercando tutta la varia opera sua, e guardandosi intorno, tirare a indovinare. Non sentiamo forse il sapore acuto, proprio di chi descriva sensazioni provate, nelle parole che ci ritraggono la formazione ed educazione dell’animo eminentemente cristiano di Federigo Borromeo? (Promessi Sposi, cap. 22).
«Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma delle azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero».
Una simile indagine è possibile e lecita; ma a patto che essa sia compiuta
E chi forse, nello scrutare i riposti motivi della così detta conversione manzoniana, s’è più da presso accostato al vero, è l’insigne critico, del quale poco più sù abbiam riferite alcune parole. Egli continua:
«La generazione successa in Francia a quella che aveva fatta la rivoluzione, era tutta imbevuta dello spirito del Voltaire. E il giovane Manzoni fu egli pure un discepolo del terribile dileggiatore. Ma egli doveva essere insieme una di quelle nature che hanno sempre davanti a sè la visione del mistero ultimo delle cose, e sono da quella visione profondamente turbate. Il mistero di uno stato che, com’egli stesso più tardi scriveva, «è così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi di cui rende impossibile l’adempimento, che è un mistero di contradizione, in cui l’ingegno[xxv] si perde se non lo si considera come uno stato di prova o di preparazione per un’altra esistenza»; questo mistero, io dico, gli si affacciava troppo minaccioso, perchè egli potesse acconciarsi ad una filosofia la quale, priva affatto di critica, non distruggeva che col dileggio, e aveva la radice assai più in un impulso politico che in un concetto veramente razionale. Un’anima come quella del Manzoni, che non poteva vivere nell’incertezza sul più grande ed oscuro dei problemi, un problema in cui l’ingegno umano, abbandonato a sè stesso, si perde, doveva cercar l’uscita da quell’abbandono, e sentendosi come arrenata nelle acque basse della filosofia del Voltaire, doveva presto o tardi ritornare alle acque profonde e al gran mare della fede, e ritornando sentirsi attratta dal cattolicismo, il quale, data che sia la premessa, è il sistema più serrato e più logico che esista, un sistema che offre veramente un riparo sicuro a chi vi arriva dalle battaglie del dubbio»[15].
[12] Saggi critici; Napoli, 1878, pag. 50.—E del D’Ovidio si vedano ancora: Discussioni Manzoniane, Città di Castello, 1886, pag. 24; e Due parole sull’Innominato, nell’Illustrazione Italiana del 27 maggio 1894.
[13] E il Bonghi: «....se nell’animo della madre, naturalmente entusiasta, fervido, immaginoso, questa mutazione fu subitanea, nell’animo invece del Manzoni, in cui il poeta s’accompagnava col ragionatore freddo, sottile, acuto, la mutazione fu lenta, effetto di lunga meditazione sulle cose e d’un faticoso lavoro sopra sè medesimo». La conversione della famiglia Manzoni, nelle Horae subsecivae, Napoli. A. Morano, 1888, pag. 148.
[14] Chi sa se tra i motivi del disdegno manzoniano ad ammettere e descrivere conversioni miracolose, non ce ne fossero anche di letterarii! Certo, a lui così sincero e schietto come credente e come artista, dovevan far nausea le ipocrisie religiose e artistiche del Voltaire e dello Chateaubriand. Il primo di essi, a chi osava biasimare l’apparizione dell’Ombra di Nino nella sua Semiramide, opponeva con un candore e un ardore di catecumeno davvero commoventi: «Quoi! notre Religion aura consacré ces coups extraordinaires de la Providence, et il serait ridicule de les renouveler?». (Cfr. la mia Storia d’uno spettro, nell’Illustrazione Italiana del 25 marzo 1906).—L’altro, lo Chateaubriand, nel Génie du Christianisme (parte 4ª, libro VI, capitolo 2), aveva narrato d’un capitano Caraffa napoletano qualcosa di simile a quel che si vociferava intorno al Manzoni. «Un jour», racconta, «comme il se rendait au palais, il entre par hasard dans l’église d’un monastère. Une jeune religieuse chantait; il fut touché jusqu’aux larmes de la douceur de sa voix: il jugea que le service de Dieu doit être plein de délices, puisqu’il donne de tels accents à ceux qui lui ont consacré leurs jours. Il retourne à l’instant chez lui, jette au feu ses certificats de service, se coupe des cheveux, embrasse la vie monastique, et fonde l’ordre des Ouvriers pieux, qui s’occupe en général du soulagement des infermités humaines».—E altrove (pt. 4ª, IV, 1) va tutto in solluchero, nel descriver il modo tenuto dai gesuiti per convertire gl’Indiani del Paraguay. Narra: «ils avaient remarqué que les Sauvages de ces bords étaient fort sensibles à la musique: on dit même que les eaux du Paraguay rendent la voix plus belle. Les missionaires s’embarquèrent donc sur des pirogues avec les nouveaux catéchumènes; ils remontèrent les fleuves en chantant des cantiques. Les néophytes répétaient les airs, comme des oiseaux privés chantent pour attirer dans les rets de l’oiseleur les oiseaux sauvages. Les Indiens ne manquèrent point de se venir prendre au doux piége. Ils descendaient de leurs montagnes, et accouraient au bord des fleuves pour mieux écouter ces accents: plusieurs d’entre eux se jetaient dans les ondes, et suivaient à la nage la nacelle enchantée. L’arc et la flèche échappaient à la main du Sauvage; l’avant-goût des vertus sociales, et les premières douceurs de l’humanité, entraient dans son âme confuse; il voyait sa femme et son enfant pleurer d’une joie inconnue; bientôt, subjugué par un attrait irrésistible, il tombait au pied de la croix, et mêlait des torrents de larmes aux eaux régénératrices qui coulaient sur sa tête».—Questi gesuiti missionarii avevan dunque i modi e le attrattive delle Grazie; chè, dice il Foscolo (inno I), «solo
Si può immaginare come arricciasse il naso il Manzoni, dinanzi a codesto stracco paganesimo larvato e a codesto barocchismo sentimentale!
[15] Gaetano Negri, Segni dei tempi; 3ª ediz., Milano, Hoepli, 1903, pag. 67.—Il Fabris, che fu intimo del Manzoni, narrò (Memorie Manzoniane; Milano, Cogliati, 1901, pag. 131) «che l’origine della sua incredulità fu l’esser entrato in uno dei collegi ecclesiastici dove egli veniva allevato, un ragazzo d’una precoce empietà, il quale sedusse parecchi de’ suoi compagni, fra cui il Manzoni». Soggiunge: «così egli stesso mi raccontò; e quindi chiamava la sua una incredulità ignorante».
Or chi guardi serenamente, che qui vuol dire senza preconcetti confessionali, nelle opere del Manzoni che precedettero il suo ritorno alla fede, non può, a me pare, non riconoscere che l’uomo nuovo trovava già pronta e disposta nell’antico una forma, in cui adagiarsi senza veri urti o resistenze. A buon conto, ateo egli non era mai stato; e son versi appunto di quel Carme in morte dell’Imbonati, contro cui i critici ortodossi inveleniscono sì fieramente, questi, che hanno del dantesco e del petrarchesco insieme:
Dove fin le maiuscole al Quei e al Lui son del poeta, che dovrebb’essere stato miscredente. E son di quel Carme pur[xxvi] questi altri versi, che riaccennano alla città di Dio e alla vita beata che i buoni vi condurranno in eterno:
E non insisterò qui ancora sui precetti e sulle massime morali che in quello stesso Carme vengono, con severità e schiettezza di forma e di pensiero che ricordano il Parini dell’Educazione, inculcate e proclamate. Esse sono bensì quali ogni onesto e probo razionalista accetta e rispetta, ma altresì quali nessun credente rifiuta, o dovrebbe rifiutare. Vi si bandisce una morale profondamente ed eternamente umana, al di fuori e al di sopra d’ogni fede o contingenza religiosa.
E come nel Carme, così nell’Urania. Quel Giove, che qui ancor siede ne’ palagi d’Olimpo, ma così insolitamente pietoso dei mali ond’è afflitta e dolente l’umana stirpe, non ha che da mutar nome per diventare il Dio degl’Inni sacri. Sembrandogli oramai piena la vendetta dell’ardimento di Prometeo, del rapito foco, egli accolse più mite consiglio; e fermò di richiamar dalla terra le Furie, che vi avean fatto troppo empio governo:
A ricondurre l’amore tra gli uomini, quel Padre misericordioso mandò in mezzo ad essi le Virtù. Le quali, nella reggia olimpica, gli alitavan d’intorno.
Una novità mitologica codesta; dacchè i vecchi poeti ci avevan, sì, qualche volta riferito che presso al trono di Giove eran Temide o Dike, ma solo i Padri della Chiesa avevano immaginato intorno al Dio Padre tutto un corteo di Virtù,[xxvii] come la Verità e la Pace, la Misericordia e la Giustizia. Queste—e dalla poetica figurazione trasse partito il Milton—non avean rifinito di perorare pro o contra la redenzione dell’uomo, prima che il Verbo s’incarnasse; e avevan percorso il cielo e la terra, cercando chi potesse degnamente, e volesse, addossarsi le colpe dell’umanità, e riscattarla col sacrifizio di sè stesso.
Anche le Virtù dell’inno manzoniano, spirti obbedienti, discesero nel basso mondo, per attirare a sè gli occhi e le menti degli uomini inselvatichiti; e lo ricercarono tutto, ma in vano,
Del Giove, s’intende, misericordioso e virtuoso; chè invece l’alto consiglio dell’iroso e tirannico Giove omerico, il quale, corrucciato, volle sacrificate all’ira di Achille «molte generose alme d’eroi», s’era bene adempito! (Iliade, I, 5).
Ma il Giove buono non si diede per vinto. Al suo desco sedevano, movendo «una concorde d’inni esultanza» che inebriava «le menti degli Dei», le Muse: egli levò la destra, accennando;
Il Padre le esortò a tentar esse, con le loro arti blandamente persuasive, di schiuder le ardue menti.
Le Muse ritrovaron nel mondo le Virtù, le quali erravano solette e dolenti. Prima Calliope mosse «i bei precetti ad avverar del Padre», e s’accostò all’orecchio di Orfeo, susurrandogli dolci parole; la imitarono le altre sorelle, ciascuna eleggendo un mortale, cui ispirare gli armoniosi ammaestramenti:
Gli uomini, raggentiliti, assistettero a spettacoli non prima veduti:
Le personificazioni le aveva rimesse di moda il Monti. Ma codesta amabile Dea, degl’infelici sorriso, presso che sconosciuta al mondo classico, era stata negletta dai nuovi poeti del classicismo napoleonico. Essi, come quegli uomini primitivi, conoscevano bensì l’Offesa, la quale passeggiava con alta fronte, feroce e stolta, e provocatrice; non quel mite Genio che il Manzoni immagina le si opponesse:
Qui siamo in pieno mondo evangelico, e il poeta dell’Urania dà la mano a quello della Pentecoste. Sui passi del Perdono, veniva Nemesi, «seguace lenta ma certa»; la quale, quando s’accorge che le voci del Perdono non sono ascoltate, «non fa motto ed aspetta».
Chi non ricorda il Coro del Carmagnola?
Videro, quegli uomini primitivi, la Fatica che rimaneva in un cantuccio, inonorata e inascoltata; e a lei si avvicinava, amabile compagno, l’Onore, cercando di renderla più cara.
Codesto senso novo prenunzia, a me pare, molto vicino l’Inno del poeta, che, più risolutamente cristiano e sfranchito di quel ciarpame neoclassico, magnificherà ai «tementi dell’ira ventura» il rinnovato sacrifizio de
Così, a quelle nuove aure di pietà e d’amore, la società umana sorrise come, dopo uno squallido inverno, la terra ai tepori primaverili. Le Muse, «de’ lieti principii in cor secure», donarono agli uomini «il plettro e l’arte sacra del plettro», e le amiche Grazie «il dilettar denaro e il suader potente»:
Era l’ultima aetas virgiliana, il sospirato ritorno dei Saturnia[xxx] regna, ovvero un’età novissima, che si rannodava a quella ch’ebbe già ad annunziare
Era un’utopia, per così dire, retrospettiva, a cui forse spingevano pur le dottrine sociali del Rousseau; o una meditata riconciliazione con la più santa utopia della fratellanza evangelica? A ogni modo, il poeta, che voleva ostentare uno spensierato neopaganesimo, ecco che rivelava, nel fondo del suo cuore, un ardore di neofita e una sete d’idealismo cristiano, che male celavan le ceneri della miscredenza volterriana. In questo Carme, così classicamente drappeggiato, il paganesimo non è che al di fuori, nella forma. La Musa ispiratrice, l’Urania del nuovo poeta, «di caduchi allori non circonda la fronte in Elicona»; e le Grazie, che ne allietano il canto, non mendicano estranei fregi da intessere al vero, o profani diletti. La Musa manzoniana è severa e pudica, e caste e immacolate le Grazie che le fanno corona.
Il Manzoni ha già trovata persino la formola della nuova arte sua; così che più tardi, Apollo, irato contro i Romantici milanesi, non avrà se non da ripetere, nella terribile sua sentenza:
[16] Cicerone chiamò volubilis l’orazione facile, Brut. 28; e il Tasso, Gerus. lib., XX, 13, disse: «Così correan volubili e veloci Dalla sua bocca le canore voci»; e il Monti, Prometeo, I: «Nè della lingua all’imperfetto guizzo Permise la volubile parola».
Dopo la pubblicazione dell’Urania, nel 1809, il genio del Manzoni tacque, fino al 1815, quando vennero fuori i primi quattro Inni sacri. Che cosa era avvenuto in questi sei anni,[xxxi] che vanno dal ventiquattresimo al trentesimo del poeta, e son quelli dunque della virilità operosa? Ce lo dicono soprattutto le preziose lettere a Claudio Fauriel; a quell’amico «cortese»,
come protestava il Manzoni, negli sciolti A Parteneide.
Le lettere al Fauriel a noi pervenute sono cinquantaquattro,[17] e di esse la prima è datata da Susa, 17 febbraio 1807. Parecchie son quelle di quest’anno e dei successivi fino al 20 aprile 1812; poi succede un lungo silenzio di circa due anni. Il 9 febbraio 1814, ecco che il Manzoni si rifà vivo, per dar conto all’amico della sua felicità domestica e dei lavori che aveva tra mani. Comincia:
«Si je voulais m’engager à vous expliquer comment il s’est fait, qu’avec le plus vif et le plus constant souvenir d’un ami tel que vous, j’ai laissé passer tant de tems sans me rappeler à vous....., je ne saurais comment m’y prendre, et j’espère que vous voudrez concilier avec votre indulgente amitié ces deux faits, dont l’un n’est que trop indubitable, et sur l’autre desquels je désire bien ardemment que vous n’ayez jamais eu de doutes. Je romps enfin ce silence que je me suis si souvent reproché, ne sachant pas si quelque circonstance ne viendra pas me le faire garder forcément pour quelque tems, et me priver de la consolation d’avoir une lettre de vous».
Se si pensa ch’eravamo alla vigilia dell’abdicazione di Napoleone, s’intenderà facilmente come il timore di torbidi politici non era davvero campato in aria. Un tal Mantovani, antico servitore dell’Austria e molto devoto alla Chiesa, buon uomo del resto e smanioso dell’ordine, annotava in un suo[xxxii] diario, ora alla Biblioteca Ambrosiana, sotto la data del 1º gennaio di quell’anno:
«Incomincia il nuovo anno con un apparato assai lodevole, cioè non più colla speranza di esser liberati dal nostro governo, ma colla certezza di avere a giorni un grosso corpo di Austriaci a Milano. Questo pensiero ci fa tollerare le gravi e quotidiane contribuzioni, delle quali per la settima volta siamo aspramente angustiati». I sudditi, «gementi per l’orribile scorticazione», frenano le querele in attesa del vicino rimedio. «Milano ha un aspetto brillante, perchè avvivata dalla certezza di finirla».[18]
Occorre ricordare che il Ministro responsabile di quelle «quotidiane contribuzioni» e di quella «orribile scorticazione» era il Prina?
Fin dalla metà del dicembre 1813, l’esercito austriaco, sotto gli ordini del feld-maresciallo conte Bellegarde (di famiglia di condottieri, sul tipo del Conte di Carmagnola), aveva occupata la maggior parte della terraferma veneziana; e si buccinava che il re di Napoli, Gioacchino Murat, trattasse con lui ai danni del vicerè Eugenio. Certo, il 28 gennaio, il quartier generale dell’esercito napoletano era già a Bologna; e il 4 febbraio, Bellegarde occupava Verona. Di qui egli emanò un proclama, che strideva con quelli che il generale Carascosa e il procuratore Poerio venivan pubblicando, in nome del re Gioacchino, nell’ex-ducato di Modena e Reggio e nella provincia pontificia di Ancona. L’uno diceva: «Voi piemontesi, voi nobili toscani, e voi sudditi dell’antica Casa d’Este, tornerete nelle vostre felici condizioni d’una volta; la capitale del mondo cattolico cesserà di essere la seconda città di uno Stato straniero»; gli altri promettevano l’unità e l’indipendenza di tutta l’Italia, sotto l’unico loro re. E il giorno avanti che il Manzoni riprendesse la penna per iscrivere al Fauriel, l’8 febbraio, l’esercito austriaco, a cui il napoletano, venendo meno alle promesse, non s’unì, s’incontrò sul Mincio col franco-italiano condotto da Eugenio. Si combattè[xxxiii] con ardore e bravura dall’una e dall’altra parte; ma nè gli Austriaci riusciron nell’intento di porre il piede sulla riva lombarda, nè i Francesi a respingere il nemico di là dall’Adige. E che sarebbe avvenuto tra qualche giorno?
Il Manzoni aveva da poco comperata una casa, nella «contrada del Morone», al n.º 1171: quella stessa in cui poi passò tutta la lunga sua vita, e dove, fra tante altre, ebbe la visita di Cavour e di Garibaldi e del principe Umberto, e rifiutò garbatamente quella dell’arciduca Massimiliano (il povero Massimiliano!). Ad essa era congiunto, ed è ancora[xxxiv] un piccolo giardino: «où il y a un grand jardin», scriveva egli scherzosamente, «d’à peu près un dixième d’arpent». Poichè negli ozii di Brusuglio era diventato un giardiniere meglio che dilettante, ora si affretta a piantar qui le sue amate robinie[19] e abeti e rampicanti:
«où je n’ai pas manqué de planter des liquidambars, des sophora, des thuya et des sapins, qui, si je vis assez, viendront quelque jour me trouver par la fenêtre».
E intanto gli cresceva la famiglia. Il 21 luglio dell’anno avanti, gli era nato un secondo figliuolo (la primogenita, la Giulietta che poi andò sposa a Massimo d’Azeglio, era nata a Parigi, sul Boulevard des Italiens, al n.º 23, il 23 settembre del 1808; ed era stata tenuta a battesimo dal Fauriel, «homme de lettres, agé de 35 ans», e da Gaetano Boldoni, «homme de lettres, de 45 ans»): un maschietto questa volta, in cui aveva rinnovato il nome di suo padre. Veniva sù bene.
«....après avoir bien fait souffrir mon Henriette pendant la grossesse, il la dédommage à présent, et nous console presque à chaque instant par sa bonne santé, par sa tranquillité, par son hilarité et sa sagesse. Henriette le nourrit, et s’en trouve très bien. Il était né faible, et presque malingre, d’une mère qui était dans le même état; mais peu à peu tous deux se sont remis en force, au point qu’Henriette (à part des petites incommodités dont elle n’a jamais été bien libre) est une excellente nourrice, et mon petit Pierre est un des enfants mieux portants que l’on puisse voir».
La buona signora Enrichetta scriveva, alla sua volta, a una cugina che il neonato era «un bellissimo bambino e rassomigliava intieramente alla sua piccola sorella:... i suoi due primi nomi», aggiungeva, «sono Pietro Luigi, ma noi lo chiamiamo Pedrin». Un vero idillio domestico; e il babbo giardiniere, tra il sorriso dei bambini e le cure agricole, non dimenticava i versi. «Quant à moi», diceva, «je suis entre la famille, les arbres et les vers».
[17] Per codeste lettere, vedi: Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio inedito da Angelo de Gubernatis; 2ª edizione, Roma, 22 maggio 1880.—Sul Fauriel (nato a Saint-Étienne, il 21 ottobre 1772) e sulla sua corrispondenza col Manzoni, son da rileggere i due saggi del Sainte-Beuve, da prima apparsi nella Revue des deux mondes del 1845 e 1846 (il Fauriel era morto il 15 luglio 1844), poi nei Portraits contemporains, t. IV, Paris, 1889.—Scrissero anche del singolare letterato francese il Renan, nella Revue des deux mondes del dicembre 1855, e il Fortoul, nella stessa rivista, maggio 1846.
[18] Cfr. G. de Castro, La restaurazione austriaca in Milano (1814-1817); nell’«Archivio storico lombardo», a. XV. s. II. fasc. 3, 30 settembre 1888; pag. 597.
[19] Con la nipotina Vittoria, figlia di Pietro e moglie poi del senatore Brambilla, egli amava, più che del Romanzo, vantarsi d’essere stato «il primo introduttore delle robinie in Italia!».
Mette conto d’indugiarsi un momento a considerare il Manzoni sotto questo nuovo aspetto, di agricoltore e di giardiniere. Una simile simpatia per gli esperimenti agricoli mostrò prima di lui, tra i nostri grandi poeti, il Petrarca.[20]
In una lettera da Brusuglio, 20 luglio 1810, il Manzoni, ch’era tornato pochi giorni prima, dopo una sosta più o meno lunga a Lione e a Torino, da Parigi, informa gli amici, che con tanto rimpianto aveva lasciati alla Maisonnette, dei risultati ottenuti dalla seminagione del cotone, e dei tentativi fatti a Lecco pel caffè.
«En vérité le climat est bien meilleur ici; le soleil y donne de bonne foi, je suis déjà devenu tout-à-fait cultivateur. J’ai vu le coton dont j’ai envoyé de Paris la graine....: quelques plantes ont déjà plus d’un pied, de sorte que j’espère en cueillir, quoiqu’il ait été planté à la fin de mai. Si cela réussit, il me paraît qu’on pourra ne plus douter de celui qu’on plantera à la moitié d’avril. J’ai demandé compte de celui que j’avais planté moi-même il y a deux ans, et on m’a présenté un panier de cocons, dont une partie bien mûris; que sais-je si ç’a été cueilli à temps? Il y a mieux: c’est qu’on m’assure dans la maison d’avoir pris du café planté et cueilli a Lecco: nous verrons l’année prochaine. J’ai semé de la luzerne; le sainfoin vient ici naturellement dans les blés et parmi les buissons».
Il 21 settembre riscrive, con maggior calore e meglio addottrinato, al suo Fauriel, «à ce divin Fauriel»:
«.... je suis dans les projets d’agriculture jusqu’au cou. J’ai trouvé ici beaucoup d’excellents livres, dont je ne savais pas même l’existence: ce m. Re entr’autres en a écrit plusieurs avec une sagesse, une expérience et une étendue de connaissances qui font vraiment plaisir. Les cotons sont flambés pour cette année, excepté le nankin dont je ferai quelques graines; mais ça ne me décourage nullement....».
In un’altra lettera, del febbraio 1811, discorre ancora lungamente di cotone e di trifoglio, e sollecita una larga spedizione di semi. Soggiunge:
«Pour les graines de fleurs, soyez le plus généreux que vous pourrez; et si on pouvait en avoir d’arbres ou arbrisseaux exotiques, que vous pourrez conjecturer n’être pas encore multipliés en Italie, je me recommande à vous. J’ai le Bon-Jardinier, Dumont-Courset, et Miller. Le professeur Re a publié Il Giardiniere avviato nella sua professione, que je crois un très bon livre.—À-propos, j’ai demandé ici au pépiniériste de la graine de robinier; il m’a dit que cette année en avait donné très peu, que lui n’en avait qu’en petite quantité, et il a ajouté que celle venue ici levait très difficilement; cher et bon ami, ajoutez à votre envoi un bon paquet de cette graine, qui, je crois, se trouve à Paris très facilement. La Datura arborea se multiplie-t-elle par graines? Si cela est, que j’en aie. Et peut-on en avoir du cèdre du Liban? Je ne crois pas vous avoir parlé de mon dattier; il a peut-être six pouces à présent (il a été semé en juillet passé), mais le Dictionnaire d’Agriculture me dit qu’il lui faut vingt ans pour avoir je crois deux ou trois pieds: c’est encourageant».
E ancora, il 6 marzo 1812:
«.... il vaudra mieux vous prier de m’écrire pour me donner avis de votre départ, et pour me parler par anticipation de votre Dante, qui doit à présent être bien avancé.[21] Vous trouverez ici un jardin aussi bien avancé; vous trouverez une montagne qui a déjà presque dix pieds de hauteur, et que les géologues de la postérité assureront avoir été formée par le Seveso, qui est un torrent qui passe a peu de distance de la dite montagne. Vous trouverez aussi des forêts; mais avant qu’elles soient achevées, il faudra que vous ayez la bonté de me procurer les graines dont je joins la note a cette lettre».
Il Fauriel non avrebbe dovuto e potuto resistere a un invito, che presentava tante attrattive! E il Manzoni non si stanca d’insistere: «Venez! venez donc! J’ai mille projets de plantations que nous exécuterons ensemble». E poi: «J’ai trouvé (c’est-à-dire, je sais où trouver) une fameuse pièce pour votre travail; ce n’est rien moins qu’une lettre inédite de Vico sur Dante: Cuoco[22] l’a donnée à Bossi, qui me l’a[xxxvii] promise». Attendeva con impazienza nuove spedizioni di semi, e intanto si scusava pei fastidii che con simili richieste egli arrecava agli amici della Maisonnette: «des longues et[xxxviii] fatigantes recherches que ces graines vous ont coûté». In quell’aprile egli andava a Brusuglio quasi ogni giorno, per[xxxix] attendere e sorvegliare ai lavori del giardino. «Croiriez-vous», scriveva il 20, «que nous plantons encore? et que nous planterons la semaine prochaine? tant la saison est arriérée!».
Ora, pur codesto infatuamento georgico, come gli entusiasmi per la poesia romantica e per la storia medievale, s’erano accesi nell’animo del Manzoni negli anni di Auteuil e della Maisonnette. La dea di quei ritrovi intellettuali, l’amabile e amata signora Condorcet, era stata, e continuava ad essere, un’appassionata studiosa di botanica; e l’amico preferito, il Fauriel, non lo era meno. Negli anni, che anche ora ricordava con inestinta nostalgia, trascorsi a Saint-Étienne e a Tournon, questi aveva alternate le ardenti discussioni d’arte e di politica con lunghe passeggiate attraverso i campi o su per le montagne donde sgorga la Loira. La flora, i muschi soprattutto, avevan meglio attirata la sua simpatia; ed egli, secondando il bisogno del suo spirito, non s’era contentato d’una vaga ammirazione da dilettante, ma aveva approfondito quanto la scienza ne era venuto scrivendo. E quell’amore di gioventù e di provincia s’era confuso più tardi, nella capitale, con un amore che avrebbe poi tenuta avvinta tutta la sua vita. Un giorno dell’inverno 1801, quand’egli era addetto quale segretario particolare presso il Gabinetto del famoso ministro di polizia Fouché, aveva incontrato al Giardino delle Piante la signora Condorcet. Divennero presto amici; e il Fauriel nelle conversazioni di Auteuil e della Maisonnette trovò un appagamento più pieno de’ suoi gusti di scienziato e di storico, che non nel salotto della Staël, dove di preferenza s’agitavano questioni d’alta politica. Dopo, quando la colta signora rimase vedova, egli si era rifugiato con lei nella campagna presso Meulan; dove appunto li avevan ritrovati la Giulia Beccaria e il suo vénéré Charles, e dove venne a ricercarli Alessandro Manzoni.
Il quale conservava religiosamente un caro ricordo agricolo della gentile ospite. In una lettera al Fauriel del maggio 1821, esce a dire:
«Veuillez dire à madame de Condorcet que toutes les fois que je puis m’occuper d’agriculture ou de jardinage, je consulte de préférence l’Almanach du Bon Jardinier de 1820, et que je ne manque jamais de donner un coup d’oeil au frontispice».
Vi era, par facile l’intenderlo, una dedica della donatrice.
Occorre aggiungere che, in Lombardia, di quel tempo, i signori gareggiavano a piantare nelle loro ville begli alberi esotici e a coltivarvi bei fiori: ne aveva dato l’esempio l’abate Crivelli, nel magnifico parco di Mombello. Così che, anche nel Manzoni, si confondevano due amori: quello avito del signore lombardo, e quello nuovo del figlio dell’Enciclopedia e della Rivoluzione.[23]
[20] Vedi nel volume del De Nolhac, Pétrarque et l’humanisme, Paris, 1892, il curioso «excursus» Pétrarque jardinier, pag. 385 ss.
[21] Soltanto nella Revue des Deux Mondes dell’ottobre 1834 il Fauriel pubblicò poi la sua Vita di Dante. Le lezioni su Dante e le origini della lingua e della letteratura italiana furon pubblicate postume, dal Mohl, nel 1854, in due volumi.
[22] Vincenzo Cuoco, l’illustre autore del Platone in Italia e fondatore a Milano del Giornale Italiano, ebbe rapporti d’amicizia col giovane Manzoni. Rimase a Milano dalla metà del dicembre 1800 ai primi d’agosto 1806.—Cfr. l’eccellente studio di Attilio Butti, La fondazione del “Giornale Italiano„ e i suoi primi redattori, nell’«Archivio Storico Lombardo», 30 settembre 1905; pag. 121 ss.
[23] Scrivo queste pagine nella villa Negri alla Cassinetta, sul Naviglio grande, presso Abbiategrasso; dove appunto, tra maestosi tigli ed ippocàstani e noci d’India e gestroemmie e platani e magnolie e ailanti e thuie e abeti, piantati suppergiù nel primo decennio del secolo scorso, torreggiano due magnifici cedri del Libano. Quasi ad illustrazione del giardino, c’è poi una biblioteca ricca di libri d’agricoltura e di giardinaggio: dagli Elementi d’agricoltura di Ludovico Mitterpacher di Mitternburg tradotti da Carlo Amoretti, Milano 1794, in tre grossi volumi, alle Memorie dell’Accademia d’agricoltura commercio ed arti di Verona, 1807; dalla Coltivazione dei bigatti del prete Antonio Abate, 1803, al saggio Dei letami del conte Filippo Re, 1815; dall’opuscolo sulla Coltivazione delle patate e loro uso di Carlo Amoretti, bibliotecario dell’Ambrosiana, 1801, ai Saggi di agricoltura pratica del conte Carlo Verri, 3ª ediz., 1818; dall’École du jardin potager del De Combles, 6ª ediz., 1822, a Le bon jardinier pour l’année 1827, ventottesima edizione!
Il Fauriel era stato messo a parte dell’evoluzione religiosa che si veniva compiendo nell’animo del Manzoni: «il già sì fiero Alessandro», come, non senza enfasi e compiacimento d’apostolo, lo chiamava monsignor Luigi Tosi. Il quale era un po’ come il Sarto dei Promessi Sposi: avendo avuto mano a quella conversione, gridava volentieri al miracolo. Scriveva da Milano all’abate Dègola, genovese (n. 1761, m. 1826), il 26 agosto 1810:
«Buon per me... che il Signore ha fatto tutto in questa famiglia. Egli ha data a tutti tre tanta semplicità e docilità, quanta non ne ho mai trovata in vent’anni di ministero, nemmeno nelle persone più rozze e più basse. Oh qual miracolo è questo della Divina Misericordia! Non la sola Enrichetta, che è un angelo di ingenuità e di semplicità, ma Madama, ed anche il già sì fiero Alessandro, sono agnellini che ricevono con estrema avidità le istruzioni più semplici, che prevengono i desiderii[xlii] di chi dovrebbe dirigerli, che dànno coraggio a chi loro parla onde parli liberamente, che tutto mettono a profitto di loro santificazione. Intanto il sistema di famiglia è ordinato nel modo più savio; l’unione dei cuori è mirabile; e tutti cospirano ad animarsi vicendevolmente, a rinfrancarsi, a disprezzare tutti i rispetti umani. La città nostra è sommamente edificata da questo prodigio della destra del Signore; i buoni sono inteneriti, e presagiscono grandi beni alla causa della Religione da un tratto di grazia così straordinario ed inaspettato... Alessandro ha intrapresa la carriera con estrema docilità e sommessione; domani avremo ancora una lunga conferenza, e se il Signore conserva ed accresce in lui le sue benedizioni, egli pure sarà per fare gran passi»[24]
Non pare di riconoscere, nella pomposa eloquenza di questo monsignore, quella non meno calda e colorita del diacono Martino, nell’Adelchi?
Il Manzoni, dal canto suo, convinto d’essersi rimesso sulla buona via, tentava d’attirarvi, con quella signorilità di garbo che in lui era natura, anche l’amico del cuore. E gli scriveva da Brusuglio, il 21 settembre di quello stesso anno 1810:
«Quant à moi, je suivrai toujours la douce habitude de vous entretenir de ce qui m’intéresse, au risque de vous ennuyer. Je vous dirai donc qu’avant tout je me suis occupé de l’objet le plus important, en suivant les idées religieuses que Dieu m’a envoyé à Paris, et qu’à mésure que j’ai avancé, mon coeur a toujours été plus content, et mon esprit plus satisfait. Vous me permettez bien, cher Fauriel, d’espérer que vous vous en occuperez aussi. Il est bien vrai que je crains pour vous cette terrible parole: Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et revelasti ea parvulis. Mais non, je ne le crains point, car la bonté et l’humilité de votre coeur n’est pas inférieure ni à votre esprit ni à vos lumières. Pardon du prêche que le parvulus prend la liberté de vous faire».
A buon conto, ora ha smesso l’idea di tradurre il poema del Baggesen; come invece n’aveva fatto solenne promessa in quella epistola A Parteneide, del 1807-08, che termina:
Tra’ letterati di Lombardia, quando il Manzoni diffuse codesto poema nella traduzione del Fauriel, esso non era piaciuto. E non tanto per difetti suoi propri, quanto pel genere idillico cui apparteneva, che qui riusciva insopportabile. Il febbraio del 1811, il Manzoni riscriveva all’amico:
«Il ne faut cependant pas que je ne vous dise rien de Parthénéide. Vous savez que j’avais le projet de la faire lire à tous ceux de ma connaissance qui savent lire. Je l’ai fait; mais, entre nous, avec beaucoup moins de succès que je ne l’espérais. Baggesen n’en saura rien: mais voilà ce qui le consolerait s’il en était informé: c’est qu’on dit qu’au moins Parthénéide est plus passable qu’Hermann et Dorothée. Je dis que ça le consolerait, parce qu’il verrait que ce n’est pas contre son Poème, mais contre le genre, qu’on est prévenu. Difatti on a plaint beaucoup son beau talent de s’être exercé sur des niaiseries».
Alla versione il Fauriel aveva premesso un suo dotto, assennato e arguto Discorso preliminare, dove faceva man bassa su tutti i trattati di rettorica, ed inaugurava una critica filosofica, che guardava nell’intimo dell’opera d’arte. «C’est une critique au vrai sens d’Aristote, qui parle chez nous pour la première fois», sentenziava un giudice che se n’intendeva, il Sainte-Beuve.[25] E il Discorso sì, era stato gustato anche qui, da tutti.
«Mais votre discours», continuava il Manzoni, «a été goûté extraordinairement par tous. On admire la sagesse et la nouveauté des principes que vous posez; on est enfin enchanté: mais on dit que le genre Idyllique est insipide, sans variété, sans intérêt, sans vraisemblance: que ces poèmes le prouvent. Arrangez-moi cela. Au reste, ne prenez pas tout cela à la lettre, car il pourrait se faire que j’eusse entendu cela d’une manière plus exagérée qu’on n’a voulu le dire».
Il Manzoni ora aveva per il capo qualcosa di radicalmente diverso dal viaggio delle tre giovani sorelle a traverso l’Oberland[xliv] fino alla Jungfrau: il dio della Vertigine e il dio dell’Inverno, troneggianti sui ghiacciai alpini, nè lo attiravano, nè lo commovevano più. Nel suo ardore di neofito, egli veniva vagheggiando l’idea di comporre una serie di Inni sacri, e fissava sulla carta dodici soggetti: 1. Il Natale.—2. L’Epifania.—3. La Passione.—4. La Risurrezione.—5. L’Ascensione.—6. Le Pentecoste.—7. Il Corpo del Signore.—8. La Cattedra di San Pietro.—9. L’Assunzione.—10. Il nome di Maria.—11. Ognissanti.—12. I Morti. Dall’aprile al giugno 1812, ne aveva già composto uno, La Risurrezione: quel forte aveva finalmente scosso e gettato via il logoro bagaglio neoclassico, che ne impacciava i movimenti;
L’intonazione morale e qualche procedimento artistico permangono pariniani. Le interrogazioni onde l’Inno comincia («Or come a morte La sua preda fu ritolta? Come ha vinte...? Come è salvo...?»); le figurazioni scultorie («dall’un canto Dell’avello solitario Sta il coperchio rovesciato»; «Un estranio giovinetto Si posò sul monumento...»); il colorito realistico («Non è madre che sia schiva Della spoglia più festiva I suoi bamboli vestir»); i precetti morali e sociali, inculcati con bonaria autorità («Sia frugal del ricco il pasto....»): fanno pensare agli ammirati modelli dell’austero predecessore. Ma qui la morale, che vorrei dire stoica, del cittadino abate è pervasa e sublimata dalle essenze più pure ed eterne del Vangelo. Col fiero laico, già volterriano, rifiorisce la poesia che spera e prega, che accenna «al premio che i desidèri avanza», che, sconfortata dell’impotenza dell’umana Ragione, ridispiega fiduciosa le ali verso quel «Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola».
Con la lettera, onde siamo mossi, del 9 febbraio 1814, il[xlv] Manzoni informa il Fauriel d’aver condotti a termine altri due degl’Inni: certamente Il nome di Maria, che fu composto dal 9 novembre 1812 al 19 aprile 1813, e Il Natale, dal 13 luglio al 29 settembre 1813.
«J’ai écrit deux autres Inni, avec l’intention d’en faire une suite: le premier de ceux-ci, qui ne sont que manuscrits, a eu tout le succès que je pouvais désirer; le second n’a pas été si approuvé, ce qui m’a fait croire que tous ceux qui en ont jugé avaient perdu le sens commun, eux qui avaient tant de pénétration quand ils ont trouvé les autres bons! Quand les temps seront un peu plus tranquilles, je les soumettrai à votre jugement, qui est pour moi la plus grande autorité».
[24] Cfr. Eustachio Dègola, il clero costituzionale e la conversione della famiglia Manzoni; spogli da un carteggio inedito di Angelo De Gubernatis; Firenze, Barbèra, 1882; pag. 494-95.
[25] Portraits contemporains; Paris, 1889. IV, pag. 196.
In grazia degl’Inni, il Manzoni aveva messo da parte—per poco tempo, come immaginava, nella certezza di riprenderlo poi più tardi (sono illusioni di cui si può esser vittima anche senza esser «letterati grandi»!)—un altro suo poemetto; che, a giudicarne dagli scarsi indizi, sarebbe riuscito d’ispirazione, anch’esso, tra virgiliana e pariniana.
«Il s’en faut bien que j’aie mis de côté mon petit poème, quoique depuis quelque temps je n’y ai pas mis la main; mais j’ai tout mon plan fait, et quelques morceaux d’écrits».
Di codesto disegno generale e di codesti brani il Bonghi dichiarò di non aver ritrovata traccia nè tra i manoscritti manzoniani, nè presso gli amici del poeta. Non è improbabile che altri, in grazia di più diligenti ricerche, possa essere più fortunato. Ad ogni modo, da una lettera precedente, del 5 ottobre 1809, scritta a Parigi e diretta alla Maisonnette, apprendiamo che il soggetto del poema era la vaccinazione.
«Je suis plus heureux que je ne le mérite, pour ma Vaccine. Je réçois de Milan un extrait d’un ouvrage que l’on va imprimer, et dans lequel il est dit que non seulement on a trouvé la petite vérole dans les vaches en quelques endroits de la Lombardie, mais que dans la Valle di Scalve, qui est dans les montagnes de la Bergamasque, il y avait une tradition, que l’on conduisait les vaches infectes dans les maisons de ceux qu’on voulait preserver de la petite vérole naturelle. Ainsi, voyez, j’ai vaccine, Lombardie, montagnes et tradition!».
Si trattava dunque d’una specie d’ampliamento, sul modello delle Georgiche, con variazioni didascaliche, descrittive e narrative, della famosa ode al dottor Bicetti? A buon conto, oramai il poeta aveva già sotto mani, sulla tavolozza, quel che di meglio, anzi d’essenziale, l’arte sua pretendeva: l’ambiente storico o leggendario della sua Lombardia, e quei monti, quella pianura a perdita d’occhio, quei colli «beati e placidi», quei laghi incantevoli, quei fiumi e quei ruscelli, che son già nello sfondo delle sue tragedie, e son tanta parte del suo romanzo.
Vero è che il momento buono di mettersi intorno a codesto poema non veniva mai. Aveva, sì, fatto un altro passino avanti. Per quanto egli fosse un grande ammiratore del Giorno, e di quel verso sciolto che ha tutta la squisita e snella eleganza d’una clamide, onde gli scultori greci rivestivan le Giunoni o le Minerve, le Flore o le Muse; e ammirasse, anche in questo d’accordo col Fauriel, la stupenda versione montiana dell’Iliade[26]: si era dovuto convincere che, per un poema un po’ ampio, il verso sciolto dovesse riuscire a stancare. Altro è un poemetto, come il Carme all’Imbonati e l’Urania, come il Prometeo del Monti e I Sepolcri; e altro, poniamo, un poema come L’Italia liberata dai Goti o Le Api del Ruccellai o La Coltivazione dell’Alamanni. Il metro veramente acconcio per componimenti di tanta ampiezza, nella nostra poesia, è l’ottava: quella dell’Orlando Furioso, se non anche quella della Gerusalemme Liberata, e della Coltivazione de’ Monti di Bartolomeo Lorenzi.[27]
Il 6 marzo del 1812, il Manzoni riscriveva da Milano:
«Je vous dirai aussi un mot de ce travail dont je vous ai parlé à Paris. Je n’y ai pas trop pensé, ainsi je n’ai fait jusqu’à présent que le plan et le commencement du premier chant. Il est en octaves, auxquelles je me suis decidé par la crainte qu’une suite trop longue de vers blancs ne devint assommante, et je m’en trouve très content. Mais je pense bien vous consulter là-dessus, si vous avez la patience de m’écouter».
Il 20 aprile, si era ancora allo stesso punto: il poema stava molto in mente del poeta, ma quanto al tradurlo sulla carta non sembra fosse progredito. Anzi si direbbe, a giudicarne dalla risposta del Manzoni, che le assennate osservazioni del Fauriel non dovessero contribuir molto a confortare e spingere il poeta a quella traduzione. Riscriveva da Brusuglio:
«Un mot de mon ouvrage; que l’intérêt que vous y prenez m’est cher! Je suis plus que jamais de votre avis sur la poésie; il faut qu’elle soit tirée du fond du coeur; il faut sentir, et savoir exprimer ses sentiments avec sincérité: je ne saurai pas comment le dire autrement. Quel dommage qu’après avoir prétendu faire de la poésie sans ces qualités, on se soit avisé à présent de la gâter dans ces qualités-là même! J’ai bien des choses à vous dire là-dessus, et j’espère que j’en aurai davantage à entendre, car c’est toujours pour moi un grand plaisir et un grand profit».
Certo, anche un poema sulla vaccinazione può dar luogo a poesia sentita, cavata dal fondo del cuore, e può essere espressa con sincerità; ma insomma, non è proprio un poema didascalico-narrativo quel che si sia meglio disposti a comporre, quando si è in quell’ordine d’idee circa la poesia! Il Manzoni non ne aveva però smesso il pensiero, anzi fa, sul proposito, nuove risoluzioni. Continua a dire:
«Vous avez deviné que j’ai agrandi mon plan; je l’ai même bien établi à présent, et j’en vois déjà beaucoup de détails. J’ai cependant pensé de ne pas trop m’occuper de ceux-là que quand j’y serai. Quant au style et à la versification, après m’être un peu tourmenté là-dessus, j’ai trouvé la manière la plus facile, c’est de ne pas y penser du tout. Il me parait qu’il est impossible d’appliquer dans le moment de la composition aucune des règles, ou qu’on peut avoir apprises, ou que notre expérience peut nous fournir; que de tâcher de le faire, c’est réussir à gâter sa besogne, et qu’il faut bien penser, penser le mieux qu’on peut, et écrire. Je me suis souvenu alors du verbaque provisam rem non invita sequentur [Hor., A. Poetica, v. 311], que je trouve être la seule règle pour le style, sans vouloir mettre en doute l’utilité réelle et très grande qu’il y a dans les recherches sur les causes des beautés du style, ni les bons effets de ces études sur l’esprit de celui qui fait des vers, et sur ses vers par conséquent».
Qui ci si affaccia già il critico audace della mirabile Lettera sulle Unità di tempo e di luogo, e il poeta spregiudicato delle tragedie; qui lo scrittore più meditativo, o uno[xlviii] dei due più meditativi, dell’Italia nuova (giusti son duo; ma non sembra vi siano ora molto intesi, dacchè altre faville hanno i cori accesi!), annunzia già il suo programma del pensarci sù!
Dal naufragio, che pare travolgesse il poemetto, furon salvati due versi soltanto, la chiusa d’un’ottava, mercè l’indiscrezione del più intimo degli amici del Manzoni. Scrivendo al Giusti, Tommaso Grossi venne fuori a dire:
«....Quando parli del concetto che si presenta splendido alla mente, e che costa tanto sforzo a tradurlo sulla carta, e riesce sempre monco, mi tornano alla memoria due versi del nostro Alessandro, che si trovano in una certa filastrocca inedita e non compita, che lavorò da giovane, e che avea per titolo: L’innesto del vaiuolo. Volendo anch’egli significare in versi quello che tu significhi in prosa, finiva una ottava così:
[26] «Monti a été enchanté du jugement favorable que vous faites de son Iliade». Lettera del Manzoni al Fauriel, febbraio 1811.
[27] Non è forse inopportuno ricordare che il Parini aveva scritto un sagace Parere su codesto poemetto del Lorenzi. Cfr. la mia edizione 2ª delle Poesie di G. Parini, 1906, pag. 70.
Le vicende politiche venivano a turbare tanto idillio domestico, e tanta operosa pace di studi e di poesia. Ricordo ancora due date: il 20 dicembre del 1813, gli Alleati avevan passato il Reno, e invaso il territorio francese; il 25 gennaio 1814, Napoleone aveva con un nuovo esercito lasciato Parigi, e andava loro incontro. Il 9 febbraio, come ho detto, il Manzoni rompeva il lungo silenzio con l’amico della Maisonnette, per riparlargli della famiglia, del giardino, del poemetto sulla vaccinazione, degl’Inni sacri. Soggiungeva:
«Ne trouvez-vous pas un peu extraordinaire qu’au milieu de tout ce tapage je vous parle de ces affaires? Mais vous savez que c’est un des plus grands mérites des poètes, fra tanti e tanti a lor dal ciel largiti, de trouver toujours le moyen de parler de leurs vers».
L’11 febbraio, la guarnigione francese di Verona, stretta dagli Austriaci, non potè più resistere, e s’arrese. Il 7 marzo, ottomila tra Inglesi e Siciliani, condotti da lord William Bentinck, il quale diceva di propugnare la costituzione di uno Stato libero italiano, sbarcarono presso Livorno; e il 14,[xlix] l’ammiraglio vi proclamò d’esser venuto a stendere la mano agl’Italiani «per liberarli dal ferreo giogo dei Bonaparte». I Napoletani, con propositi non occulti di raggruppar la Penisola in un’unica monarchia indipendente, si fortificavano in Ancona e venivano via via occupando le altre città delle Marche. Sulle lagune, sul lago di Garda, sulle rive dell’Adige e del Mincio, avvenivano frequenti scontri degli Austriaci coi franco-italiani, con varia fortuna. Tra il quartier generale di re Gioacchino, il gabinetto dell’imperatore Francesco e lord Bentinck, era un vivo scambio di lettere. Nonostante le promesse e le belle parole, si capiva che l’Austria intendeva soprattutto alla restaurazione delle antiche dinastie: e il suo esercito, a buon conto, era entrato in Roma e vi aveva occupato il castel Sant’Angelo; e il conte Starkemberg s’era insediato in Firenze; e il conte Nugent creava, nei dipartimenti del Panaro e del Crostolo, un governo militare provvisorio, in nome dell’arciduca Francesco d’Austria-Este, erede di Ercole Rinaldo ultimo duca Estense, morto duca del Brisgau.
La Lombardia, dal Mincio al Ticino, costituiva ancora il Regno d’Italia, e il vicerè Eugenio n’era tuttavia a capo. Sennonchè si presentivan prossimi, e generalmente si auguravano, possibili e più o meno radicali mutamenti. Il Beauharnais non v’era propriamente odiato, ma neanche amato. «Allevato ne’ campi di vincitori e di capitani, ma più d’ogni altro sotto la verga del loro maestro, aveva imparato a guerreggiare, e a temere d’acquistarsi regno da sè. A dirne il vero», soggiunge il Foscolo[28] «pareva nato solo a regnare in tempi tranquilli, dotato com’era di forte senso comune; di cuore perplesso a chi non sapeva incalzarlo; amorevole, non però liberale nè confidente; poco magnifico, se non in cose che potevano fruttare o rivendersi a un tratto; e prontissimo a sentirsi predominare dalle menti e dalle anime superiori alla sua». Amata invece, e da tutti, era la viceregina, la soave Augusta Amalia di Baviera, «bellissima fra le giovani, e d’indole angelica, e madre di principi nati in[l] Italia».[29] Il Foscolo, che la definisce così, disegnava di celebrarla nell’Inno secondo delle sue Grazie; dove aveva abbozzato per lei questi versi:
Rispettato tuttora, ma reso poco valido dagli acciacchi, era il cancelliere Francesco Melzi duca di Lodi, il quale aveva varcata la sessantina. Odiati invece, per la loro arroganza, erano il conte Méjean, segretario del Principe, e il Darnay, zelante direttore delle Poste, che voleva dire efferato intercettatore di corrispondenze: e basterebbe sentire il Manzoni, per farsi un’idea del ludibrio a cui era ridotto il servizio postale. Mal tollerati erano altresì alcuni dei ministri: i conti Vaccari e Paradisi, in ispecie, anche perchè, dice il Foscolo, l’uno essendo bolognese e l’altro modenese, eran «nominati forestieri in Milano».[30] Odiatissimo poi era il[li] novarese conte Prina, ministro delle Finanze, una delle più implacabili sanguisughe che mai abbiano servito alle dispendiose ambizioni del conquistatore. L’oculato duca Melzi lo aveva segnalato come agente pericoloso fin dal 1802, in un rapporto al Primo Console; ma codesti biasimi sonavano elogi all’orecchio del monarca, che della pietà non sapeva cosa farsi. Al cancelliere del piccolo Regno italico, questi avrebbe potuto rispondere quel che più tardi non si peritò di ribattere al Metternich: «Vous n’êtes pas soldat, et vous ne savez pas ce qui se passe dans l’âme d’un soldat. J’ai grandi sur les champs de bataille, et un homme comme moi se soucie peu de la vie d’un million d’hommes!»[31].
Napoleone era ancora «in solio», ma non più «folgorante»: la «reggia» rovinava, e il fantasma del «triste esiglio» si faceva ogni giorno più minaccioso; alle voci di «servo encomio» succedevan quelle di «codardo oltraggio». Anche in Milano gli scontenti levavano il capo. E mentre gli Austriaci premevan di fuori, e richiamavano il Principe e le[lii] sue milizie al confine, di dentro gli austriacanti, per la più parte aristocratici o burocratici, e i così detti Italici, ch’eran gli zelatori di ordinamenti nuovi, facevan leva insieme per rimuovere quel governo prepotente e rapace. Le simpatie del giovane Manzoni erano, s’intende, per gl’Italici; tra’ quali, com’egli si segnalava, oltre che per il resto, per la eccessiva prudenza, così si poneva in vista, con pericolosa imprudenza, il giovane conte Federico Confalonieri. Non so se già allora, certo di poi, nelle tragiche vicende di codesto audace cospiratore, il Manzoni gli si mostrò affezionato estimatore; e non esitò a manifestare, sotto gli occhi sinistri e sospettosi dell’aquila grifagna, la sua ammirazione per la eroica compagna del martire, la contessa Teresa Casati. Pel sepolcro di lei, morta di ansie e di crepacuore il 26 settembre del 1830, quando ancora il marito era imprigionato allo Spielberg, egli dettò una delle poche sue epigrafi, che fu scolpita nella tomba della famiglia Casati a Muggiò presso Monza; dove tra l’altro diceva: «Maritata a Federico Confalonieri il 14 settembre 1806—ornò modestamente la prospera sorte di lui—l’afflitta soccorse con l’opera e partecipò con l’animo—quanto ad opera e ad animo umano è conceduto.—Consunta ma non vinta dal cordoglio—morì sperando nel Signore dei desolati...—Vale intanto, anima forte e soave!». E al Confalonieri medesimo egli non si peritò di dare una esplicita prova dell’immutabile suo attaccamento, mandandogli allo Spielberg il libro dell’abate Ph. Gerbet, Considérations sur le Dogme générateur de la piété catholique (Paris 1833), che, in quei tempi di rinnovato fervore religioso, meritò al suo autore il nome di Platone cristiano. Vi scrisse sulla prima pagina:
A Federigo Confalonieri.
Che può l’amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell’esiglio, la desolazione d’una perdita irreparabile? Qualche cosa, quando preghi: chè, se sterile è il compianto che nasce nell’uomo, e finisce in lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dio ritorna.
Alessandro Manzoni.
Milano, 23 aprile 1836.
[28] Lettera apologetica, nelle Prose; Firenze, Le Monnier, 1850, pagina 556.
[29] A proposito di codesti principi, m’è caro rimandare all’interessante articoletto dell’amico prof. Giovanni Bognetti, Nascite sovrane in Milano (1773-1830), nella miscellanea nuziale Da Dante al Leopardi; Milano, Hoepli, 1904, pag. 652 ss.—Il Bognetti riferisce (p. 659) un brano di lettera del Melzi ad Eugenio, scritta dopo la partenza della viceregina, in cui poteva dirgli senza tema di cortigianeria: «Je puis assurer aussi à mon tour que tout est tranquille à Milan, mais bien triste, surtout depuis le départ de la Princesse, qui a réellement affecté toutes les classes de la population».
[30] Non so quanta fede meriti qui il Foscolo. Egli è di umor nero contro i Milanesi, ora. Comunque, se questi, e allora e poi, peccarono di eccessivo municipalismo, è certo che il maggiore tra essi, e allora e poi, aborrì da un cotal sentimento, perniciosissimo ai suoi ideali di patria. Ricordo un solo episodio. Al genero G. B. Giorgini, che gli aveva mandato da leggere gli stampini del suo opuscolo Dell’unità d’Italia in ordine al diritto e alla storia (Milano, Redaelli, 1861), egli scriveva l’11 marzo 1861: «L’esserti fatto tanto umile, mi fa esser tanto temerario. T’avverto dunque che se non mi viene un tuo avviso in contrario, a posta corrente, farò sulle prove del torchio... un piccolo cambiamento... A un calabrese sostituirò un Fabrizio Maramaldo. E questo perchè non m’avendo tu scritto d’aver trovato che tale fosse veramente la patria di quel colui, posso credere che l’osservazione ti sia sfuggita. E ad ogni modo mi par ben fatto di scansare ogni nome di provincia italiana nei fatti odiosi». Cfr. D’Ancona. VI lettere di A. Manzoni a G. B. Giorgini (per nozze), Pisa, 1896, p. 9-10: e anche D’Ovidio, Saggi critici, Napoli, 1878, p. 76.—Pel sentimento antiregionalista del Manzoni, si vegga pure la mia Introduzione al volume I di queste Opere, pag. XLIII.
[31] Cfr. Mémoires inédits du prince de Metternich, Paris, Plon, 1879; e cfr. «Revue des deux mondes» del 1º dicembre 1879, pag. 490.—Lo spunto delle parole di Napoleone alle prese con quel volpone della diplomazia, ricorda quelle dal Manzoni messe in bocca al Carmagnola tra i volponi del Consiglio dei Dieci (a. V, sc. [1ª]): «Giudice del guerrier solo è il guerriero; Voglio scolparmi a chi m’intenda.....». E la somiglianza, del tutto casuale, tra ciò che disse l’uom fatale e ciò che pensava il poeta del Cinque maggio, non è priva d’interesse!
[32] Dicon dettata dal Manzoni l’ultima supplica, del 12 febbraio 1830, che la Teresa diresse all’Imperatore, perchè le fosse «concesso di terminare i suoi giorni accanto a quello che la Provvidenza le aveva dato per compagno». L’ha pubblicata il D’Ancona, nel volume sul Confalonieri.
Se si vuol prestar fede al Cantù, il Manzoni così avrebbe giudicato, parecchi anni dopo, dei precedenti e delle conseguenze di quelle agitazioni e di quei moti, che segnaron la caduta del primo regno italico.
«—La forza non ha mai fatto bene. In ogni secolo troverai pochi anni di pace, ne’ quali gli uomini progrediscono: tutt’a un tratto si rompe la guerra; chi aveva interesse a conservare il vecchio, torna allo stato di prima, e al fin della guerra si è ancora alla condizione antica, e si deve ricominciare la lotta del vero.
—La rivoluzione francese giovò veramente! Da gran tempo le menti avevano preso in fermento, una spinta verso il meglio. Le opinioni grandeggiando venivano ad imporre alle istituzioni... Poichè non avvennero, è impossibile dire appunto quali avvenimenti sarebbero nati dalla pace: ma i quarant’anni, in cui fosse seguitato quel progresso, senza interromperlo col volgerlo sopra fantasmi o vanità splendide, chi sa dove avrebbero portata l’umanità. All’incontrario, quando la rivoluzione finì nel 1814, si trovò che tutta Europa, stanca, amava di vero amore i rappresentanti del despotismo: primo, perchè pareano rimetterla in quiete; secondo, perchè son ben pochi che sappiano odiare uno senza amare il nemico di esso. Questo dai popoli. Dai re venne stabilito un diritto assoluto, un regnare per la grazia di Dio, per diritto sopra o extra-umano, che prima non v’era. Difatto non v’avea paese (quando forse non se ne eccettui la Lombardia) dove non vi fossero istituzioni indipendenti dal re. Tant’è vero che ogni re, quando veniva eletto, prestava un giuramento: il che suppone che credevano anch’essi qualche cosa superiore a sè, da cui tenevano l’autorità. Di ciò nulla dopo il 1814....
Si dice che in Lombardia non v’era idea di nazionalità prima che venissero i Francesi. Falso. Quando s’è in possesso d’una cosa, meno se ne discorre: d’indipendenza non parlano tanto gl’Inglesi p. es., quanto gl’Italiani. Nazionalità v’era sì, e mostravasi a mille atti aperto l’attaccamento al proprio paese, alle leggi, alle consuetudini; e quando i principi austriaci le violassero, se ne sentiva il lamento comune, si mandavano deputati a richiamarsene. Questa nazionalità è vero ch’era lombarda. Vennero i Francesi, che con manifesto despotismo la conculcarono, facendo tutto venir di fuori, leggi, armi ecc. ecc. Allora ci si pensò di più. E poichè trattavasi di rinnovare il principio, e l’idea di nazionalità lombarda era un assurdo evidente, si prese un simbolo più vero, più esteso: la italiana».[33]
Gl’Italici eran d’accordo nel vagheggiare un ideale d’autonomia e d’indipendenza; ma circa i modi e la via da tenere per conseguirlo, i pareri eran diversi o contrarii. I più reputavan possibile e desiderabile la conservazione di quell’effimero ed assurdo Regno d’Italia;[34] magari con un principe di Casa d’Austria, magari col Duca di Clarence, terzogenito del re Giorgio III d’Inghilterra. Il Manzoni era dei pochi che mirassero, con magnanima e incrollabile persistenza, alla unificazione monarchica di tutta quanta la Penisola,
Egli era convinto come assai spesso «sia più ragionevole chiedere il molto che il poco».[35] E se il supremo benefizio dell’unità avessimo dovuto riconoscerlo da un principe francese, si chiamasse Beauharnais o Murat, viva, per il momento almeno, anche Eugenio o Gioacchino!
Nello scartafaccio del Cantù gli sono altresì attribuite queste osservazioni:
«—Nel 1814 la maggior parte erano abbagliati dal fantasma della gloria passata: molti, per le circostanze delle cose, desideravano ardentemente gli Austriaci; cioè, dopo diciotto anni di tanti casi, desideravasi restituito quell’ordine di cose che allora, per voce di filosofi e confessione dei principi stessi, si era conosciuto disadatto. Pochi, i più quieti, dicevano:—Ma che volete mai fare? lasciate un po’ fare a loro! Volete andare contro tante baionette? ecc. ecc.—Allora si stabilì la pace.....
—Nessuna nazione ha diritto d’intromettersi negli ordinamenti interni delle altre, giacchè ciascuna deve conoscere il proprio meglio, e a questo provvedere di voto comune.....
—Non è mica ben intesa neppure la questione di straniero. Questa è affatto accidentale. Se straniero è chi parla diversa lingua, sono[lvi] dunque sotto padrone straniero l’Alsazia e i dipartimenti tedeschi?[36] Questa è qualità accidentale, giacchè potrebb’essere qui un governo tedesco, senza le cancellerie auliche, ed esser buono, purchè eletto o voluto dalla nazione ecc. Tanto è vero che v’è paesi in Italia sotto principi italiani, ove si sta peggio che sotto gli Austriaci. La questione dunque è più giustamente posata col dire: Governi buoni e Governi cattivi».
E quanto all’Austria, e a quel nefasto bigotto della restaurazione che fu il Metternich, s’affrettava a soggiungere:
«—Libertà, dicono, è obbedire solo alle leggi. Questa definizione potrebbe piacere anche a Metternich, giacchè le leggi le fa lui! Importa sapere da chi e come sono fatte, e se buone o cattive. Era una legge anche quella degl’imperatori romani di adorare gl’idoli; e i cristiani credeansi in dovere di disobbedirla».
La restaurazione cieca, il mantenere o risuddivider l’Italia negli antichi e ridicoli staterelli, rinnegando quei principii, respingendo quegli ammonimenti, rinunziando a quei vantaggi che costavan sì enormi sacrifizii di sangue e di sostanze, questo era il peggio. E poichè il re di Napoli dava non dubbii segni di voler proclamare la guerra santa dell’unificazione, egli, il Manzoni, aveva simpatia per l’avventuriero Murat. Che importava che questi non fosse re per la grazia di Dio? Lo sarebbe stato pel volere concorde del popolo; ch’era un modo più conforme alle conquiste intellettuali della Rivoluzione. E in quella simpatia il poeta non era solo. A Milano passavano per murattisti il conte Giacomo Luini, direttore generale della polizia, e il generale Teodoro Lechi, il cui fratello Giuseppe già militava nelle file dell’esercito napoletano; e fino si buccinava che il generale Domenico Pino, a cui di lì a qualche giorno sarebbe stato affidato il comando militare di Milano, partecipasse agli audaci disegni del re.
[33] Cfr. Cantù, A. Manzoni, reminiscenze; 2ª ediz., Milano, Treves. 1885, vol. II, pag. 311 ss.
[34] Assurdo anche per la sua configurazione. S’immagini che chi avesse voluto dalla capitale recarsi a Bologna, la terza città del Regno, per la più corta, doveva traversare il dipartimento francese del Taro, l’antico ducato di Parma! Tutti sanno che Giuseppe Verdi nacque (il 10 ottobre 1813) in questo dipartimento, così che qualche allegro biografo d’oltr’Alpi ha voluto farne un francese!
[35] Nella Prefazione al Conte di Carmagnola; pag. 157 di questo volume.—Nella lettera a Giorgio Briano, da Lesa il 7 ottobre 1848, il Manzoni chiamava quella dell’unità nazionale «una causa che è stata il sospiro di tutta la sua vita».
[36] Dopo Sédan codesto argomento di fatto ha perduto tutto il suo valore! E non credo che il Manzoni aspettasse il 1870 per mutar d’opinione. Ciò che gl’Italiani migliori pensassero poi pur della signoria o protezione francese, si può vederlo nello scritto del De Sanctis, L’Italia e Murat, pubblicato a Torino nel 1855, e ora ristampato negli Scritti varii inediti o rari; Napoli, Morano, 1898, vol. I, pag. 181 ss.
Il 3 marzo, il Manzoni cominciò a mettere in carta il quarto dei suoi Inni, La Passione. Scrisse:
e andò oltre per tutta la seconda strofa:
Ma l’Isaia novello non seppe proseguire, per allora: il trambusto e lo strazio temuto di questa sua nuova Gerusalemme voleva per sè tutti i suoi pensieri e le sue cure.
Le notizie che venivan d’oltr’Alpi avvertivano che la catastrofe napoleonica era imminente. «Di quel securo il fulmine» scoppiava ancora pauroso a Brienne, a Champaubert, a Montmirail, a Montereau, a Vauchamp; ma le file di quell’ultimo esercito di adolescenti scemavan via via, senza che per il momento fosse possibile rinvigorirle. E intanto gli eserciti degli Alleati s’accavallavano e rinnovavano, e si stringevano ogni giorno più intorno a Parigi. Il 30 marzo, quando Napoleone con una suprema audacia disegnò di portarsi alle spalle del nemico, e raccogliere le guarnigioni lasciate nella Francia orientale e l’esercito d’Italia, gli Alleati precipitarono su Parigi, sconfissero re Giuseppe e Marmont, e il giorno 31 entrarono nella città e vi si accamparono. Napoleone tornò in furia da Rheims, ma comprese che tutto era perduto e si attendò a Fontainebleau, aspettando. Il 5 aprile si seppe anche a Milano della presa di Parigi; e il 15, che a Fontainebleau l’uomo fatale[37] era stato costretto a firmare la sua abdicazione. Il formidabile di ieri si avviava, sotto scorta, al risibile staterello dell’Elba, lasciatogli come per elemosina.
Giorgio Byron, che nel gennaio di quell’anno, pubblicando il Corsaro, aveva espresso il proponimento di non più poetare per lungo tempo, e che il 9 aprile, al mattino, ancora scriveva: «Non più versi oramai; io ho dato le mie dimissioni»; la sera, all’annunzio dell’abdicazione, diffuso da un supplemento della Gazzetta, si sentì invaso da irrompente furore poetico, e il giorno appresso l’Ode to Napoleon Bonaparte era già composta. Essa fu subito stampata e pubblicata, senza il nome dell’autore. L’intonazione e parecchi spunti ricordano molto da vicino il Cinque maggio[38]. Comincia:
Ripiglia alla IV strofa, con un movimento che somiglia al manzoniano La procellosa e trepida..., e riconduce all’epigrafico Ei fu:
Napoleone era stato «the arbiter of others’ fate»: i popoli gli si volsero «come aspettando il fato». Incatenato al tronco che vanamente egli aveva voluto abbattere,—solo—, quali sguardi non gettò egli intorno a sè?
Novello Milone, lo attenderà una sorte ancora più terribile: quegli morì divorato dalle bestie feroci; ma lui divorerà il suo proprio cuore:
Napoleone («the Thunderer of the scene», lo dirà poi nel Childe Harold’s Pilgrimage, III, 36) aveva avuto nelle sue mani «il fulmine»; che ora gli era stato strappato a viva forza.
Se Napoleone avesse saputo ritirarsi in tempo! Ma no! egli volle esser re, come se la porpora onde si camuffava potesse soffocare «il sovvenir»:
Or come mai un tal uomo, il protagonista d’una si grande tragedia, non aveva preferito morire da eroe e da re, gettandosi sulla propria spada come un eroe di Plutarco, al sopravvivere a sè medesimo e alla sua gloria, quasi un povero re da commedia? Fa paura di quella morte, ch’egli aveva seminata nel mondo con tanta prodigalità, ovvero speranza segreta di rilevare il capo minaccioso sulla plebe de’ sovrani per la grazia di Dio, che ora gli facevan da carcerieri? Il superbo poeta, compatriotta di Nelson e di Wellington, non vuol soffermarsi a indagarlo; egli ama meglio rinfacciare al nemico sconfitto e umiliato pur quell’ultima sua coraggiosa viltà.
È verosimile che, se «il massimo Fattor» fosse anche uno scrittore di tragedie sul tipo classico, avrebbe chiusa la terribile catastrofe di Fontainebleau come, poniamo, l’Alfieri il Saul. All’«empia Filiste» del Danubio, Napoleone avrebbe, passandosi il cuore, detto, con un gesto e un atteggiamento che ricordasse il repubblicano Catone (che importava la fede politica di questo antico? forse che l’imperialista Dante s’era peritato di piegare davanti a lui «le gambe e il ciglio», pur dopo d’aver visto Bruto e Cassio nel peggior luogo dell’Inferno, nella sola compagnia di Giuda Iscariota?):
Ma Napoleone, nonostante le sue pretese artistiche e i suoi ukasi estetici, aveva preferito comportarsi, magari a dispetto del corifeo dei nuovi poeti romantici,[49] come un eroe romantico.[lxiii] Anche Macbeth s’era rifiutato di seguire i nobili esempi che pure a lui, barbaro caledone, additava la magnanima storia di Roma. Chè quando codesto efferato ambizioso si vede inseguito com’una belva e senza speranza di scampo, esclama, con nuovo scatto di ferocia:
Il Manzoni, da buon filosofo della storia, e poco tenero oramai dell’arte classicheggiante e dei critici dittatori del buon gusto, dedusse dal mancato suicidio del desolator desolate, del victor overthrown, la conseguenza che la necessità ineluttabile del suicidio negli eroi e nelle situazioni tragiche sia del tutto posticcia, e punto rispondente alla realtà. Nella sua Lettre à m. C*** egli tocca, con una punta d’arguta canzonatura, di quei tragediografi che si sbarazzano degli eroi malencontreux con un sollecito colpo di pugnale; e riferisce, a dileggio, i due versi celebri nei quali «un poëte a donné la formule morale du suicide». Il poeta è, chi non lo sappia, il Voltaire; il quale mise in bocca alla sua Merope, in fine dell’atto secondo della tragedia omonima, queste parole:
In verità, osserva il Manzoni, l’esperienza e la storia mostrano che nella vita i suicidii non sono così frequenti come sulla scena, e specialmente non avvengono nelle occasioni in cui i poeti tragici v’han ricorso.
«On voit des hommes qui ont subi les plus grands malheurs ne pas concevoir l’idée du suicide, ou la repousser comme une faiblesse et comme un crime. Certes l’époque ou nous nous trouvons a été bien féconde en catastrophes signalées, en grandes espérances trompées; voyons-nous que beaucoup de suicides s’en soient suivis? non; et si la manie en est devenue de nos jours plus commune, ce n’est pas parmi ceux qui ont joué un grand rôle dans le monde, c’est plutôt dans la classe des joueurs malheureux, et parmi les hommes qui n’ont ou croient n’avoir plus d’intérêt dans la vie dès qu’ils ont perdu les biens les plus vulgaires: car les âmes les plus capables de vastes projets sont d’ordinaire celles qui ont le plus de force, le plus de résignation dans les revers.»[51]
Una delle catastrofi contemporanee più segnalate, anzi la più grandiosa e memorabile, non era appunto stata quella di Fontainebleau; anche più insigne dell’altra che seguì, di Waterloo, benchè questa avesse conseguenze più definitive?
Il poeta, fedele al suo programma d’arte, di non tradir mai il santo Vero, s’attenne a codesti insegnamenti della storia: così quando, nell’Adelchi, non permise che il protagonista, cuor del suo cuore nonostante la solenne dichiarazione di rammarico per averlo messo al mondo[52], desse volontaria e violenta fine ai suoi giorni; come quando, nel Romanzo, lasciò cader di mano all’Innominato, a codesto piccolissimo Napoleone secentesco della Valsassina, la pistola con la quale aveva pensato un momento di «finire una vita divenuta insopportabile» (cap. XXI). Shakespeare, il «savio gentil» che seppe meglio di qualunque altro leggere nel cuore umano, era, anche questa volta, una guida molto sicura. Vero è che la critica interessata di certi poeti, ambiziosi di dittatura, parlava di costui «come d’un genio selvaggio, d’un capo strano, con de’ lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna arida e scoscesa, dove un botanico, arrampicandosi[lxv] per de’ massi ignudi, poteva trovare un qualche fiore non comune». Ma il Manzoni nè aveva i secondi fini del Voltaire, nè era un caparbio o un parvenu letterario come l’Alfieri; e non si fece scrupolo di riconoscere subito in lui il «grande e quasi unico poeta», e a darglisi tutto, come Dante a Virgilio, per sua salute[53]. I due stupendi monologhi, di Adelchi e dell’Innominato, in cui è descritta nei più minuti particolari la storia di quelle due anime agitate, che accolgon prima come una liberatrice l’idea del suicidio e poi la respingono come una vile lusingatrice, son rimodellati su quello celebre di Amleto[54]. S’intende; del Manzoni possiamo ripetere ciò ch’ei disse del Goethe: si mise sulla strada «segnata dal genio selvaggio,... come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d’imitare»[55].
Sennonchè, quando, sullo scorcio del 1819 e il principio del 1820, il Manzoni scrisse la Lettre a m. C***, sapeva forse che davvero il vinto di Fontainebleau aveva tentato, e meglio che tentato, di farla finita con una esistenza che oramai gli era insopportabile? E se non allora, lo seppe egli quando componeva l’Adelchi, o almeno quando descrisse la tormentosa notte dell’Innominato? Manca il modo di accertar nulla. Comunque, sono assai rilevanti e significative le affinità che si scorgono tra codeste immaginazioni poetiche e quell’episodio storico, rivelatoci poi da testimoni oculari.
L’imperatore aveva, il 4 aprile, segnato un primo atto d’abdicazione, riservando i diritti di suo figlio e quelli della[lxvi] imperatrice reggente, e il mantenimento delle leggi dell’Impero. Ma il 7, costretto dalla diserzione di Marmont, s’era dovuto piegare a rinunciare per sè e i suoi figliuoli a qualunque diritto sui troni di Francia e d’Italia. Non bastava. Il 12, tre generali gli portaron da firmare il trattato di pace che il giorno prima gli Alleati e il governo provvisorio avevan concluso a Parigi. Napoleone, divenuto cupo, lo respinge e reclama il suo atto d’abdicazione del 7. Che cosa mulinava? Gl’intimi s’eran potuto accorgere che sinistri propositi attraversavano la sua mente. Il conte di Turenne gli aveva sottratte e scaricate le pistole; ma egli le aveva reclamate, rimproverandolo. Poi, aveva parlato con calma della sua nuova condizione. La morte, disse averla bensì cercata sul campo di battaglia, per esempio ad Arcis-sur-Aube («anch’io credea morir sul campo!»); ma il pensiero del suicidio sarebbe stato indegno di lui. Egli era cosciente e geloso della sua dignità imperiale; «Se tuer», aveva soggiunto, «c’est la mort d’un joueur!». E ancora, scoprendo tutto un abisso di meditazioni e di speranze: «Il n’y a que les morts qui ne reviennent pas!».—Solo Shakespeare avrebbe forse saputo leggere in una simile anima, in un simile momento; e queste frasi son degne di lui.
Quel giorno, sul punto di apporre la sua firma alla sentenza capitale dell’Impero, Napoleone era così sprofondato in sè stesso, che, narra il generale De Ségur, «il semblait habiter un autre monde». Alle dieci di sera, andò a letto; a mezzanotte, chiamò il servo fedele perchè ravvivasse il[lxvii] fuoco, e gli preparasse da scrivere presso il caminetto. Poi lo mandò via. Si levò agitatissimo, percorse la stanza a passi concitati, si fermò di botto, scrisse, ghermì il foglio e lo buttò sul fuoco; tornò a passeggiare, a sedere, a scrivere, a gettare il foglio sul fuoco. Poi, s’accostò al comodino, vuotò nel bicchiere il sacchetto del veleno che gli aveva preparato il dottore Yvan, e ch’ei portava sempre con sè dopo la guerra di Spagna, e bevve. Si rimise a letto. Per una lunga mezz’ora il cameriere, trepidante, rimase dietro la porta a spiare. Napoleone, maravigliato di vivere ancora, aspettava impaziente gli effetti del veleno. Poichè questi tardavano, ricorse a un altro veleno, già preparatogli dal Cabanis. Soffriva molto, ma non era la morte. Stanco, fece chiamare il medico, per chiedergli un veleno più decisivo. Yvan, atterrito, supplica l’imperatore di prendere invece un contravveleno: non voglia esporlo a terribili sospetti! Napoleone cede, si lascia curare e s’assopisce. Le tenere prove d’affetto di chi lo circondava gli ridanno la forza di vivere. Esclama: «Dieu ne le veut pas!»; domanda il trattato degli 11 aprile, e vi appone il suo nome[56].
La tragedia, che pareva giunta alla catastrofe, era solo alla fine del quarto atto: mancavano ancora l’Elba, Waterloo, Sant’Elena.
[37] Fatal guerriero l’aveva già, nel Beneficio, chiamato il Monti.
[38] Nel 1832 il dott. Amadio Christiano Federico Mohnike (n. 1781, m. 1841) pubblicò, col titolo di Voci di Napoleone dal settentrione e dal mezzogiorno, tradotte in tedesco le Odi napoleoniche degli svedesi Nikander e Tegner, del Byron e del Manzoni. Questi gli scrisse, ringraziando, il 22 agosto: «Il far soggetto d’un Suo lavoro un mio componimento, e il collocarlo in così degno luogo, era già per sè un alto favore; aggiungendovi quello del dono, e d’una gentilissima lettera, Ella ha colmato la Sua bontà e la mia riconoscenza....». Non sembra verosimile che, anche prima d’allora, il Manzoni non conoscesse direttamente l’ode del poeta che fu dai contemporanei proclamato (vedi nel Don Juan, c. XI, 55)
Se un altro, di quell’ode avrebbero potuto parlargli il Pellico e il Berchet, che del Byron furono ammiratori, traduttori ed apostoli in Lombardia.
[39] «Tutto è finito! Ed ieri ancora eri re! e armato per combattere coi re. Oggi sei una cosa senza nome; così abbietta eppure vivente! È questo l’uomo dai mille troni, che seminava la terra di ossa nemiche; e può sopravvivere così? Dopo colui che venne chiamato a torto la Stella Mattutina, nè uomo nè demonio era mai caduto tanto in basso». —Circa le censure all’Ei fu, cfr. D’Ovidio, Discussioni manzoniane, pag. 200. Che quell’esordio riecheggi il ’Tis done byroniano, nessuno pare l’abbia notato.
[40] «Il trionfo e l’orgoglio, la gioia della lotta» [certaminis gaudia, aveva fatto dire Cassiodoro da Attila, prima della battaglia di Châlons], «il grido tonante della vittoria, per te alito di vita; la spada, lo scettro, e quell’impero a cui l’uomo sembrava creato per obbedire e che riempiva di sè la fama—tutto è sparito!—Spirito tenebroso! quale sarà per te il tormento delle memorie!».
[41] «Ma tu—dalla tua mano riluttante il fulmine venne strappato a forza—troppo tardi tu lasciasti il supremo potere, a cui s’attaccava la tua debolezza. Benchè tu sia lo Spirito del Male, noi ci sentiamo stringere il cuore mirandoti così smarrito, pensando che la terra, questa bella opera di Dio, ha potuto esser lo sgabello di un essere così debole». (Strofa IX).
[42] «I tuoi trionfi non aggiungon più nulla alla tua fama, o ne rendon più intense le macchie.... Ma chi vorrebbe spaziare all’altezza del sole, e precipitar poi in una notte sì cupa?». (Strofa XI).
[43] «Messa nella bilancia, la polvere degli eroi è vile quanto l’argilla comune; i tuoi pesi, o Morte, misurano esattamente tutti quelli che spariscon dalla terra. Eppure pensavo che qualche scintilla sublime dovesse animare quei grandi, che ci abbagliano e ci riempiono di trepido stupore; nè avrei creduto che il Dispregio potesse farsi gioco di costoro, i conquistatori della terra». (Strofa XII).
[44] «Affrettati dunque alla tua malinconica isola, e lancia lo sguardo sul mare: quest’elemento può sfidare il tuo sorriso—non ha preso mai la legge da te!». (Strofa XIV).
[45] «E colà che pensieri saranno i tuoi, assorto in una rabbia impotente contro la prigione?—Uno solo: “Il mondo fu mio!„... La vita non potrà trattenere a lungo quello spirito, che voleva essere così largamente e lungamente obbedito—e n’era così poco degno!». (Strofa XV).
[46] «Ma tu davvero hai voluto esser re, e vestire il manto di porpora; come se quell’abito da mascherata potesse strapparti dal cuore il ricordo». (Strofa XVIII).
[47] «Gli è forse un resto delle speranze imperiali che ti fa sopportare con calma un tal cambiamento? o è solo la paura della morte? Morir sovrano—o vivere schiavo: la tua scelta è ignobilmente coraggiosa». (Str. V).—«E la Terra ha versato il suo sangue per lui, che è tanto avaro del proprio!». (Str. X).—«O, simile al rapitore del fuoco celeste, vuoi tu resistere al colpo? e dividere con lui, col maledetto, il suo avoltoio e la sua rupe! Punito da Dio, proscritto dall’uomo, e, per quest’ultima azione, che pur non è delle tue peggiori, deriso dallo stesso Satana: questi, nella sua caduta, serbò intatto il suo orgoglio, e, se fosse stato mortale, avrebbe saputo morire da prode!». (Str. XVI).—La frase The very Fiend’s arch mock è tolta di peso da Shakespeare; che la mette in bocca a Jago (Othello, a. IV, sc. I, v. 71).
[48] Occorre tuttavia osservare che l’Alfieri non reputava molto tragica questa catastrofe, che gli era suggerita dalla Bibbia (Reg. I, 31, 4: «arripuit Saul gladium, et irruit super eum»). Scrive nel Parere sul Saul: «un re vinto, che uccide di propria mano se stesso per non essere ucciso dai soprastanti vincitori, è un accidente compassionevole sì, ma per quest’ultima impressione che lascia nel cuore degli spettatori, è un accidente assai meno tragico, che ogni altro dall’autore finora trattato».
[49] Il quale, del resto, dopo Waterloo, finì coll’ammirare il superbo disdegno con cui il conquistatore andò incontro all’avversa fortuna. Nel canto III del Childe Harold’s Pilgrimage (st. 39), che è del 1816, esce a dire: «Eppure la tua anima ha sopportato i rovesci con quella innata filosofia che non s’impara, e che, frutto di saggezza, di freddezza o di profondo orgoglio, è fiele e assenzio pel nemico. Quando tutta una massa d’odio ti si assiepava intorno, per spiare e beffare la tua fiacchezza, tu hai sorriso con un occhio calmo e rassegnato; quando la Fortuna fuggì via dal suo favorito e viziato pupillo, ei rimase ritto ed in piedi sotto le disgrazie accumulate sul suo capo».
[50] «Perchè lo stolto Romano imiterò, morte cercando Sulla mia stessa spada? Infin ch’io veggo Altri vivi, su lor cadano i colpi!».—A. V, sc. 8ª, v. 1-3. Traduzione del Carcano.
[51] Vedi più avanti, in questo volume, a pag. 301-2, 361-2.
[52] Vedi più avanti, in questo volume, a pag. 12.
[53] Cfr. Del romanzo storico, parte II, in fine: e il mio scritto: Ammiratori ed imitatori dello Shakespeare prima del Manzoni, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1892.
[54] Cfr. Scarano, Amleto e Adelchi, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1892; e Scherillo, Il monologo nella tragedia alfieriana, nella «Rivista d’Italia» dell’ottobre 1903.
[55] Qualche accento alfieriano può tuttavia sentirsi nel monologo di Adelchi. Per esempio, l’apostrofe alla spada: «Tu, brando mio, che del destino altrui Tante volte hai deciso, e tu, secura Mano avvezza a trattarlo... e in un momento Tutto è finito».—richiama e quella di Saul: «Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, Fido ministro, or vieni», e l’altra di Carlo, nel Filippo: «Oh ferro!... Te caldo ancora d’innocente sangue, Liberator te scelgo». Ma anche Shakespeare aveva messo in bocca a Giulietta: «O ferro amico! ecco la tua guaìna: Arrugginisci qui; morte mi dona!...».—Il quale Shakespeare aveva altresì fatto esclamare a uno dei suoi personaggi, al vecchio Gloucester del Re Lear (a. IV, sc. 6ª), sul punto che si getta dalla rupe: «O voi numi potenti! Io rinunzio a questo mondo, e davanti a voi scuoto pazientemente dalle spalle la mia grande afflizione. Se potessi sopportarla più a lungo, senza contrastare ai vostri invincibili voleri, lascerei consumare la spregiata e abborrita mia parte mortale». E gli aveva fatto dar sulla voce da Edgardo, il figliuolo calunniato (a. V, sc. 2ª): «Gli uomini devono sopportare il loro andare colà nello stesso modo che la loro venuta qui: tutto consiste nell’esser maturi». (Men must endure / Their going hence, even as their coming hither: / Ripeness is all.)
[56] Cfr. Saint-René Taillandier, Le général Philippe de Ségur, sa vie et son temps, nella «Revue des deux mondes» del 1º maggio 1875, pag. 138-41.
Or che sarebbe avvenuto dell’Italia, dopo che il colosso era stato gettato «nella polvere»? che cosa di questo che fu detto, e pareva nome di buono augurio, Regno d’Italia? Il 16 aprile [1814], fu concluso, nel castello di Schiarino Rizzino presso Mantova, un armistizio tra l’esercito franco-italiano di Eugenio e l’austriaco di Bellegarde, in attesa che le Potenze decidessero della sorte di queste contrade. Si compiva ancora una volta l’avito destino del Lombardo:
Il momento era solenne; ma gli uomini non si mostraron pari al bisogno. Il solo cancelliere Melzi pare si rendesse conto della gravità dei pericoli; e s’arrogò, nell’assenza del vicerè, l’autorità di convocare il Senato. Oh questo non era più l’antico Senato milanese, che Giuseppe II aveva abolito; e del quale il Manzoni notava, non senza amarezza verso i governanti stranieri:
«Il Senato era una vera rappresentanza nazionale: le leggi dovevano passare per quello, e non divenivano esecutive se non le avesse interinate. È vero ch’era degenerato, divenuto nulla meglio che un tribunale, e le sue decisioni troppo sovente erano goffe o triste. Ma per questo aveva diritto Giuseppe II di distruggerlo? Finchè sussisteva, poteva ringiovanirsi: se egli intendeva far bene, doveva restituirlo alla condizione primitiva, e non già cassarlo».[57]
Il Senato del 1814 era quello creato da Napoleone col decreto 21 marzo 1808, col nome di «Senato Consulente»; e i senatori erano stati scelti parte dai Collegi Elettorali, parte dall’Imperatore, seguendo i suggerimenti del Melzi. Il quale, dunque, ora li convocò d’urgenza, per provocarne un voto alle Potenze: facessero cessare del tutto le ostilità sul territorio italiano, e riconoscessero l’indipendenza del Regno d’Italia e la sovranità di Eugenio. Era risaputo che lo zar Alessandro nutriva una certa predilezione per codesto principe; il quale aveva altresì un naturale protettore nel suocero, Massimiliano Giuseppe re di Baviera. Pareva poi lecito sperare che pur le provincie traspadane (Modena, Bologna, Ravenna, Ancona) si sarebbero dichiarate per la conservazione del Regno. Si trattava, insomma, di sventare abilmente, e senza provocazioni, i disegni ferocemente conservatori dell’imperatore d’Austria e del suo onnipotente e prepotente cancelliere. Ma tutto volse al peggio. Il Melzi, assalito durante la notte dai suoi acciacchi, non potè intervenire alla seduta del Senato; e dovè limitarsi a un messaggio in iscritto. Così, l’opposizione austriacante, diretta dal conte Diego Guicciardi, ebbe agio di sollevare meschine questioni di forma e cavilli di procedura; e non si decise se non di sospender la seduta,[lxix] per permettere ai senatori Guicciardi, Carlo Verri e Dandolo di recarsi a casa del Melzi e discuter con lui. Alle otto della sera di quello stesso giorno 17 aprile, il Senato si radunò nuovamente; e dopo un nuovo interminabile dibattito, si prese una di quelle deliberazioni insulse ma rovinose, a cui troppo di frequente conducono le chiacchiere boriose e saccenti delle assemblee: d’inviare bensì alle Potenze una deputazione che sollecitasse la conservazione del Regno, ma col divieto di raccomandare comunque la candidatura di Eugenio! Il Verri s’era affrettato a proclamare: il popolo di Milano non volerne sapere d’un re Eugenio, il quale da vicerè lo aveva spogliato e spregiato! «Il me semble», aveva avuto già occasione d’osservare il Montesquieu, «que les têtes des plus grands hommes s’etrécissent lorqu’elles sont assemblées; et que, là où il y a plus de sages, il y ait aussi moins de sagesse. Les grands corps s’attachent toujours si fort aux minuties, aux vains usages, que l’essentiel ne va jamais qu’après».[58]
Nessuno a Milano seppe esattamente quel che il Senato avesse deciso, ma tutti se ne mostrarono scontenti: tanto quell’alto consesso era caduto in discredito! I fautori del passato ne presero coraggio per preparare una sommossa che giustificasse l’intervento delle milizie imperiali; e gl’Italici lasciaron fare, quasi che essi in quel torbido fossero stati acconci a pescare. Per proprio conto compilarono una nobile e dignitosa quanto ingenua protesta, con la quale si sconfessava il voto, qualunque esso fosse, del Senato, e si domandava l’immediata convocazione dei Collegi Elettorali, «nei quali solamente», dicevano, «risiede la legittima rappresentanza della nazione». E provvidero che codesto documento fosse sottoscritto da quanto di meglio Milano vantava nell’aristocrazia del blasone, del censo, dell’ingegno, dell’industria. La prima firma fu quella del general Pino; seguirono i Porro, i Trivulzio, i Confalonieri, i Borromeo, i Visconti, i Greppi, i D’Adda, i Cicogna, i Sormani, i Trotti, gli Arese, i Giovio, i Castelbarco.....Firmarono il conte Gian[lxx] Luca della Somaglia, presidente del Consiglio comunale, e il conte Antonio Durini, podestà, con tutti i Savii (gli Assessori). Firmò il poeta Carlo Porta, e l’architetto Luigi Cagnola, e, centoduesimo nella lista, Alessandro Manzoni.
Il Giornale Italiano del 19 pubblicò la convenzione militare del giorno 16, e insieme il proclama del vicerè che congedava le milizie francesi. «Soldati francesi», diceva, «voi ripiglierete il cammino pei vostri focolari!». Carlo Porta mandò dietro a quelle soldatesche, che al focolare francese portavano un grosso bottino,[59] un sonetto riboccante d’amarezza e di una, purtroppo, non ingiustificata sfiducia. La poesia rimaneva la nostra sola arma d’offesa!
Sull’imbrunire di quello stesso giorno 19, furon visti entrare in città drappelli di contadini, in ispecie del Novarese, dall’aspetto e dal contegno sospetti. Intanto, una parte della guarnigione ne era fatta uscire, col pretesto che fossero da rinforzare alcuni punti a Varese e a Sesto Calende, che nessuno minacciava! S’avvicinava, per i reazionarii e i liberali —stranissimo connubio!—, la gran giornata.
[57] In Cantù, Reminiscenze ecc., II, 312-13.
[58] Lettres persanes, lettera 109ª.
[59] Milano era provata alle furibonde depredazioni delle milizie francesi. Che non avevan rubato nel 1796, per ammenda dell’entusiastica accoglienza avutavi! Il generale Dupuy scriveva a un amico: «Ici, tout le monde vole!»; e il Melzi: «Jamais armée plus brutale et plus rapace n’était descendue en Italie, depuis les Lansquenets!».—Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie; Paris, 1902, pag. 591.
Quel che avvenne è notissimo.[60] Pioveva, e un pubblico insolito aspettava, la mattina del 20, sotto gli ombrelli,[61] i senatori che si recavano all’adunanza; e li accoglieva con fischi ed urli, se sospetti di amore per i Francesi, con evviva e battimani, se avversi. Carlo Verri ebbe una vera ovazione; ed egli medesimo raccontò d’aver visto Federico Confalonieri darne il segnale. Il conte Benigno Bossi, capitano della Guardia Civica e uno dei firmatarii della protesta, chiese all’intimorito Senato di rimandare i dragoni di servizio, e d’assumere egli la custodia della sala e del cortile. La folla tumultuava, e il Verri tentò di arringarla; ma invano. Essa cresceva di numero e di audacia. Non riuscendo a farsi ascoltare, chiamò a nome il Confalonieri, perchè esponesse i desiderii dell’assembramento. Fu risposto: Non vogliamo il vicerè; si convochino subito i Collegi Elettorali; si richiami la deputazione senatoriale!—Un urlo formidabile fece da coro: Abbasso il vicerè; abbasso il Senato; scioglietevi!—Il Confalonieri si strinse al fianco del Verri, per proteggerlo; e la turba irruppe furiosa e vandalica nell’aula. Un senatore scrisse, e il Presidente firmò, quest’ordine del giorno, che senatori e segretarii ricopiarono e gettaron tra la folla: «Il Senato richiama la deputazione, e convoca i Collegi Elettorali; la seduta è tolta».
Una voce sciagurata gridò: Alla casa del Prina! a San Fedele! —E quell’onda di popolo si rovesciò nella piazzetta avanti alla chiesa,—che il Manzoni da vecchio frequentava tutte le mattine,—e nei vicoletti che s’aprivano tra il palazzo Marino, allora Ministero delle Finanze (ora palazzo municipale), la bella casa del conte Sannazari (residenza del ministro) e quella degl’Imbonati (allora dei Blondel, ora Teatro Manzoni). Ciò che vi accadesse è stato narrato da molti, e variamente: anche dal Foscolo, con intenti apologetici; anche dal Maroncelli, con le abituali inesattezze, nelle Addizioni alle Mie Prigioni. Ma nessuno è forse valso a dare una fedele dipintura di quelle scene selvagge o grottesche, di quell’eccitazione suggestiva che invase alcuni e dell’inerte titubanza di chi avrebbe dovuto prevenire o impedire, meglio del Manzoni medesimo, là dove, nel Romanzo (capp. XII e XIII), narra della rivolta contro l’affamatore Vicario di provvisione. Questo «sventurato vicario» era, curioso a esser notato, un Melzi, Lodovico Melzo.[62] Ma in codesto malcapitato, che, mentre nella strada si urlava al tiranno e all’affamatore, «girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare....; poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta....»,—non è presumibile il romanziere intendesse ritrarre l’austero e fin temerario Prina. Il quale, potendo, non si seppe risolvere a mettersi in salvo. Vero è che il Manzoni lancia poi un’arguzia, che potrebbe mirare a qualcuno degli storici che s’è mostrato troppo informato degli ultimi tragici momenti del povero ministro. «Del resto», egli soggiunge, «quel che facesse precisamente non si può sapere, giacchè era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza!».
La casa del Manzoni era non molto discosta dalla scena[lxxiii] dove si svolgeva la sconcia tragedia: anzi il giardino confinava coi giardini di quelle case dove ancor semivivo fu spinto e nascosto il Prina da alcuni generosi. Questi non mancarono nemmeno nella sollevazione secentesca.
«Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio: propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro: non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica!...». (Promessi Sposi, c. XIII).
Ma nel caso del Prina, i generosi furon sopraffatti dagli altri, che, inferociti, minacciarono d’incendiar la casa, e vi ammucchiavano sotto già panche e fascine, se non si riconsegnasse loro la vittima. Dalla casa Manzoni si udivano quegli urli di iena. La signora Enrichetta scriveva, di lì a qualche mese, a una sua cugina:
«Voi avete senza dubbio inteso tutto ciò che accadde in Milano, e la trista e miseranda fine del disgraziato Prina. La vicinanza della casa nostra alla sua ci tenne per parecchie ore in una pena ed in un’angoscia terribile».
Quattro giorni dopo la sommossa, Alessandro medesimo ebbe occasione di scriverne al Fauriel. E pur accennando con rammarico a qualche deplorevole eccesso della folla, egli di quella rivolta unanime, saggia e pura, non si mostra punto disgustato; anzi ha il cuore pieno di speranza. Scrive (il 24 aprile):
«Mon cousin [il marchese Giacomo Beccaria] vous racontera la révolution qui s’est opérée chez nous. Elle a été unanime, et j’ose l’appeler sage et pure, quoiqu’elle ait été malheureusement souillée par un meurtre, car il est sûr que ceux qui ont fait la révolution (et c’est la plus grande et la meilleure partie de la ville) n’y ont point trempé: rien n’est plus éloigné de leur caractère. Ce sont des gens qui ont profité du mouvement populaire, pour le tourner contre un homme[lxxiv] chargé de la haine publique, le ministre des finances, qu’ils out massacré, malgré les efforts que beaucoup de personnes ont fait pour le leur arracher».
E qui esce in una di quelle osservazioni, così spiritose e piene di senso storico, ond’è ingemmato il Romanzo.
«Vous savez d’ailleurs», egli continua, «que le peuple est partout un bon jury et un mauvais tribunal; malgré cela, vous pouvez croire que tous les honnêtes gens ont été navrés de cette circonstance».
Da poi qualche notizia più intima: del pericolo, cioè, che avevan corso anch’essi, e dello spavento della madre e della moglie.
«Notre maison est justement située très près de celle où il [Prina] habitait, de sorte que nous avons entendu pour quelques heures les cris de ceux qui le cherchaient; ce qui a tenu ma mère et ma femme dans des angoisses cruelles, parce qu’aussi elles croyaient qu’on ne se serait pas arrêté là. Et réellement quelques mal intentionnés voulaient profiter de ce moment d’anarchie pour le prolonger; mais la Garde civique a su l’arrêter avec un courage, une sagesse, et une activité très dignes d’éloge».
Nous avons entendu stando in casa: mi sembra lecito dedurne che quel giorno il Manzoni non era fra i tumultuanti o fra gli spettatori sulla piazza San Fedele. Vi fu invece chi sparse questa voce, e chi la raccolse e la registrò. Il barone Pietro Custodi novarese, che durante la vice-presidenza del Melzi era stato a capo della divisione di Polizia al Ministero dell’Interno e nel 1814 era Segretario generale del Ministero delle Finanze, lasciò scritto in certe sue Note biografiche di Alessandro Manzoni, riboccanti di fiele e di malevoglienza:
«Assicurasi che Alessandro Manzoni siasi trovato tra i nobili spettatori che nel giorno 20 aprile 1814 applaudivano, su la piazza di S. Fedele di Milano, agli sforzi de’ tumultuanti, i quali finirono coll’assassinio del ministro Prina; e che egli, commosso da quel funesto esito, abbia poi concepito tali rimorsi di avervi indirettamente partecipato, fino ad essere per molto tempo afflitto da veglie notturne agitatissime, che diedero grave timore per la sua salute».
Il mite Manzoni qui è camuffato da Macbeth! In verità, i mali nervosi, onde fu e prima e poi travagliato, ebbero un’origine diversa. Narrava egli stesso che n’era stato colto[lxxv] la prima volta a Parigi, quando, in una festa popolare pel secondo matrimonio di Napoleone, nell’aprile o nel maggio del 1810, furon come travolti, egli e la moglie, da un’ondata della folla; e n’era stato riassalito con maggiore violenza a Milano, nel giugno del 1815, quando, trattenendosi in una bottega di libraio, ebbe la terribile notizia della disfatta di Waterloo. «Noi allora, cogli Austriaci in casa, non si poteva più sperare che in Napoleone», egli chiosava: e ogni speranza era oramai strozzata![63]. Ma il Custodi, nel giorno del tumulto, non era a Milano: nella qualità di Commissario straordinario per le requisizioni, tre giorni prima egli si «era restituito al quartiere generale di Mantova». E la catastrofe lo colpiva in pieno petto; «fra i mucchj delle carte d’ogni sorta, ch’erano state gittate dalle finestre del palazzo del Ministro», un amico raccolse un documento che lo riguardava: la lettera cioè con cui il suo superiore e concittadino lo raccomandava al Vicerè per una sovvenzione straordinaria di lire quattromila, «onde pagare alcuni debiti contratti ne’ passati anni per onestissime cause».
È degno di nota però che fin d’allora (le Note biografiche portano in fronte la data del 20 ottobre 1827) il Custodi osservasse:
«È assai probabile che le reminiscenze di quella orribile scena gli abbiano somministrato più colori per rappresentarci, ne’ Promessi Sposi, con maggior verità, i tumulti che per cagione della carestia precedettero in Milano la peste del 1630».[64]
Potrebbe darsi che le informazioni del Manzoni provenissero da fonti un po’ troppo ottimiste: forse dal Confalonieri stesso o da qualche altro dei capoccia degl’Italici; ma è anche certo che fu poi cura dei fautori della restaurazione austriaca e dei difensori del cessato governo francese di dipinger[lxxvi] quegli avvenimenti con le tinte più fosche. Un altro testimone, degnissimo di fede nonostante il suo prossimo carbonarismo, Silvio Pellico, scriveva il 23 aprile a un amico che si trovava a Piacenza:
«Tutto è quieto; lo scopo era buono; i disordini inevitabili furono tosto repressi; l’esito ha secondate le intenzioni. Milano ha scosso il fango sotto cui giaceva. Un sola vittima è tacitamente compianta da tutti, benchè fosse segnata dall’odio di tutti».[65]
La Guardia civica si segnalò per zelo ed abnegazione, e meritò gli elogi di tutti gli onesti d’ogni partito. Si mormorò invece circa il contegno sospetto dei comandanti delle poche milizie regolari rimaste in città. Qualcuno riferisce che una Compagnia «stazionò, tutto il tempo che durò lo strazio del Prina, sulla piazzetta del teatro de’ Filodrammatici..., nè mai fu chiamata a difesa della vittima del furore della bordaglia, come quella milizia avrebbe desiderato».[66] Se così è, il Manzoni potrebbe aver avuto l’occhio appunto ad essa, quando descrive quel drappello di soldati spagnuoli che, rimasti titubanti ed inerti durante il fermento della rivolta, vennero poi incontro a Ferrer come «il soccorso di Pisa», e al cui ufiziale questi «disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: beso a usted las manos; parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto!».
[60] Cfr. Cusani, Storia di Milano; Milano, 1873, vol. VII.—Bonfadini, Sulla fine del primo Regno d’Italia, nell’«Archivio Storico Lombardo», a. VIII, f. 2, giugno 1881.—De Castro, La caduta del Regno italico; Milano, 1882.—Von Helfert, La caduta della dominazione francese nell’Alta Italia; traduz. di L. G. Cusani-Confalonieri; Bologna, 1894.—Lemmi, La restaurazione austriaca a Milano nel 1814; Bologna, 1902.—Marchesi, Il podestà di Milano conte Antonio Durini, nell’«Archivio Storico Lombardo», a. XXX, 1903, vol. 20.º—Chiattone, Nuovi documenti su F. Confalonieri, ibid., a. XXXIII, 1906, vol. 5.º
[61] Onde poi il titolo del libello anonimo, che si vuole attribuire al Méjean, Le roi Pino à la bataille des parapluies.
[62] Chi sa mai se qualche lineamento del Duca di Lodi il Manzoni non abbia ritratto nel «gran cancelliere Antonio Ferrer»: il quale pure, a ragione o a torto, «era gradito alla moltitudine»!
[63] Cfr. Fabris, Memorie Manzoniane; Milano, 1901, pag. 42-3, 99-100. Dove è erroneamente asserito che, durante i cento giorni, il Manzoni si trovasse a Parigi.
[64] Desumo queste notizie circa il Custodi e i suoi appunti, dal prezioso volumetto di Lucien Auvray, La Collection Custodi à la Bibliotheque Nationale; Bordeaux-Paris, 1906, pag. 114-15, 118-21, 128-29.
Milano rimaneva senza governo: il vicerè lontano e dimissionario, il Consiglio dei Ministri annullato, oltre che per la morte del Prina, per la fuga del Vaccari e del Fontanelli; il Senato disciolto. Una dittatura militare non era possibile, per la scarsezza delle milizie. La notte dello stesso giorno 20, il[lxxvii] podestà Durini trovò in sé l’energia di convocare il Consiglio Comunale; il quale decise la convocazione, pel 22, dei Collegi Elettorali e la nomina immediata d’una Reggenza Provvisoria. Tra i sette reggenti, nessuno apparteneva agl’Italici, e solo uno non era sospettabile di soverchio zelo per l’Austria, Carlo Verri; e questi fu, per prudenza o ipocrisia politica, scelto a presidente. Al general Pino, però, fu affidato il comando delle forze militari.
La Reggenza provvide a ristabilire l’ordine pubblico, ad alleggerire le tasse più odiose, ad abolire quelle leggi che peggio avevano irritati gli animi. E proclamò, su per le cantonate, ai buoni Milanesi: «Collo spirito di quiete che va felicemente a ristabilirsi, voi potrete darvi quel governo che desiderate, giacchè la vostra libera volontà sarà manifestata ai Collegi Elettorali». Questi s’adunarono il giorno fissato, il 22, a mezzogiorno, nel palazzo di Brera. Il consigliere di Stato Lodovico Giovio fu delegato a presiederli; e ne inaugurò i lavori con un elaborato ed enfatico discorso. Accennò all’abdicazione provvidenziale ed insperata di «quell’uomo che tutta avea riempiuta l’Europa di temuta meravigliosa rinomanza», e alle speranze riposte, ohimè, nelle «gesta magnanime delle Alte Potenze Alleate» e nei «principii sociali che i lumi del secolo hanno resi necessarii pel governo delle nazioni incivilite»; ed augurò che «anche la nostra Italia, pesta e sfigurata da replicati oltraggi, possa brillare sull’orizzonte dell’Europa». Continuava:
«La fermezza del carattere, la costanza nelle sciagure, la prudenza nei consigli, la rettitudine nelle amministrazioni, sono i caratteri indelebili dell’Italia, che, dopo essere stata la dominatrice del mondo, fu miseramente oppressa. Risorga essa alfine per la generosa gara delle Potenze Alleate, e si assicuri la felicità dei popoli. A così bello intento domandino i Collegi Elettorali istituzioni politiche liberali, un capo indipendente, che nuovo, non conosciuto da noi, diventi italiano, e che accolga i nostri voti e le nostre benedizioni. Assicurato della nostra lealtà, regni su cuori sensibili, generosi e fedeli, e ne faccia dimenticare la recente dominazione. La storia, maestra di tutte le cose, ci ha infallantemente provato che i regni cominciati coll’inganno finirono nei fondatori o nei figli, con vitupero e danno. Una crisi violenta è scoppiata; terribile ne fu la catastrofe, spaventoso e terribile l’esempio; ma che ne accerta come gli uomini più con l’amore che con la forza si governino».
E concludeva, esclamando:
«Possano le Alpi, le une sopra le altre ammassate, separarci per sempre da quella nazione, che sempre portò l’infortunio e la desolazione nella patria nostra!».
Le ceneri di Vittorio Alfieri avranno esultato, se gli echi lontani di Santa Croce ripercossero questa perorazione misogallica.
Certo, n’esultò il poeta di via Morone. Il quale, in quel giorno medesimo, intonò una canzone, che qua e là ricorda l’alfieriana del 1789, Parigi sbastigliato. Trattandosi d’un primo getto, preferisco riprodurla qui come un documento storico, anzi che darle posto tra le Poesie.
APRILE 1814
CANZONE
22 aprile 1814.
Il poeta è interprete genuino del sentimento popolare. Aveva taciuto fin allora, perchè a nulla sarebbe valso l’ardire; infranto il bavaglio, egli leva alta la voce contro l’ipocrita dominatore, che ci teneva schiavi nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l’Italia, costretta ogni anno a deporre il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull’avara lance di Brenno»![69] E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco, spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano,
Ora tutto, d’improvviso, è mutato: «quando eran più l’onte aspre ed estreme», ecco, di tra le nubi, s’è mostrato il braccio salvatore di Dio, a soccorrere i «ben pugnanti». Ed ha vinto; così che «a ragion si rallegra il popol nostro». Ora son tornati alle loro case sospirate, agli abbracciamenti pii, ai soavi colloquii («i fidati colloqui d’amor», del primo coro dell’Adelchi), quei giovani costretti a ramingare per greppi senz’orma, o tenuti, dall’odio potente del tiranno, in carceri tenebrose; ora è tutto un «favellar di gioia e di speranza», e «il nobil fior de’ generosi» ora veglia nelle armi,
Il poeta è anch’egli pieno di fiducia, che l’itala brama sarà da «quei possenti intesa Cui par che piaccia ogni più nobil cosa». E accompagna coi suoi voti i delegati che i Collegi Elettorali inviarono a Parigi, perchè la secolare brama facessero nota a quei possenti.
I delegati furono Federico Confalonieri, Alberto Litta, il marchese Gian Giacomo Trivulzio e il conte Della Somaglia,[lxxxii] milanesi, i conti Marcantonio Fè di Brescia e Serafino Sormani di Cremona, il banchiere Giacomo Ciani e Pietro Ballabio; segretario, il marchese Giacomo Beccaria, figlio d’un fratello di Cesare. Quest’ultimo si sarebbe presentato al Fauriel con una commendatizia del cugino Manzoni. Il quale così scriveva, il 24 aprile, all’amico della Maisonnette:
«Je profite d’une bonne occasion qui se présente pour rénouer avec vous ma correspondance, qui heureusement n’a pas été très longtemps interrompue, au moins par des obstacles extérieurs. M. Beccaria mon cousin part cette nuit en qualité de secrétaire d’une députation que nos Collèges Electoraux envoyent au quartier-général des Alliés; c’est lui qui vous portera cette lettre, et qui vous donnera de nos nouvelles, si vous voulez bien l’accueillir».
Risolutamente avverso, come i suoi amici francesi, all’autocrazia napoleonica, il Manzoni si compiace con essi della piega che gli avvenimenti avevan presa in Francia. Soggiunge:
«Vous pouvez vous imaginer la part que nous avons pris aux inquiétudes dans lesquelles vous avez dû vous trouver, et à la joie qu’a dû vous causer un dénouement aussi heureux et aussi tranquille. Connaissant l’affection que vous avez pour votre pays, et pour tout ce qui est généreux, sage et utile, je vous félicite de votre noble Constitution».
Una Costituzione simile anche per l’Italia era ciò che vivamente sospiravano quei nostri nobili patrioti del ’14:
Ma il loro sogno doveva spezzarsi dinanzi alla realtà del domani, qual era voluta e preparata dalla grettezza feroce e[lxxxiii] goffa del principe di Metternich; di codesto saccente idolatra di quella politica ciecamente conservatrice
[65] La lettera è diretta a Carlo Trombetti. Fu pubblicata nella Cronaca, periodico di Ignazio Cantù, anno 1858, pag. 167.—Cfr. De Castro, La caduta ecc., pag. 156-7.
[66] Cfr. F. Calvi, Il Castello Visconteo-Sforzesco: 2ª ediz., Milano 1894, pag. 459-60.
[67] Cfr. Parini, Vespro, v. 344-5: «A tal clamore Non ardì la mia Musa unir sue voci»; e Il Cinque Maggio.
[68] Cfr. Il Conte di Carmagnola, I, 5ª (pag. 191): «Ma tra la noncuranza e la servile Cautela avvi una via; v’ha una prudenza Anche pei cor più nobili e più schivi......»
[69] I Francesi avevano cominciato per tempo. Nel 1796, Massena entrò in Milano il 14 maggio, e il 23 scriveva al Direttorio, «avec une certaine fierté, que le tableau général des contributions en pays conquis ne s’élevait pas à moins de 35,571,400 francs».—Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie, pag. 607.
[70] Il Conte di Carmagnola, I, 2ª (pag. 184).
Se il Manzoni era il sincero interprete dei sentimenti della parte più eletta del popolo lombardo, un altro poeta, anch’esso amico di libertà, si ribellava a quei sentimenti, in preda a un’agitazione incomposta. Che cosa precisamente volesse ed auspicasse quell’edizione economica dell’Alfieri che fu il Foscolo, nè seppero allora i suoi amici, nè in verità si riesce a comprendere dalla sua Lettera apologetica, scritta in Inghilterra circa il 1823 e pubblicata molto più tardi, a Lugano, nel 1844. Con un dispetto e un’acredine, che fa vivo contrasto col fiducioso compiacimento di uomini come il Manzoni ed il Pellico, ei vi narra:
«I moltissimi trucidatori d’un solo, e il Podestà e i consiglieri municipali e le spie tedesche e i primati della congiura crearono una Reggenza del Regno, e un’assemblea di legislatori. Deputarono ambasciatori agli Alti Alleati in Parigi a perorare i diritti dell’Indipendenza Italiana; ma per agevolare il trattato, e mostrarsi discordi deboli ed imbecilli, e meritarsi l’indipendenza, fecero legge che dal Regno fossero esclusi tutti quanti i paesi che non erano appartenuti al ducato di Milano. Così di sei milioni di abitatori, lo ridussero a poco più d’uno. Cassarono da’ ruoli gli ufficiali tutti quanti dell’esercito ch’erano nati in Francia, o fuori de’ confini di quel nuovo regnetto, e che non per tanto da vent’anni avevano versato sangue e procreato figliuolanza legittima; e solo per essi gl’Italiani cominciarono a non essere nominati codardi fra le nazioni. I collegj degli elettori, composti de’ notabili fra’ possidenti di terra e di denaro e sapere nel Regno; stabiliti per fondamento di tutte le leggi a rappresentare il popolo tutto, ed eleggere i senatori, i giudici, ed ogni magistratura, e il re ove mancasse la successione; indipendenti dalla corona: non eletti che da’ loro pari; e non revocabili, nè mai pagati: erano fatti radice vera di tutte le costituzioni. Pur nondimeno anche i collegj furono in quella notte pervertiti, mutilandoli di quanti membri rappresentavano i dipartimenti e le città del Regno che non parlavano il puro dialetto lombardo. Finalmente con legge acclamata fu decretato doversi inibire ogni ingerenza e consiglio nelle faccende pubbliche agli uomini dotti, come adulatori venali, inettissimi a tutti diritti ed ufficj di cittadinanza».
Son periodi che hanno la risonanza e l’apparente concettosità di quelli di Tacito o di Sallustio; ma in verità essi velano quel medesimo sentimento rancoroso che male ispirò, qualche mese dopo, i reazionarii senatori Veneri e Guicciardi, ex-presidente ed ex-cancelliere del Senato, a presentare al commissario imperiale una protesta contro le deliberazioni dei Collegi Elettorali. «E se», vi si diceva, «non avrebbero potuto ciò fare tutti gli elettori legalmente riuniti in numero di millecentocinquantatre, tanto meno una frazione di centosettanta elettori di otto soli dipartimenti». Il fatto cui si accenna stava così. Dalla Reggenza s’era discusso sulla convenienza d’invitare o no «gli elettori dei dipartimenti occupati dalle truppe nemiche: alcuni di essi si trovavano a Milano per impiego o casualmente. Si temeva», riferì poi il Verri, «d’irritare gli Alleati con una rappresentanza d’elettori di paesi già da essi occupati: vennero quindi circoscritti i Collegi agli otto dipartimenti ancora liberi: Olona, Mincio, Alto Po, Agogna, Lario, Adda, Serio, Mella».
Può esser curioso sentire che cosa il Manzoni pensasse dalla Lettera apologetica. Il Bonghi narra d’avergliela data lui da leggere, e d’averlo trovato un giorno con essa tra le mani. «Gli domandai come avesse fatto a leggerne tanto. Lui m’ha risposto: Sono arrivato sin qui cercando qualcosa di chiaro e di netto, e un periodo che avesse a che fare con quello che lo precede e che lo segue.—Aprii a caso lo stesso libro...., e lessi il primo periodo...., osservando come non mi riusciva d’intenderlo.—E già, mi rispose, son come quei ripieni d’organo senza nessun motivo (fece il suono dell’organo: oh! oh! oh!), e gira e gira e non sen cava nulla!».—E il Bonghi stesso riferisce quest’altro aneddoto. «Un giorno», racconta, «questionavamo Broglio ed io sul merito di Foscolo come scrittore in prosa. Lui, senza aver sentita la quistione, ci disse: Fate decidere a me, che sono nel giusto mezzo, imparziale.—Io, risposi, sostengo che Foscolo è uno scrittore insopportabile.—Queste cose, riprese lui, io non fo che pensarle!».[71]
[71] Pensieri inediti di Ruggiero Bonghi, ecc.; Lucera, 1899, pag. 89 e 84.—Nella VI delle sue Lettere critiche, da Stresa, 30 aprile 1855 (nell’edizione milanese del 1873, pag. 67), il Bonghi lasciò un pubblico ricordo del giudizio manzoniano. Notata «l’imperfezione grandissima delle facoltà discorsive e ragionative» del Foscolo, «imperfezione tanta e tale da non riuscirgli di ragionare neppure le cose ragionevoli che dice», ripigliava: «Questo difetto insieme cogli altri è molto meno evidente nelle prose scritte in inglese che non in quelle che ha scritto in italiano, e tra le ultime, l’è molto meno nelle prose letterarie che nelle politiche. Le quali sono così sconnesse, che, come diceva un uomo di molto spirito, non si leggono se non per la curiosità di trovarci un periodo che abbia che fare col seguente e col precedente; quantunque non sarei lontano dal concedere che ci possa parere un pregio quella certa vibratezza e concisione con cui sono talora espressi alcuni concetti che fermano».—Dei suoi fini e intendimenti politici poi, il Bonghi così giudicava: «Quanto a me, amo il Foscolo; ho simpatia per lui; le sue sventure m’addolorano; ho per quest’Italia tutto quell’amore che aveva lui; e se non l’amo proprio alla sua maniera, è perchè non mi riesce d’intendere quale fosse propriamente questa sua maniera». E a un tapinello che volle mostrarsi scandalizzato e sdegnato di questo giudizio, il Bonghi replicava (pag. 285): «Mi farebbe, invece, grazia ad insegnarmi cosa il Foscolo sperasse per questa Italia che amava, quale avvenire, quali ordini? Questo è quello che non m’è parso d’intendere da’ suoi scritti».
Il 23 aprile, mentre a Mantova il principe Eugenio firmava una seconda convenzione militare, con la quale si consegnava all’Austria il territorio che già costituì il Regno d’Italia, «insino a che sarà conosciuta la sorte definitiva del paese»; qui a Milano i Collegi Elettorali formulavano l’indirizzo che i loro delegati dovevan presentare, in Parigi, agli Alleati. Vi chiedevano: «l’assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano; la maggiore estensione di confini del nuovo Stato; una Costituzione liberale...., che ammetta una rappresentanza nazionale a cui spetti esclusivamente formare le leggi...; un governo monarchico ereditario, primogeniale, ed un principe che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali che abbiamo sofferti durante l’ora cessato governo».
Ah sì! Il 26, l’avanguardia austriaca occupava Pizzighettone,[lxxxvi] e il commissario imperiale, generale marchese Annibale Sommariva lodigiano, giungeva a Milano, a «prendervi possesso, in nome delle Alte Potenze Alleate, dei dipartimenti, distretti, città e luoghi tutti che nel Regno d’Italia non sono ancora stati conquistati dalle truppe alleate». Il giorno stesso, la Reggenza provvisoria pubblicava un proclama al popolo, per esortarlo a ricevere «come veri liberatori» i soldati dell’Austria, «che hanno esposta la vita», diceva, «per la vostra salvezza»; e perciò «accoglieteli coll’ospitalità loro dovuta, aprendo loro le domestiche mura». E a buon conto insisteva, per paura di non esser frantesa: «La Reggenza, fidente nel carattere italiano e assicurata dalle intenzioni dei vostri liberatori, vi avverte che le loro truppe entreranno domani nella capitale, e che il debito e le circostanze esigono che alloggi privati siano posti a disposizione degli ufficiali».
Povero «carattere italiano»! Di buona o cattiva voglia, soprattutto di cattiva, bisognò schiuderle «le domestiche mura» a quelle sudice masnade di tedeschi e di boemi, di croati e di panduri. E anche al Manzoni toccò di vedersi invase, da quegli ospiti così poco gradevoli e graditi, la casa di città e le due di campagna: «un nuovo flagello»! La signora Enrichetta scriveva, il 24 maggio, alla cugina Carlotta:
«Ebbi i miei due bambini malati nei giorni scorsi.... La mamma anch’essa fu malata per un mese... Ora noi siamo ingombri di soldati. Le nostre case in città ed in campagna ne furono e ne sono ancora occupate, e non si sa troppo come bastare alla spesa».
Più tardi, il 26 luglio, la signora Giulia dava qualche nuovo particolare allo zio Michele:
«Ho avuto tanti malati in casa..... Sospiriamo tutti di andare in campagna, ma avevamo tutte le nostre case piene zeppe di soldati. Il nostro Lecco è rovinato intieramente dal soggiorno di otto mesi di soldati, di donne e figli; anche adesso è tutta ingombrata. A Brusuglio avevamo quaranta soldati; ho ottenuto che partissero, perchè per la salute nostra, e massime d’Enrichetta che deve prendere i bagni, necessita la nostra andata colà. Difatto altro non occorrendo, vi andiamo domani. Le spese straordinarie e forzose di questo inverno ci hanno impedito di ultimare la nostra casa nuova; bisogna che abitiamo la vecchia in pessimo stato, perchè non ci conviene riadattarla. Qui fa caldissimo, Milano è piena di gente, perchè i militari vi formicolano...».
E il 6 gennaio 1815, ritornati a Milano dalla villa di Lecco, soggiungeva:
«Grazie a Dio, si sono rimessi tutti [i bambini], mediante la buon’aria di Lecco; chè, a forza d’impegni, ci è stato permesso di andarvi; dico per impegni, giacchè la nostra povera casa era da un anno occupata intieramente da soldati, così che abbiamo dovuto far lavare tutta la casa, dai materazzi, e rimontar tutto, inclusivamente gli utensili di cucina, con una spesa non indifferente. Eravamo bene colà; ma dovemmo presto ritornare qui, perchè ci volevano occupare le nostre proprie stanze con alloggi; e notate che non ne abbiamo una che non ci sia necessaria. Venimmo dunque a Milano.... Alessandro è un po’ affaticato per gli affari».
Disingannato anch’egli come i suoi generosi amici di Milano, Alessandro, in quell’angoscioso trambusto, tacque con gli amici lontani. Dopo la lettera del 24 aprile 1814, ei non riscrive al Fauriel fino al 25 marzo 1816. E quante cose non ebbe da osservare, e quante meditazioni non ebbe da fare, in quei due anni!
Il 28 aprile, l’avanguardia del Neipperg entrò in Milano, alle 4 del pomeriggio, da porta Romana. Una doppia fila di circa ottocento militi della Guardia Civica, «armati e ben montati», faceva ala. Le milizie austriache, cenciose e polverose, sfilarono a suon di musica, tra un silenzio reso più solenne e significativo dagl’isolati evviva interessati o prezzolati.[72] Si sperava ancora che quella soldataglia un giorno o l’altro sarebbe dovuto sloggiare; e si sollecitava perciò la decisione delle Potenze Alleate.
I delegati dei Collegi Elettorali erano in via. Il primo a giungere a Parigi fu il Confalonieri, che aveva compiuto in sei giorni (un tempo che parve assai breve) il viaggio. Era lui il Beccaria. Le notizie che potè raccogliere non furon molto confortanti. Pare che allora gli sorridesse l’idea d’una Confederazione degli Stati italiani, stretta intorno alla dinastia di Savoia, «già la più forte dell’Italia nordica»; rinunziava[lxxxviii] per suo conto anche al piacere di conservar la capitale a Milano. Ma c’era ben altro a cui quei generosi avrebbero dovuto rinunziare! Gli altri delegati tardavano: il Trivulzio e il Sommi giunsero il 3 maggio, il Litta e il Somaglia, il 4; il conte Fè, che fu l’ultimo, il 13. Fin dal 3 maggio il Confalonieri scriveva intanto alla moglie: «Il Veneziano e la Lombardia sono assolutamente devoluti all’Austria: possa questa corona esser posta sulla testa d’un principe da sè, e i nostri voti avranno esito; ma l’orizzonte su di ciò mi fa tremare!». E il giorno appresso: «L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini.... Non trattasi più di domandare alle Alleate Potenze: Costituzione libera, indipendenza, regno ecc. ecc.; trattasi d’implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare!».
Pure, essi intrapresero con coraggio la via crucis. Chiesero ed ottennero d’esser ricevuti, il giorno 7, dall’imperatore Francesco. Il quale dichiarò, con decantata benevolenza: «Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista; vi amo come miei buoni sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore della vostra salvezza e del vostro bene». E non volle sentir parlare di condizioni o di concessioni; e quando uno dei delegati si lasciò sfuggire il nome di Regno Italico, il delicato sovrano interruppe: «Regno Italico no, perchè io non spingo le mie mire a quel che dev’esser d’altri!».—Metternich fu, se fosse stato possibile, anche più esplicito.—L’imperatore Alessandro fece sapere che li avrebbe ricevuti solo come illustri italiani, non potendo loro riconoscere nessuna veste ufficiale; e li congedò, dopo un discorsetto sul bel paese e sul bel tempo, ringraziandoli d’avergli procurato le plaisir de faire votre connaissance individuelle.—Il ministro di Prussia, Guglielmo di Humboldt, fece intendere abbastanza chiaramente che al suo paese non dispiaceva che l’Austria s’ingrandisse in Italia, lasciando così alla Prussia il modo d’allargarsi in Germania.—Rimaneva un’ultima speranza, nel Gabinetto Inglese; e la Reggenza, da Milano, spingeva i Delegati a quest’ultimo passo, con la fiducia della disperazione. Gli ammiragli e i generali inglesi, venuti in Italia, s’eran tanto piena la bocca di libertà e di[lxxxix] costituzioni liberali!.... Ma lord Aberdeen e il visconte di Castlereagh osservarono che a godere il benefizio delle istituzioni inglesi bisognava esser già preparati; e l’Italia non lo era, tanto che in Sicilia la Costituzione aveva fatto cattiva prova; si rassegnasse perciò la Lombardia al governo dell’Austria, che a buon conto non era più la Francia, che anzi era ottimamente disposta a far la felicità degl’Italiani!
Intanto, l’8 maggio, era entrato in Milano, con altri dodici mila uomini (a cui ne seguirono subito altri cinquemila), il maresciallo Bellegarde, investito, com’egli proclamò, «di pieni poteri nelle provincie del Regno d’Italia ora distrutto, e già appartenenti alla Lombardia austriaca»: questo richiamo storico non era inopportuno! Nello stesso giorno, il conte Bubna entrava in Torino come governatore militare del Piemonte, alla testa di altre milizie austriache.—Una commissione dei Collegi Elettorali, con a capo il presidente Giovio, si presentò al Bellegarde per raccomandargli: «Voi tanto vicino al monarca, che con tanta gloria siede sul trono di Carlomagno e degli Ottoni, dovete esser nostro intercessore presso le Potenze Alleate, e procurare al nostro paese l’indipendenza garantita da savie leggi e da un principe che meriti le benedizioni di noi tutti». Ma se il Maresciallo non pensava ad altro!... Che cosa essi intendevano per indipendenza?...
Il 13 maggio, monsignor Rivarola plenipotenziario di Pio VII entrava in Roma, a prepararvi l’arrivo di Sua Santità, che n’era scappato la notte del 6 luglio 1809. —Il 17, sbarcò a Genova, proveniente dalla Sardegna, Vittorio Emanuele I; e, a riceverlo come sovrano, si trovò quel medesimo lord Bentinck, che aveva destate tante speranze repubblicane.—E tra il 17 e il 20, il commissario imperiale conte Strassoldo prese possesso, in nome di Maria Luigia, dei già dipartimenti di Parma, Piacenza e Guastalla. —Il 22, giunse a Milano un messo del Confalonieri, ad avvertire la Reggenza che le Potenze avevano oramai deciso circa la nuova configurazione politica della Penisola.—Il 25, vi si vide su per le cantonate il primo avviso in cui ricomparve l’aquila bicipite.—Il giorno dopo, venivan disciolti i[xc] Collegi Elettorali, soppressi il Senato e il Consiglio di Stato. Fu conservata la Reggenza, ma decapitata dell’unico liberale, il Verri: il Commissario imperiale ne assunse egli la presidenza!—Così, dopo solo nove anni di vita, promettente se non rigogliosa, era trucidato il bello italo regno. Quella gente che si era creduta risorta, veniva scissa nuovamente in volghi spregiati,
risospinta ai prischi dolor.
Il 12 giugno, i banditori del comune percorrevano Milano annunziando, nei crocicchi, a suon di tromba, essere i Lombardi sudditi dell’Austria, in forza del trattato di pace concluso a Parigi il 30 maggio, tra S. M. Francesco I ed i suoi alleati. Il Maresciallo proclamò: «Popoli della Lombardia! Una sorte felice vi è destinata! Le vostre provincie sono definitivamente aggregate all’Impero d’Austria. Voi rimarrete tutti uniti ed egualmente protetti sotto lo scettro dell’augustissimo imperatore e re Francesco I, padre adorato dai suoi sudditi, sovrano desideratissimo dagli Stati che godono la felicità di appartenergli». Sarebbe stato più prudente aspettare che i nuovi sudditi esprimessero spontaneamente una tanta gioia; ma il Commissario si dichiarava così sicuro d’interpretarne fedelmente i sentimenti!.... «Noi siamo convinti», egli soggiungeva, «che gli animi vostri saranno pieni di gioia nel contemplare un’epoca felice del pari che avventurata, e che la vostra riconoscenza trasmetterà alle remote generazioni una prova indelebile della vostra devozione e fedeltà!». L’Italia, dunque, riconquistava, come non riconoscerlo?, la tanto desiderata indipendenza: non voleva essa forse l’indipendenza.... dalla Francia? Ah l’ipocrisia diplomatica!
Il 13, in tutte le chiese della città e del suburbio, fu cantato—e fin dall’alba intermittenti colpi di cannone chiamarono i fedeli al sacro rito—un solenne imperial Te Deum. La sera dopo, al teatro della Cannobiana, «fu dato per tema», narra il Mantovani, «ad un improvvisatore La battaglia di Lipsia. Verseggiando egli, come doveva, in lode degli Alleati, sorse un forte susurro, ed in mezzo ai fischi non si[xci] lasciò continuare. Il teatro fu sgombrato per ordine superiore». Il diarista soggiunge, accorato: «Pessimi preludii!». Certo, non era per rinato amore al vinto di Lipsia; ma al governo austriaco conveniva di crederlo. E fece correre e diffuse le più sconce ed ingenerose satire e caricature del paventato coatto dell’Elba; e s’affrettò a cancellare, in città, le orme del vincitore di Marengo, ribattezzando quello che già fu, ed è tornato, Foro Bonaparte,[73] e quella che era stata chiamata Porta Marengo ed ora è Porta Ticinese, e la Contrada della Riconoscenza ora Corso Venezia, e la Piazza del Tagliamento ora Piazza Fontana.[74] Benchè incatenato, e in gabbia, il leone metteva paura.
Anche la casa mezzo guasta del Prina dava fastidio per le memorie che destava: la sorte che ieri toccò a quel ministro, sarebbe potuta domani toccare ad altri; non c’è forse l’epidemia o la suggestione dei ricordi? E fu deciso di ampliare e regolare la Piazza San Fedele; che voleva dire spazzar via, coi rottami, ogni segno visibile della rivolta. Il 25 maggio, fu pubblicato il primo avviso d’asta per la demolizione; il 6 giugno, il secondo: e furon subito iniziati i lavori. Il 26 luglio, la madre del Manzoni scriveva allo zio Michele:
«Sono appresso a formare una piazza, atterrando la casa del fu ministro delle Finanze: siccome questa è nelle nostre vicinanze, così ve ne parlo».
Oggi, nel bel mezzo della tranquilla piazzetta; con la fronte rivolta a quella che fu la casa degl’Imbonati e poi dei Blondel, e che ospitò dal 1830 al 1834 Massimo d’Azeglio, e ora è il Teatro Manzoni; sorge la statua del grande poeta, opera egregia del Barzaghi, inaugurata il 22 maggio 1883, dieci anni dopo la morte. Dietro, è la chiesa di San Fedele, dove il vecchio venerando si trascinava tutte le mattine; al lato destro, il palazzo del Comune; al sinistro, lo sfondo di quella che fu la casa del Prina, ove poi, nel 1848, dimorò Giuseppe Mazzini. «Ah!», esclamerebbe forse anche qui don Abbondio, «se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male....; ma guarire, ve’!».
[72] Il diarista Mantovani, austriacante, se ne mostra tuttavia contento. Narra che le truppe furono ricevute «con incessanti evviva: nessuna confusione, nè incidenti clamorosi: tanto è vero che l’allegria sincera e cordiale non è mai disgiunta dalla giusta moderazione anche tra il basso popolo!».
[73] Napoleone primo console, con decreto 23 giugno 1800, ordinò che si radessero al suolo i baluardi circondanti il Castello sforzesco, detto allora di Porta Giovia; e il Governo della restaurata Repubblica Cisalpina, con legge del 30 nevoso dell’anno IX (20 gennaio 1801), stabilì: «L’area del demolito castello di Milano e del suo spalto, viene denominata Foro Bonaparte». Con le pietre degli spalti demoliti, si costruì, nel 1805, su disegni di Luigi Canonica, l’anfiteatro che fu detto l’Arena.
[74] Furono anche sospesi i lavori, deliberati dalla città nel 1806, per ricostruire in modo duraturo l’arco trionfale, ideato dal Cagnola per l’ingresso di Eugenio e di Amalia; e alle composizioni scultorie e alle iscrizioni esaltanti Napoleone, ne furono sostituite altre che ne ricordavan la caduta. Così l’arco napoleonico prese il nome, che ancora conserva, di Arco della Pace; benchè ora le epigrafi inneggino all’entrata di re Vittorio e di Napoleone III.
L’11 luglio [1814], il Manzoni riprese tra mani l’inno, che aveva lasciato alla seconda strofa, sulla Passione. Ne scrisse ancora due strofe; e lasciò di nuovo, e non lo riprese che il gennaio successivo, per nuovamente interrompersi e nuovamente riprenderlo nel settembre, e compierlo, finalmente, nell’ottobre. Decisamente le Muse pudiche si rifiutavano di dimorare in una città così ingombra di soldataglia esotica; e il poeta non le poteva ospitare in campagna, perchè le due sue ville v’eran divenute caserme!
Fra tanti danni, questo vantaggio ci fu di sicuro: che quando, pochi anni dopo, il romanziere imprese a descrivere i saccheggi e gli orrori che, due secoli prima, altre e più brutali soldatesche esotiche seminarono in quelle care borgate che s’inerpicano su pei monti o si nascondono nelle valli, intorno al San Martino e al Resegone, ei non ebbe a lavorar molto di fantasia! Quel Bellegarde secentesco e spagnolesco che fu Don Gonzalo, aveva anche lui protestato, in nome del suo re, «di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore»; e il buon popolo ambrosiano, mentre le grandi potenze erano in armi per disputarsi la ghiotta preda, s’era anche allora sfogato con una sedizione, la quale, anche allora, non valse se[xciii] non a richiamare nuova marmaglia straniera; e allora pure, mentre l’un esercito ci stava sul collo, un altro, francese, era venuto a «inondare i nostri dolci campi». E poi, «mentre quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando [II, d’Austria] si avvicinava dall’altra; aveva invaso il paese de’ Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese». Codeste «truppe alemanne» eran guidate dal conte Rambaldo di Collalto, un condottiero meno incivilito del Bellegarde. Mal pagate, esse avevano già «desolata la Germania» sotto il comando del Wallenstein; e ora venivano, come uno sciame di cavallette, giù lungo «tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po», e lungo un buon tratto di questo fino al Mincio. Il giorno che dalla Valsàssina quei demòni «sboccarono nel territorio di Lecco», che spavento per quella povera gente, e che danni!
«Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili; qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto».
Sono scene non solo verosimili, ma vere forse. I nipoti di quei lanzichenecchi il romanziere li aveva veduti, anzi avuti per casa! E aveva pur visto i nipoti di que’ cappelletti, che mettevan nuova paura in corpo al già tanto impaurito don Abbondio. Chi non ricorda?
«Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata: ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva[xciv] costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, nè più nè meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano».[75]
Sicuro: perchè anche il 29 giugno del 1814, il Bellegarde, per reprimere quel vero brigantaggio che i malcontenti d’ogni genere, soldati disertori e impiegati licenziati, esercitavano su larga scala in tutto il territorio e fin presso le mura di Milano, aveva dovuto mandare in perlustrazione uno squadrone di ottocento cavalieri; e quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini!
Oh non era punto un bel vivere a Milano, durante l’imperversare della reazione austriaca; ci si stava press’a poco come durante la guerra per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga! Il Bellegarde riferiva al suo imperatore che se la nobiltà, il clero, la popolazione del contado avevano conservato un certo attaccamento alla Casa d’Austria, le classi medie, i militari e gl’impiegati, le si dimostravano ostinatamente avverse: forse, diceva, la vicinanza di Napoleone e il contegno del Re di Napoli alimentano le loro segrete speranze. Un poliziotto mandato a posta da Vienna, il 26 giugno scriveva al suo governo: «Facendo nuove conoscenze, ho già dovuto rilevare con rammarico che noi Tedeschi siamo quasi generalmente odiati; vi assicuro che il malcontento eccede ogni limite, e che ci caccerebbero precisamente collo stesso piacere con cui ci hanno accolti or fanno sette settimane»[76]. Al Commissario imperiale occorreva procedere con una grande prudenza; la quale poi dava noia, come suole, ai reazionari arrabbiati, che gli mutarono il nome in Belletardi. Si buccinò anche d’una congiura militare, che per il 5 agosto doveva mettere a fuoco e fiamme tutta la Lombardia: le logge dei Frammassoni e le vendite dei Carbonari avevan tutto preparato, si diceva, per la proclamazione della Repubblica Italiana. Il Bellegarde sarebbe stato disposto a non prestar fede a simili fandonie; ma il Gabinetto[xcv] imperiale voleva indagare, avere liste di proscrizioni, reprimere esemplarmente. Alcuni cavalieri d’industria, un Comelli von Stuckenfeld e un Esquiron de St. Agnan, specularono su quella paura e pescarono in quel torbido. Il 5 agosto passa tranquillo; non importa, la sollevazione si seppe esser rimandata all’ottobre. Anche l’ottobre passò tranquillo; ma.... c’era stato un contrattempo. Finalmente, il St. Agnan fa il colpo; ruba alcuni documenti, e nella notte dal 3 al 4 dicembre consegna ai gendarmi il medico Rasori, l’avvocato Lattuada ed altri ardenti e imprudenti complici della terribile trama. Dell’inesorabile imperatore era alfin paga la «terribil ira!».
Fu una sconcia tragicommedia; ma che strazio assistere a un tanto avvilimento della patria, dopo tante illusioni e speranze!
tornava a essere avvinta da
Povera, diseredata, avvilita e derelitta Italia![77]
Sennonché, tra quella folla di sovrani, «tutti anelanti a farle oltraggio», ce n’era pur uno, a cui gli occhi dei patrioti si volgevano con desiderio e fiducia. Era, sì, nato di là dalle Alpi, ma la fortuna e la virtù militare gli avean posto in mano il freno delle più belle contrade della Penisola. Baldo, insofferente, generoso, perchè non avrebbe egli osato finalmente di proferir quella parola «che tante etadi indarno Italia attese?».
[75] Promessi Sposi, capp. XXVII, XXVIII e XXIX.
[76] Von Helfert, La caduta della dominazione francese ecc., pag. 161-62.
[77] Per siffatte figurazioni dell’Italia, rimando a quanto già ebbi a scriverne per illustrare il primo dei Canti leopardiani. (Cfr. I Canti di G. Leopardi ecc., Milano, Hoepli, 1900, pag. 230 ss.). Qui richiamo la prosa prima del Misogallo, in cui l’Alfieri, dedicando quell’operuccia alla Venerabile Italia, le dice: «Onde, ed a quella augusta Matrona, che ti sei stata sì a lungo, d’ogni umano senno, e valore principalissima sede, ed a quella che ti sei ora (purtroppo!) inerme, divisa, avvilita, non libera ed impotente; ed a quella che un giorno (quando ch’ei sia) indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera ed una....».
Gioacchino Murat è, dopo Napoleone, il personaggio forse più interessante della immane tragedia ch’ebbe il suo prologo il 21 gennaio 1793, in quella piazza di Parigi dove il carnefice della Rivoluzione troncò il capo d’un re per diritto divino, e il suo epilogo il 5 maggio 1821, nella remota isola del Pacifico, dove i principi di diritto divino avevan confinato l’audace figlio della Rivoluzione, che s’era incoronato re e imperatore con le sue proprie mani. Nato di popolo, bello, sveglio, manesco, Murat era un seducente tipo di soldato e d’avventuriero. Amava la sua lucente uniforme e il suo[xcvii] cavallo quanto la sua stessa persona; della quale era vano, anche perchè essa valeva a conquistargli subito le più ambite simpatie. Non aveva né principii morali né convinzioni politiche molto salde: così che urlò da prima coi lupi della Rivoluzione, e persino alterò il suo nome in Marat; e poi, quando volle cattivarsi l’animo del despota, diè la caccia a quei lupi, e si compiacque d’esser chiamato Gioacchino Napoleone.
Bonaparte non vide in lui un possibile rivale, e gli agevolò l’ascesa. Lo condusse con sè in Italia, nel 1796; e dopo l’armistizio di Cherasco, ne propose la promozione a generale di brigata. Gli affidò anche missioni militari e diplomatiche a Genova, in Toscana, nella Valtellina, a Roma; lo volle poi in Egitto, dove l’impareggiabile generale di cavalleria manifestò tutta la sua bravura; e lo ebbe a fianco, tra’ più fidi e gagliardi, in Parigi, nei foschi giorni di brumaio. Gioacchino richiese, quasi in compenso di tali servigi, la mano di Carolina, l’ultima sorella del Primo Console, che questi vagheggiava di maritare a Moreau. Il cuore già lo possedeva: lo aveva preso d’assalto qui, quattro anni prima, nelle sale e nei boschetti della villa Crivelli-Serbelloni a Mombello, dove ora è il manicomio. Quelle nozze, in forma puramente civile, furon celebrate il 20 gennaio 1800; ma due anni dopo, esse furon benedette dal cardinal Caprara. Per convenienza politica, questi napoleonidi sollecitarono ciò che, otto anni dopo, i coniugi Manzoni avrebbero compiuto per rinata convinzione religiosa.
Al Murat, in quella eroica primavera, fu assegnato il còmpito di condurre, attraverso il San Bernardo, il grosso nerbo di cavalleria di quell’esercito della riserva, che Napoleone, rinnovando in sè gli ardimenti di Annibale e di Carlomagno, riversava in Italia. Quali ansie, tra quei monti
Come gli saranno parse lunghe quelle quindici ore, che i suoi seimila e duecento cavalieri spesero su per gli aspri[xcviii] sentieri e i balzi dirotti, che separano la gola di Minouée dalla capanna della Vaccheria! La fanteria precedeva per la Valle d’Aosta, ed aveva ricacciata a Châtillon una colonna nemica, quand’ecco si trovò di fronte alle formidabili posizioni di Bard. La natura pareva avesse preparato il campo al nemico: «gli abissi intorno gli scavò per fossati», e i monti eran «le sue torri e i battifredi».
Ma non mancò neppur questa volta chi additò all’esercito invasore un sentiero, onde girare in largo e piombare alle spalle dei difensori. E mentre una divisione asserragliava il forte, la fanteria, e dietro di essa la cavalleria, sfilaron per greppi senz’orma, e giù per Ivrea sboccarono «in mezzo ai campi Ondeggianti di spighe, e ne’ frutteti Carchi di poma».
Non è possibile che il poeta, il quale una ventina d’anni dopo intendeva a ricostruire, sugli scarsi accenni dei cronisti, il dramma della più remota discesa dei Franchi, e metteva sulle labbra del diacono Martino la immaginosa narrazione del suo singolare viaggio attraverso le Alpi ignote[79], non[xcix] avesse l’occhio e la mente al memorando passaggio che s’era compiuto, per così dire, sotto i suoi occhi. Chi sa quanti racconti di testimoni, con quanti particolari, non gli sarà toccato d’ascoltare! E quanti colori non vi avrà attinto, anche per la magnifica scena che segue, dei Longobardi sorpresi, sconfitti, messi in fuga! Essa è così viva e mossa, come nessun’altra del nostro teatro tragico; anche più di quella, pur tanto ricca d’azione e d’affetti, in cui Saul, sopraffatto dai fuggenti e in cospetto dell’irrompente oste vittoriosa, soccombe.
Quel brillante ufficiale, che i Milanesi avevan già ammirato quattro anni avanti, rientrò il 2 giugno, alle 4 del pomeriggio, per porta Vercellina (ora Magenta), nella metropoli cisalpina, preceduto da gran fama, anche pei più recenti prodigi di valore e d’audacia compiuti nel traversare la Sesia e il Ticino, e con nuovo fasto principesco. Ma non ci si fermò se non due giorni: e poi via, a capo dei suoi cavalieri, per Piacenza, dove passò, con temerità sbalorditiva, il Po; per Voghera, dove sfilò al trotto sotto gli occhi sorridenti di Napoleone e quelli sorpresi del parlamentario austriaco; per i piani di Marengo. I Consoli, quando egli potè ritornare a Parigi col glorioso cognato, gli decretarono una spada d’onore. —Nel dicembre, conduce in Italia, pel Piccolo San Bernardo, un nuovo esercito; e occupa Ancona e la Toscana, e si stabilisce[c] a Firenze, per trattare col Papa e col Re di Napoli, e costituire il Regno d’Etruria. Fa un colpo di testa, che gli riesce e gli attira nuove simpatie tra’ cisalpini: chiama «esercito d’Italia» quello che Napoleone aveva battezzato «corpo d’osservazione del Mezzogiorno». Benchè gli utopisti gli tengano il broncio, per non aver egli proclamata la repubblica a Firenze, a Roma, a Napoli; i patrioti meglio ispirati riappuntano in lui, francese, quegli sguardi di desiderio che Campoformio aveva stornati dal Corso fedifrago. Murat se ne compiace; e il 2 agosto, nel proclamare l’atto costituzionale della nuova monarchia, pronunzia un discorso, in cui accenna agli splendori medicei, ed esorta i Toscani a considerare i Francesi come un popolo amico, «il quale sa rispettare presso le nazioni straniere i principii monarchici, al modo stesso che sa mantenere in patria i principii repubblicani». Napoleone lo lascia fare e dire; anzi lo mette a capo di tutte le milizie francesi che si trovavano nella Penisola. Ed egli viene a stare a Milano. Indignato per le malversasazioni dei commissarii repubblicani, affretta la costituzione della Repubblica Italiana, con Napoleone presidente; e il 14 febbraio 1802, dopo d’aver passate in rivista, nella piazza tra il Duomo e la reggia, le sue belle truppe, tiene nella sala delle cariatidi un altro discorso, augurando le sorti[ci] più liete al nuovo Stato italiano che si costituiva sotto gli auspici tutelari di Bonaparte.
Pur troppo, il popolo lombardo aveva ivi stesso, sei anni innanzi, ascoltate proprio dalla bocca di costui parole anche più promettenti. «Vous serez donc libres», egli aveva detto nel fervore di quei primi entusiasmi liberaleschi, «et vous serez plus sûrs de l’être que les Français; Milan sera votre capitale, l’Oglio et le Serio seront vos barrières; la Romagne vous écherra et d’autres provinces encore; vous embrasserez les deux mers, et vous aurez une flotte!». Allora Vincenzo Monti—che fra que’ rapidi mutamenti politici non sapeva che pesci pigliare, o meglio, cercava di pigliarli tutti, ma l’un dopo l’altro gli sguisciavan di mano—aveva mutata, anzi capovolta, la fine della sua Musogonia. Dove prima, nel 1793, aveva inneggiato a Francesco d’Austria, italiano perchè nato a Firenze (il 12 febbraio 1768), invocando sul suo biondo capo il favore dei numi:
ora, nel 1797, si rivolge al «magnanimo eroe» (il Gallo fellon!) che riconduceva di qua dalle Alpi il «furor del seme empio di Brenno», per esortarlo a farsi «d’Ausonia l’Alessandro e il Numa»:
Anche Ugo Foscolo aveva, in quell’anno, intonata la sua ode A Bonaparte liberatore, esclamando fiducioso:
Ma l’eroe gridato «liberatore»; il quale ai Milanesi aveva promesso: «Si l’Autriche revient à la charge, je ne vous abandonnerai pas!», e aveva soggiunto, con l’enfasi propria del tempo, «Un jour peut-être vous tomberez, mais alors je ne serai plus là, et d’ailleurs Sparte et Athènes aussi ont succombé après s’être inscrites dans les fastes du monde!»; di lì a poco aveva patteggiata Venezia
Onde i disperati sconforti di Jacopo Ortis. Il quale, tra imprecazioni che ricordano il Misogallo, ha pur una frase che richiama l’idea intorno a cui s’impernia il primo Coro dell’Adelchi[80]. «Moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro», scrive nella lettera del 17 marzo dell’anno I, «presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia». Strana e assurda presunzione!
«Ma i Francesi», ripiglia l’Ortis, «che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno[ciii] da Timoleoni in pro nostro? Moltissimi intanto si fidano del giovine eroe nato di sangue italiano, nato dove si parla il nostro idioma. Io da un animo basso e crudele non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch’abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace?...».
E i moltissimi ebbero torto!
E in chi dunque oramai fidare e sperare? Non era possibile che tutta la nazione, e non era neanche da consigliare, si appigliasse al partito a cui Jacopo—non Ugo—s’immolò! E poi, non era stato Napoleone a dare un corpo alle vaghe aspirazioni italiane di libertà e d’indipendenza? Ch’egli, in un certo momento della sua vita, vagheggiasse un’Italia tutta unita, era un fatto; che sognasse, un quarto di secolo prima del poeta, una Italia «libera tutta tra l’Alpe ed il mare»,
ce lo hanno rivelato quelle poche tra le «eterne pagine», in cui l’imperiale recluso «ai posteri narrar sè stesso imprese». Gli è che opposto a quell’ambita fusione egli aveva visto un ostacolo politico e morale, che la configurazione topografica della Penisola rendeva più grave, anzi insormontabile. Napoleone lasciò scritto:
«L’Italie, isolée dans ses limites naturelles, séparée par la mer et par de très hautes montagnes du reste de l’Europe, semble être appelée à former une grande et puissante nation.... Quoique le sud de l’Italie soit, par sa situation, séparé du nord, l’Italie est une seule nation. L’unité de langage, de moeurs, de littérature doit.... réunir enfin ses habitants dans un seul gouvernement.... Elle a dans sa configuration géographique un vice capital, que l’on peut considérer comme[civ] la cause des malheurs qu’elle a essuyés et du morcellement de ce beau pays en plusieurs monarchies ou républiques indépendantes: sa longueur est sans proportion avec sa largeur».[82]
Di qui la difficoltà d’un centro unico, che tutti volessero riconoscere e accettare, e che fosse rispondente a tutti i bisogni. Ve n’è, sì, uno: il nostro capo, Roma; ma vi sedeva il successore del maggior Piero. Al generale Bonaparte non sembrava possibile rimuoverlo. E se dopo, alla mente e alla fantasia dell’imperatore Napoleone tutte quelle condizioni topografiche, storiche, politiche, teocratiche, delle regioni e delle nazioni, si presentarono come fin troppo malleabili ed elastiche, e fin trascurabili; allora gli parve anche trascurabile l’ideale d’un’Italia unica, imperniata su Roma laica. Il padre del Re di Roma vagheggiava oramai un’epopea virgiliana; non poteva quindi più sorridergli il modesto idillio romantico, che ebbe il suo poeta in Alessandro Manzoni, la sua prima vittima in Gioacchino Murat.
[78] Il Manzoni riprese poi quest’immagine nell’ode Marzo 1821:
[79] Ebbi già (prima nel numero unico Vesuvio ed Etna, agosto 1892; poi nella Biblioteca delle Scuole italiane, gennaio 1900) occasione di segnalare un curioso riscontro. Nell’ultimo canto, del poemetto autobiografico Il poeta di teatro, Filippo Pananti, descrivendo un suo viaggio nel paese di Galles, esce a dire (st. 14 e 15):
E il poeta stesso annotò: «Questo deserto, di cui qui si parla, s’appella Cum. Qui non s’incontra traccia di vivente, non un albero, non una fronda; un raggio di sole non illumina la deserta via; non si sente altra voce che l’urlo dei torrenti e i gridi dolorosi dei neri uccelli del Nord. La Solitudine sembra il suo trono aver posto nelle caverne delle montagne, e nella orrida maestà degli aspri e nudi macigni; le nubi sono il suo manto, e sono i cupi recessi l’oscuro suo padiglione».—Non si può non risentirvi un’eco della descrizione manzoniana. Non intendo però d’insistere sulle somiglianze e sulle dissomiglianze. In fatto d’imitazioni letterarie, chi ha avuto la buona ventura di scovarne e fintarne una, è facilmente corrivo ad esagerare l’importanza dei tratti rassomiglianti; e chi per contrario è chiamato a osservare e giudicare, tende, quasi mal consigliato da una incosciente ed innocente invidiuzza, ad ingrandire le proporzioni delle divergenze. L’uno guarda le linee che lo seducono con una lente d’ingrandimento; l’altro, quasi seccato, rovescia il cannocchiale, e guarda dispettoso dalla parte opposta. E poi, ciascuno, in queste inezie, tien molto a un suo proprio e speciale senso del limite, a una sua propria e particolare maniera di vedere e d’intendere; così che non riesce facile l’accordo nemmeno tra compagni di studio. A buon conto, che tra i versi del Manzoni e la noterella del Pananti una qualche somiglianza ci sia, non mi pare si possa, senza cedere a un’acuta voglia di contradire, negare. Sta il fatto che io pensai spontaneamente a quelli mentre leggevo, con tutt’altro in mente, il poemetto del Mugellano. Se poi l’incontro sia del tutto casuale; o se invece si tratti d’inavvertite reminiscenze di letture altre volte fatte; o se addirittura è da ammettere che il tragediografo lombardo desumesse consapevolmente qualche tinta al paesaggio nordico, disegnato e colorito con l’abituale e naturale vivacità della sua lingua materna dal commediografo toscano: son questioni diverse, e ben più difficili e delicate da risolvere.—Conviene avvertire che Il poeta di teatro fu edito la prima volta a Londra nel 1808, e ripubblicato poi a Milano nel 1817 (ed io ho tra mani giusto questa più recente edizione); e ricordare che l’Adelchi venne alla luce solo cinque anni più tardi, nel 1822.
[80] Cfr. Zumbini, Werther e Jacopo Ortis; Napoli, 1905, pag. 18 n.
[81] Versi cancellati dalla Censura nel primo Coro dell’Adelchi. Vedi a pag. 145 e 147.
[82] Campagnes d’Italie. Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie, pag. 116.—Al generale Bertrand, a Sant’Elena, Napoleone diceva «qu’il voulait formellement créer indépendante et libre la nation italienne».
Firmata la pace d’Amiens, Murat sollecitò d’esser mandato a Roma e a Napoli, per sorvegliarvi il ritiro delle guarnigioni francesi; e sul Tevere ebbe accoglienze e doni principeschi, sul Sebeto una spada con l’elsa tempestata di diamanti. Il re Borbone prese le sue misure perchè i giacobini napoletani non gli facessero le feste che avevan preparate. Qualcosa i conservatori fiutavano, e l’avevano in uggia. A Milano essi s’erano stretti intorno al Melzi, e profittavano d’ogni occasione per porre Gioacchino in sospetto presso il despota. Insinuavano ch’egli alimentasse le ubbie unitarie, e tollerasse che fin nell’esercito codeste idee fossero diffuse e inculcate. Per parare il colpo, Murat denunziò alcuni ufficiali, e si mostrò scandalizzato che il vicepresidente avesse[cv] sofferto che dei brigands applaudissero in teatro La congiura dei Pazzi e La morte di Cesare (forse il Bruto secondo?). Ma c’ebbe la peggio. Napoleone lo costrinse a rappattumarsi col Melzi; e, profittando d’un nuovo suo congedo, lo trattenne presso di sè, nominandolo governatore di Parigi.
E per la causa italiana l’allontanamento di Murat fu una vera iattura. Eugenio e Giuseppe eran troppo ligi al re ed imperatore, e la loro principale virtù consisteva nell’obbedienza e nella remissione più completa. Valevan poco più di due mediocri prefetti. E quando, nell’agosto del 1808, a Gioacchino fu concesso di ripassare le Alpi, e d’assidersi sul trono di Napoli, era forse un po’ tardi: così per lui, che vi tornava di malavoglia, dopo d’avere invano sperato il trono di Polonia e quello di Carlo V; come pei popoli, disingannati circa l’égalité dei fratelli transalpini, e stanchi, sfiduciati, esausti.
Pure, le festose accoglienze che i Napoletani fecero e a lui e poi alla regina, gli ridiedero lena. Benchè sfornito di una vera flotta, egli, improvvisato ammiraglio, scacciò con un audace colpo di mano gl’Inglesi, che s’eran nientemeno che appollaiati a Capri. E poco appresso, li sloggiò nuovamente da Procida e da Ischia. Represse, con inusitata energia, il brigantaggio politico negli Abruzzi e nelle Calabrie. E intanto iniziò un illuminato riordinamento delle amministrazioni civili e militari. Aprì scuole d’ogni genere, dalle universitarie alle primarie, e non solo nella capitale ma fin nei borghi delle provincie. Si circondò di ministri paesani, non conservando che due soli francesi. Oh dunque, era mai vero che laggiù, in quelle terre così benedette da Dio e così maltrattate dai governi (si pensava che il governo nazionale avrebbe cangiato stile!), quel cavalier che tutta Italia aveva onorato e ammirato, quel signor valoroso, accorto e saggio, veniva creando uno Stato liberale? Alla bella aurora, che annunziava il nuovo sole di libertà presto a sorgere di dietro la rutilante vetta del Vesuvio, i magnanimi pochi rivolsero sospirosi lo sguardo.
Ma codesto appunto inquietava Napoleone. Murat lascia châtrer le code, accarezza il clero, prodiga decorazioni, persino[cvi] fait des singeries pour Saint Janvier: cosa dunque egli macchina con quell’ambiziosa di sua moglie? Per tagliar corto con ogni loro velleità unitaria, un decreto imperiale del 17 maggio 1809 annette gli ex-Stati della Chiesa all’Impero; ma ne pone le milizie agli ordini del Re di Napoli. Murat vede chiaramente che così si vuol renderlo inviso agl’Italiani, e cerca di far comprendere ch’ei non si sente disposto alla parte di gendarme. Nasce intanto il Re di Roma, e Napoleone invita Carolina a esserne madrina. Non è possibile sottrarsi all’insidioso onore, e Murat accompagna la regina a Parigi; ma non aspetta il giorno del battesimo, e torna a precipizio, per riaffermare in modo solenne l’indipendenza sua e dello Stato napoletano. Il 14 giugno (1811) decreta «che tutti gli stranieri, i quali abbiano un ufficio civile nel Regno, sono obbligati a farsene cittadini non più tardi del prossimo 1º d’agosto». Napoleone, inviperito, contrappone al regio un decreto imperiale del 6 luglio: il Re di Napoli, essendo francese e messo sul trono dai Francesi, non può avere inteso di rivolgersi anche ai Francesi residenti nel Regno; chè anzi tous les citoyens français sont citoyens des Deux-Siciles! E richiede diecimila soldati per la guerra contro la Russia. Murat risponde risolutamente di non potere sfornire, senza certo pericolo, i presidii napoletani; ma quanto a sè, riman titubante se debba o no partire pel campo. Napoleone riscrive, facendo appello al suo cuore di soldato; e Murat si lascia vincere. S’incontrano a Danzica. Il maggiore dei due da prima rimprovera, poi s’intenerisce e apre le braccia al figliuol prodigo, che vi si getta commosso. La sera stessa, l’imperial commediante si vantò d’aver molto ben recitata la parte dell’imbronciato e del sentimentale; car il faut tout cela, disse, avec ce Pantalon italien. Soggiunse: «Au fond, c’est un bon coeur: il m’aime encore plus que ses lazzaroni...; il subit l’ascendant de sa femme, une ambitieuse: c’est elle qui lui met en tête mille projets, mille sottises; il en est a rêver la souveraineté de l’Italie entière». Sicuro; ed egli invece sognava la sovranità su tutta la terra! E il rêve di Murat era bello, dacchè collimava coi desiderii e con gl’interessi del paese; il suo era solo il delirio della perniciosa febbre, già[cvii] contratta dormendo, come diceva, nel letto dei re. Torna a singolare onore di Murat, che, regnando in Italia, amasse tanto i suoi lazzaroni da destare la gelosia dell’incoronato e cosmopolita sans-culottes!
In molti fatti d’arme di quella guerra disastrosa, l’insigne generale di cavalleria diè nuove prove del suo coraggio. Qualche episodio vale a richiamarci ancora a mente l’Adelchi. Narrano che, dinanzi a Semenowskoë, un reggimento francese fosse preso da panico sotto l’improvvisa gragnuola delle palle nemiche; e il colonnello stesse per ordinarne la ritirata, quando si vide addosso il Re. «Che fate?», gridò, prendendo l’ufficiale pel colletto. «Voi vedete», questi rispose mostrando il suolo coperto di feriti, «che qui non è possibile rimanere».—Eh! j’y reste bien moi!—E il colonnello, guardandolo ammirato: C’est juste! Soldats, face en tête! Allons nous faire tuer!—Sennonchè la fortuna era stanca d’assecondare le stolte avventure, e l’imperatore stesso si vide costretto a ordinare una ben più vasta ritirata. Il difficile comando ne fu dato proprio a quel generale, glorioso per le sue avanzate! Il quale, quand’ebbe ricondotto l’esercito presso che al sicuro sulla linea dell’Oder, volle, sordo a ogni scongiuro, tornare al suo regno. Napoleone lo fulminò con una nota del giornale ufficiale: l’esercito, disse, è affidato al viceré Eugenio; «ce dernier a plus d’habitude d’une grande administration; il a la confiance entière de l’Empereur». Murat doveva tenersi certo oramai che un nuovo trionfo dell’imperatore avrebbe segnato la sua rovina. E cominciò a pencolare verso la diserzione. Nella sua anima, un’ambizione regale degna di Macbeth s’infrangeva tra le oneste titubanze d’Amleto; e non riusciva a sospingerlo fuori degli scrupoli l’assillo della sua lady Macbeth. Ancora una volta accorse, in Germania, in aiuto di Napoleone, e gli rese segnalati servigi a Dresda e a Lipsia; ma ancora una volta, e fu l’ultima, le cattive notizie della Penisola ve lo richiamarono in fretta. I due antichi compagni d’armi si separarono con presaga tristezza.
Murat ripassò per Milano il 31 ottobre (1813). Eugenio, l’aborrito rivale, cedeva dinanzi agli Austriaci: se Napoleone[cviii] non avesse annientato gli Alleati con una delle sue più clamorose vittorie, questi avrebbero finito col riconquistare l’Italia. Ma il tempo di quelle epiche vittorie pareva finito per sempre. La sera del 4 novembre, Murat rientrava in Napoli; e pochi giorni dopo, avviava trentamila uomini per Roma e le Marche. Che cosa tentava? Per chi quegli uomini avrebbero combattuto? Metternich adopera promesse e minacce perchè Murat si accosti all’Austria: il Regno di Napoli gli sarebbe assicurato; anche gl’Inglesi vi si sarebbero acconciati. Ma il Re non sa rinunziare al sogno d’un regno d’Italia dalle Alpi ai tre mari; ed è convinto che, con l’Austria in casa, quel sogno non si sarebbe mai potuto tradurre in una realtà. I patriotti sono impazienti, e non sanno spiegarsi gl’indugi. Perché Murat non libera al vento il vessillo dell’indipendenza e dell’unità? I generali e i soldati dell’esercito di Eugenio non aspettano che quel segno per correre a lui, e parecchi battaglioni di volontarii son pronti a Bologna!... Il napoletano Amleto esita ancora. L’eroico gregario attende dal generale un cenno, per gettarsi nell’azione: non gioverebbe forse anche all’imperatore d’avere alle spalle e di lato un’Italia sgombera del secolare nemico? d’avere qui, dietro le Alpi, non più «volghi spregiati» ma un popolo «d’un sol voler, saldo, gittate in uno Siccome il ferro del suo brando», e tenerlo «in pugno come il brando»?...
Il momento propizio trascorre. Quando il Re si decide a varcare il Taro, il suo Rubicone, e ad assalire l’esercito d’Eugenio, è troppo tardi: tre giorni dopo, cessano le ostilità. E mentre il vinto imperatore è imbarcato per l’Elba, per quest’isola che egli, il generale Murat, aveva conquistata alla Repubblica Francese all’alba del 1º maggio 1801; il re Amleto rientra, il 2 maggio del 1814, nella capitale del suo piccolo Stato, scontento di tutti, e più ancora di sè stesso.
L’Italia tornava più serva e più derisa a gemere sotto l’orrida verga. Eppure, il glorioso fianco di tal madre non languiva infecondo; nè essa aveva le vene scarse del latte[cix] antico; nè nutriva figli a cui fosse grave per essa il sangue donar! Gli è che
Quell’uomo volle esser Murat. Evaso dall’Elba il 26 febbraio del 1815, Napoleone era sbarcato tre giorni dopo, coi suoi Mille, sul suolo francese; e il 10 marzo, entrava in Lione. Il 15, Murat s’affrettava a dichiarare, per conto suo, guerra all’Austria; e il 17, mosse, alla testa di quaranta mila uomini, alla volta di Roma. Luigi XVIII e Pio VII si salvaron con la fuga. Mentre l’imperial cognato veniva accolto trionfalmente a Parigi, Murat invadeva le Marche; e il 30 marzo, da Rimini, dalle falde di quel monte Titano ch’è quasi simbolico baluardo di libertà e d’indipendenza, diffuse il magnifico proclama agl’Italiani, scritto forse da Pellegrino Rossi. Esordiva:
«Italiani! L’ora è venuta che debbono compirsi gli alti destini d’Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza d’Italia!».
Gli stranieri han preteso di togliervela questa indipendenza, continuava; ma «a qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade?... Invano adunque levò per voi Natura le barriere dell’Alpi? Vi cinse invano di barriere, più insormontabili ancora, la differenza de’ linguaggi e de’ costumi, l’invincibile antipatia de’ caratteri?».
«No, no; sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi.... Ogni nazione dee contenersi ne’ limiti che le diè Natura. Mari e monti inaccessibili: ecco i limiti vostri.... Trattasi di decidere se l’Italia potrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio. La lotta sia decisiva, e vedremo assicurata lungamente la prosperità d’una patria sì bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere....».
E lasciando intendere che i governi liberali d’Europa, soprattutto l’Inghilterra, avrebbero applaudito alla nobile intrapresa, Gioacchino concludeva giustificando le sue esitazioni dell’anno avanti.
«Italiani! Voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci in vano; voi ci tacciaste forse ancora d’inazione, allorchè i vostri voti ci sonavano d’ogn’intorno. Ma il tempo opportuno non era peranco venuto; non peranco avea io fatto pruova della perfidia de’ vostri nemici, e fu d’uopo che l’esperienza smentisse le bugiarde promesse, di cui ne erano sì prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire tra voi. Sperienza pronta e fatale!.... Italiani! Riparo a tanti mali; stringetevi in salda unione; ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tosto che il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza. Io chiamo d’intorno a me tutt’i bravi per combattere. Io chiamo del pari quanti hanno profondamente meditato sugl’interessi della loro patria, a fine di preparare e disporre la costituzione e le leggi che reggono oggimai la felice Italia, la indipendente Italia».
La tanto attesa parola era dunque stata finalmente proferita! Le terre d’Italia risonaron di carmi: nella Romagna e nelle Marche, le canzoni di Giulio Perticari, di Dionigi Strocchi, di Francesco Cassi[84]; nella Toscana e nel Lazio, di Francesco Benedetti e di Luigi Biondi; nel Napoletano, di Francesco Salfi, del colonnello Gabriele Pepe, di Gabriele Rossetti. Il quale, novello Tirteo, seguiva l’esercito:
Ai primi d’aprile, l’avanguardia napoletana sloggia gli Austriaci da Cesena, inseguendoli per Imola fino a Bologna, dove entra e aspetta il grosso della spedizione. Il 4, li ricaccia dietro la Samoggia e il Panaro, e occupa Modena; intanto che altre legioni prendon Ferrara, Cento, San Giovanni. Un passo ancora, ed invade Reggio e Carpi, e si spinge fino alla Secchia. Sospinto dalla sua «indole impetuosa» e dalla necessità di ottenere «sollecite vittorie», il re investe furiosamente il ponte d’Occhiobello sul Po; ma non riesce a passarlo. Quest’episodio sfortunato viene ad arte strombazzato come l’inizio della catastrofe. Tornato a Bologna, Murat vi apprende che la divisione mandata a sollevar la Toscana ha commesso irreparabili errori, e che gl’Inglesi minacciano Napoli. Di più, «le speranze ne’ rivolgimenti d’Italia erano anch’esse svanite, perocchè», narra il Colletta, «gli editti e i discorsi del re non altro avean prodotto che voti, applausi, rime pubblicate, orazioni al popolo, ma non armi e non opere: si aprì registro di volontari, e restò quasi vuoto; i tenuti in prigione dai Tedeschi per colpe o sospetti di Stato, fatti liberi da noi, tornarono queti alle case, ammaestrati non irritati dal carcere». Al re comincia a mancar la lena; e il nemico ne profitta per assalire e riprender Carpi, e ricacciare i Napoletani di là dal Panaro. Il 15, sorprende e riguadagna Spilimbergo; e Gioacchino si ritrae dietro al Reno, dove ottiene ancora una vittoria. Ma oramai egli non pensa che a ritirarsi. Discende indisturbato a Imola, a Faenza, a Forlì, a Cesena; infligge una nuova sconfitta agli Austriaci sul Ronco; ma discende tuttavia a Rimini, a Pesaro,[cxii] a Fano, a Sinigaglia, e il 29 giunge ad Ancona. Gli eserciti son quasi al contatto, e nei primi di maggio, tra Macerata e Tolentino, avviene l’urto, che fu terribile e sanguinoso. Il re fece prodigi di valore, e si moltiplicò in quelle giornate decisive; ma fu sopraffatto. E lasciando al Colletta e al Carascosa la cura di trattare col generale nemico (ahimè! era un italiano anche lui, il Bianchi d’Adda!), egli quasi solo, e da privato, rientrò in Napoli, sull’imbrunire del 18 maggio. Fu però «dal popolo scoperto e salutato come re e come ancora felice». Andò alla reggia, negli appartamenti della regina, «e giunto a lei, l’abbracciò, e con voce ferma disse: La fortuna ci ha tradito, tutto è perduto!». Prepararono insieme la partenza, e si congedarono dai più fidi e più cari. Poi, «provvide co’ ministri a molte cose di regno, ultime, benefiche, ricordevoli; fu sereno, discreto, confortatore della mestizia de’ circostanti; ed a’ Francesi che partivano ed ai servi che lasciava, liberale così come principe che ascende al trono».
Al Manzoni le notizie del rovescio giunsero mentr’egli intonava la quinta strofa della sua petrarchesca canzone. Invocato quel Dio che trascelse Mosè tra’ giovinetti ebrei e lo fece duce e salvatore del suo popolo; che «all’uom che pugna per le sue contrade L’ira e la gioia de’ perigli infonde»; il poeta, fiducioso, incuorava il baldo capitano:
Ma la parola gli fu stroncata sulle labbra. Pure, egli che condannò senza rimpianto tutta la sua opera poetica giovanile, non facendo grazia nemmeno al Carme per l’Imbonati lodatogli dal Foscolo e all’Urania invidiatagli dal Monti, volle conservato quel frammento; e non appena gli fu possibile, all’aurora delle belle «giornate del nostro riscatto», nel 1848, lo pubblicò insieme con l’ode Marzo 1821, e poi, nel 1860, lo aggiunse alle tragedie e agl’Inni sacri, nel volume già fin dal 1845 stampato delle sue Opere varie[86].[cxiii] Gli è che l’impresa tentata dall’infelice principe era, fra quante a lui parevan suscettibili di poema, quella che più faceva palpitare il suo cuore d’uomo, di cristiano, d’italiano, di poeta. Gioacchino, de’ signori cui la sorte commise il freno delle belle contrade, fu il primo, e rimase lungamente il solo, che avesse coscienza dei doveri del principe e dei diritti del popolo italiano; fu il primo che rivolgesse l’animo a
e consacrò col martirio il tentativo generoso. Fu una dannosa ubbia quella che consigliò tanti patriotti a non assecondarne lo sforzo. Se verso Napoleone ei poteva parer macchiato d’ingratitudine, toccava forse a noi, raggirati e disingannati dal geniale megalomane, di fargliene carico? Anche Manfredi svevo era accusato d’orribili peccati; ma così avesse vinto lui a Benevento, invece del nasuto paladino delle sacrileghe ambizioni teocratiche! Il Manzoni, checchè una critica partigiana sia venuta arzigogolando, riprese la grande tradizione poetica e religiosa di Dante; e non si peritò mai di manifestar tutta la sua più cordiale simpatia a principi che, per amore dell’unità politica, ritolsero a Pietro quel che è, e dev’esser, di Cesare. E la musa schifiltosa e sagace, la quale aveva assistito in silenzio al tripudio che accompagnò il singolare capitano sino ai fastigi d’ogni mondano potere, sciolse subito un cantico d’incitamento e d’encomio al baldo gregario che, pur contro il volere dell’arbitro supremo, s’accinse alla santa opera di ridarci una patria:
E quel suo cantico, pur così monco, il poeta non permise che morisse.
[83] Il Fabris, Memorie Manzoniane, pag. 98-99, riferisce che il poeta solesse dire scherzosamente d’aver fatto «per l’Italia il più gran sacrificio che possa fare un poeta, quello di far per essa un brutto verso»: ch’è questo, di suono e di vigore alfieriano. Il Manzoni soggiungeva: «Già, se l’Italia è risorta, essa lo deve a’ suoi poeti, che di secolo in secolo hanno sempre avuto dei versi per lei».
[84] Il diciassettenne Leopardi preferì invece di esercitarsi in quella innocua Orazione agl’Italiani, in cui è un ibrido connubio dello spirito misogallico del conte Alfieri con quello misoitalico del conte Monaldo. Essa fu pubblicata dal Mestica tra gli Scritti letterarii di G. L., Firenze, Le Monnier, 1899, vol. II, p. 357 ss.
[85] Cfr. Scherillo, Gabriele Pepe e Gabriele Rossetti, nella «Lettura» del luglio 1905: D’Ancona. Il concetto dell’unità politica nei poeti italiani, in «Studi di critica e storia letteraria», Bologna 1880, e Unità e federazione, nelle «Varietà storiche e letterarie». Milano 1885, vol. II.
[86] Vedi in questo volume la nota bibliografica a pag. 492.
«È un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati», osserva il Manzoni nel Romanzo (c. 28), a proposito dell’Achillini, il quale con un celebrato sonetto aveva esortato il re di[cxiv] Francia «a portarsi subito alla liberazione di Terra Santa»; e soggiunge: «se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima». Forse l’umorista pensava un po’ anche a ciò ch’era accaduto a lui; ma fu un bene che non si stancasse di dar suggerimenti. L’impresa del Re di Napoli era finita male soprattutto perchè la grande maggioranza degli Italiani non ne aveva compreso il valore: la missione del poeta doveva dunque essere di diffondere l’idea unitaria, d’inculcarla con opere che parlassero al cuore e alla fantasia[87]. Un insigne maestro di poesia e di libertà, il vate nostro, aveva, con «memorando ardimento»[88], tolto di mano a Melpomene «l’odiator dei tiranni pugnale», e s’era avventato, sulla scena, contr’ogni tirannia. Lo aveva, con scarsa fortuna, seguito il Foscolo; con insperato successo, un novizio, Silvio Pellico.
Qualcosa circa la nuova tragedia che la Carlotta Marchionni avrebbe recitata per la sua beneficiata al teatro Re, era di certo trapelata; e l’aspettativa era grande. Quella sera, il 18 agosto 1815—proprio quando più l’Italia sembrava umiliata dalla reazione straniera,—un «uditorio formidabilissimo» s’assiepava per ascoltare la Francesca da Rimini dell’ignoto e innominato poeta (un’altra ne aveva perpetrata, nel 1801, un Edoardo Fabbri). Era forse l’abate Caluso? Forse il Di Breme? Il Pellico se ne stava mezzo nascosto nel palchetto di questo suo amico, «tacito, pieno di speranza, e pur alquanto palpitante». Si tira sù la tela. L’attore che fa da[cxv] Lanciotto, «atterrito da quell’udienza, stroppia tutti i versi della prima scena». Ma la Marchionni riesce a tenere a sè avvinta l’attenzione. Ed ecco Paolo che, dopo il lungo e doloroso esilio, rimette il piede nella casa paterna. Non vi ritrova più il padre; e si getta nelle braccia del fratello, esclamando:
Io non so se quella sera il Manzoni fosse in teatro; ma mi pare di scorgere una somiglianza tra questa scena e l’altra, tanto più commovente e appropriata e tanto più finamente cesellata, della ripudiata Ermengarda che torna alla casa paterna, dove più non ritrova la madre. «Nelle braccia del fratel suo», quella gentile sospirerà:
E storicamente ciò non rispondeva al vero. Nelle Notizie storiche premesse al’Adelchi (pag. 12), è avvertito che questa è l’una delle «due sole alterazioni essenziali» fatte dal poeta «agli avvenimenti materiali e certi della storia»! Non soltanto Ansa non era «morta prima del momento in cui comincia l’azione», ma «in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì».
La tenera scena fra i due fratelli, nella Francesca, conquistò meglio i cuori; ma l’entusiasmo proruppe al voto di Paolo che, stanco di spargere il suo sangue «debellando città che non odiava», usciva nella celebre tirata, la quale anticipò di tre anni il serventese del Simonide recanatese:
«L’entusiasmo che questa parlata mosse è indicibile», narra il Pellico; «... il carattere generoso di Paolo, e le sue poche righe sull’Italia, m’hanno resa benevola molta gioventù: egli piace per lo meno quanto Francesca; e tal era il mio intento»[89]. Sicuro; dacchè il suo intento era di servirsi del palcoscenico come di tribuna politica, e di lanciar da esso parole che fossero scintille, atte a riaccendere o a tener desto nell’animo degli oppressi il sentimento dell’indipendenza e della riscossa. La Censura milanese, non ancora ammaliziata, aveva lasciato correre quel brano lirico, solo pretendendo «una leggiera correzione», forse di pura forma; ma il Pellico avrebbe a suo tempo scontata la patriottica imprudenza, e nemmen l’Eufemio di Messina, nonostante le sue proteste, gli sarebbe stato concesso di veder recitato[90].
Da un pezzo Silvio rimuginava soggetti tragediabili, per[cxvii] così dire, a doppio fondo. Aveva pensato a un Turno; e l’abbozzo porta la data del 16 aprile 1814. Vi si parla a tutto andare di patria e di stranieri; e dalla regina dei Latini si fa proclamare:
Poi, sempre meglio convinto che la poesia drammatica «debba servire a celebrare gli eroi della patria», aveva ideato un Dante, «tragedia di genere nuovo». Poi, sospinto forse dal desiderio d’emulare il Tiberio di Giuseppe Chénier, immaginò un Nerone: poi, forse per emulare il Saul, un Davide, tragedia, quest’ultima, «non politica e recitabile»; poi, a mezza strada, s’era lasciato sedurre da «un argomento trovato nel Sismondi, tutto italiano». Ne buttò giù alla lesta due atti; ma il 18 luglio del 1815 annunzia d’averlo piantato lì, perchè «questo nuovo argomento era politico, e di più, un maligno lo ha creduto allusivo all’impresa del Re di Napoli». Per la quale e pel quale, egli, stordito dai paroloni e ammirato degli atteggiamenti ribelli dell’amico Foscolo, non sentiva se non disdegno e dispetto. Il 25 aprile, aveva scritto al fratello:
«Io ti diceva che Foscolo era sparito da Milano per non dare il giuramento, ed alcuni aggiungono perchè credeva che sarebbe arrestato. È andato in Svizzera. Ha fatto bene di non andare da Murat, in cui ha sempre avuto poca fiducia, e con ragione, a quanto pare. Il fiasco che ha fatto questo Re ha calmato la testa dei Milanesi. Ora si vede che Murat senza l’aiuto dei Francesi non può far nulla, e pare che questi ultimi faranno la guerra difensiva nel loro paese, invece di attaccare. Che guerra terribile sarà questa!».
E il 5 maggio, sospettando che una lettera del fratello fosse stata intercettata, soggiungeva:
«Vi può infatti essere stato un momento di rigore, quando i Napoletani ci minacciavano. Ora essi hanno provato che a loro non è destinato il mutar forma all’Italia, e che l’Italia tutta non è suscettibile di fanatismo nazionale. Se l’Italia può essere considerata come una nazione, non può aver altro legame che il federativo».
Dannose ubbie, in ispecie se predicate da un animo profondamente ingenuo e ardente d’amor patrio. Ma il buon Pellico aveva, in politica, «la veduta corta d’una spanna»; e fu un bene che, per un pezzo, frenasse la mania di scriver tragedie tribunizie. Ma il fortunato successo della Francesca lo trasse dal suo riserbo. Nuovi soggetti gli s’affollarono alla mente: una Beatrice d’Este, una Pia dei Tolomei, e da ultimo una Contessa Matilde. Questo soggetto lo affascina e l’entusiasma. Ricerca «quei brutti noiosi del Villani, del Varchi e del Guicciardini», rilegge il diletto Sismondi, e si mostra molto lieto d’essersi «fatto un bel caratterone» di quel nuovo Costantino in gonnella».[91] Scrive nel settembre del 1816:
«La mia Matilde è sempre più grande ai miei occhi». E, dopo di aver accennato alla leggendaria narrazione delle origini di lei, fatta dal Villani, ripiglia con ingenua compiacenza di romanziere e di romantico: «Da questa unione romanzesca, ma storica,... nacque, com’era ben naturale, una creatura tutta amore, tutta fantasia e tutta spirito cavalleresco. Questa è Matilde.... Quell’anima ardentissima era troppo elevata al di sopra del suo secolo per contentarsi d’avere un nome fra i piccoli regnanti d’Italia, o per porre il suo cuore in uno di loro. Dio e la gloria divennero la sua passione. Nella mano destra una spada e nella sinistra una croce, inebbriò d’entusiasmo e d’amore tutta la valorosa gioventù italiana, e proclamò come voluta dal cielo l’indipendenza dei popoli italiani, i quali allora venivano assaliti da Arrigo IV, re di Germania». Papa Ildebrando aveva proclamato: «Dio non ha posta nessuna nazione sotto il giogo d’un’altra, bensì tutte devono piegare la fronte dinanzi al trono di Cristo, ch’è in Roma». Onde Matilde, «fatta primo campione d’un Pontefice perseguitato e nello stesso tempo d’una nazione oppressa, è un carattere singolarmente luminoso... Dio e l’Italia erano la passione eroica di Matilde; ma un’eroina è anche donna, e la donna ha un cuore proclivo alla pietà e all’amore. Intrepida in mezzo ai pericoli della morte, ella pur tremava nascostamente al cospetto del suo giovine prigioniero [il principe Corrado, figlio dell’imperatore Arrigo!].... Immutabile ne’ suoi proponimenti, ella ha giurato la perdita de’ Tedeschi e la liberazione dell’Italia».... Le vicende della guerra son tali, che l’imperatore giunge a dichiararle: «Io son pronto a rinunziare al miei diritti all’Impero di Roma; purchè questo titolo sia d’ora innanzi abolito; dell’Italia si faccia un regno; si distruggano i tanti disprezzevoli scettri che la governano; e Corrado sia teco incoronato Re indipendente di tutta la penisola».
È agevole comprendere come non fosse possibile che uno spirito quale il Manzoni si lasciasse trascinare a simili anacronismi e delirii romantici. Se la causa d’Italia era santa, non doveva esser permesso di tradire la storia per giovarle! Silvio mostra un debole proprio per quelle utopie che più infastidivano Alessandro. All’uno par bella l’idea della confederazione italiana; all’altro parve sempre brutta, anche quando vide farsene apostolo il suo Rosmini. All’uno sorrise quell’ibrido ideale neoguelfo, ch’ebbe poi un così eloquente patrocinatore nel Gioberti; all’altro ripugnò sempre che fosse «giunta la spada col pastorale». L’uno ragionava così: Matilde «era una calda difenditrice della Chiesa, il che io posso interpretare difenditrice dell’Italia»; l’altro: «Non so se il Rosmini sia della mia opinione, ma avrebbero, pare a me, fatto assai bene i Papi a rimanere in Avignone: l’Italia deve loro la condizione in cui è»[92].
È vero che qualche critico partigiano non si peritò di dire che nell’Adelchi il poeta imprecasse contro la «rea progenie» dei Longobardi in grazia di Carlomagno e de’ Franchi, paladini della Chiesa e delle sue ambizioni temporalesche. Ma basta legger quella tragedia, per accorgersi che, caso mai, il poeta è stato parziale per quello dei due popoli, a cui appartennero Ermengarda, Adelchi e il prode e leale Anfrido[93]. Di Carlomagno invece, a dispetto della tradizione chiesastica cui anche Dante s’inchinò e della poetica che assomma nell’Ariosto,[cxx] egli ha fatto il tipo d’un fortunato ipocrita. Il Fauriel ne ritrae così il carattere:
«Il est religieux, mais non autant qu’il faudrait, ni surtout comme il faudrait l’être pour avoir quelques scrupules sur la justice ou la sainteté des moyens de satisfaire son ambition; les coups de sa bonne fortune sont, a ses yeux, les marques les plus certaines de la faveur du ciel. Magnanime toutes les fois qu’il peut l’être sans compromettre son pouvoir, généreux quand il n’y a pas d’imprudence à la générosité, il est toujours également prêt à encourager par des récompenses ou des promesses la bassesse qui se vend à ce prix, et à flatter l’orgueil désintéressé de la loyauté et de la bravoure».
Comparisce sulla scena, dopo che v’è passata la gentile vittima della sua brutale lussuria e della sua ambizione. Egli è sgomento della resistenza del «fiero Adelchi», di codesto prode il cui nome i suoi non proferiscon che con terrore: «ardito Come un leon presso la tana, ei piomba, Percote, e fugge»; una vera «scola di terror» per i Franchi. Carlo è deciso a tornare indietro, a più facili imprese. Il legato papale adopera tutta la sua arte oratoria, tutte le blandizie, perchè l’invitto non rimetta nella guaina il brando che il Signore aveva suscitato in pro del Pastor santo. Ma le belle parole non sarebbero valse a nulla, se non fosse arrivato in buon punto il diacono Martino. Solo allora, l’«eletto a strugger gli empi» riprende coraggio, riparla con ostentata affezione del «santo avel di Piero» e del «desiato amplesso del gran padre Adrian», e ai due prelati intima:
Pure, ei non riesce a intimar silenzio alla sua coscienza; e rimasto senza testimoni, si abbandona a considerazioni e a scuse che mettono a nudo tutta la sua profonda abbiettezza. Ancora una volta su quel regale sepolcro imbiancato proietta la sua candida e rivelatrice luce lunare la casta figura dell’innocente reietta. Essa s’affaccia come un fantasma:
Tragico commediante, a codesto Carlo manca, nella sua perversità, quel non so che di leonino che rende terribili ma non disgustose le colossali figure di Macbeth e di Saul; anzi di lui, come del dantesco Guido Montefeltrano, potrebbe ripetersi che le opere «non furon leonine, ma di volpe». Ha, egli pure, del «cordigliero» e dell’«uom d’arme» insieme. Vuol persuadere a sè stesso che il rimorso che lo assilla («e perchè dunque / Ostinata così mi stavi innanzi....?») sia «un fantasma d’error», che sia bugiarda la voce che gli grida in cuore: «No mai, no, rege esser non puoi nel suolo Ove nacque Ermengarda!». Volgare e sacrilego sofista, egli denunzia complice delle sue infamie, anzi mandatario, Dio stesso («Dio riprovata ha la tua casa; ed io / Starle unito dovea?»)[94]: quel «Dio de’ santi», al quale la vittima s’appresta ad ascendere «santa del suo patir». Davvero nel perverso suo cuore di re «loco a gentile, Ad innocente opra non v’è»; e il suo nome il novissimo poeta ha voluto trasmetterlo a noi accompagnato dall’«imprecar de’ tribolati».[95]
Dicono che in Carlomagno il Manzoni abbia inteso ritrarre il despota che all’alta ragion di regno aveva pur allora sacrificata Giuseppina Beauharnais[96]. Potrebbe essere; e certo converrebbero perfettamente a Napoleone pur quelle parole che con sì cruda verità ritraggono un cuore dove il vento[cxxii] secco della più inesorabile ambizione ha spazzato fin le ultime reliquie della gentilezza e della pietà umana:
[87] A un certo passo dello Schlegel, il Manzoni postillò: «Un poeta drammatico deve, al pari d’ogni altro, desiderare tutto ciò che tende al perfezionamento della società, qualora egli riguardi, com’è giusto, l’arte sua come un mezzo e non come un fine....». Cfr. Bonghi, Opere inedite o rare di A. Manzoni, II, 441.
[88] Non so che altri abbia avvertito che codesta espressione il Leopardi desunse da un passo (III, 1) del Principe e le lettere. Dov’è detto: «Voi dunque, o Socrati, Platoni, Omeri, Demosteni, Ciceroni, Sofocli, Euripidi, Pindari, Alcei, e tanti altri incontaminati e liberi scrittori, ispiratemi or voi non meno che salde ragioni, virile e memorando ardimento». Il ricordo letterario mi pare che accresca vigore alla parentesi leopardiana.
[89] Desumo i particolari della prima rappresentazione della Francesca dalle lettere stesse del Pellico, recentemente pubblicate (ohimè, in che malo modo!) dal p. Ilario Rinieri, nel vol. I Della vita e delle opere di S. P., Torino, 1898. Ho però tenute sott’occhi le diligenti note che il prof. Egidio Bellorini è venuto facendo a quella trascuratissima pubblicazione. Cfr. Intorno ad alcune lettere di S. P., Cuneo, 1902.
[90] Cfr. Bellorini, Intorno ad alcune lettere ecc., pag. 12-16.—Del Bellorini mi giunge in buon punto, perchè io possa qui registrarlo, anche lo scritto intorno alle Idee letterarie di S. Pellico (dal «Giornale Storico d. Lett. Ital.», 1906, vol. XLVII).
[91] La chiama così il D’Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Palermo, 1901, pag. 374.
[92] Nei Pensieri inediti del Bonghi, pag. 88.
[93] Curioso da notare: già l’Alfieri, nell’unica sua tragedia tratta dai «secoli bassi», la Rosmunda, s’era abbandonato alla creazione d’un tipo di guerriero ideale, scegliendolo tra i Longobardi! Adelchi ha un precursore in Ildovaldo! Questi, postilla l’Altieri (nel Parere dell’autore ecc.), «è un perfetto amatore e un sublime guerriero. Le tinte del suo carattere hanno però un non so che di ondeggiante fra i costumi barbari dei suoi tempi, e il giusto illuminato pensare dei posteriori, per cui egli forse non viene ad avere una faccia interamente longobarda. Ma in ogni secolo ci può nascere degli uomini che non siano dei loro tempi, e massimamente nei barbari e oscuri. A me pare, che questo picciolo grado d’inverosimiglianza, allorchè non eccede, possa prestare infinite bellezze; ma che non si possa pure scusare dell’esser difetto». Si rilegga quel che di simile il Manzoni scrisse del suo Adelchi, a p. 12.
[94] Adelchi gli manda a dire, con un accento che fa ripensare a padre Cristoforo (I, 5; p. 33): «E digli ancora, / Che il Dio di tutti, il Dio che i giuri ascolta / Che al debole son fatti, e ne malleva / L’adempimento o la vendetta, il Dio, / Di cui talvolta più si vanta amico / Chi più gli è in ira, in cor del reo sovente / Mette una smania, che alla pena incontro / Correr lo fa».
[95] Comunicando al Fauriel un’aggiunta fatta al testo, il Manzoni scriveva (12 sett. 1822) con una cert’aria canzonatoria: «Ainsi vers la fin du discours de son Eximiété Charles roi des Francs, ou de France, homme illustre,....j’ai ajouté....». C’era dunque un’intesa, fra i due insigni studiosi della storia medioevale, contro il povero re Carlone!
[96] Cfr. V. Waille, Le romantisme de Manzoni, Alger, 1890, p. 125: «Dans Adelchi il trace un portrait de Charlemagne, satire transparente de Napoléon, faisant ressortir l’homme sans entrailles, le comédien».
Perchè potessimo formarci un concetto esatto dei fini letterarii, morali e politici a cui il Manzoni diresse la sua opera poetica, occorrerebbe che ci rendessimo conto delle titubanze, delle contradizioni, delle audacie e dei pentimenti di quei primi nostri romantici, tanto minori di lui. Egli è un atleta, che dissimula gli sforzi e i tentennamenti; i quali, in lui, furon anche di corta durata. Gli altri invece, il Pellico in ispecie, finirono con lo smarrirsi tra le mille incertezze, prima di toccar la meta, anzi prima ancora d’aver trovata la via che potesse condurvi.
Ricordo un magnifico spettacolo, al quale mi fu dato assistere in una indimenticabile giornata d’autunno. Eravamo a Capri, su quel rialzo a guisa di sella, dove s’annida la bianca borgata, tra le altezze superbe del monte Solare, su cui s’inerpica Anacapri, e del Salto di Tiberio. Un forte vento di tramontana aveva spazzata via la nuvolaglia e i vapori nebbiosi dei giorni scorsi; e il cielo era tutto una volta di lapislazzuli, e i monti della penisola sorrentina e del golfo di Salerno, il promontorio di Miseno, le isole d’Ischia e di Procida si disegnavan nitidamente all’orizzonte. L’immenso anfiteatro di Napoli, da Baia a Castellammare e a Sorrento, con in fondo il Vesuvio che allungava verso di noi il pennacchio superbo, si dispiegava luminoso ai nostri sguardi. Pure, sull’ampio specchio delle acque del Golfo, d’un turchino intenso, spuntavano e trepidavano innumerevoli e grossi batuffoli come di candida bambagia: quasi un immane gregge di giganteschi[cxxiii] ermellini, gettati a nuoto; e sulla costa, dov’è l’approdo e dov’è scavata la Grotta Azzurra, s’avventavano, con terribile impeto e fracasso, inseguendosi, mostruosi cavalloni, che pareva volessero scovare e rapire dai loro ripari le barche impaurite. Ebbene, rivolgendo gli occhi indietro, la scena mutava. Il mare si stendeva ampio e tranquillo, liscio, senza una ruga, fin laggiù laggiù dove si confondeva col cielo. Sotto l’Arco naturale, ai piedi dei ciclopici Faraglioni, tra gli scogli della Marina piccola, all’imboccatura della Grotta Verde, l’onda, qui come di zaffiro liquefatto, più là come di topazio o di smeraldo «allora che si fiacca», susurrava carezzosa, quasi mormorasse una inarticolata ecloga piscatoria. Le barchette s’accostavan sicure al piroscafo, ch’era venuto a gettar l’ancora qui; e pareva che nessuno ricordasse più la tramontana che rendeva inospitale l’altra riva.
L’arte manzoniana, che dissimula, sotto la superficie levigata e iridescente, le agitazioni della tempesta, l’assomiglierei all’alto mare; al Golfo che, fra tanta festa di colori, ancor risente l’impeto del vento di nord, l’arte dei romantici minori. Per convenirne, basta ascoltare il Pellico, in una lettera al fratello Luigi, da Milano l’11 dicembre 1815.
«Ti ricordi l’effetto che produsse in noi la lettura di Shakespeare e di Schiller; come l’orizzonte si facea più vasto davanti a noi? La fredda riflessione, il rimbombo della voce de’ pedanti, mi ha spesso fatto dire: questo mio fervore sarà egli un delirio d’inesperta gioventù? verrà il tempo in cui arrossirò delle mie sfrenate teorie, e discernerò quanto inerente al vero bello sia la saviezza delle regole così dette aristoteliche? La coscienza risponde di no.—Quando lessi la Letteratura del Mezzogiorno di Sismondi e il Corso drammatico di Schlegel, mi riaccesi dello stesso foco che Shakespeare e Schiller m’avevano messo nel cuore. Lessi tutte le critiche francesi contro Schlegel e Sismondi, e ne scopersi con isdegno i sofismi. Giorni sono, Breme comprò una raccolta di opere drammatiche tedesche tradotte in francese: l’Emilia Galotti di Lessing, Goetz di Berlichingen di Goethe sono cose che sforzano l’ammirazione».
Ammiratore dell’Alfieri, del Monti, del Foscolo, vorrebbe rimaner fedele anche ai pregiudizii critici di costoro; ma quella ventata del nord, ch’egli ha lasciato entrare dalla finestra aperta, lo trasporta verso l’eterodossia. Spera in un[cxxiv] ravvedimento; ma intanto medita un tranello. Nel luglio di quel medesimo anno aveva scritto:
«Converrà esser noto per tre o quattro produzioni ortodosse, prima d’aver suffragi abbastanza per osar di tentare innovazioni, violazioni di regole, ecc. Tanto quelle foggiate alla Schiller, come le essenzialmente politiche, devono essere modeste, e lasciare la primogenitura alle altre».
Shakespeare, Goethe, Lessing, anche Kotzebue (ne cita Misantropia e pentimento, e attesta che l’Andromaca di Racine «non farà mai spargere tante lagrime», nonostante che sia «enorme la differenza di merito»), lo entusiasmano, e, appena può, egli cerca d’imitarli (la Francesca da Rimini risente del Romeo e Giulietta, l’Ester d’Engaddi dell’Otello, il Tommaso Moro del Giulio Cesare); ma il poeta che più lo commuove e lo affascina è lo Schiller, il tenero e appassionato creatore di quelle delicate creature che si chiamano Amalia, Tecla, Luisa Miller. «Oh divino Schiller!», esclama in una lettera del 20 gennaio 1820; «Don Carlos e Fiesco sono due tragedie inimitabilmente belle. V’è una forza d’immaginazione che spaventa. Perchè mai Schiller non è riconosciuto per uno dei più grandi ingegni che la repubblica letteraria abbia avuto?». Verso quel nuovo dramma così schiettamente romantico, egli è sospinto dalla sua indole generosa e fantasiosa e dal suo carbonarismo bianco. Nelle sue tragedie è facile sorprenderne l’influsso un po’ da per tutto: nell’Eufemio di Messina e nell’Iginia d’Asti, nella Francesca da Rimini e nella Gismonda da Mendrisio. E insomma la sua Matilde di Canossa, senza che forse egli ne avesse precisa coscienza, non tendeva a conformarsi sempre meglio alla Vergine d’Orléans?[97]
Un tempo, anche il Manzoni aveva partecipato a siffatti entusiasmi, e collocato Schiller tra Shakespeare e Goethe. Discorrendo di quel genere di tragedie che a parer suo era[cxxv] «superiore ad ogni altro»; il quale, «partendo dall’interesse che i fatti grandi della storia eccitano in noi, e dal desiderio che ci lasciano di conoscere o d’immaginare i sentimenti reconditi, i discorsi ecc., che questi fatti hanno fatto nascere e coi quali si sono sviluppati (desiderio che la storia non può nè vuole accontentare), inventa appunto questi sentimenti nel modo il più verosimile, commovente e istruttivo»; il Manzoni, in certi suoi appunti di critica, saltava sù a dire: «La pratica di quest’ideale drammatico si vede portata al più alto grado in molte tragedie di Shakespeare; ed esempj notabilissimi ne sono pure le tragedie di Schiller, del signor Goethe, per non parlare che di quelle ch’io conosco». Anzi, subito dopo, alla Rodogune e all’Héraclius di Corneille e al Bajazet di Racine, egli preferiva contrapporre appunto la Maria Stuarda[98]: quella cioè che, a giudizio della Staël, è «de toutes les tragédies allemandes la plus pathétique et la mieux conçue»[99].
Quanto alla moralità di quelle tragedie, gli rimaneva, sì, qualche dubbio; e ad ogni modo, non gli pareva che, per tal riguardo, ci fosse miglioramento o progresso sul teatro classico. «Noi», egli osserva, «abbiamo una inclinazione a seguire più il nostro giudizio che le leggi divine ed umane»; e «i poeti drammatici hanno assecondata questa inclinazione, rappresentando casi in cui mille inconvenienti si trovino nella esecuzione della legge, e mille vantaggi e mille sentimenti virtuosi nella trasgressione. Esempj: Héraclius, Tell». E un po’ più giù, adduce ed esamina la prima scena dell’atto IV del Guglielmo Tell appunto, quella del pescatore che «osserva con un suo figliuoletto la barca dov’è Gessler con Tell, agitata dai venti», come un cospicuo «esempio del pericolo di far partecipare lo spettatore alla passione del personaggio». Riferite le parole del pescatore:
e la risposta del fanciullo:
egli ripiglia:
«Questo sentimento orribile è espresso senza disapprovazione; nè io voglio credere che uscisse dal cuore di Schiller, ma egli avrà voluto rappresentare al vivo l’abbominio di quegli uomini per Gessler. Ma egli ha errato, mettendosi a rischio di far sentire lo spettatore come il suo personaggio. Del resto, mi sembra che, poichè egli ha immaginato di far pregare il fanciullo, ha perduto l’occasione di una scena bellissima. Se il padre invece (il che è nella natura d’un uomo pio e retto) dicesse al figlio di pregare anche per Gessler, che commozione non ecciterebbe! Quanti sentimenti non risveglierebbe di quella Religione che insegna a chi l’ascolta di pregare per Gessler e per Tell, per l’oppresso e per l’oppressore; a riguardare gli uomini i più scellerati come creati anch’essi per la virtù, come capaci di emendarsi e di seguirla, e sè stesso come capace dei più grandi errori, qualora Dio lo abbandoni; che insegna a riguardar tutti gli uomini come fratelli, e se gl’iniqui vogliono rompere questo santo vincolo, c’impone di tenerci stretti a loro, con quella carità che ha per fondamento non il merito loro, ma i precetti e gli esempj di Gesù Cristo!—Quanto più Gessler è stato dipinto scellerato, più pericoloso è questo sentimento, perchè lo spettatore è disposto a riceverlo. Certo, v’è una simpatia in ciò; ma dev’egli, il poeta, secondare questa inclinazione nostra? No, certamente; e se il diletto è il fine della poesia, io m’immagino che dall’aver vinto questo impeto d’odio, e dall’avere accolti in sè i sentimenti sublimi che ho accennato poco sopra, ne debba nascere un vivo, soave ed alto piacere, e questo deve il poeta trasfondere nello spettatore. Questi può avere piaceri viziosi e piaceri virtuosi: i secondi sono i più poetici».[100]
Ancora nella Lettre à m. C***, ch’è dell’inverno 1819-20, il Manzoni ricordava, nel manoscritto, «les pièces historiques» di Schiller insieme con quelle di Shakespeare e di Goethe. Sennonchè il 29 maggio del 1822, tornando sul suo giovanile entusiasmo, pregava l’amico Fauriel di cancellare il nome del poeta würtemberghese, dacché ei v’era citato «d’une manière qui fait supposer une idée beaucoup plus haute que je ne l’ai réellement de l’importance de cet[cxxvii] écrivain au point de vue dramatique»; e soggiungeva: «Vous vous souviendrez peut-être des discours que nous avons tenus sur ce sujet; vos idées ont donné aux miennes là-dessus plus d’étendue et de courage; en rélisant les tragédies de Schiller, je me suis confirmé dans ces idées; enfin, je ne mérite ni n’ose le nommer»[101].
Tuttavia non era ugualmente agevole di fare sparire ogni traccia dell’antica ammirazione nella prima delle sue due tragedie, concepite mentr’essa era fervida. E s’intende: il soggetto medesimo del Conte di Carmagnola avea dovuto richiamare ogni tanto il pensiero del poeta novello a quella trilogia del Wallenstein che fece credere ai Tedeschi di possedere anch’essi uno Shakespeare. La Staël ne aveva discorso con molta lode; e Beniamino Constant l’aveva costretta e disciplinata in un unico dramma di fattura classica, tra le più vive censure dei romantici[102]. In fondo, anche il Manzoni aveva fatto qualcosa di simile: l’atto secondo del Carmagnola, di cui la prima parte si svolge nel Campo ducale e la seconda nel Campo veneziano, è quasi una minuscola riproduzione del Wallensteins Lager, donde sia stato potato tutto ciò che a un poeta educato alla scuola di Virgilio e di Vittorio Alfieri doveva parer superfluo. L’ispirazione schilleriana era, e si capisce, ancor meglio evidente nel primo getto di quell’atto [103]. Il Manzoni v’introduceva francamente il popolo, nei cui discorsi la bella figura del Condottiero e i pericoli che l’attorniavano venivano lumeggiati più al vivo. E alle altre che son rimaste, faceva precedere una notevole scena tra due minori capitani di ventura, i fratelli Micheletto e Lorenzo di Cotignola, e una scenetta fra costoro e il Carmagnola, dov’eran[cxxviii] chiarite ottimamente e le condizioni degli eserciti a fronte, e il fascino che su quegli uomini rotti alla guerra esercitava il protagonista, colla sua valentìa sicura e con le sue schiette ed affabili maniere, e le noiose difficoltà tra cui questi era costretto a muoversi, per ogni passo dovendo prima consultarsi coi Provveditori della Repubblica[104].
Veramente, se codeste scene furon poi messe in disparte, ciò non avvenne per paura che il poeta avesse di passare per imitatore dello Schiller: anzi, gli esempi dello Shakespeare, e i goethiani dell’Egmont e del Goetz von Berlichingen, avrebbero dovuto dargli animo a rimanere nella via per cui s’era, con tanta fortunata baldanza, incamminato. Il novizio fu invece colto, in mal punto, dallo scrupolo della verosimiglianza storica. E allo Chauvet, che, pur dal suo punto di vista classico, gli fece un carico della completa assenza del popolo nella tragedia, egli ebbe a replicare che dall’opinione pubblica non s’era creduto lecito trarre alcun partito, pel fatto che nella Venezia del quattrocento un’opinione pubblica non esisteva. Anche il Byron, nella seconda delle sue tragedie veneziane, I due Foscari, che scrisse a Ravenna tra il giugno e il luglio del 1821 e che pubblicò nel dicembre dello stesso anno, faceva replicare dal Doge a chi ipocritamente gli parlava ancora d’un’autorità popolare:
Ma fu, nell’interesse dell’arte, un eccesso di rigore; e forse il poeta spinse il suo scrupolo storico anche di là dal limite che la storia medesima gli avrebbe consentito. Nelle notizie premesse al dramma, è pur additata «qualche traccia di una opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere», circa il preteso tradimento. E non si sarebbero potute mettere in bocca a qualcuno del popolo quelle voci che ci sono state tramandate dai cronisti? Un bolognese, per esempio, riferisce e la diceria che il Senato condannasse lealmente il Conte «perchè egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano», e l’altra, che quella ragione di tradimento fosse escogitata per disfarsi d’un pericoloso e potente capitano che oramai aveva nelle sue mani lo Stato. Una differente versione fu raccolta dal Poggio, che di quella morte fosse cagione la superbia del Carmagnola, «insultante verso i cittadini veneti e odiosa a tutti»; e un’altra diversa dal Corio, che alla Signoria facesse gola «il valsente di più di trecento migliaia di ducati», che, in grazia della non serena condanna, passò dalle casse del Condottiero a rinsanguare l’erario della Serenissima[106].
E ancora una scena, di schietta ispirazione schilleriana, il Manzoni sacrificò alla verità storica: quella d’un povero mandriano, venuto apposta a Venezia per parlare, nel giorno della partenza solenne, al Carmagnola, e che si rivelava pel padre di lui. Egli s’imbatte in alcuni cittadini che attendono il corteo, e chiede loro:
In verità, non mi sembra possibile non ammettere che qui il Manzoni intendesse far qualcosa di simile a quelle scene del IV atto della Jungfrau von Orleans, dove al trionfo di Giovanna vengono ad assistere il padre, le sorelle e gli amici[cxxxii] contadini. Beninteso che l’effetto ch’ei se ne riprometteva era diverso, anzi opposto. L’incontro del festeggiato signore col suo umilissimo padre avrebbe dovuto dare ancor più risalto alla nobiltà d’animo del protagonista, e ancor meglio dissipare le accuse di superbia ond’era fatto segno. Sennonchè una tale scena gli era poi consentita dalla storia? E quell’episodio era verosimile nell’aristocratica Repubblica? Un poeta più lesto, come Shakespeare, anzi pur come Goethe o Schiller, non avrebbe esitato un momento a cavarne partito. E che importava che i cronisti più fededegni non se ne mostrassero informati? Nel cinquecento, all’incontro del Carmagnola col padre si prestava fede; e un umanista, ch’era anche un uomo di chiesa, il canonico veronese Adam Fumano, raccolse quella tradizione dalla bocca del popolo, e la espose, con una certa pompa, in un epigramma,[108] ch’ebbe la ventura d’esser riferito e illustrato dal Giovio, e la disgrazia d’esser rattrappito e mutilato in un sonetto, un vero letto di Procuste,[cxxxiii] da Lodovico Domenichi[109]. Or, di fronte a una tradizione siffatta, abbastanza antica se pur non autentica, ma così feconda di effetti poetici, doveva un poeta credersi in obbligo di far tanto lo schizzinoso?
[97] Il Bellorini (Spigolature Pellichiane, Saluzzo, 1903, p. 25-8) ebbe già a notare che la cantica Tancreda ha molte somiglianze con codesto dramma dello Schiller.—Ognuno ricorda come il Pellico noti che avesse il medesimo nome del «grand’uomo» l’umile e bonario carceriere dello Spielberg. Cfr. Mie Prigioni, cap. 58.
[98] Vedi nei Materiali estetici, a pag. 389 di questo volume.
[99] De l’Allemagne, II pt., ch. 18.
[100] Vedi, in questo volume, il saggio Della moralità delle opere tragiche, alle pagine 433-36.
[101] Vedi, in questo volume, a pag. 302-03 e 336.
[102] Cfr. M. De Staël, De l’Allemagne, II pt., ch. 18; e B. Constant, Mélanges de littérature et de politique, Bruxelles, 1838, p. 216 ss.
[103] L’episodio gentile e commovente del giovinetto Pergola (sc. 3ª, p. 221-22), che a quel ch’io so non ha fondamento nella storia, è bensì d’ispirazione omerica, ma la maniera ond’è ricolorito si direbbe modellata su Schiller. Come pure, il senatore Marco rassomiglia, nell’eccessiva perfezione morale, specialmente al Marchese di Posa; nonostante che di quei caratteri un po’ rigidi sia altresì popolato il teatro del nostro Alfieri.
[104] Vedi in questo volume, a pag. 281 ss.
[105] «Il popolo!... Qui non c’è popolo, voi lo sapete bene; altrimenti voi non osereste trattarci così, lui e me! Qui c’è una plebe, forse, i cui sguardi vi farebbero vergognare; ma essi non ardiranno nè gemere nè maledirvi, salvo che col loro cuore e con gli occhi». (Atto V).—Conobbe il Byron la tragedia manzoniana, pubblicata l’anno avanti? Non lo credo impossibile, in ispecie se si tien conto degli accenni al processo del Carmagnola, la cui innocenza qui è data per sicura, verso la fine dell’atto IV. Il senatore Barbarigo dice del doge Francesco Foscari, che fu quegli che lo condannò: «Eppure egli sembra un uomo così aperto!...». E il patrizio Loredano: «Così anche sembrava, poco tempo fa, al Carmagnola!—L’accusato e straniero traditore?—Proprio così!.... E il valoroso Carmagnola è morto!...—Carmagnola era vostro amico? —Egli era la difesa della città. Nella sua giovinezza, era stato suo nemico; ma nella sua virilità, prima il suo salvatore e poi la sua vittima.—Ah questa pare sia la pena che tocca a chi salva le città!».
[106] Anche altre voci si potrebbero raccogliere. Un ser Gherardini de Fulgineo per esempio, citato dal Battistella (Il Conte di Carmagnola, studio storico con documenti inediti, Genova, 1889, p. 394), scriveva da Firenze al Marchese d’Este, il 15 maggio 1432: «....Et la prexa et la morte del Carmagnola è ogni dì più vituperata et biasemata qui. Et dicese largo che questo acto, oltra la vergogna, è la desfactione de la liga».—Il Giovio attesta ch’ei fu giustiziato «ea fama, ut nonnulli eum indignissime damnatum dicerent, quod avaritia praecipitique malignitate maturatum ei exitium arbitrarentur. Nam ex damnati opibus supra ducenta milia aureorum nummum ad Fiscum redibant.... Auxit autem invidiam atrocis inexpectatique supplicii spectaculum interdiu populo editum, quum indigne tantus imperator ad Columnas rubras ubi noxii plecti solent, inserto in os ligneo lupato ne vociferari posset, traheretur; multis aut insontis calamitatem, aut aequo severius ingrati Senatus decretum detestantibus; quum egregie fortiterque rerum bello gestarum recens memoria spectantium animos, excitis fere lachrymis, ad misericordiam permoveret».—Per quel ch’è poi della vera o presunta reità del Carmagnola, a me pare, pur dopo il tanto arrabattarsi degli apologisti del Senato Veneto, che rimanga inesorabilmente giusto il giudizio del Machiavelli, nel Principe (cap. XII, § 7, ediz. Lisio), al quale il Manzoni sembra essersi ispirato: che cioè i Veneziani, veduto «el Carmignola.... virtuosissimo, battuto che ebbono sotto il suo governo el Duca di Milano, e conoscendo da altra parte come elli era raffreddo nella guerra, iudicorono con lui non potere più vincere, perchè non voleva, nè potere licenziarlo per non riperdere ciò che aveano acquistato; onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo».
[107] Vedi, in questo volume, a pag. 282 ss.—Il Conte, nel primo getto (pag. 280), accennava anch’egli amorevolmente a suo padre; quando al fido Marco esponeva quel che avrebbe fatto dopo la vittoria:
Il Fumano fu eletto canonico di Verona nel 1544, e morì in «felice vecchiaia» nel 1587.—Il Manzoni chiamò Bartolomeo il padre del Carmagnola, seguendo la tradizione; ma da qualche documento milanese risulterebbe chiamarsi egli Giacomo. In un istrumento degli 8 dicembre 1415, è scritto: «....Virum magnanimum et strenuae probitatis fama decoratum Franciscum de Buxonibus dictum Carmagnolam, filium condam spectabilis vivi domini Jacobi....».
[109] Nella sua traduzione degli Elogi del Giovio: Vinegia, De’ Rossi, 1557, pag. 115. Il sonetto è questo:
Non posso indugiarmi qui a rilevare quant’altro il Manzoni, nelle sue tragedie, può aver derivato dallo Schiller, e in che modo e in quali limiti ha seguito gli esempii del Goethe e i modelli di quello Shakespeare, che ai suoi occhi diveniva via via sempre più immenso[110]. Tramontarono, nella sua ammirazione, e Monti, e Alfieri, e Schiller; ma l’altissimo tragediografo ascendeva sempre. E di lui egli avrebbe[cxxxiv] potuto ripetere quel che il curato amico di Don Chisciotte disse dell’Ariosto: «lo pondré sobre mi cabeza!».[111]
Questo ed altro spero di fare la prossima volta. Per ora, poichè «piene son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda», soggiungerò alcune poche note, a compimento delle iniziate o accennate dianzi.
Negli appunti di critica, il Manzoni asseriva che la teoria del nuovo genere drammatico, pur da lui preferito, era «negli scritti del signor Schlegel, di mad.ᵉ di Stäel, del signor Sismondi, nel Discours des préfaces premesso alla traduzione di Shakespeare»: sono i libri medesimi che mettevan tanto scompiglio nella fantasia del povero Pellico. E continuava: «dei tratti nuovi e luminosi se ne trovano pure in varj recentissimi scritti di nostri Italiani, principalmente negli estratti ragionati di opere drammatiche che stanno nel Conciliatore». Codesti estratti, o ristretti con osservazioni critiche, eran dovuti in parte a Ermes Visconti, al De Cristoforis, a Giuseppe Niccolini, al Berchet; ma soprattutto al Pellico. Il quale nel «foglio azzurro» del settembre 1818 aveva dissertato, con larghezza d’idee nuova tra noi, dell’Alfieri e del Corneille, del Voltaire e del Racine, del Cervantes e dello Shakespeare; e nei numeri del febbraio e dell’aprile del 1819, del Philippe II di Giuseppe Chénier, comparandolo al Don Carlos di Schiller e al Filippo di Alfieri, dell’Henri VIII e del Charles IX del medesimo poeta, e della Maria Stuarda di Schiller, toccando dei Masnadieri, della Vergine d’Orléans, del Wallenstein. Il critico vi proclamava con giovanile baldanza:
«Le sane regole in ogni arte vanno sentite e trovate da per sè colla potenza dell’intelletto, e non ricevute ciecamente per tradizione. Tale era l’opinione di Schiller, e quindi risultò che in ciascuno de’ suoi poemi egli sempre calcasse una nuova strada. Non solo non è vero che per giungere al bello si debba porre servilmente il piede sovra orme[cxxxv] già segnate; ma è anzi irrefragabile che ogni soggetto che un poeta assume a trattare deve essere condotto con leggi particolarmente proprie; perchè se l’ingegno umano, simile alla natura, nulla crea mai d’identico ad alcuna opera già esistente, identiche non potranno mai essere le regole da seguirsi nelle diverse creazioni».[112]
Giustissimo; ma non è da tutti lo scoprire e il calcare nuove vie, nè basta a ciò la sola buona volontà. E quando il Pellico riuscì con uno sforzo a staccarsi dalla via consolare, andò subito a cascare in altre, aperte e inaugurate più di recente. Insieme con lo Schiller e con lo Shakespeare, uno dei suoi modelli preferiti fu Giuseppe Maria Chénier. Il quale, come si sa, aveva voluto essere, sul teatro tragico, l’epigono di Voltaire: la rivoluzione e l’epurazione che questi aveva compiuta nel campo morale e religioso, egli intese ad attuarla nel campo politico. Così che in una Epître aux manes de Voltaire si vantò:
E l’Epistola, che l’enfatico poeta aveva pubblicata nel 1790 in fine della sua prima ed anche più famosa tragedia, Charles IX ou l’école des rois, era andata molto ai versi del Pellico; che nel Conciliatore del 7 febbraio 1819 scriveva:
«La sua Epistola a Voltaire è uno dei poemi che, dal 1800[?] in poi, sono stati accolti in Francia con maggiore applauso: essa fruttò all’autore un decreto di destituzione, e un’infinità di mercenarie invettive in tutti i fogli periodici; ma queste, come sempre avviene delle persecuzioni, non diedero fuorchè un più vivo risalto al perseguitato».
Il futuro narratore delle Mie Prigioni sentiva ribollirsi in petto quei medesimi spiriti impazienti di libertà; e non lesina[cxxxvi] davvero la lode al poeta che Beniamino Constant giudicava «le plus beau talent de son époque, comme auteur dramatique»[113]. Si esalta quando, nel Charles IX, l’ode, con accento alfieriano, inveire contro i tiranni di diritto divino, e, nel Caio Gracco, levare il grido, contro la non meno abbominevole tirannia della plebe ubriaca, Des lois et non du sang!; quando, nel Timoleone (1794), ne ascolta l’alfieriana protesta contro i nuovi decemviri del Terrore, e, nel Tiberio (1810), lo vede disegnare «coi tratti più veri l’uomo, di cui tutti guardavano l’immagine venerandola o tremando». Eppure, un così ardente rivoluzionario nelle idee politiche era perseverantemente stato, com’ebbe a notare il Constant, «le partisan le plus zélé de toutes les entraves léguées par Aristote et consacrées par Boileau». Ma non fu tale anche il liberissimo Alfieri? Anzi, non anche il Foscolo, pur sospettato di aver voluto coll’Ajace alludere, nel carattere del protagonista «all’esilio del generale Moreau, e nella spregiata santità di Calcante alle sciagure di Pio VII, e nell’ambizione d’Agamennone alla fraudolenta onnipotenza di Napoleone»?[114] E forse appunto lo Chénier fornì al Pellico l’esempio di quell’improvvisa tirata lirica di Paolo, nella Francesca, ch’è un anacronismo storico e una stonatura artistica.
Nella 1ª scena dell’atto III del Charles IX, a un certo momento, Le Chancelier de l’Hôpital esce in queste profetiche esclamazioni:
Non è chi non veda come qui sia chiaramente vaticinata la distruzione della Bastiglia,... ch’era già avvenuta[115]: e l’avevano, con ingenuo entusiasmo, di cui più tardi ebbero a pentirsi o ad arrossire, celebrata Andrea Chénier e il suo amico Vittorio Alfieri[116]. Codesti versi rappresentano appunto la coccarda patriottica, che il più giovane ma non meno audace fratello di Andrea aveva attaccata, nei primi giorni della libertà, in fronte alla vecchia Melpomene. «Non pas en composant la[cxxxviii] tragédie de Charles IX, qui était faite depuis long-temps», dichiara egli stesso in una nota, «mais en ajoutant au rôle du Chancelier de l’Hôpital seize vers où il prédit la révolution».
Ora, anche il Manzoni aveva molta stima pel teatro nazionale dello Chénier; benchè non mancasse di fare le sue solite acute riserve circa una pretesa moralità, peculiare alle opere tragiche. Osservava a proposito della frase, sovente ripetuta, «Entrambi hanno fatto il loro dovere», che essa muove dall’assurda supposizione che, in molti casi, a due persone possano incombere doveri contrarii su uno stesso soggetto.
«Si osservino tutti questi casi, e si vedrà che i due doveri supposti sono fondati su opinioni speciali e temporanee, su istituzioni ecc., e che si dimentica sempre il fine che si deve cercare nella determinazione da prendersi dalle due persone. Ora, il fine giusto non può essere che uno. Esempio: la scena, per tanti rapporti bellissima, del Tiberio di Chénier, nella quale Cneo implora Agrippina perchè desista dall’accusare Pisone padre di Cneo. Agrippina risponde che il dovere suo è di accusarlo e di perderlo, e il dovere di Cneo di far tutto per salvarlo. Questo sentimento è falso, perchè due tendenze opposte non ponno essere egualmente buone o giuste. Ora, donde viene il falso in questo caso? Dall’essersi il poeta applicato puramente ai rapporti personali delle due parti, alla sorte di Pisone e alla vendetta di Germanico, e dall’aver dimenticato la verità e la giustizia, e il fine per cui sono istituite le accuse, le difese, i tribunali e i giudici: il qual fine è tutt’altro che di dare occasione ai parenti d’un morto di vendicarlo, e di mostrarsi sensibili alla sua perdita, e di dare occasione ad un figlio di salvare suo padre».[117]
S’intende, siffatte osservazioni e obiezioni particolari non menomavano, nel concetto del Manzoni, il merito singolare dello Chénier; ch’era d’aver cercato i soggetti delle sue tragedie nella storia nazionale del suo paese, e d’aver affidata al teatro una missione politica. Risonava ancora nel mondo latino l’esclamazione sospirosa (unica ciambella gustosa dell’infornata poetica d’un Clément avversario di Voltaire!):
che pare il grido di sommossa provocatore del romanticismo, a cui un Berchoux, detto le gastronomique, aveva accodato:
E un Du Belloy, mezzo fallito imitatore del Metastasio, aveva avuto fortuna con drammi sgangherati, quali Le siége de Calais (1765), Gaston et Bayard (1771), Gabrielle de Vergy (1777)[118]; ma Pierre le Cruel aveva finito col togliergli credito, così per l’atrocità macabra e nauseante dell’azione, come perchè la povera storia vi era più che mai bistrattata e vilipesa. Tuttavia l’incanto mitologico o semileggendario era rotto; e il pubblico francese aveva chiaramente dimostrato la sua propensione per i soggetti nazionali. Giuseppe Chénier trasse profitto da queste buone disposizioni. I tempi eran mutati, ed ora era permesso ciò che non sarebbe stato nè a Corneille nè a Voltaire. «Les malheurs de la France», scrive lo Chénier nel Discours préliminaire al Charles IX, del 22 agosto 1788, «occasionnés presque toujours par la faiblesse des rois, par le dispotisme des ministres et l’esprit fanatique[cxl] du clergé, auraient nécessairement rempli de véritables pièces nationales. Le gouvernement n’était point assez raisonnable pour les permettre, et les Français n’étaient pas encore capables de les sentir». E poichè «les hommes supérieurs font marcher l’esprit humain: sans eux, il resterait immobile»; lo Chénier si propose di fare o di compiere quanto Corneille e Voltaire avevano lasciato o intentato o a mezzo.
L’attingere alla storia nazionale era, in fondo, un tornare alla grande e genuina tradizione greca: i modelli rimanevano ancora Eschilo e Sofocle. «Souvent, en faisant parler les fameux personnages des tems passés, le poète insérait dans sa pièce des détails relatifs aux tems présens. L’Oedipe à Colonne, entre autres, est plein d’allusions à la guerre du Péloponèse». Da ciò i versi profetici del Charles IX, e, più tardi, dietro quell’esempio, l’uscita lirica e carbonaresca della Francesca da Rimini.
Da ciò pure, ma non solamente da ciò, l’idea del Manzoni di mettere in tragedia un episodio della nostra storia, durante il brutto tempo in cui l’antico valore italico era malamente sprecato in guerre fratricide; e l’altra, di lumeggiare, nei suoi aspetti più reconditi e commoventi, una delle più interessanti fra quelle lotte d’invasori donde derivò tanto danno e tanta vergogna al bel paese. Non era possibile, nè l’avrebbe voluto il poeta, che la storia contemporanea non facesse capolino di tra la rappresentazione de’ fatti più antichi. Questi il poeta li sceglieva lui: e non è un caso se, per esempio, nella discesa di Carlomagno in Italia, egli riproducesse quella più recente di Napoleone; e nella morte dell’innocente Carmagnola quella, così drammatica, di Gioacchino Murat; e le generose idee di questo principe egli prestasse un momento al suo diletto Adelchi. È vero che, andando avanti nella composizione dei suoi drammi, il Manzoni cercò di rimanere sempre più fedele al vero storico, così da immaginare i Cori, soltanto «destinati alla lettura», per riserbarsi «un cantuccio» dove «parlare in persona propria». Ma neanche allora riuscì del tutto a vincere «la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti», a evitare insomma un «difetto», ch’è «dei più notati[cxli] negli scrittori drammatici».[119] Gli è che i suoi drammi erano stati concepiti con un intendimento alquanto diverso; e questo, nel primo getto, vien fuori con balda schiettezza.
Adelchi, in quegli abbozzi, è Murat: o meglio, è il principe ideale, che vagheggia la redenzione e l’unità d’Italia. Egli parla come soltanto Murat aveva osato, fino allora, parlare. Al fedele Anfrido diceva (III, I; pag. 132):
E già prima (I, 2; pag. 123-25) aveva ammonito il padre (il quale rimane inesorabilmente sordo: proprio com’era stato Napoleone!) che
e ventilato il disegno di proclamar liberi i Romani, raggruppando tutta l’Italia in un unico regno.
Là dove, nella tragedia a stampa, è rimasto sol questo cenno fugace (I, 2; pag. 25):
era, nell’abbozzo, esposto un magnifico programma di libertà, che s’appuntava in queste fatidiche parole (p. 123-25):
C’è bisogno di ancor richiamare i versi, con cui termina il frammento sul Proclama di Rimini: «...dell’Itala fortuna Le sparse verghe raccorrai da terra, E un fascio ne farai nella tua mano....»? Dei quali è solo rimasta un’eco nell’ultima stesura della tragedia, nelle angosciose esclamazioni di Adelchi (III, 1; p. 55):
E questi versi eran, con poco divario, pur nel primo getto (pag. 126-27):
Dove però l’accoramento del protagonista era meglio compreso e diviso dal lettore, che ne conosceva i magnanimi disegni.
E quando, nel Carmagnola (V, 4; pag. 256), il Manzoni fa prorompere l’imprigionato capitano nel solenne e malinconico addio alla vita, la quale portava via con sè le illusioni più dolci e i più inebrianti entusiasmi che gliela rendevano cara:
noi possiamo bensì osservare che il poeta si è in buon punto ricordato (e come sottrarsi al fascino fatale?) del consimile addio di Otello (III, 3; v. 347 ss.):
e fors’anche dell’altro che il Goethe, variando qua e là questo di Otello, aveva messo in bocca a Egmont, pur lui languente in attesa del supplizio (V, 2)[121]; ma non dobbiamo trascurar[cxliv] di riflettere altresì che quei tristi pensieri e quelle sospirose parole, o «di tal genere, se non tali appunto»[122], il poeta contemporaneo di Napoleone deve aver facilmente immaginato che saranno passati per la mente o fiorite sul labbro dell’eccelso coatto di Sant’Elena. E che è insomma, nel Cinque maggio, quella magnifica e icastica rievocazione del grande, che
sta pensoso sulla «breve sponda», come un naufrago sbattuto e quasi sopraffatto dal flutto incessante e sempre più minaccioso delle memorie dei giorni irrevocati, se non una stupenda variazione lirica di quel medesimo motivo spuntato nei soliloqui di Otello, di Egmont, del Carmagnola?[123] Gli è che anche la poesia altrui, perchè un altro grande poeta possa degnamente imitarla e rinnovarla, occorre ch’ei la risenta in sè medesimo o nel personaggio che intende ritrarre. E del resto, pur senza pretendere a poeti, quando in certe occasioni ci corrono spontanei sul labbro certi versi di grandi poeti, non è forse perchè essi ci paiono davvero la voce commossa e ispirata di quei momenti e di quelle situazioni? Sunt lacrymae rerum!
Così pure, è naturale che le scene, in cui il Manzoni ci fa assistere ai crudeli momenti che precedettero la morte del generoso e gentile Condottiero, ci facciano ripensare, chi le abbia familiari, a quelle, più ampie e fino un po’ spettacolose, che il Goethe immaginò e descrisse per Egmont; ma[cxlv] non sarà senza interesse avvertire che, nel distenderle, al poeta può essersi affacciata, come accennavo dianzi, la cara e dolorosa figura del principe da lui celebrato nella canzone del 1815, così miseramente spento al Pizzo. Quella tenerezza d’affetti domestici la quale, nell’ultimo atto della tragedia, rigurgita dal cuore del Carmagnola, che si sarebbe potuto sospettare indurito al sole dei campi, il poeta non potè desumerla dalla storia. La quale è restia a commuoversi per siffatti sentimenti, e a registrare cotali particolari.[124] Invece, quella intima affettuosità era una delle caratteristiche, e forse la più simpatica, di Murat; che nel fondo dell’animo, di sotto all’immane congerie delle ambizioni napoleoniche, era sempre rimasto il buon contadino del Quercy. Fin nelle lettere semiufficiali che, nelle varie sue missioni, veniva scrivendo all’imperiale cognato, egli trovava modo, dopo le gravi informazioni politiche e i rapporti militari, d’aggiungere, per esempio, un poscritto sulla felice dentizione del suo primogenito. Nel maggio 1801, scrive da Firenze: «Achille est charmant; il a déjà deux dents»[125]. E quando, fallitagli l’avventura unitaria, fu costretto a errare come un bandito, povero re Lear!, per il littorale e le campagne che si stendono tra Cannes e Tolosa, egli, più che di altro, si mostra travagliato dal sospetto che la moglie possa averlo abbandonato e tradito. Al generale Manhès, suo amico superstite, scrive:
«J’avais tout souffert: la perte de ma fortune, la perte de mon royaume, et quel royaume! Mais me voir trahi, abandonné par la mère de mes enfants, qui préfère se livrer à mes ennemis plutôt que de se réunir a moi,...non..., je ne résisterai pas à un pareil coup. Quelle infortune que la mienne! je ne reverrai plus ma femme, je ne reverrai plus mes enfants!».[126]
Si buccinò che Murat s’avventurasse alla temeraria impresa dello sbarco in Calabria coi pochissimi fidi, perchè ingannato dalla polizia borbonica. Gli si tese un tranello, ed egli, sempre avventato, vi si gettò dentro. Forse si esagerava; ma anche codesta voce, che il guerriero magnanimo si lasciasse abbindolare dalle subdole arti d’un governo vile e tirannico, potrebbe esser valsa a far ravvicinare i casi del prode figliuolo del mandriano piemontese a quelli del non men prode figliuolo dell’agricoltore dell’alto Quercy. E comunque, il Murat, appunto come il Carmagnola, cadde o s’andò a porre nelle mani dei suoi nemici, incapaci d’un sentimento generoso, per un’eccessiva fiducia in sè stesso e nella fedeltà altrui. Ma accerchiato e rinchiuso nel castello ducale del Pizzo, non un sol momento di debolezza o di pusillanimità l’eroico principe ebbe di fronte ai suoi carnefici. Ei volle e seppe morire da prode e da re. Si rifiutò di rispondere al generale Nunziante comandante delle Calabrie, e di comparire innanzi alla improvvisata Commissione militare: quei giudici non eran suoi pari! E poi, a che sarebbe valso? L’atteggiamento suo, coll’inevitabile divario nei particolari, fu quello del Carmagnola davanti al Consiglio dei Dieci (V, 1ª). Non pare di sentir lui, quando, al Doge che vuol rimandarlo al Consiglio Segreto, il Conte risponde:
O quando gli ribatte:
Al re condannato non osò di rimaner fedele, e di professarglisi grato per un dono altra volta fatto alla sua chiesa, se non il canonico Masdea, un vecchio sui settant’anni, che lo assistette in quegli estremi momenti. All’ufficiale, che doveva comandare l’esecuzione, e che interruppe il dialogo suo col prigioniero facendogli notare che cinque minuti erano già trascorsi, il buon prete osservò che il quarto d’ora regolamentare non poteva cominciare se non dopo l’assoluzione; la quale nessuna potenza umana avrebbe potuto impedire a lui di dare. E rivolto al re: «Io sono qui per voi; non temete di nulla!». Il quarto d’ora trascorse. «Andiamo a compiere la volontà di Dio», disse il re, levandosi da sedere, e seguendo l’ufficiale. Nella tragedia manzoniana manca il prete forte ed austero; non però l’amico fedele, il Gonzaga, che assiste il Conte fino alla tragica catastrofe.
Al capitano Stratti, che gli faceva da carceriere, Gioacchino rimise questa lettera, scritta poco prima che giungesse il Masdea, nella quale rinchiuse una ciocca de’ suoi capelli.
«Ma chère Caroline,
«Ma dernière heure est arrivée; dans quelques instants j’aurai cessé de vivre; dans quelques instants tu n’auras plus d’époux. Ne m’oublie jamais; ma vie ne fut entachée d’aucune injustice. Adieu, mon Achille; adieu, ma Laetitia; adieu, mon Lucien; adieu, ma Louise; montrez-vous au monde dignes de moi. Je vous laisse sans royaume et sans biens au milieu de mes nombreux ennemis; montrez-vous supérieurs à l’infortune, pensez à ce que vous êtes et ce que vous avez été, et Dieu vous bénira. Ne maudissez pas ma mémoire. Je déclare que ma plus grande peine dans les derniers moments de ma vie est de mourir loin de mes enfants».[127]
Una tal lettera, in un così tragico momento, potrebbe averla scritta il Carmagnola! E a buon conto, la mirabile[cxlviii] scena che il poeta immaginò tra il povero prigioniero, la moglie e la figliuola (V, 5ª), pochi istanti prima ch’ei fosse tratto al supplizio, che cosa è mai se non l’espressione drammatica dei sentimenti stessi che Murat aveva espressi nel solo modo che gli era consentito? Perfino le parole, qua e colà, corrispondono[128].
Sennonchè, è poi presumibile che già prima del 1820 il Manzoni sapesse a un puntino tutta la cronaca dolorosa ed eroica della fine di re Gioacchino? Non oserei senza prove affermarlo, ma nemmeno credo che si possa, senza prove, negarlo. Abbiam da fare con un poeta che fu un curioso e sagace indagatore di fatti storici, anche contemporanei, e con un uomo ch’era in rapporti amichevoli coi personaggi più eminenti di qua e di là dalle Alpi. Certo, non tutto quello che a noi han rivelato gli archivi egli seppe; ma chi sa quanto da relazioni scritte o da informazioni orali egli apprese, che a noi non è dato sapere, e che forse non sapremo più mai! E del resto, anche noi quante cose non sappiamo degli avvenimenti compiutisi sotto gli occhi nostri, che i nostri nipoti non sapranno, o impareranno monche e travisate?
[110] Pel Goethe, rimando al Saggio dello Zumbini, L’Egmont del Goethe e il Conte di Carmagnola del Manzoni, negli Studi di letterature straniere, Firenze, Le Monnier, 1893. Per lo Shakespeare, mi si consenta ricordare i miei Saggi: Ammiratori e imitatori dello Shakespeare prima del Manzoni (nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1892). L’Arminio del Pindemonte e la poesia bardita (ibidem, 16 aprile 1892). La prima tragedia del Manzoni (nell’«Annuario della R. Accademia Scientifico-Letteraria, Milano, 1894-95).
[111] Il pio Silvio, in una lettera del 1833 al conte Pietro di Santa Rosa (Curiosità e ricerche di storia subalpina, v. I, pag. 384-86), parlando di Dio, uscì in questa espressione veramente singolare: «è vario perchè è infinito, e perchè sa (come quel Shakespeare de’ Shakespeare ch’egli è) adoperare da maestro la varietà per produrre una sapiente unità». Cfr. Bellorini, Spigolature Pellichiane, p. 45.
[112] Nell’articolo sulla Maria Stuarda. Vedi Prose di Silvio Pellico, Firenze, Le Monnier, 1856, pag. 404-05.
[113] Mélanges de littérature ecc., pag. 250.
[114] Cfr. la lettera del Foscolo al conte Verri, del 21 maggio 1814 (Prose; Firenze, Le Monnier, 1850, pag. 81), e la Lettera Apologetica (ibid., pag. 502).—In una lettera del Mustoxidi al Fauriel, da Milano, 20 dicembre 1811 (in De Gubernatis, Il Manzoni e il Fauriel, p. 82), dove si tocca anche di Alessandro, è detto: «Foscolo ne ha dato una tragedia intitolata l’Aiace, ma portò seco, per dirla con Sofocle, la sventura coll’Ai Ai del suo nome; il pubblico non ha trovato una sola parte degna di lode, e mi pare che il pubblico non si è ingannato».
[115] Degno di nota è tuttavia che in un alessandrino di questa tragedia, recitata la prima volta, sul Teatro della Nazione a Parigi, il 4 novembre 1789, già rugge la Marsigliese: quel Chant de l’armée du Rhin che Claudio Giuseppe Rouget de Lisle (n. 1760, m. 1836) compose a Strasbourg nell’aprile del 1792. Poco prima dei versi riferiti, L’Hôpital esclamava:
[116] Il povero Andrea, nelle ardenti strofe, pubblicate un po’ più tardi, nel 1791, che hanno per titolo Le jeu de paume, aveva esclamato:
L’Alfieri, testimone di quella prima sommossa popolare, aveva scritto il poemetto lirico, che nel Misogallo poi ripudiò, Parigi sbastigliato.
[117] Cfr. p. 410 di questo volume. Il Tiberio fu concepito in un’esaltazione tirannicida, destata nel poeta da una concitata lettura di Tacito; e, come si vede, esso non dispiaceva al poeta del Cinque maggio! Il quale poi, riferisce il Bonghi (Pensieri inediti, pag. 62), «raccontava assai spesso che non so chi domandasse a un redattore dei Débats perchè il giornale continuasse a dire che il fratello di Andrea Chénier gli avesse fatto la spia, e cagionato così la di lui morte, pur sapendo che ciò era falso; e il redattore rispondesse: Parce qu’il le faut! Così, stupiva di questa persuasione della necessità e dell’utilità della bugia, e gli pareva segno di una corruttela estrema».—Ai nostri giorni abbiamo sentito affermare qualcosa di simile a proposito del Dreyfus; e ci siamo, ancora una volta, accorati «pour cette France illustrée par tant de génie et par tant de vertus», come la chiamava lo stesso Manzoni (cfr. più avanti, p. 384).
[118] Non mi so astenere dal riferire questo brano d’una lettera del Ducis, 23 luglio 1777, a una signora molto scettica circa il valore di codesto dramma: «Je vous dirai que, malgré vos craintes, la Gabrielle de Vergy, de mon ami Du Belloy, a le plus grand succès. Je compte qu’elle passera vingt représentations. Les femmes ont d’abord beaucoup crié contre; elles y tombaient mourantes les unes sur les autres: c’était une chose épouvantable. Aujourd’hui on ne voit qu’elles aux loges, a l’orchestre, a l’amphithéâtre». Il terrore femminile si spiega, quando si pensi che nel dramma è introdotto il signor di Favel, il quale porta e dà da mangiare alla sua donna il cuore del rivale!
[119] Ho poco più sù accennato come il Marco del Carmagnola ricordi, per la rigidità schematica del carattere, il Marchese di Posa del Don Carlos. Si può soggiungere che dietro di esso sia pur facile scorgere e riconoscere il poeta medesimo, il quale suggerisce a quel fantoccio i discorsi ch’egli avrebbe fatti in un caso simile. Del Posa il Carlyle (The life of F. Schiller, Leipzig, Tauchitz, 1869, pag. 94) ebbe già a osservare che «is the representative of Schiller himself».
[120] «Ed ora per sempre addio mente tranquilla! addio contentezza! addio drappelli piumati, e le grandi guerre che fanno dell’ambizione una virtù! Oh addio! Addio nitrente destriero, e la stridula tromba, e il tamburo che esalta gli spiriti, e il piffero che ferisce l’orecchio, la regale bandiera, e ogni altro particolare, orgoglio, pompa e incidenti della guerra gloriosa!...».
[121] Ricordo che son proprio le parole di Ferdinando a Egmont, nella prigione (sc. 4ª), quelle che il Manzoni trascrisse testualmente sull’esemplare dell’Adelchi che mandò al Goethe. Esse dicono: «Tu non sei per me uno straniero. Il tuo nome nella mia prima giovinezza mi splendeva alla vista come una stella del cielo. Oh quante volte ho ascoltato attentamente quando si parlava di te! Quante volte ho domandato di te!». Cfr. Zumbini, Studi di letterature straniere; Firenze, 1893, p. 155.
[122] Promessi Sposi, cap. VIII, in fine.
[123] Non mi pare sia stato ancora messo in rilievo che perfino lo spunto iniziale del Cinque maggio potrebbe additarsi nelle parole di Antonio ai Romani, nel Giulio Cesare di Shakespeare (III, 2, vv. 123 ss.):
(«Solo ieri la parola di Cesare avrebbe potuto tener testa al mondo, ora egli giace là, e nessuno è così in basso da dovergli prestare omaggio!»).
[124] La storia non ha nemmen registrato il nome della figlia del Conte! Così che lo scrupoloso poeta si sente il dovere di dichiarare, nell’annoverarla tra’ personaggi storici del dramma (p. 178): «Una loro figlia», del Carmagnola e di Antonietta Visconti, «a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde».
[125] Cfr. Chavanon et Saint-Yves, Joachim Murat; Paris, Hachette. 1905; pag. 87.
[126] Chavanon et Saint-Yves, J. Murat, p. 293.—Il povero Gioacchino supponeva che Carolina, camuffata da Metternich in una tragicomica Contessa di Lipona (Napoli), non lo avesse voluto raggiungere in Francia: anzi si fosse di suo pieno gradimento imbarcata a Napoli sulla nave inglese da guerra, la Tremendous, coi ministri Macdonald, Zurlo e Mosbourg, e si fosse lasciata condurre a Trieste, per mettersi sotto la protezione dell’Austria! La verità era ch’essa vi fu costretta!
[127] Chavanon et Saint-Yves, J. Murat, p. 300.
[128] Per ciò che nella scena del Carmagnola rimane di sapore alfieriano, cfr. il mio discorso sulla Prima Tragedia del Manzoni, 12-13.
Alla vecchia massima del Voltaire, che tutti i generi son buoni tranne il noioso, il Manzoni contrappose l’altra, che un genere soltanto non può avere speranza d’un duraturo successo, ed è il falso. Ei proclamò «non solo sensata ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello»[129]. Ed era dunque naturale ch’ei si rivolgesse, per ispirazioni, alla storia. Egli considerò che l’essenza della vera poesia non consiste punto nella materiale invenzione dei fatti o delle circostanze che li determinano. I grandi monumenti della poesia hanno tutti per base avvenimenti forniti dalla storia, o, che vale[cxlix] lo stesso, da ciò che un tempo è stato considerato come storia. E solo ad azioni che sono o son credute storiche, gli uomini prestano attenzione: il bambino non si commuoverà più alle fiabe, se dubiterà che quei fatti non siano accaduti.
Sennonché accordare la poesia con la storia è un arduo cimento; chè questa ha pretese che la leggenda non conosce. La leggenda è quasi un’amabile fanciulla, docile e riconoscente al poeta che la raccoglie e l’adorna, potenzialmente dotata d’ogni pregio, la quale un marito contadino può rendere una contadina eccellente e un marito gentiluomo una gentildonna modello; e per contrario la storia è la superba ereditiera, austera, sdegnosa, intrattabile, specialmente con chi più le si dimostra affezionato e devoto. Masuccio Salernitano e Luigi da Porto caveranno dalla leggenda di Romeo e Giulietta due ingenue e pur commoventi novellette; e quella stessa leggenda sarà capace di diventare il dramma di Guglielmo Shakespeare. Guai però a trattare come leggenda la storia o a lasciarsene sopraffare! Ei si risica o di cadere nel falso, o in quelle insopportabili tiritere alla maniera del Trissino e del Gravina.
L’Alfieri non s’era piegato ai capricci dell’ereditiera. Non le avea richiesto se non i nomi dei personaggi e il piccolo intreccio d’un’azione già precipitante alla catastrofe; il resto aveva cavato dal proprio cuore e dal proprio cervello. Non colorito locale, non accessorii storici o domestici; del carattere dei personaggi non colto che un lato solo, e senza gradazioni e varietà; e i personaggi stessi foggiati tutti a un modo, e isolati, come direbbe il De Sanctis, dal loro mondo: al poeta quel tanto di storia non serviva che di pretesto per metter sulla scena un’altra delle memorande passioni umane portata al parossismo. Ma tutto ciò tornava a discàpito dell’opera d’arte; poiché l’azione tragica, così distaccata e allontanata dalla storica, finiva col rendere la tragedia meno poetica della storia. Per volere più violentemente e direttamente colpire il cuore degli spettatori, il poeta negava a sè stesso il modo di spiegare sulla scena quella trama di fatti umani sulla quale il carattere dei personaggi può disegnarsi, di sviluppare le gradazioni e le varietà infinite delle[cl] passioni, e le loro anomalie e le loro singolari combinazioni, che costituiscono appunto le varietà e le singolarità dei caratteri; e si vedeva costretto a ricorrere a convenzionali esagerazioni, e creava caratteri spesso uniformi.
Il gentiluomo lombardo volle esser gentiluomo anche con la storia; e vagheggiò un dramma in cui questa e il proprio genio potessero viver d’accordo, senza troppi sacrifizi dall’una parte o dall’altra. L’azione drammatica deve consistere in una serie di avvenimenti che nascono successivamente, nello stesso o in luoghi diversi, gli uni dagli altri; e al poeta non può esser permesso di alterarne l’ordine con arbitrarie anticipazioni o raggruppamenti. Il poeta non ha facoltà d’inventare i fatti o le circostanze di essi; ma di scegliere nella storia quel gruppo di avvenimenti che gli paiono tenuti insieme da ragioni intrinseche e facilmente percepibili, che si compiono in un ragionevole periodo di tempo, e tra cui uno assorge quasi meta indicata o intravista di lontano. Questa, che i tragediografi classicheggianti scambiaron per tutta l’azione, non è se non la catastrofe. E i personaggi devono comparire o sparire secondo che lo svolgimento dei fatti richieda, non già, come il capriccio dei critici pretendeva, tutti mostrarsi al primo atto, e accompagnar l’azione fino al quinto. Tuttavia, non è da pensare che il còmpito del poeta sia suppergiù quello dello storico; poichè se questi non tien conto se non di ciò solo che gli uomini hanno operato, il poeta deve scendere nell’animo loro e indovinare quel che han pensato: i sentimenti che accompagnarono le loro decisioni e i loro disegni, le loro cadute e i loro trionfi; i discorsi con cui fecero o tentarono di far prevalere le loro passioni o i loro voleri, espressero la loro collera e la loro tristezza, manifestarono insomma il proprio carattere. La vera creazione del poeta drammatico consiste appunto in codesto scovare e rinvenire in una serie di fatti storici quel che ne costituisce un’azione tragica, nel cogliere i caratteri dei personaggi, nel dare a quest’azione e a questi caratteri uno sviluppo armonico, nel completare la storia restituendole la parte perduta[130].
Attuazione di siffatti nuovi ideali artistici era appunto il Conte di Carmagnola[131].
Al tentativo fecero subito il viso dell’armi e chi della tragedia s’era formato un certo tipo convenzionale a cui questa del Manzoni non somigliava, e chi dal poeta dell’Urania s’aspettava qualcosa di più vicino all’Aristodemo. Ma lo accolsero come un ardimento felice coloro, che, sgombra delle viete ubbie la mente, seppero scorgervi e una vena potente di poesia e una preoccupazione critica ch’era promessa sicura di avvenire più sereno. Furon dei primi lo Chauvet e il Foscolo; dei secondi, il Pellico,[132] il Fauriel, il Mazzini e il Goethe.
Ho detto tentativo, e non vorrei sembrasse irriverente o avventata questa parola. Benchè del capolavoro abbia molti numeri, quel primo dramma non riuscì un capolavoro.[133] Nocque al poeta, com’ebbe già a notare lo Zumbini, «quella eccessiva consapevolezza di fini e di mezzi» onde condusse l’opera sua, «consapevolezza che talvolta costrinse l’arte a ubbidire con proprio danno a certi nuovi criteri non abbastanza sicuri e provati»; e gli nocque, mi si consenta soggiungere, quella naturale titubanza ad allontanarsi troppo dal tipo tragico che s’era venuto costituendo in Francia e in Italia. Scosso vigorosamente il pregiudizio delle due unità che, rimesso a nuovo dal Voltaire, era divenuto come l’ultima cittadella[cliii] dei difensori del teatro classico; rinnovata la maniera di sceneggiare la storia e d’introdurre il Coro; rammorbidito il verso tragico: si capisce come al Manzoni venisse poi meno il coraggio di romperla con ogni tradizione drammatica delle nazioni latine. Così, la sua tragedia serba ancora un certo fare compassato e dignitoso, che a volte produce una non so quale monotonia; è intessuta di lunghi monologhi e di non meno lunghi discorsi, e manca, soprattutto in principio, di quella vivacità e di quel movimento che conquista e trascina subito l’attenzione. Si pensi: il primo atto si apre con un’allocuzione del Doge, di ben quarantatrè endecasillabi, al Senato silenzioso, detta tutta d’un fiato; nella quale ci si mette al fatto della guerra tra il Duca di Milano e Firenze, dell’invito di questa a costituire una lega contro quello, d’un’insidia tramata dal Duca stesso al Carmagnola. Il quale è chiamato finalmente in Senato per dare il suo avviso.—Siamo, a buon conto, nè più nè meno che a una di quelle esposizioni contro di cui il poeta medesimo ebbe a inveire; spesso fredde, inerti, complicate, alle quali il tragediografo classicheggiante si sentiva costretto in grazia delle famose unità.—Si ricordino invece le prime scene dell’Otello. L’azione è quasi la stessa: il Moro è chiamato in Senato per aver affidata l’impresa di Cipro. Ma qui non da lunghi e togati discorsi lo spettatore apprende i precedenti del dramma; bensì della guerra, del valore di Otello, del suo amore, delle insidie di Jago, ei sente discorrere da Jago stesso, da Rodrigo, da Brabanzio, e le ultime notizie di Cipro le impara da quei messaggi medesimi che pervengono al Senato. Per tal modo, quando il Moro apparisce sulla scena, vi è atteso come il prode in cui la Repubblica ripone le sue speranze; e anche noi, come Desdemona, sentiamo già di amarlo pei suoi corsi perigli, e temiamo per lui così ingenuo, circondato da tanta perfidia.
Strano davvero che, con un così insigne modello sotto gli occhi, il Manzoni preferisse ancora quella gelida forma espositiva; ma più strano ancora ch’ei la preferisse dopo che, nel primo disegno della tragedia, l’aveva abilmente schivata, premettendo a quella, che ora è la prima scena, altre due, tra[cliv] i Senatori che via via giungevan nella sala del Consiglio. Un senatore Stefano, che poi fu soppresso, diceva al suo collega Marino come oramai il Doge fosse infatuato per la guerra; come gli Oratori, mandati dal Duca di Milano per consigliar la pace, non facessero invece che vieppiù accender gli animi; e soggiungeva (p. 266):
Marino, che non voleva «a invitar molte parole», manifestava subito il suo maltalento contro il Condottiero, rincarando (p. 267):
E Stefano ripigliava (p. 268):
Non si tenga conto della forma: è il primo getto, e lascia ingenuamente trasparire le intenzioni, quasi profetiche, del poeta che ha l’occhio fisso alla sua meta. Si consideri invece con quanta maggior larghezza fosse da prima iniziata l’azione, e quanto maggiore interesse avvincesse subito al dramma.
A quei due Senatori viene ad aggiungersene un terzo, Marco; il quale è tutto sossopra per la notizia recente dell’attentato, osato nei dominii della Serenissima, alla vita del Carmagnola. Egli narra (p. 270):
C’è forse in codesto racconto un po’ di sovrabbondanza, che però alla recitazione avrebbe giovato anzichè nuocere; ma ad ogni modo, nella forma definitiva data dal Manzoni alla sua tragedia, esso è ridotto a un troppo magro cenno, a cui scema ancora rilievo l’esser posto in bocca al Doge, subito dopo le primissime parole, e solo in forma di argomento (I, 1ª; p. 179).
Né si apprende se quest’accenno scuota punto il Senato, che se ne rimane, a quanto pare, imperterrito e muto. Mentre invece, nell’abbozzo, il racconto offriva nuova occasione ai tre Senatori di meglio manifestare i loro animi, e di rivelarci così le impressioni che sui malevoli e sui fautori del Conte quel misfatto dovè naturalmente produrre.
E si potrebbe fors’anche sospettare che dal soggetto il Manzoni non traesse tutto quel partito che avrebbe potuto, se lo avesse affrontato con baldanza maggiore. Certo, il dramma, in ispecie nel primo atto, ne apparisce un po’ scarno d’azione; eppure di azione son ricche le notizie storiche che il poeta medesimo (egli era troppo dotto per accontentarsi di rimanere nella via regia percorsa dallo Shakespeare; e qui l’esempio dello Schiller forse prevalse!) si vide costretto a premettergli. Ivi, per esempio, si narra che gl’invidiosi del Carmagnola calunniosamente gli alienarono l’animo del Duca; il quale perciò, desiderando di toglier di mano a lui le armi, lo mandò governatore a Genova, ingiungendogli per lettera di rinunziare pur alla scorta dei trecento cavalieri condotti con sè. Il temuto Condottiero gli rispose «pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi»; e, «non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla[clvii] domanda espressa d’essere licenziato dal servizio,... si risolvette di recarsi in persona a parlare col Principe», che allora dimorava nel castello di Abbiategrasso. La scena che ne seguì è narrata drammaticamente dal Manzoni storico.
«Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi aununziare al Duca, ebbe in risposta ch’era impedito, e che parlasse con Riccio [uno de’ suoi nemici]. Insistette, dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso: e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sè, inseguito invano da Oldrado [un altro dei suoi nemici], il quale.... credette meglio di non arrivarlo».[134]
Or di tutto ciò nella tragedia non son rimasti che due fugacissimi cenni, dei quali non è presumibile che un lettore, nonchè una platea, faccia caso. Tra altre cose, il Conte, fin dal suo primo apparire, narra al Senato (I, 2ª; p. 183):
E più tardi, il Conte stesso, rimasto solo, rimugina (II, 5ª; p. 206):
Bei versi senza dubbio, tocchi di pennello maestro, ma il quadro manca. Eppure la rappresentazione di quegli avvenimenti sarebbe altresì giovata a metterci meglio in grado di comprenderne i tempi e lo stato d’animo e il carattere del protagonista; di valutare più pienamente i motivi del suo disgusto con l’antico signore e l’impossibilità che si raccostasse a lui; e avremmo potuto veder sulla scena pur quel duca Filippo, che ha tanta parte nei destini del Condottiero. Oltrechè l’interesse drammatico sarebbe stato, tra quegli avvenimenti, tenuto molto più desto, che non si riesca a fare con que’ semplici sommarii.
[129] Del Romanzo storico ecc., pt. I; in Opere varie, ediz. 1845, pag. 483.
[130] Si veda per tutto ciò la Lettre à m. C***, pp. 311 ss. di questo volume.
[131] Il 25 marzo 1816, da Milano, il Manzoni scriveva al Fauriel: «J’ai presque honte de vous parler de projets littéraires après en avoir tant conçu et exécuté si peu; mais cette fois j’espère terminer une tragédie que j’ai commencée avec beaucoup d’ardeur et l’espoir de faire au moins une chose neuve chez nous. J’ai mon plan, j’ai partagé mon action, j’ai versifié quelques scènes, et j’ai même préparé dans ma tête une dédicace à mon meilleur ami; croyez-vous qu’il l’acceptera? Le sujet c’est la mort de François Carmagnola. Si vous voulez vous rappeler son histoire avec détail, voyez-la à la fin du huitiême volume des Républiques Italiennes de Sismondi.... Après avoir bien lu Shakespeare, et quelque chose de ce qu’on a écrit dans ces derniers temps sur le Théâtre, et après y avoir songé, mes idées se sont bien changées sur certaines réputations» [Alfieri? Voltaire? Schiller?] «Je n’ose pas en dire davantage, car je veux tout de bon faire une tragédie: et il n’y a rien de si ridicule que de médire de ceux qui en ont fait, et qui passent pour des maîtres de l’art».
[132] Il buon Silvio scriveva al fratello Luigi da Milano, l’8 gennaio 1820: «Ti spedisco.... la bellissima tragedia di Manzoni, il Carmagnola. A me pare una cosa divina. Qui è generalmente lodata, e Monti stesso non trova a dire che sullo stile, che a lui sembra trascurato e prosaico. Ma Manzoni non ha preso inavvertentemente quello stile; egli lo ha scelto come il più proprio a un argomento non antico, e nel quale il discorso deve scostarsi di poco dal discorso comune di oggidì. Il vantaggio di siffatto stile, schivo dei modi e dei vocaboli non simili alla prosa, si è di renderne cara la lettura anche a coloro che non sono educati al linguaggio poetico. La più parte delle donne, per esempio, fanno fatica a leggere la poesia italiana (meno il Metastasio); e perchè? Perchè la poesia italiana ha una lingua ch’esse non hanno. Datele una lingua già nota, e acquisterà molte lettrici e molto più lettori». Più tardi poi, il 15 gennaio, riscriveva, con intiepidito entusiasmo: «Che ti è sembrato del Carmagnola? Il Coro è stupendo. Vorrei piuttosto aver fatto il Coro che la tragedia, quantunque questa anche abbia molte bellezze. Lo stile di essa è molto criticato». Più tardi ancora, lodando assai l’articolo che sulla tragedia il fratello aveva inserito nella Gazzetta di Genova, soggiungeva: «Il crocchio Visconti e Berchet, che è tutto Manzoni, ha fatto girare in ogni casa di Milano il foglio di Genova.... Il tuo giudizio intimo sul Carmagnola, qual poi me lo esprimi nella tua lettera, s’accorda affatto col mio. Non è lettura che strascini, perchè gli eroi son lasciati troppo simili al vero. La poesia è un mondo più bello del reale; bisogna che gli abitanti di quel mondo sieno a un grado più sù di noi, nell’amore, nell’ira, nelle virtù politiche ecc. Ma tienti occulto questo mio parere, perchè nulla mi dorrebbe quanto l’essere creduto da alcuni invidioso del merito del Manzoni. E questo è il motivo per cui non mi permetto una critica su quella tragedia».—Colgo l’occasione di rilevare una curiosità. Nel 1818 (se anche questa volta la data del Rinieri non è errata!) pare si sia sparsa la voce che il Manzoni attendesse a un’Ifigenia. Il Pellico ne scriveva il 1º aprile al fratello: «Cercherò dell’Ifigenia di Manzoni; non so niente, ma son certo che egli non può aver fatto cosa mediocre».
[133] Conversando col Cousin, nell’aprile del 1825, il Goethe ebbe a dirgli (la conversazione fu riferita dallo stesso Cousin nel Globe, V, n.º 26): «Io pregio moltissimo il Carmagnola, lo pregio moltissimo. L’Adelchi è più grande per l’argomento, ma il Carmagnola è molto profondo. (Adelchi est un plus grand sujet, mais Le Comte de Carmagnola a bien de la profondeur). La parte lirica poi è così bella, che il critico maligno [della Quarterly Review, dicembre 1820] l’ha lodata e tradotta».—Codesto saccente sgarbato, mentre giudicava il dramma «mancante di poesia» e consigliava il Manzoni «a gratificare in avvenire il pubblico con splendide odi, piuttosto che disgustarlo con deboli tragedie», ne riproduceva, tradotto in inglese, il Coro, reputandolo «la più nobile lirica che la moderna poesia italiana abbia prodotta». Trovava anche, bontà sua, «molto affettuosa» la scena del Conte con la sua famiglia.
[134] Notizie storiche, pag. 167 di questo volume.—Non è qui il caso di discutere se questi fatti siano storicamente certi. Chi voglia, cfr. Battistella, Il Conte di Carmagnola, p. 72 e 80 ss.
Del Manzoni si potrebbe ripetere quel ch’egli stesso ebbe a dire del Goethe, cioè ch’entrasse «nella strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio..., come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d’imitare»[135]. E non è casuale il confronto; giacchè al grande poeta di Weimar il nostro guardò «com’al maestro fa il discente».
Ebbe comune con lui la tranquilla, spregiudicata, acuta contemplazione dei fenomeni storici e letterarii, e la cognizione di essi vasta e profonda; sentì come lui il necessario rinnovamento dell’arte: e se l’uno lo anticipò con la varia e molteplice opera sua, l’altro lo proseguì con consapevolezza ed efficacia di mezzi forse maggiore. Non fu proprio un capriccio della fortuna, come malignamente asserì l’ingelosito ed invido Foscolo, che il vecchio ed olimpico poeta accogliesse con sì fervido entusiasmo il tentativo del modesto giovane[clix] straniero[136], terminandone la lunga analisi col dichiarare che «l’impressione sintetica di quel dramma era un’impressione seria e vera come quella che lasciano sempre i grandi quadri della natura umana». Nè d’altra parte fu un semplice complimento quel che il Manzoni gli espresse, trascrivendo, in fronte all’esemplare dell’Adelchi a lui destinato, le parole di riverente ammirazione che il poeta medesimo aveva fatte dire da un magnanimo giovinetto ad Egmont.
La riforma drammatica del Manzoni mette capo direttamente al Goetz von Berlichingen e all’Egmont; anzi a codesti due drammi mette capo tutto quel nuovo movimento letterario che considerò la storia quale l’unica o la più cospicua fonte d’ispirazione poetica. Si ricordi che Walter Scott («l’Omero del romanzo storico», come lo proclamò l’autore dei Promessi Sposi) fu spinto sulla via, ove incontrò la gloria e la fortuna, dalla traduzione, ch’ei fece in gioventù, del Goetz. E se questo dramma segna di quel movimento il principio, la fine n’è segnata da un monumento non meno solenne, I Promessi Sposi. I confronti, sempre odiosi, sarebbero sott’ogni rispetto odiosissimi in questo caso; e la nostra ammirazione pel sommo musagete della Germania è anche più piena e devota, dacchè egli non si peritò d’asserire che, nel Romanzo, il Manzoni «si leva tant’alto, che difficilmente si può trovare autore che gli stia a paro». O non ci fa ripensare, codesta «cortese opinione» dell’autore del Wilhelm Meister, al caro episodio dantesco del Guinizelli?
Il poeta lombardo fece in letteratura quel che ai nostri tempi è stato fatto in politica: ruppe l’ormai sterile alleanza con la sorella latina, e strinse la mano a quella giovane e balda nazione che di là dal Reno avea levato il vessillo d’un’arte novella. Nobile, commovente e quasi filiale è il saluto alla Francia in fin della lettera allo Chauvet: a quella Francia «che non si può vedere senza provare un sentimento che somiglia all’amor della patria, e non si può lasciare senza che al ricordo d’avervi dimorato non si mescoli qualcosa di malinconico e di profondo, che rassomiglia alle impressioni dell’esilio». Ma fu un saluto di addio!
Il Conte di Carmagnola annunziò all’Europa che il nuovo poeta d’Italia era nato. Chi fin dai primi passi dava così cospicua prova di «larga, libera e incondizionata maniera d’interpretare le nuove idee e i maggiori esempi del teatro romantico e storico», i quali egli mostrava «d’intendere come pochi in tutta Europa e forse come nessun altro in Italia», non poteva fallire a glorioso porto. Di lì a poco venne l’Adelchi, che parve sciogliesse in gran parte quella promessa; e vennero poi i Promessi Sposi, che avanzarono i desiderii.
Attratti dalle opere maggiori, sogliamo metter da parte le altre. E chi legga solo per gustare il godimento estetico immediato, ha ragione di far così; ma chi voglia davvero assaporare il frutto maturo, deve, per dirla col Bonghi, «ricercare come a mano a mano si sia educata la pianta che ha dato quel frutto, quali influssi l’abbiano aiutata a germogliare e a crescere, e come si sia formata quell’attitudine che ha poi raggiunto in fine un così notevole grado di perfezione». A noi studiosi delle opere d’arte letteraria non importa soltanto d’ammirare l’estrema meta, che il poeta si è sforzato di raggiungere e che segna l’apice della sua gloria; ma altresì di ricercare e perlustrare la via ch’egli ha percorsa per giungervi. E questa desideriamo indicare agli altri; e in siffatta ricerca appagare insieme quell’innato bisogno della nostra mente «di penetrare nel lavorio interno dello spirito umano, e soprattutto di uno spirito eletto». I primi tentativi lasciano meglio scoprire i segreti di quell’arte che[clxi] tutto fa, e trasparire gl’intenti e i procedimenti dell’artista non ancora provetto. Attraverso gli strappi lasciativi dalle necessarie incertezze e titubanze, ci avviene di sorprendere un’ansia e una lotta che il poeta vittorioso ci avrebbe gelosamente nascosta; e quelle trepidazioni fanno più compiutamente gustare il definitivo trionfo.
Fine dell’ Introduzione.
[135] Del Romanzo storico ecc., parte II, verso la fine.—Il Goethe medesimo (quell’«altro tale, chiamato Goethe») ebbe a dir del Manzoni, che, «emancipatosi dalle vecchie regole, ei procede per la nuova via con passi così fermi e tranquilli, che si potrebbero trarre nuove regole dalla sua opera».
[136] «Il Carmagnola è il primo saggio del suo autore, e tante lodi non ottenute da verun poeta, da Omero inclusivamente sino a’ dì nostri, essendo esaltate dalla celebrità e dal genio del panegirista, sembrano più che troppe, non diremo a rendere il furore del poeta più che poetico, ma ad avvezzar lui stesso ad elogj, che rarissimi, se non forse gli amici suoi, saranno in buona coscienza disposti a prodigargli; ed egli, accettandoli in buona fede, finirebbe col farsi ridicolo al mondo... La visione potrebbe essere volontariamente procurata dal critico tedesco in grazia di un sistema letterario; ed infatti questa è la ragione ostensibile, esposta da lui nel principio del suo articolo». Foscolo, Della nuova scuola drammatica (Opere, IV, 304-5).
Questo volume contiene, e, quando è stato possibile, nell’ordine che volle l’autore:
a) tutti quei componimenti in versi, che furono dal Manzoni stesso ristampati tra le sue Opere varie, nel 1845 (le due Tragedie, gl’Inni sacri e le Strofe per una prima comunione, il Cinque maggio), e quegli altri due (l’ode Marzo 1821 e il frammento di canzone sul Proclama di Rimini) ch’ei pubblicò a parte nel 1848, e aggiunse poi, nel 1860, all’antico volume delle Opere varie;
b) quelli che furono già da lui o da altri pubblicati, ma ch’egli non più accolse tra le sue poesie (il carme In morte dell’Imbonati, l’Urania, l’Ira d’Apollo, gli sciolti A Parteneide, il sonetto al Lomonaco, il frammento dell’inno Ai Santi, l’epigramma pel ritratto del Monti);
c) due delle sue poesiole giovanili, che hanno, più che altro, valore di documento biografico (il sonetto ove il poetino traccia il suo ritratto, e l’idillio Adda);
d) i pochi versi latini composti da vecchio (l’epigramma Volucres e i distici al Ferrucci).
Un posticino a parte è toccato all’abbozzo di canzone Aprile 1814, che ho creduto meglio inserire nel mio discorso intorno al Decennio dell’operosità poetica del Manzoni (qui avanti, pag. LXXVIII ss.).
Le altre poesie giovanili (i Sermoni, le Odicine erotiche e pariniane, il Trionfo della Libertà ecc.), delle quali ebbi già occasione di toccare nell’altro mio scritto su Gli anni di noviziato poetico del Manzoni (pag. XIV ss., XXV ss.), premesso[clxvi] al volume I di queste Opere, saranno raccolte in un volume posteriore.
Non ho mancato, s’intende, di riprodurre, a illustrazione dei diversi componimenti, pur quelle Prefazioni o Note, Lettere critiche o Notizie storiche, onde il Manzoni, o fin dalla prima edizione o nelle successive ristampe, li volle accompagnati. Ho invece tenute in serbo per un altro volume le più ampie dissertazioni di critica, o storica (il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) o letteraria (il Discorso sul Romanzo storico e la Lettera sul Romanticismo) o filosofica (il Dialogo dell’Invenzione), le quali stanno da sè, e possono meglio aggrupparsi con la Storia della Colonna Infame e con gli scritti sulla Lingua italiana.
Sennonché—e questa è forse la principale tra le singolarità che distinguon la nostra da tutte le precedenti edizioni —al testo definitivo dei diversi componimenti, quale lo divulgò il poeta, noi abbiam fatto seguire, in appendice, anche gli abbozzi rinvenuti tra le sue carte. Essi son documenti di straordinaria importanza, che ci permettono di penetrare più a dentro nel pensiero, sempre profondissimo, del Manzoni. Si tratta non di semplici brutte copie o di scarabocchi informi, bensì di frammenti spesso molto estesi e lavorati con cura, dove il più delle volte il poeta si rivela più schiettamente e risolutamente ribelle. Perchè poi li mettesse da parte o li lasciasse incompiuti (non li distrusse però; e questo noto contro quei critici troppo pudichi, che si scandalizzano di codeste pubblicazioni postume, a parer loro per lo meno indiscrete e dannose!), sarà istruttivo e gradevole indagare.[137]
In un mio discorso del 1894, per inaugurare il nuovo anno scolastico della R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, ebbi già a dare un modesto saggio del grande vantaggio che dall’esame di quelle pagine si possa cavare per intendere a pieno la riforma drammatica tentata dal Manzoni. Il quale, a buon conto, se è il maggiore, o l’uno dei due maggiori nostri prosatori, è anche, insieme con l’Alfieri, uno dei due nostri tragediografi più insigni. E mi sia lecito ricordare che di quelle mie osservazioni si dichiarò assai compiaciuto, in uno degli arguti suoi articoletti della Coltura, il primo, per tempo e per merito, dei manzoniani d’Italia, il Bonghi; e la sola volta che a me toccò la fortuna d’intrattenermi con lui di letteratura—eravamo andati, col D’Ovidio, a visitarlo nella tranquilla villetta di Torre del Greco, dove di lì a qualche mese quella magnifica fiamma d’intelligenza si spense—, ei mi riparlò ancora dei mirabili abbozzi del Manzoni, su’ quali egli aveva invano richiamata l’attenzione degli studiosi.[138] Questi avevan trovato più comodo continuare a far, come si dice, dell’accademia pur intorno al poeta ch’ebbe più in uggia l’accademia; e gli ortodossi stracchi non riuscivano meno stucchevoli, con le loro rifritture, dei pappagalli eterodossi.
Un’altra singolarità della nostra edizione riguarda il testo. Dei componimenti ripubblicati dall’autore abbiamo, s’intende, ridato scrupolosamente il testo da lui fissato nel 1845, e in[clxviii] qualche minimo particolare ricorretto nel 1870; ma, a piè di pagina, ho altresì segnate le varianti delle prime edizioni.[139] Chi vorrà gettarvi un’occhiata, troverà che metteva ben conto di rifare per le opere poetiche quel lavoro di confronto che già altri ha compiuto pel Romanzo. Le osservazioni sarebbero molte e curiose, e qualcuna n’ho ben accennata qua e là nelle note; ma qui preferisco, per discrezione di editore, lo spigolare al mietere.
Per la più parte, i mutamenti dell’autore riguardano l’ortografia. Anche alle opere poetiche egli avrebbe voluto infliggere una buona risciacquatura in Arno; ma il Conte di Carmagnola e il Re Adelchi non gli si mostraron così docili come i due sposi del contado di Lecco. Il linguaggio della poesia—soprattutto poi in Italia, dov’è ancor vegeta una tradizione poetica nobilissima e ininterrotta—ha pretese che quello della prosa o conosce poco o non conosce affatto. [140] E lo stesso inesorabile scrittore che, in grazia dell’uso toscano vivente, rinunzia, nel capolavoro prosastico, al benefizio della varietà e della convenienza armonica, e muta, per esempio, in tra quanti mai fra o in fra gli erano altra volta caduti dalla penna, [141] può trovarsi costretto a lasciar correre, nelle tragedie,[clxix] un «fra tante ambasce» (pag. 114), un «ella è, fra tante,... una fallita impresa» (233), un «in fra i perigli» (240 e 249). Vero è che, quando è preso dal dèmone della pedanteria, anche qui ei si sente il coraggio di far esclamare al povero Conte: «Non troverò tra tanti prenci... un sol» (189); ma si direbbe che codesto sforzo faccia sì che altrove ei poi dormicchi, come pur avveniva a «quel sommo d’occhi cieco... Che per la Grecia mendicò cantando». E allora riescono a sgattaiolare qualche «fra di noi» (30) o «fra noi» (41, 203, 234) o «fra loro» (180), che senza scandalo sarebbero potuto diventare altrettanti tra. E può esser curioso notare come nel verso (41):
ei s’affretti bensì a cancellare l’in, ma non trasformi in tra il fra; come pur fece, ad esempio, nell’altro verso (45), dove prima aveva scritto: «in fra costor chiarito...».
Insomma, nel Romanzo, lo scrittore poteva sbizzarrirsi più a suo agio; e perfino, com’ebbe già ad accorgersi il D’Ovidio,[142] sacrificare l’aritmetica alla sua norma linguistica e all’armonia dello stile, sostituendo al primitivo «fra tre o quattro confidenti» un «tra quattro o cinque confidenti» (Pr. Sposi, cap. IX, pag. 137 della nostra edizione).[143] Ma in poesia, specialmente in una poesia già divenuta celebre e già sulle bocche di tutti, non era ugualmente agevole abbandonarsi a simili bizzarrie; e manomettere a cuor leggiero, poniamo, i due versi dei due Cori dell’Adelchi (75 e 89):
A ogni modo, dovunque può lo zelante apostolo della fiorentinità della lingua porta, in questi lavori giovanili d’avanti[clxx] la sua conversione filologica, il ferro e il fuoco purificatore. Fa ogni sforzo per iscrostare la pàtina arcaica, o magari lavare la muffa dell’ortografia stantìa. Così, tutte le noje proprj principj, i piccioli picciola, gli eguali eguaglianza, i verisimili e verisimiglianza, le obbiezioni, le contraddizioni, le quistioni, le voci del verbo obbedire, le forme verbali debba e debbono, chieggio e veggio, cangio e sieno, i vi era, e i si è, i quei, i dei dai nei, sui o su di un, fra i ecc., son diventate noie, propri, principi, piccolo e piccola (una «picciola appendice» è rimasta, p. 154), uguale e uguaglianza, verosimile e verosimiglianza, obiezione, contradizione (nel Romanzo tornò a «contraddizione» e a «contraddire»!), questione, ubbidire (nella prima stampa si oscillava tra le due forme, cfr. p. 227 e 237), deva e devono, chiedo e vedo, cambio e siano, ci era e il semplice è (cfr. p. 156), que’, de’ da’ ne’, su’ o su un, tra’. Non si riesce a capire se, costretto com’era dalle esigenze metriche a mantenere intatti gli havvi e gli hàvvene, ei preferisse scriver quelle voci con l’h iniziale, o senza. Nell’Adelchi rimase «havvi altra via» (25), ma altrove il primitivo «via non havvi» (46) vi divenne «via non avvi»; e «avvi» rimase immutato nel Carmagnola (191): «avvi una via». Qui stesso però mutò in «havvene» due «avvene» successivi (243), e un altro in «haccene» (225). Che forse, con quell’h onoraria, volle distinguer la voce sdrucciola del verbo «avere» dalla piana, e petrarchesca («Se da le proprie mani Questo n’avven....»), del verbo «avvenire»?
Un tempo, era piaciuto anche a lui (come pur ora forma la delizia degli scrittori novellini, e qualche volta altresì di quelli che non son più, come Dante direbbe, «novi augelletti»!) disarticolare certi nessi che l’uso fiorentino impone; e scrisse «su l’affannoso», «su la pupilla», «su le sciolte redini» (86, 87), «su le fronde» (77), «su la tua fortuna» (98;, «su la tua fede» (104), «su le chiome» (110), «su l’armi» (184), e fino in una didascalìa «su le mura» (89). Poi reputò meglio non separare, neanche in versi, quod Deus coniunxit, e ripristinò: sulla, sulle ecc., e nella ristampa del 1870 anche «sull’armi». Dove prima aveva scritto «in[clxxi] su l’altar» (41), «in sul mattin» (46)..., dopo scrisse «su l’altar» e «sul mattin»; dov’era «in su lo scudo» (91), mise «in sullo scudo»; lasciò intatto «spargendo in sulla via» (256); e non osò toccare, pur nel Coro per Ermengarda dove tanti su la divennero sulla, il verso «Calata in su la gelida». Invece, coi composti di con usò il procedimento inverso; e dove era scritto: «colla spada» (200), «coll’occhio» (201 e 242), «cogli amici» (218), «cogli altri» (221), più tardi sostituì: «con la spada», «con l’occhio», «con gli amici». Vero è che anche prima non s’era peritato, in un certo luogo (200), di disgiungere: «con gli eserciti».
Circa al povero dittongo uo, il D’Ovidio s’era già accorto delle fortunate contradizioni in cui il Manzoni era caduto ritoccando le tragedie. All’imprigionato Carmagnola egli non risparmia la pena di correggersi: «Ah! tu vedrai Come si mor!» (251), «Oh perchè almeno Lunge da lor non moio!... Che val di novo Affacciarsi alla vita...?» (256), o peggio ancora, con ridicolo equivoco, «Allor che Dio sui boni Fa cader la sventura...» (257). Nè alla infelicissima moglie di lui risparmia la stonata affettazione: «io moio di dolor!» (258). Tuttavia lasciò indisturbata la sentenza: «i buoni mai Non fur senza nemici» (192). Gli è che, purtroppo, codesti rari atti d’indulgenza appaion quasi sempre un semplice effetto di distrazione: giacchè, non paia soverchio l’insistervi, anche un così oculato e attento scrittore dà non scarse prove di saper distrarsi. E allora gli sfuggono, oltre le forme dianzi rilevate, un «ajuto» (232), qualche «contra» (176, 192), degli «anco» (216, 258), dei «sovra» (106, 247 e cfr. 209)...
Del terribile egli non sempre qui gli riesce di far lo scempio che nel Romanzo. E se, per esempio, ottiene che un senatore veneziano dica (237): «Giustizia troverà... Ma se ricusa, se sta in forse» invece di «Giustizia ei troverà... Ma se ricusa, s’egli indugia», non può togliergli di bocca, iniziando il discorso: «Ov’egli Pronto ubbidisca». E ancora, se nella Prefazione al Carmagnola (155) riesce a fare a meno dell’inviso pronome, sostituendo «quando è» a «quando egli è»; nella tragedia si vede costretto, se vuol cancellare un incomodo «dunque», ad accettar il soccorso[clxxii] che gli offre proprio quel pronome. Dove prima faceva dire dal Conte (214):
dopo, ha modificato:
Anche quanto agli arcaismi il poeta si sente le mani legate. A volte, la correzione è agevole; come quando muta «e tostamente un guardo» in «e subito uno sguardo» (184), ovvero quando trasforma le frasi, che per di più si seguivano a breve distanza (91): «E guata al lume della luna», «Perchè così mi guati Attonito?...», nelle altre: «E osserva al lume della luna», «Perchè così mi guardi Attonito?...». Ma nel primo Coro dell’Adelchi (75) gli era convenuto meglio non toccare il verso:
Come pure non toccò «le gioie dei prandi festosi», contento ad accorciar gl’j di «gioje» e di «prandj»; «t’aiti Quel tuo figliuol» (41), «nosco trarrem Gerberga» (72), «se quandunque mentirò» (90), «le grazie a lui rendute» (49), «ricòrdivi di me» (260), «del solio indegna» (65; mentre altrove: «Quand’egli osò di contrastarmi il soglio?», p. 21, e «Quei che il crollante Soglio reggere han fermo», p. 96); e tante altre forme e frasi di uso o di sapore più o men vieto,[145] fino a quell’ammuffito e curioso «E comple?» (69),[clxxiii] che un critico maligno ebbe subito a rimproverargli, senza che un giudice ben altrimenti equo e gentile, «per ammenda tarda, ma dolce ancor», ne lo redarguisse.[146]
Rari sono i ritocchi un po’ più essenziali. Dal diacono Martino, nell’Adelchi (II, 3; p. 45), aveva fatto narrare, equivocando sulla topografia:
Il marchese Cesare d’Azeglio lo avvertì dello svarione, ed egli corresse: «alla manca piegai». L’equivoco, dichiarò nella famosa lettera del 22 settembre 1823, «è nato dall’aver io... dimenticato affatto che in quel momento io rappresentava il viaggiatore tornato indietro dalle Chiuse verso l’Italia. Non badai a quella sua situazione accidentale, e lo immaginai rivolto con la persona verso il campo di Carlomagno, dove, per dir così, guardavano i suoi disegni».
Qualche verso aggiunse, per giovare alla chiarezza o all’armonia (cfr. p. 52, 103, 251); qualche altro cancellò, che reputò forse ozioso (cfr. p. 65); ne modificò felicemente altri (cfr. p. 96, 111). Notevole, per chi ricordi quale largo uso della parola orma, rimastagli forse nelle orecchie dalle letture del Parini e del Monti, il Manzoni abbia fatto, la correzione della strana frase cadutagli dalla penna (91): «se un’orma, se un respiro intendi», che richiama il melodrammatico «sento l’orma dei passi spietati». Sostituì garbatamente: «se un passo, se un respiro ascolti».
A ciascun componimento, o gruppo di componimenti, ho premesso una noticina bibliografica; la quale, davanti alla Lettre à m. C***, ha assunte le proporzioni d’una vera e propria prefazione. Ed ivi, come nel discorso che precede, mi son largamente giovato delle interessantissime lettere scritte dal Manzoni al Fauriel, e pubblicate dal De Gubernatis.[clxxiv] Non so se le mende innumerevoli del testo francese siano da attribuire a chi ebbe a ricopiarle o alla tipografia fiorentina; ma a buon conto mi son creduto lecito, e vorrei quasi dire in dovere, di ripubblicarne i brani, che mi veniva fatto di riferire, secondo la corretta ortografia della mirabile Lettera (mirabile anche per la squisita forma francese) Sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia.
Torriggia, 24 settembre 1906
Michele Scherillo.
[137] Nella lettera al Fauriel del 12 settembre 1822, il Manzoni ancora discorreva di modificazioni apportate all’Adelchi, in corso di stampa. «J’ai fait une addition», scriveva, «de quelques vers à la dernière scène de l’acte 2ᵉ, sur l’avis de Visconti, qui a observé que ce qui a dû se passer dans l’intervallo du 2ᵉ au 3ᵉ acte n’est pas assez clairement, ou au moins pas assez tôt, expliqué, au commencement de celui-ci. Il a prétendu, je crois avec raison, qu’en annonçant d’avance cet effet d’une marche qui a l’air d’une retraite, on préparerait mieux le lecteur à le comprendre sans fatigue dès l’ouverture, du 3ᵐᵉ acte». E mandò il brano da «Intento, Dalle vedette sue....» fino a «Risvegliator non aspettato» (p. 52). Soggiungeva: «Enfin, dans la scène 7ᵉ du 3ᵉ acte, cette description du petit combat d’Anfrido m’a paru par trop embrouillée, et j’ai tâché de la rendre un peu plus claire en changeant depuis Confusi vers 3ᵐᵉ jusqu’à Arrenditi, ainsi que vous trouverez ci-contre». E trascrisse l’altro brano (p. 66), da «Gran parte Gettan d’arme....» fino ad «Arrenditi, Gli gridiamo....».
[138] Quegli abbozzi, quali il Bonghi li pubblicò, formicolano, è vero, di errori e di sviste d’ogni genere; ma non sarebbe stato arduo coreggerli o scansarli. Comunque, la colpa del Bonghi sta principalmente nell’essersi egli troppo fidato nelle copie e nelle collazioni, eseguite da chi non aveva nè l’occhio nè la mano nè la preparazione per lavori di tal genere. Come spiegare altrimenti (basta un esempio per tutti!) ch’ei stampi, nel primo getto della Pentecoste, «Oh scendi, autor di Vergini.....», senza accorgersi che ivi debba dire «altor di Vergini»? (Cfr. pag. 482).
[139] Do anche le varianti della Prefazione e delle Notizie storiche che illustrano Il Conte di Carmagnola; non così quelle delle Notizie storiche premesse all’Adelchi, perchè da principio m’era parso che non ne francasse la spesa.
[140] Preziosa è la dichiarazione che il poeta si vede costretto a fare in una nota alle Notizie storiche premesse al Carmagnola, a proposito di Nicolò Piccinino. Dice (pag. 177): «Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio....». Dunque il verso ha «una dignità» che la prosa non conosce, e che va rispettata! Nel primo getto il Manzoni non s’era fatto riguardo d’infilzare in un verso (pag. 287): «Il Pergola, il Torello, il Piccinino». Che gli abbia poi incusso paura il ricordo dei «Salamini» dell’Ajace foscoliano?
[141] Il cangiamento precisamente opposto venne compiendo il Parini nel ritoccare i suoi poemetti: dove prima aveva scritto tra, venne sostituendo fra. E s’intende: agl’intenti del poeta popolano rispondeva meglio render sempre più ricercata e preziosa la forma del Giorno; come ai propositi del poeta di sangue gentile si confaceva lo sfrondare il suo stile d’ogni futile pompa.
[142] Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua; 4ª ed.. Napoli, Pierro, 1895, pag. 102.
[143] Poco avanti, a pag. 138, non dubitò tuttavia di correggere: «tra loro tre».
[144] Anche nel Romanzo (cap. II, pag. 26) fa dir da Perpetua: «Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?». Ma in tutto il libro non ce n’è che un altro solo di codesti egli pleonastici, nel cap. XXIII, pag. 327: «E questa consolazione.... vi par egli ch’io dovessi provarla...?».
[145] Nel Coro dell’atto III dell’Adelchi, in luogo di «valli petrose» (75), il Manzoni aveva, nel primo getto, scritto (144) «valli rigose», che vuol dire «valli nel cui fondo scorre un rivo», ovvero «irrigue». Il Bonghi, non so perchè, v’appose un segno d’interrogazione (?).
[146] Cfr. D’Ovidio, Le correzioni ecc., p. 210 ss.
L’autore non avrebbe certamente pensato da sè a raccogliere in un volume questi scritti, già quasi tutti da lui pubblicati separatamente, in diversi tempi. Chè, mentre le prime edizioni giacevano in gran parte, e alcune da qualche anno, sparse e dimenticate presso i librai, o ammontate in casa sua, gli sarebbe parso un pensiero troppo strano quello d’offrire al pubblico tutt’in una volta, tanti lavori che, a uno a uno, il pubblico non aveva voluti. Ma vedendo che ai contraffattori, gente, per dir la verità, più abile e più fortunata, la cosa era riuscita, ha creduto che non sarebbe temerità il tentar se potesse riuscire anche a un’edizione riconosciuta da lui. Non avrebbe però avuto, come loro, il coraggio di riprodurre questi lavori tal e quali gli erano sfuggiti dalle mani la prima volta; e ha quindi dovuto ritoccarli, non già con la pretensione stravagante di metterli in una buona forma; ma per levarne almeno quelle deformità che, rivedendoli dopo tanto tempo, gli davan più nell’occhio, e alle quali, insieme, gli pareva di poter con facilità e con certezza sostituir qualcosa di meno male. Vuol dire che non s’è potuto ritoccar quasi altro che le prose; giacchè i versi, se è più facile farli male, è anche più difficile raccomodarli. Ha poi ridotti i lavori suddetti a quelli che avrebbe voluti ristampare,[2] come meno indegni di morire a poco a poco, se il pensiero di ristamparli fosse potuto nascere a lui. Dimanierachè questa raccolta, col romanzo intitolato I Promessi Sposi, dell’edizione riveduta da lui, e con l’opuscolo aggiuntovi (Storia della Colonna Infame), comprende tutti gli scritti che riconosce per suoi, e nella forma che li riconosce. Finalmente ha creduto di poter profittare di questa occasione per arrischiare qualche scritto inedito, che, uscendo solo, avrebbe, di certo, avuta la sorte degli altri, cioè di morir nascendo; e, questa volta, senza la probabilità d’esser resuscitato da’ contraffattori; perchè l’autore, dovesse anche passar per ingrato e per malavveduto, intende di valersi oramai dell’aiuto delle leggi e delle convenzioni, per preservarsi dal loro.
Milano, maggio 1845.
[147] Prefazione al volume: «Opere varie | di | Alessandro Manzoni. || Edizione riveduta dall’autore. || Milano | Dalla tipografia di Giuseppe Redaelli. | 1845.».
NOTA.—La prima edizione è del 1822, Milano, per Vincenzo Ferrario. Ristampata varie volte da altri, in Italia e all’estero (è quasi doveroso segnalare l’accuratissima edizione: Opere poetiche | di | Alessandro Manzoni | con | prefazione | di | Goethe. || Jena | per Federico Frommann | 1827.), il Manzoni la ristampò per suo conto, con qualche ritocco, nel 1845, nel volume delle Opere varie; e da ultimo, nel 1870. Seguiamo queste due ristampe autentiche, segnando a pie’ di pagina le varianti della prima edizione. I ritocchi, anche minimi, d’un così diligente e minuzioso stilista, non ci paiono privi d’interesse. Tuttavia, questa è la prima volta, crediamo, ch’essi siano tutti rilevati e inventariati. Ricordiamo però che delle incoerenze fra la posteriore teoria sulla lingua professata e propugnata dal Manzoni, e la lingua da lui adoperata nei componimenti poetici, ebbe già a discorrere, succintamente ma con l’usato acume e la singolare dottrina, il D’Ovidio (Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua; 4ª ediz.; Napoli, Pierro, 1895; pag. 208-10)
Scherillo.
ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI
CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA
POTÈ SERBARE UN ANIMO VERGINALE
CONSACRA QUESTO ADELCHI
L’AUTORE
DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO
E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA
MEMORIA DI TANTE VIRTÙ.
Nell’anno 568, la nazione longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì dalla Pannonia, che abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila Sassoni e d’uomini d’altre nazioni nordiche, scese in Italia, la quale allora era soggetta agl’imperatori greci; ne occupò una parte, e le diede il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la residenza reale.(1) Con l’andar del tempo, i Longobardi dilatarono in più riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del regno, o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà dell’ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l’esarcato di Ravenna tenuto ancora dall’Impero, come pure alcune città marittime della Magna Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli imperatori; ma la loro autorità vi si andava restringendo e indebolendo di giorno in giorno, e vi cresceva quella de’ pontefici.(2) I Longobardi fecero, in diversi tempi, delle scorrerie su queste terre; e tentarono anche d’impossessarsene stabilmente.
754.—Astolfo, re de’ Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il rimanente. Il papa Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a Pipino, che unge in re de’ Franchi. Pipino scende in Italia; caccia Astolfo in Pavia, dove lo assedia, e, per intercessione del papa, gli accorda un trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città occupate.
755.—Ripartiti i Franchi, Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia Roma, e ne devasta i contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino: questo scende di nuovo: Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell’Alpi: Pipino le supera, e spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si presentarono a Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a pregarlo, con promesse di gran doni, che rimettesse all’Impero le città dell’esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose che non aveva combattuto per servire nè per piacere agli uomini, ma per divozione a san Pietro, e per la remissione de’ suoi peccati; e che, per tutto l’oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a san Pietro ciò che una volta gli aveva dato.(3) Così fu troncata brevemente nel fatto quella curiosa questione, sul diritto della quale s’è disputato fino ai nostri giorni inclusivamente: tanto l’ingegno umano si ferma con piacere in una questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a patti, e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia, e mandò al papa la donazione in iscritto.
756.—Muore Astolfo: Desiderio, nobile di Broscia,(4) duca longobardo, aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana, dove si trovava, speditovi da Astolfo,(5) e viene da essi eletto re. Ratchis, quel fratello d’Astolfo, ch’era stato re prima di lui, e s’era fatto monaco, ambisce di nuovo il regno; esce dal chiostro, fa raccolta d’uomini, e va contro Desiderio. Questo ricorre al papa; il quale, fattogli promettere che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non ancora rilasciate,(6) consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce; e Desiderio rimane re de’ Longobardi.
Non si sa precisamente in qual anno, ma certo in uno de’ primi del suo regno, Desiderio fondò, insieme con Ansa sua moglie, il monastero di san Salvatore, che fu poi detto di santa Giulia, in Brescia: Ansberga, o Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima badessa.(7)
758.—Alboino, duca di Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si ribellano a Desiderio, mettendosi sotto la protezione di Pipino. Desiderio gli attacca, gli sconfigge, fa[9] prigioniero Alboino, e mette in fuga Liutprando.(8) In quest’anno, o nel seguente, fu associato al regno il figliuolo di Desiderio, nelle lettere de’ papi e nelle cronache chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici, Adelchis.
Nell’anno 768 morì Pipino: il regno de’ Franchi fu diviso tra Carlo e Carlomanno suoi figli. Le lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III, successori di Stefano II, sono piene di lamenti e di richiami contro Desiderio, il quale non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove occupazioni.
770.—Bertrada, vedova di Pipino, desiderosa di stringer legami d’amicizia tra la sua casa e quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due matrimoni: di Desiderata o Ermengarda,(9) figlia di Desiderio, con uno de’ suoi figli, e di Gisla sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive ai re Franchi la celebre lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal contrarre un tal parentado.(10) Ciononostante, Bertrada condusse seco in Francia Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò.(11) Il matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.
771.—Carlo, non si sa bene per qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa Ildegarde, di nazione Sveva.(12) La madre di Carlo, Bertrada, biasimò il divorzio; e questo fu cagione del solo dissapore che sia mai nato tra loro.(13) Muore Carlomanno: Carlo accorre a Carbonac nella Selva Ardenna, al confine de’ due regni: ottiene i voti degli elettori: è nominato re in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi alla morte di Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co’ suoi due figli, e con alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio. Carlo ne fu punto sul vivo.(14)
772.—A Stefano III succede Adriano. Desiderio gli spedisce un’ambasciata per chiedergli la sua amicizia: il nuovo papa risponde che desidera di stare in pace con quel re, come con tutti i cristiani; ma che non vede come possa fidarsi d’un uomo il quale non ha mai voluto adempir la promessa, fatta con giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le appartiene. Desiderio invade altre terre della Donazione.(15)
772-774.—Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ai quali prese Eresburgo (secondo alcuni,(16) Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per vendicarsi di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d’indur questo a incoronar re de’ Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi barbari, il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò, come doveva, alienissimo dal secondare un tal disegno; del resto, disse d’esser pronto ad abboccarsi col re, dove a questo fosse piaciuto, quando però fossero state restituite alla Chiesa le terre occupate.(17) Desiderio ne invase delle altre, e le mise a ferro e a fuoco.(18) In tali angustie, e dopo avere invano spedita un’ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano mandò un legato a chieder soccorso a Carlo.(19) Poco dopo, arrivarono a Roma tre inviati di questo, Albino suo confidente,(20) Giorgio vescovo, e Wulfardo abate, per accertarsi se le città della Chiesa erano state sgomberate, come Desiderio voleva far credere in Francia. Il papa, quando partirono, mandò in loro compagnia una nuova ambasciata, per fare un ultimo tentativo con Desiderio; il quale, non potendo più ingannar nessuno, disse che non voleva render nulla.(21) Con questa risposta i Franchi se ne tornarono a Carlo, il quale svernava in Thionville, dove gli si presentò pure Pietro, il legato di Adriano.(22)
Circa quel tempo, dovette il re de’ Franchi ricevere una men nobile ambasciata, inviatagli segretamente da alcuni tra’ principali longobardi, per invitarlo a scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno, promettendogli di dargli in mano Desiderio e le sue ricchezze.(23)
Carlo radunò il campo di maggio, o, come lo chiamano alcuni annalisti, il sinodo, in Ginevra; e la guerra vi fu decisa.(24) S’avviò quindi con l’esercito alle Chiuse d’Italia. Erano queste una linea di mura, di bastite e di torri, verso lo sbocco di Val di Susa, al luogo che serba ancora il nome[11] di Chiusa. Desiderio le aveva ristaurate e accresciute;(25) e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di Carlo vi trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino.(26) Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che Adelchi, robusto, come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia una mazza di ferro, gli appostava dalle Chiuse, e piombando loro addosso all’improvviso, co’ suoi, percoteva a destra e a sinistra, e ne faceva gran macello.(27) Carlo, disperando di superare le Chiuse, nè sospettando che ci fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già stabilito di ritornarsene,(28) quando arrivò al campo de’ Franchi un diacono, chiamato Martino, spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo un passo per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de’ successori di Leone su quella sede.(29)
Mandò Carlo per luoghi scoscesi una parte scelta dell’esercito, la quale riuscì alle spalle de’ Longobardi, e gli assalì: questi, sorpresi dalla parte dove non avevano pensato a guardarsi, e essendoci tra loro de’ traditori, si dispersero. Carlo entrò allora col resto de’ suoi nelle Chiuse abbandonate.(30) Desiderio, con parte di quelli che gli eran rimasti fedeli, corse a chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona, dove condusse Gerberga co’ figliuoli.(31) Molti degli altri Longobardi sbandati ritornarono alle loro città: di queste alcune s’arresero a Carlo, altre si chiusero e si misero in difesa. Tra quest’ultime fu Brescia, di cui era duca il nipote di Desiderio, Poto, che, con inflessione leggiera, e conforme alle variazioni usate nello scrivere i nomi germanici, è in questa tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo suo fratello, vescovo della stessa città, si mise alla testa di molti nobili, e resistette a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare quella città. Più tardi, il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo esercitava contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i due fratelli ad arrendersi.(32)
Carlo mise l’assedio a Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie, Ildegarde; e vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto, andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i limini apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio liberatore.(33) L’assedio di[12] Pavia durò parte dell’anno 773 e del seguente: non credo che si possa fissar più precisamente il tempo, senza incontrar contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al caso nostro, e forse insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto Pavia, i Longobardi, stanchi dall’assedio, gli apriron le porte.(34) Desiderio, consegnato da’ suoi Fedeli al nemico,(35) fu condotto prigioniero in Francia, e confinato nel monastero di Corbie, dove visse santamente il resto de’ suoi giorni.(36) I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi,(37) e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando si presentasse sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerberga gli andò incontro co’ figli, e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò Verona, che s’arrese; e di là si rifugiò a Costantinopoli, dove, accolto onorevolmente, si fermò: dopo vari anni, ottenne il comando d’alcune truppe greche, sbarcò con esse in Italia,(38) diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso.(39)
Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo anacronismo, e l’altro d’aver supposta Ansa già morta prima del momento in cui comincia l’azione (mentre in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s’è cercato d’accomodare i discorsi de’ personaggi all’azioni loro conosciute, e alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d’un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d’Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici, con un’infelicità, che dal più dificile e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall’autore.
Atto I, scena II, verso 149.—Il segno dell’elezione de’ re longobardi era di mettere loro in mano un’asta.(40)
Scena III, verso 212.—Alle giovani longobarde si tagliavano i capelli, quando andavano a marito: le nubili sono dette nelle leggi: figlie in capelli.(41) Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch’erano anche chiamate intonse; e vuole che di qui sia venuta la voce tosa, che vive ancora in qualche dialetto di Lombardia.(42)
Scena V, verso 335.—Tutti i Longobardi in caso di portar l’armi, e che possedevano un cavallo, eran tenuti a marciare: il Giudice poteva dispensarne un piccolissimo numero.(43)
Atto III, scena I, verso 78.—Ne’costumi germanici, il dipendere personalmente da’ principali era, già ai tempi di Tacito, una distinzione ambita.(44) Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il servizio domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza onorevole, e di devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa condizione erano da’ Longobardi chiamati Gasindi: ne’ secoli posteriori invalse il titolo domicellus; e di qui il donzello, che è rimasto nella parte storica della lingua. Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova ugualmente ne’ secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze che hanno que’ tempi con quelli che Vico chiamò della barbarie seconda. Patroclo, ancor giovinetto, dopo avere ucciso, in una rissa, il figlio d’Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in casa del cavalier Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al servizio d’Achille, suo figlio.(45)
Scena IV, verso 212.—L’omaggio si prestava dai Franchi in ginocchio, e mettendo le mani in quelle del nuovo signore.(46)
Atto IV, scena II, verso 221.—Una delle formalità del giuramento presso i Longobardi, era di metter le mani su dell’armi, benedette prima da un sacerdote.(47)
Coro nell’atto IV, st. 7.—Carlo, come i suoi nazionali, era portato per la caccia.(48) Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di Virgilio, come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una caccia di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando da un’altura.(49)
Coro suddetto, st. 10.—Si dilettava anche molto dei bagni d’acque termali; e perciò fece fabbricare il palazzo d’Aquisgrana.(50)
Il vocabolo Fedele, che torna spesso in questa tragedia, c’è sempre adoprato nel senso che aveva ne’ secoli barbari, cioè come un titolo di vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per evitar l’equivoco che farebbe col senso attuale, non s’è potuto far altro che distinguerlo con l’iniziale grande. Drudo, che aveva la stessa significazione, ed è d’evidente origine germanica,(51) riuscirebbe più strano, essendo serbato a un senso ancor più esclusivo. Nella lingua francese, il fidelis barbarico s’è trasformato in féal, e c’è rimasto; e le cagioni della differente fortuna di questo vocabolo nelle due lingue, si trovano nella storia de’ due popoli. Ma c’è pur troppo, tra quelle così differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi hanno conservata nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di sangue; e a forza di lacrime e di sangue, è stata cancellata dal nostro.
(1) Paul Diac., De gestis Langob., lib. 2.
(2) Una descrizione più circostanziata delle divisioni dell’Italia in quel tempo ci condurrebbe a questioni intricate e inopportune. V. Murat., Antich. Ital., dissert. seconda.
(3) Affirmans etiam sub juramento, quod per nullius hominis favorem sese certamini sæpius dedisset, nisi pro amore Beati Petri, et venia delictorum; asserens et hoc, quod nulla eum thesauri copia suadere raleret, ut quod semel Beato Petro obtulit, auferret. Anastas. Biblioth.; Rer. It., t. III, p. 171.
(4) Cujus (Brixiæ) ipse Desiderius nobilis erat. Ridolf. Notar., Hist. ap. Biemmi, Ist. di Brescia (Del secolo XI).—Sicardi Episc.; Rer. It., t. VII, p. 577, e altri.
(5) Anast., 172.
(6) Sub jurejurando pollicitus est restituendum Beato Petro civitates reliquas, Faventiam, Imolam, Ferrariam, cum eorum finibus, etc. Steph., Ep. ad Pipin.; Cod. Car. 8.
(7) Anselperga sacrata Deo Abbatissa Monasterii Domini Salvatoris, quod fundatum est in civitate Brixia, quam Dominus Desiderius excellentissimus rex, et Ansam precellentissimam reginam, genitores ejus, ab fundamentis edificaverunt.... Dipl. an. 761; apud Murat., Antiquit. Italic., dissert. 66, t. V, p. 499.
(8) Paul., Ep. ad Pip.; Cod. Car. 15.
(9) Le cronache di que’ tempi variano perfino ne’ nomi, quando però li danno.
(10) Cod. Carol., Epist. 45.
(11) Berta duxit filiam Desiderii regis Langobardorum in Franciam. Annal. Nazar. ad h. an.; Rer. Fr., t, V, p. 11.
(12) Cum, matris hortatu, filiam Desiderii regis Langobardorum duxisset uxorem, incertum qua de causa, post annum repudiavit, et Hildegardem de gente Suavorum præcipuæ nobilitatis feminam in matrimonium accepit.—Karol, M, Vita per Eginhardum, 18. (Scrittore contemporaneo).
(13) Ita ut nulla invicem sit exorta discordia, præter in divortio filiæ Regis Desiderii, quam, illa suadente, acceperat. Eginh., in Vita Kar., ibid.
(14) Rex autem hanc eorum profectionem, quasi supervacuam, impatienter tulit. Eginh., Annal. ad h. annum.
(15) Anast., 180.
(16) Hegevisch, Hist. de Charlem., trad. de l’allem., p. 116.
(17) Anast., 181.
(18) Id., 182.
(19) Id., 183.
(20) Albinus deliciosus ipsius regis. Anast., 184. V. Mur., Ant. It., diss. 4.
(21) Asserens se minime quidquam redditurum. Anast., ibid.
(22) Annal. Tiliani, Loiseliani, Cronac. Moissiacense, ed altri, nel t. V Rer. Franc. In generale, gli annalisti di que’ secoli che noi chiamiamo barbari, sanno, nelle cose di poca importanza, copiarsi l’uno con l’altro, al pari di qualunque letterato moderno: s’accordano poi a maraviglia nel passar sotto silenzio ciò che più si vorrebbe sapere.
(23) Sed dum iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam ex proceribus Langobardis talem legationem mittunt Carolo Francorum regi, quatenus veniret cum valido exercitu, et regnum Italiæ sub sua ditione obtineret, asserentes quia istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent vinctum, et opes multas, etc.... Quod ille prædictus rex Carolus cognoscens, cum.....ingenti multitudine Italiam properavit. Anonim. Salernit., Chron., c. 9; R. It., t. II, part. II, p. 180.—Scrisse nel secolo X.
(24) V. gli annalisti citati sopra, e Eginh., Annal. ad an. 773.
(25) Anast., p. 184.—Chron. Novaliciense, 1. 3, c. 9; R. It., t. II, part. II, p. 717.—Il monaco, anonimo autore di questa cronaca, visse, secondo le congetture del Muratori, verso la metà del secolo XI.
(26) Firmis qui (Desiderius) fabricis præcludens limina regni, Arcebat Francos aditu.—Ex Frodoardo, de Pontif. Rom.; R. Fr., t. V, p. 463. Frodoardo, canonico di Rheims, visse nel X secolo.
(27) Erat enim Desiderio filius nomine Algisus, a juventute sua fortis viribus. Hic baculum ferreum equitando solitus erat ferre tempore hostili.... Cum autem hic juvenis dies et noctes observaret, et Francos quiescere cerneret, subito super ipsos irruens, percutiebat cum suis a dextris et a sinistris, et maxima cæde eos prosternebat. Chron. Nov., 1. 3, c. 10.
(28) .....Claustrisque repulsi, In sua præcipitem meditantur regna regressum. Una moram reditus tantum nox forte ferebat. Frodoard., ib. Dum vellent Franci alio die ad propria reverti. Anast., p. 184.
(29) Hic (Leo) primus Francis Italiæ iter ostendit per Martinum diaconum suum, qui post eum quartus Ecclesiæ regimen tenuit, et ab eo Karolus rex invitatus Italiam venit. Agnel., Raven. Pontif.; R. It., t. II, p. 177.— Scrisse Agnello nella prima metà del secolo IX, e conobbe Martino, di cui descrive l’alta statura e le forme atletiche. Ibid., p. 182.
(30) Misit autem (Karolus) per difficilem ascensum montis legionem ex probatissimis pugnatoribus, qui, transcenso monte, Langobardos cum Desiderio rege eorum... in fugam converterunt. Karolus vero rex, cum exercitu suo, per apertas Clusas intravit. Chron. Moissiac.; Rer. Fr., t. V, p. 69.—Questa cronaca d’incerto autore termina all’anno 818.
(31) Anast., 184.
(32) Ridolfi Notarii Histor., apud Biemmi, Istoria di Brescia, t. II, (Del secolo XI).
(33) Anast., 185 e seg.
(34) Langobardi obsidione pertæsi civitate cum Desiderio rege egrediuntur ad regem. Annal. Lambech; R. Fr., V, 64.
(35) Desiderius a suis quippe, ut diximus, Fidelibus callide est ei traditus. Anon. Salern., 179.
(36) Rer. Fr., t, V, p. 385.
(37) Ibique venientes undique Langobardi de singulis civitatibus Italiæ, subdiderunt se dominio et regimini gloriosi regis Karoli. Chron. Moissiac.; Rer. Fr., V. 70.
(38) Hadriani Epist. ad Karolum., Cod. Carol., 90 e 88.
(39) Ex Sigiberti Chron.; Rer. Fr., V, 377.
(40) Cui (Hildeprando) dum contum, uti moris est, traderent. Paul. Diac., 1. 6, c. 55.
(41) Si quis Langobardus, se vivente, suas filias nuptui tradiderit, et alias filias in capillo in casa reliquerit.... Liutprandi Leg., l. 1, 2.
(42) V. la nota al passo citato, Rer. It., t. I, part. II. p. 51.
(43) De omnibus Judicibus, quomodo in exercitu ambulandi causa necessitas fuerit, non mittant alios homines, nisi tantummodo qui unum caballum habeant, idest homines quinque, etc. Liutpr. Leg., 1. 6, 29.
(44) Insignis nobilitas, aut magna patrum merita principis dignationem etiam adolescentulis assignant; cæteris robustioribus, ac jampridem probatis aggregantur: nec rubor inter comites aspici. Tacit., German., 13.
(45) Homer., Il., lib. 23, v. 90.
(46) Tassilo dux Bajoariorum.... more francico, in manus regis, in vassaticum, manibus suis, semetipsum commendavit. Eginh., Annal.; Rer. Fr., t. V, p. 198.
(47) Juret ad arma sacrata. Rotharis Leg., 364. V. Murat., Ant. It., dissert. 38.
(48) Assidue exercebatur equitando ac venando, quod illi gentilitium erat. Eginh., Vit. Kar., 22.
(49) Rer. Fr., t. V, p. 388.
(50) Delectabatur etiam vaporibus aquarum naturaliter calentium.... Ob hoc etiam Aquisgrani Regiam extruxit. Eginh., Vit. Kar., 22.
(51) Treu, fedele.
LONGOBARDI
FRANCHI
LATINI
Duchi, Scudieri, Soldati Longobardi: Donzelle, Suore nel monastero di San Salvatore.—Conti e Vescovi Franchi; un Araldo.
Palazzo reale in Pavia.
DESIDERIO, ADELCHI, VERMONDO.
DESIDERIO, ADELCHI.
[153] contra
[154] contra
[155] Sacrificio
[156] le insegne
[157] alpe
[158] inteso
[159] Veggio
[160] surse
[161] gioja
[162] giudicio
[163] veggio
[164] al fine
VERMONDO che precede ERMENGARDA, e DETTI. DONZELLE che l’accompagnano.
[165] ricambii
[166] riveggio
[167] cui
[168] gioja
[169] rejetta
[170] Agli infelici
[171] nol
[172] gioja
[173] chieggio
[174] dei
[175] gioja
ANFRIDO, e DETTI.
DESIDERIO, ADELCHI, ALBINO, FEDELI LONGOBARDI.
DUCHI rimasti.
Casa di SVARTO.
SVARTO, ILDECHI; poi altri che sopraggiungono.
Fine dell’atto primo.
[182] sui
[183] Dei
[184] svanisce
[185] La sua via frugherà fin che la trovi:
[186] s’avveggia
[187] Che d’un vepre scemato alla boscaglia.
Campo de’ Franchi in Val di Susa.
CARLO, PIETRO.
[188] dei
[189] arme
[190] in su
[191] in contro
[192] falla
[193] in fra
[194] veggio
[195] volentier
[196] debbe
ARVINO, e DETTI.
[197] giunse
MARTINO introdotto da ARVINO, e DETTI. (ARVINO si ritira).
[198] dei
[199] periglj
[200] empj
[201] Dei
[202] gioja
[203] Dei
[204] in fra
[205] alla destra
[206] una angusta
[207] spazïosa
[208] Greggie
[209] tugurj
[210] havvi
[211] quei
[212] in sul
[213] nei
[214] romor
[215] romor
[216] dei
[217] (ARVINO parte)
[218] ed a
[219] Levate
[220] sien
CARLO, CONTI e VESCOVI.
Fine dell’atto secondo.
[223] (ai Conti)
[224] obbediste
[225] dei
[226] Dai
[227] allor
[228] sien
[229] nei
[230] tempj
[231] atrj
[232] Pastor leva
[233] picciola
[234] sacerdoti
Campo de’ Longobardi.—Piazza dinanzi alla tenda di Adelchi.
ADELCHI, ANFRIDO.
[236] Un lungo tratto
[237] agguata
[238] io non
[239] fra
[241] gioja
[242] la spoglia
[243] nei
[244] tugurj
[245] fra
[246] dei
[247] Fedel
[248] Dei
ADELCHI, DESIDERIO.
(ANFRIDO si ritira)
[249] gioja
[250] dubbj
[251] Obbediente
[252] obbedienza
[253] Obbediresti
[254] Obbedirei
[255] nei
Uno SCUDIERO frettoloso e[256] atterrito, e DETTI.
[256] ed
[257] È penetrato
[258] donde
[259] la scena
[260] dei
[261] ragunati
[262] quei
[263] raguna
[264] Fra
[265] picciol
Parte del campo abbandonato da’[266] Longobardi, sotto alle Chiuse.
CARLO circondato da CONTI FRANCHI, SVARTO.
RUTLANDO, e DETTI.
ILDECHI, ed altri DUCHI, GIUDICI, SOLDATI longobardi, e DETTI.
[274] O Svarto!
[275] pone
[276] fra
[277] dei
[278] Dei
[279] di Susa!
[281] cangiato
[282] dei
ANFRIDO ferito, portato da due FRANCHI, e DETTI.
Bosco solitario.
DESIDERIO, VERMONDO, altri LONGOBARDI fuggiaschi in disordine.
ADELCHI, e DETTI.
Fine dell’atto terzo.
[302] atrj
[303] dei
[304] Nei
[305] nei
[306] Dei
[307] gioje
[308] prandj
[309] dei
[310] colloquj
Giardino nel monastero di San Salvatore in Brescia.
ERMENGARDA, sostenuta da due DONZELLE, ANSBERGA.
[311] Su le
[312] chieggo
[313] dei
[314] ragunati
[315] Caggia
[316] veggia
[317] Gioja
[318] rejetta
[319] chiegga
[320] Le estreme
[321] dei
[322] dei
[323] Caccialo
[324] su gli
[325] Cacciate
[326] rispingi
[327] veggio
[328] ebrezza
[329] muojo
[330] sì stanca io sono!
[331] Inebriata
[332] gioja
[333] gioja
[334] donna
[335] letticciuol
[336] ch’io
[337] Su l’
[338] Guardo
[339] Fronte una
[340] Su la
[341] dei
[342] Fra
[343] Gli irrevocati
[344] Ebra
[345] fra
[346] su le
[347] Dei
[348] Torcea
[349] svolve
Notte.—Interno d’un battifredo sulle[350] mura di Pavia. Un’armatura nel mezzo.
GUNTIGI, AMRI.
[350] su le
[351] Obbedienza
[352] ei fia
[353] Obbedisco
[354] guata
[355] guati
[356] Egli
[357] fra
[358] su lo
[359] un’orma
[360] intendi
[361] Fedeltà!
[362] rispinta
[363] Ai
[364] quei
[365] Le offerte
[366] caggio
[367] fra
[368] veglio
GUNTIGI, SVARTO,[369] AMRI.
[369] condotto da
GUNTIGI, SVARTO.
Fine dell’atto quarto.
[370] ch’ogni
[371] Ei domandò
[372] ufficio
[373] Caggion
[374] obbedir
[375] chiegga
[376] Vecchio poter salvare han fermo, o seco
[377] Su la
Palazzo Reale in Verona.
ADELCHI, GISELBERTO DUCA DI VERONA.
[381] pei
[382] dei
[383] un solo
[384] fra
[385] anco
[386] dei
[387] ruina
[388] qua giù
ADELCHI, TEUDI.
Tenda nel campo di Carlo sotto Verona.
CARLO, un ARALDO, ARVINO, CONTI.
CARLO, DESIDERIO.
[395] fra
[396] gioja
[397] qua giù
[398] gioja
[399] inebriarmi
[400] mi chiedi
[401] anco
[402] desiderj
[403] Debbe
[404] v’è
[405] jeri
[406] facil’ora
[407] Dei
[408] incontra
[409] su le
[410] dei
[411] contra
[412] spini
[413] Vuotatelo
CARLO, DESIDERIO, ARVINO.
[414] ascoltar!
[415] Nè alcun vi manca?
[417] anco
[418] alla mia
[419] nimici
CARLO, DESIDERIO.
CARLO, DESIDERIO, ADELCHI ferito e portato.
[423] riveggio
[424] O
[425] qua giù
[426] me ’l
[427] dei
[428] Questi
[429] chieggo
[430] veggio
[431] incontra
[432] debbe
ARVINO, CARLO, DESIDERIO, ADELCHI.
[433] chieggon
DESIDERIO, ADELCHI.
Fine della tragedia.
Tra i manoscritti del Manzoni, l’Adelchi rimane in tre forme: le prime due di carattere del poeta, e l’una è copia ricorretta dell’altra. La terza, di altra mano, è quella preparata per la stampa. Porta, sotto il titolo, il visto della Censura, «Milano, il 2 maggio 1882».
La prima forma ha segnate via via le date della composizione: sul primo foglio, 9 settembre 1820; dopo la scena 5ª dell’atto I, 4 gennaio; in testa dell’atto III, 2 giugno; dell’atto IV, 3 luglio, e in fine di esso, 17 luglio; in principio dell’atto V, 2 agosto, da ultimo, 21 settembre 1821. Contiene il primissimo getto; e mette conto riferirne i brani più notevoli.[120] Seguiremo, fin dove sarà possibile, il Bonghi (Opere inedite o rare di A. M.; vol. I, 1883), correggendone le sviste, nè poche nè di poco momento.
Sch.
Questa seconda scena era resa assai più lunga che non è ora, anche pel fatto che Adelchi ragionava a lungo la proposta di acquistare amici, liberando i Romani; la qual proposta ora è in breve accennata in fine.
E dopo molti versi, ridondanti di varianti e di cancellature, nei quali Adelchi continua a manifestare il suo animo e l’ardore della sua convinzione, seguono questi:
[436] Qui vi sono parole cancellate, impossibili a leggere. (Bonghi).
[437] Questi versi hanno tutti molte varianti; ma io li trascrivo di solito nella prima lor forma. (Bonghi).
[438] Il brano che segue è stato trasferito qui da uno dei precedenti discorsi di Desiderio. V. pag. 121-22. (Sch.)
[439] Rimette qui questo verso e mezzo, nell’intenzione, certo, di cancellarlo sopra.—La sentenza: “tutto è leale al forte„ ricorre poi anche più tardi, sulla bocca di Adelchi, nella soppressa scena 1ª dell’atto V (pag. 137). (Sch.)
In un altro abbozzo, codesta scena era tutt’altro.—Essa «è nella tenda d’Arderigo, un Longobardo, e vi hanno parte lui, Faraldo, Guntigi, Ildechi, Leuteri ed altri Duchi, sgomenti della partenza di Carlo con cui s’erano accordati. Ma la lor conversazione va poco oltre: il Manzoni la interrompe e la cancella, e ricomincia la scena, secondo è rimasta. In questa, non appare già in tutto sicura la partenza dei Franchi; ma preparasi; e se parecchie parti del primo getto son ritenute, Adelchi vi appare non diverso, ma più concreto». (Bonghi).
[440] Il Manzoni postilla: «Si dica più chiaro che i Franchi si sono ritirati per timore d’Adelchi».
[441] Tornano nuovamente questi versi, che prima erano, sempre in bocca ad Adelchi, nella sc. 2ª dell’atto I (pag. 126-7). Ora son rimasti a metà della sc. 1ª dell’atto III, ch’è stata di molto accorciata. (Sch.)
[442] Il Bonghi ripubblicò, con qualche diversità di varianti, questa 1ª scena dell’atto III, nelle sue Horae subsecivae; Napoli, Morano, 1838; p. 259-268. (Sch.)
La scena è la sala del Palazzo Reale in Pavia; e le persone: Desiderio, Adelchi, Guntigi.—Il Manzoni cancellò poi tutto, e scrisse in calce all’ultima pagina: «Scartar tutto, e rifar l’atto in modo più conforme alla storia».
Questi versi, ritentati nel manoscritto più volte, si leggono ancora così:
La tragedia terminava:
colla variante scritta sotto:
e poi: «Si abbandona presso il corpo del figlio agonizzante; CARLO parte; cade il sipario.
21 settembre 1821.»
V’è segnata, in principio, la data «13 dicembre 1821»; in fine, 11 gennaio 1822».
«V’appare», scrive il Bonghi, «in due strofe un processo di creazione poetica, che in Manzoni non è frequente: quello di formare in prosa il pensiero che vuol verseggiare e che alla prima i versi non gli rendono; p. es., la terza strofa è venuta da prima scritta così:
«Il concetto, quantunque l’espressione ne sia tuttora imperfetta, non è men bello di quello che la quarta strofa esprime ora; ma questo è così accennato in margine:—“Il tuo destino quaggiù non era d’ottenere l’obblìo, ma di chiederlo„;—e sotto, qualcuno dei versi che sono rimasti:
«Del pari, la strofa 18ª: Te collocò....., ha ai lati espresso così in parte il concetto che vi è verseggiato, ma pure non intero:—“La sventura ti ripone fra gli oppressi, ti fa concittadina dei vinti. Trapassa in pace. Nessuna imprecazione suonerà sul tuo sepolcro„.
«Le tre bellissime strofe 8, 9, 10 paiono uscite quasi di getto, soprattutto l’ultima; ma è a notare come, nell’ottava, il terzo e il quarto verso si leggono nel manoscritto così:
Vuol dire ch’egli ha compiuto il terzo più tardi nel modo che si legge ora: E lo sbandarsi e il rapido, e l’ha tenuto in mente, sino alla seconda copia. Così è accaduto di alcuni altri in questo Coro».
V’è segnata, in principio, la data «15 gennaio 1822»: in fine, «19 gennaio 1822».—Le varianti son notate, di solito, sopra o sotto del verso stesso.
[443] volgo
[444] l’oltraggio
[445] Col misero orgoglio d’un tempo che fu.—
Variante cancellata:
[447] adocchia
[448] dall’aste
[449] già senza ruggito
[450] insolenti
[451] dispersi
[452] ritta
[453] blandi
[454] pesti
[455] Trascorsero il ponte
[456] torme
[457] il nido relitto
[458] rigose
[459] Accanto agli scudi
[460] Udiron le frecce passando fischiar.
[461] pungea simil
[462] apparecchio
[463] Inerme, pedestre,
[464] dei forti
[465] Che [E] il labbro dei forti proferto non ha [l’ha].
[466] All’opere imbelli
[467] fra
[468] Che il popolo e il regno, che il nome restò.
Nella copia preparata per la stampa, e vista dalla Censura, appaiono cancellati alcuni versi, che si leggevano pur nella seconda, che mancano tuttora nello stampato. Essi sono i seguenti:
Nel discorso d’Adelchi a Desiderio, dove ora si legge:
il Manzoni aveva scritto da prima:
Nel discorso d’Adelchi a Carlo, dove ora si legge:
il Manzoni aveva scritto:
NOTA.—La prima edizione è del 1820, Milano, dalla Tipografia di Vincenzo Ferrario. Ristampata anch’essa varie volte, da varii, in Italia e fuori, questa tragedia fu poi, nel 1845 e nel 1870, ristampata, con parecchi ritocchi, dall’autore. Seguiamo pur qui le due ristampe autentiche, rilevando a piè di pagina le varianti della prima stampa.—Abbiamo altresì notate, questa volta, le molte e considerevoli differenze che corrono fra le tre stampe curate dall’autore, della Prefazione e delle Notizie storiche. Nel tener dietro a una così incontentabile ricerca e a una così instancabile elaborazione e correzione della forma, si prova, oltre il resto, un vero diletto; e il confrontare i tre diversi testi, può riuscire, a chi lo faccia con amorosa diligenza, istruttivo, più e meglio di una qualunque lezione di rettorica o di stilistica, se campata in aria e librata sulle fragili ali delle teorie e delle astrattezze.
Scherillo.
AL SIGNOR
CARLO CLAUDIO FAURIEL
IN ATTESTATO
DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA
L’AUTORE.
Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare[469] il lettore con una lunga esposizione de’ princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d’un dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltredichè,[470] ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l’universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de’ più piccoli[471] mali che possano accadere in questo mondo.
Tra i vari espedienti[472] che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de’ più ingegnosi[473] è quello d’avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute[154] ugualmente[474] come infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccoli[475] interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile l’arte più di quello che è già, levano[476] anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.
Ma poichè la quistione delle due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente qualsisia[477] tragedia; e poichè queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi tenute[478] per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne[479] brevemente l’esame. Mi studierò[480] per altro di fare piuttosto una picciola[481] appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.
I. L’unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell’arte, nè connaturali all’indole[482] del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L’unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L’unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotelea), il quale, come benissimo osserva il signor Schlegelb), non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele[483] avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.
Quando poi vennero quelli che[484], non badando all’autorità,[155] domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d’un’azione, diventa per lui inverosimile che le diverse parti di questa[485] avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui[486] sa di non essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un[487] falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è[488], per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza[489] non deve nascere in lui dalle relazioni[490] dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle[491] che le varie parti dell’azione hanno tra[492] di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.
II. Queste regole non sono in analogia con gli[493] altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s’ammettono nella tragedia come verosimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse s’applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que’ fatti soli[494] che s’accordano con la presenza dello spettatore, dimanierachè[495] possano parergli[496] fatti reali. Se uno[497] dicesse, per esempio: que’ due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero[498] d’esser soli, distruggono ogni illusione, perchè io sento d’esser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine; gli[499] farebbe precisamente la stessa obiezione[500] che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due unità. A quest’uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia imposto all’arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe[156] altro, se non che per questi casi non ci era[501] un periodo d’Aristotele.
III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza[502], la gran prova che non sono necessarie alla illusione è[503], che il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno[504] e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poichè non conoscendo esso la distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.
Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso[505] si sia fatto[506] di queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni[507], troviamo che nel greco non sono mai state stabilite[508] per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli[509] più celebri, quelli che[510] sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu messa[511] in pratica da Mairet[512] con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità tragica deva[513] sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza esame.
IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perchè, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l’unità di tempo non è osservata nè pretesa nel suo stretto senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano[514] questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heuresc). Con una tale[515] transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l’irragionevolezza[516] della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera[517]. Giacchè si potrà ben discutere con chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual[518] ragione pretenderà che uno si tenga[519] in un limite fissato così[520] arbitrariamente? Cosa[521] si può mai dire a un critico, il quale crede[522] che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere[523] il molto che il poco. Ci sono ragioni[524] più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire[525]. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est être ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que de leur imposer des lois qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est l’extension[158] feinte et supposée du temps réel de l’action théâtraled). Ma le [526] licenze felici sono parole senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano un’idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente rinchiudono una contradizione.[527] Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso licenze felici, perchè tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura delle cose richieda.[528] Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perchè le regole[529] grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’ critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice.[530] — Ma perchè queste riflessioni su due parole? Perché nelle[531] due parole appunto sta l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perchè la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro[532] l’erroneità della opinione, bisogna[533] indicare dove sia[534] l’equivoco.
V. Finalmente queste regole impediscono molte bellezze, e producono molti inconvenienti.
Non discenderò a dimostrare[535] con esempi la prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più d’una volta. E la cosa resulta[536] tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d’alcune tragedie inglesi e tedesche, che i sostenitori[537] stessi delle regole sono costretti a riconoscerla[538]. Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti[159] varia e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacchè per ottenerle bisogna cadere nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire[539] che alla rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare[540] la tragedia, quando non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno d’ogni altro quei critici i quali sono sempre[541] di parere che le tragedie greche non siano[542] mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla[543] lettura. Non ho inteso con ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita; ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
Gl’inconvenienti che nascono[544] dall’astringersi alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono ugualmente[545] confessati dai critici. Anzi non par credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Émilie, et qu’Auguste vienne dans ce même cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est peu naturel. La sconvenienza[546] è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faute).
Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una questione[547] già così bene sciolta, e che a molti può parer[548] troppo frivola. Rammenterò[549] a questi ciò che disse molto sensatamente in un[160] caso consimile un noto scrittore[550]: Il n’y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s’y point tromper, s’il est possiblef). E del rimanente, credo che[551] una tale questione abbia il suo lato importante. L’errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L’arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa[552] indifferente. Ed è[553] certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.
Quest’ultime riflessioni conducono a una[554] questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò[555], dacchè il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste[556] di Nicole, di Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di cui[557] nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno[558] che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l’altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l’arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perchè essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che[559] ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale.[560] Mi pare[561][161] che siano stati tratti in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che [562] quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d’interesse e immune [563] dagl’inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall’essergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico, m’ero proposto [564] d’unire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito d’annunziarlo; perchè mi pare [565] cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria [566] all’opinione ragionata d’uomini di prim’ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza prometterle almenog).
Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano [567], può parere [568] un capriccio, o un enimma [569]. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro.... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi [570] il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente [571] e dolorose d’un’azione qualche volta [572] troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazioneh). Ora m’è parso [573] che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea [574] di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una [575] gran parte dell’effetto[162] che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli[576] stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perchè il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.
Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti che sono l’argomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un componimento misto d’invenzione e di verità storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.
[469] Nella prima edizione scrive sempre: annojare, nojoso, principj, necessarj, varj, proprj, arbitrarj, esempj, vizj....
[470] Oltre di che
[471] lievi
[472] spedienti
[473] trovato per impacciarsi l’un l’altro, ingegnosissimo
[474] Nella prima edizione sempre: egualmente, eguale, eguaglianza.
[475] Sempre: piccioli, picciola....
[476] più ch’ella non è, tolgono
[477] qualsiasi
[478] ritenute
[479] ripigliarne
[480] Studierò
[481] Questo picciola s’è salvato!
[482] risultanti dall’indole
[483] Sempre: Aristotile
[484] coloro i quali
[485] questa azione
[486] egli
[487] Sempre: su di un
[488] egli è
[489] Sempre: verisimiglianza e inverisimiglianza, verisimile e inverisimile (sost. e agg.)...
[490] dai rapporti
[491] dai rapporti
[492] Sempre: fra
[493] Sempre: cogli, colla, coll’...
[494] soltanto
[495] in modo che a lui
[496] parer
[497] altri
[498] assicurandosi
[499] egli
[500] Sempre: obbiezione
[501] Sempre: v’era
[502] si considerano dal lato dell’esperienza
[503] Sempre: si è
[504] tutto dì
[505] conto
[506] tenuto
[507] d’ogni nazione, noi
[508] poste
[509] spagnuoli
[510] i quali
[511] posta
[512] In molte delle antiche edizioni (potrei dire in tutte), anteriori al 1845, si strascinò l’errore: Nairet; anche in quella di Jena 1827, e in quella un po’ pretensiosa di Firenze 1827.
[513] Sempre: debba, debbono....
[514] adempiano
[515] Con tale
[516] la dannosità
[517] in alcun modo
[518] che
[519] altri si contenga
[520] ch’egli ha posto
[521] Che
[522] stima
[523] domandare
[524] Si hanno argomenti
[525] eseguire.
[526] Salvo il rispetto a Marmontel e all’opera piena di merito nella quale leggesi questo passo, osservo che le
[527] Sempre: contraddizione.
[528] felici, perchè seguite da un buon successo.
[529] molte regole
[530] e non si può quindi trasgredirle senza fallare lo scopo dell’arte.
[531] Nelle
[532] a voler mostrare
[533] basta
[534] sta
[535] provare
[536] risulta
[537] molti dei sostentori
[538] hanno dovuto convenirne
[539] non sarebbe sensibile
[540] giungere
[541] tuttavia
[542] Sempre: sieno
[543] poetico, tragedie non conosciute che per la
[544] risultano
[545] sono essi pure
[546] L’inconvenienza
[547] Sempre: quistione
[548] sembrare
[549] Ricorderò
[550] a questi le parole usate in un caso consimile da un eccellente scrittore:
[551] Nondimeno io stimo che
[552] come cosa
[553] Egli è
[554] Quasi sempre: ad una
[555] sopra di ciò alcun dubbio
[556] appellazioni
[557] il cui
[558] l’uno
[559] che essi
[560] a disfavore di tutta in genere la poesia drammatica.
[561] Parmi
[562] fuori di
[563] ed esente
[564] io aveva in animo
[565] mi sembra
[566] opposta
[567] compongono
[568] sembrare
[569] enigma
[570] poscia
[571] violenti
[572] talvolta
[573] sembrato
[574] nella idea
[575] toglie loro una
[576] farveli
a) «Sono differenti in questo (l’Epopea e la Tragedia), che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa, e formata di lunghezza; e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l’Epopea è smoderata per tempo, ed in ciò è differente dalla Tragedia». Traduzione del Castelvetro.
b) Corso di Letteratura drammatica, Lezione X.
c) Batteux, Principes de la littérature, Traité V, chap. 4.
d) Marmontel, Éléments de littérature, art. Unité.
e) Batteux, l. c.
f) Fleury, Mœurs des Israélites, X.
g) Altre circostanze non hanno permesso all’autore di mantenere questa promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito. Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à M.r Ch..... sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta l’argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso. Supposizione venuta dall’aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò ch’era un fatto speciale de’ drammi esaminati da loro, e della quale la più parte de’ drammi immortali de Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica.—[Questa nota, s’intende, è stata aggiunta nell’edizione del 1845. Ma vedi più avanti i Materiali estetici, dov’è pur pubblicato quanto altro il Manzoni aveva buttato giù intorno alla questione della moralità nelle opere tragiche.—Sch.].
h) Corso di Letteratura drammatica, Lezione III.
Francesco di Bartolommeo[577] Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli[578], che ne scrisse la storia[579] nella Biografia Piemontese, crede che sia stato[580] verso il 1390. Mentre ancor giovinetto[581] pascolava delle pecore[582], l’aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui[583] alla guerra. Egli lo seguì volentieri,[584] e si mise[585] con esso al soldo[586] di Facino Cane, celebre condottiero.
Qui la storia del Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa se non[587] i fatti principali, e particolarmente quelli[588] che sono accennati o rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati[589] così diversamente dagli storici, che è impossibile[590] formarsene e darne una opinione, certa ed unica: tra le relazioni[591] spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse[592] più verosimili, o sulle quali gli scrittori vanno più d’accordo.[593]
Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca di Milano (1412), il di lui fratello[594] Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito[166] dal loro padre[595] Giovanni Galeazzo, s’era[596] sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo.[597] Molte città s’erano[598] ribellate, alcune erano tornate in potere de’ loro antichi[599] signori, d’altre s’erano fatti padroni i condottieri[600] stessi delle truppe ducali. Facino Cane, uno di questi[601], il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s’era[602] formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che[603] Giovanni Maria fu ucciso da’ congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute[604] da lui, e de’ suoi militi.
Era tra essi il Carmagnola, e ci[605] aveva già un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò[606] il figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n’era impadronito, e[607] lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase ucciso. Il Carmagnola si segnalò tanto in quest’impresa, che fu nominato condottiero dal Duca[608].
Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in poco[609] tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo[610], che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate», per servirmi delle parole di Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessaa), e colla fede e col valore del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnuovo; sposò Antonietta Visconti parente di esso[611], non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo chiamato ancora[612] del Broletto.
L’alta fama dell’esimio condottiero[613], l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de’ suoi servizi[614], gli alienarono l’animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e l’avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e levato[615] così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi: e ben s’accorse, dice il Biglib), che questo era un consiglio[616] de’ suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla domanda espressa d’essere licenziato dal servizio[617], il Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare col Principe. Questo[618] dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì[619] con sorpresa dire[620] che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca, ebbe in risposta ch’era[621] impedito, e che[622] parlasse con Riccio. Insistette[623], dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera[624], gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto[625] si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta[626] al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti[627] con sè, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non arrivarlo[628].
Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanesec).
Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno 23 di febbraio[168] del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio[629] della Repubblica con 300 lanced).
I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro[630] il Duca Filippo, chiedevano[631] l’alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perchè volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d’ammazzare il[632] Carmagnola, purchè gli fosse concesso di ritornare a casa[633]. La trama fu sventata, e levò[634] ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo[635] consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati d’Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno[636] 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di[637] terra della Repubblica; e il 15[638] gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all’altare di san Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali[639] alla tragedia.
«Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile»e). Papa Martino V s’intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa[640] la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise[641] per la prima volta in uso un suo ritrovato[642] di fortificare il campo[169] con un doppio recinto[643] di carri, sopra ognuno de’ quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa d’alcune terre, s’accampò[644] sotto il castello di Maclodio, ch’era difeso[645] da una guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccininof). Essendo nata[646] discordia tra di loro[647], il giovine[648] Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l’ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando dato[649] al Malatesti non bastò a levar di mezzo[650] la rivalità de’ condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d’ubbidire[651] al Carmagnola, benchè avesse sotto di sè[652] condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne[653] profitto. Attaccò Maclodio, in[654] vicinanza del quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata, a guisa d’argine: e tra le paludi s’alzavano qua e là delle macchie poste su un[655] terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati[656], e si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco[657] meno. Ma l’opinione che pare più comune[658], è che il Pergola e il Torello, sospettando d’agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo[659]. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto. Appena[660] il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra[661] dall’imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche[170] lui[662]; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell’altra[663], si sottrassero.
Un figlio[664] del Pergola si trovò tra i prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano l’esercito[665], ne fecero delle lagnanze col[666] Conte; il quale domandò a qualcheduno de’ suoi cosa fosse avvenuto de’ prigionieri[667]; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi[668] in libertà, meno un[669] quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati[670], secondo l’usog).
Uno storico che non solo scriveva in que’ tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest’uso militare d’allora. Egli l’attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi[671] gridare dai popoli: alla zappa i soldatih).
I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione[672]. Infatti, prendendo[673] al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che[674] farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non[675] potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno d’opporsi a un’usanza[676] così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d’ogni appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui[677] la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s’accorda solamente[678] a una causa che s’abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che dopo le prime osservazioni de’ commissari, la Signoria[679] abbia fatte[680] col Carmagnola altre lagnanze su[681] questo fatto: non si parla anzi che d’onori e di ricompense.
Nell’aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un’altra di quelle solite paci.
La guerra risorta[682] nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il[683] Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola. Questo ci[684] andò con una parte dell’esercito[685], e cadde[686] in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento[687] cavalli e molti fanti, salvandosi lui[688] a stento.
Pochi giorni dopo, Nicola[689] Trevisani, capitano dell’armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca[690]. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare[691] il Carmagnola, lo rattennero[692] dal venire in aiuto[693] all’armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di[694] terra sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola s’avvide dell’inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino all’altra[695] riva. L’armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento.[696] Gli storici che non hanno preso[697] il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che[698] d’essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio[699], e irresoluta nella battagliai). Fu[700] bandito, e gli furono confiscati i[701] beni; «e al capitano generale (Carmagnola)[702], per imputazione di non aver dato favore all’armata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensionej)».
Il giorno 18 d’ottobre[703], il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de’ suoi condottieri, di sorprender Cremona. Questo riuscì a occuparne una[704] parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette[705] abbandonare l’impresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito d’andar[706] col grosso dell’esercito a sostenere quest’impresa; e mi par[707] cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria[708]. La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perchè il generale[709] non si sia ostinato a combattere una città che[710] sperava d’occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacchè non si sa vedere perchè il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu d’alcun vantaggio per il nemico.[711]
Ma la Signoria, risoluta, secondo l’espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse[712] averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta[713] nè più sicura, che[714] d’invitarlo a Venezia col[715] pretesto di consultarlo sulla pace. Ci[716] andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui e al Gonzaga che l’accompagnava.[717] Tutti gli storici, anche veneziani[718], sono d’accordo in questo[719]; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato[720] a Venezia, «gli furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch’egli smontasse a casa sua, che l’accompagnarono a San Marcok)». Entrato che fu[721] nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo e condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il[722] giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e[723] decapitato. La moglie e una figlia[724] del Conte (o due figlie[725], secondo alcuni) si trovavano allora in Venezia.
Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani[726], che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole[727]. Essi esprimono quest’opinione[728] come una cosa di fatto[729], e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adottato[730] è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la[731] reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere[732] improbabile. Nè i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; nè d’altra parte s’è saputo mai nulla d’un tale trattato. Quest’accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi[733] inoltre all’essere il Conte andato[734] a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni; si badi all’aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la[735] taccia d’ingratitudine e d’ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi[736] alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto s’adoprava[737] con uno che non era veneziano, e[738] non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente[739] al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l’uno e l’altro ripugnano alla supposizione d’un trattato di questa sorte tra di loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e[174] che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di[740] lasciarsi battere, non s’accordano con l’animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva meglio d’ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente[741] a quell’uomo che aveva esperimentate[742] le retribuzioni di Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d’un’opinione[743] pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta[744] ha voluto far prevalere[745]; ed ecco ciò che n’ho[746] potuto raccogliere[747].
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine de Carmagnola, soggiunge: «Dissesi che questo hanno fatto perchè egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s’intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano d’un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perchè par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milanol)».
E il Poggio: «Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna[748]; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tuttim)».
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così[749]: «Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro».
Senza dar molto peso a quest’ultima congettura, mi pare[750][175] che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato.[751]
Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch’io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito[752] da una giusta sentenza. Questo[753] è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser[754] convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui[755] voluto informarsi esattamente de’ fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue parole: «O foss’egli allontanato, per una ripugnanza dell’animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss’egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427.... Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poichè trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia.... come reo di alto tradimento». Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d’un uomo un giudizio segreto di que’ tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l’iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a’ suoi lettori. In quanto[756] al fatto[176] de’ prigionieri[757], ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti[758] i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perchè di questi non fu[759] preso che il Malatesti, e fu[760] ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perchè si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un’usanza comune[761].
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore[762] in tutta l’Italia; e pare[763] che in particolare i Piemontesi la sentissero più[764] acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.[765]
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d’un loro agente in Milano, il quale era venuto a sapere[766] «che un Carlo Giuffredo, piemontese, che si trovava fra i Segretari di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotton)».
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di[767] questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d’Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s’è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l’aver supposto accaduto in Venezia l’attentato contra[768] la vita del Carmagnola, quando in vece accadde[769] in Treviso.
[577] Bartolomeo
[578] L’anno della sua nascita non è noto: il signor Tenivelli
[579] vita
[580] la pone
[581] giovanetto
[582] gli armenti
[583] seco lui
[584] volontieri
[585] pose
[586] agli stipendj
[587] che
[588] quelli singolarmente
[589] narrati
[590] Così nell’ediz. del 1820, come nell’altra del 1845, qui era inserito l’inciso: , a chi li [o la] raccoglie dai loro scritti,
[591] lezioni
[592] sembrate
[593] o le più universalmente seguite.
[594] il fratello di lui
[595] padre loro
[596] erasi
[597] nella minorità pessimamente tutelata, e nel debole e crudele governo di Giovanni.
[598] eransi
[599] alcune tornate in potere di antichi
[600] generali
[601] essi
[602] avevasi
[603] nel giorno stesso, in cui
[604] e si trovò signore delle città tenute
[605] vi
[606] espulse
[607] Manca l’e.
[608] dal Duca nominato generale.
[609] Nell’ediz. del ’20 e del ’45: breve
[610] questi
[611] di Filippo
[612] tuttavia
[613] Generale
[614] servigi
[615] tolto
[616] era questo consiglio
[617] servigio
[618] Questi
[619] udì
[620] dirsi
[621] che questi era
[622] ch’egli
[623] Insi tette egli
[624] che egli vedeva dalle balestriere
[625] bentosto ei
[626] diè di volta
[627] condotto
[628] stimò bene di non raggiungerlo.
[629] servigio
[630] contra
[631] sollecitavano
[632] l’uccisione del
[633] il ritorno in patria.
[634] tolse
[635] questi
[636] Agli
[637] da (ma cfr. pag. 186)
[638] ed ai 15
[639] servito di argomento
[640] chiusa
[641] pose
[642] trovato
[643] cinto
[644] venne egli a campo
[645], tenuto
[646] venuta la
[647] fra di essi
[648] giovane
[649] accordato
[650] a togliere
[651] ripugnava l’obbedire
[652] benchè sotto di lui comandassero
[653] trarne
[654] nella cui
[655] di un
[656] pose agguati in queste
[657] non lo sono
[658] sembra avere più sostenitori
[659] ad ogni modo.
[660] Come appena
[661] da ambo i lati
[662] anch’egli
[663] chi in un modo, chi nell’altro
[664] figliuolo
[665] L’inciso mancava nell’ediz. del 1820.
[666] lagnanza al
[667] egli richiese che fosse avvenuto dei prigioni
[668] posti
[669] fuorchè
[670] questi pure si rilasciassero
[671] udirsi
[672] nel che mi pare avessero il torto.
[673] Perchè, pigliando
[674] ch’egli
[675] nè
[676] che egli si attentasse di riformare un uso
[677] da esso
[678] soltanto
[679] il Governo Veneto
[680] mosse
[681] lamentanze per
[682] Nell’ediz. del 1820: rotta di nuovo; corresse nell’ediz. del 1845: ricominciata.
[683] teneva Soncino pel
[684] Questi vi
[685] di truppa
[686] diede
[687] seicento
[688] egli
[689] Nicolò
[690] Duca di Milano.
[691] con finte disposizioni d’attaccare
[692] Ediz. 1820: ritennero; 1845: trattennero
[693] soccorso dell’
[694] da
[695] Ediz. ’20 e ’45: presso l’altra
[696]Ediz. ’20 e ’45: di aver patteggiato col nemico, ch’egli non verrebbe in soccorso delle [che non avrebbe soccorse le] navi.
[697] pigliato
[698] gli uccisori di lui, sembrano piuttosto dargli taccia
[699] dapprima
[700] Egli fu
[701], furono confiscati i suoi
[702] La parentesi manca nell’ediz. del 1820.
[703] Nel giorno 18 ottobre
[704] Questi se ne impadronì d’una
[705] egli dovette
[706] Ediz. 1820 e 1845: l’andar
[707] sembra
[708] dal Governo veneto.
[709] egli
[710] che egli
[711] spedizione: e questa, se fu inutile ai Veneziani, non fu loro d’alcun danno, essendo ritornato al campo il drappello che l’aveva invano tentata.
[712] pensò al modo di
[713] uno migliore
[714] che quello
[715] sotto
[716] Egli vi
[717] sì a lui, che a Giovanni Francesco Gonzaga ch’egli si aveva tolto per compagno.
[718] veneti
[719] in ciò d’accordo
[720] Giunto
[721] Quando egli fu introdotto
[722] nel
[723] ed ivi
[724] figliuola
[725] figliuole
[726] veneti
[727] avrebbero affermata la seconda opinione.
[728] Essi la esprimono
[729] una certezza
[730] adoperato
[731] dieno prove della,
[732] apparire
[733] ponga mente
[734] all’andata del Conte
[735] si ponga mente al mistero tenuto sempre dal Governo veneto a malgrado della
[736] ponga mente
[737] si usava
[738] un militare non veneziano che
[739] si ponga mente per ultimo
[740] un patto di agir lentamente, di
[741] in capo
[742] provate
[743] di opinione
[744] il Governo veneto
[745] voluto stabilire
[746] ho
[747] raccoglierne
[748] di sorta:
[749] così dice:
[750] mi sembra
[751] apposto.
[752] percosso
[753] Questi
[754] Nell’ediz. 1820: essere tosto; 1845: esser subito.
[755] egli
[756] Quanto
[757] prigioni
[758] tutti i generali e
[759] non ne fu
[760] e questi fu
[761] quando esiste il fatto che essa fu dettata da una costumanza di guerra.
[762] grande strepito
[763] sembra
[764] assai
[765] Nell’ediz. del 1820 era qui il segno della nota.
[766] aveva inteso
[767] ma per mostrare quale era l’importanza che si dava a
[768] Questo contra si è salvato!
[769] ebbe luogo
a) Filippo la fece decapitare come rea d’adulterio con Michele Orombelli. Il più degli storici la credono innocente.[770]
b) Hist., lib. 4; Rer. Ital. script., t. XIX, col. 72.
c) Tutto questo racconto è cavato[771] dal Bigli.
d) Sanuto, Vite dei duchi di Venezia; Rer. Ital., XXII, 978.
e) Machiavelli, Ist. Fior., lib. 4.
f) Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio. La storia stessa ha suggerito questo cambiamento[772]; giacchè[773] il Piccinino era nipote di Braccio Fortebracci, e dopo la morte dello zio fu capo de’ soldati della fazione Braccesca.
g) Istos quoque jubeo solita lege dimitti. Bigli, lib. 6.
h) Ad ligonem stipendiarii. Chron. Tarv.; Rer. Ital., XIX, 864.
i) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò Trevisano, che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato, gli Avvogadori di Comune andarono al consiglio de’ Pregadi, e messero di procedere contro di lui, per essere stato rotto in Po da’ galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato, in vitupero del Dominio, e per non aver fatto il suo dovere, immo vilissime essersi portato; immo perchè andò pregando gli altri che fuggissero via.—Sanuto, Rer. Ital., XXII, 1017.
j) Navagero, Stor. Ven.; Rer. Ital., XXIII, 1096.
k) Sanuto, Rer. Ital., XXII, 1028.
l) Cronica di Bologna; Rer. Ital., XVIII, 645.
m) Poggii, Hist., lib. 6.
n) Rivoluzioni d’Italia, lib. 20, cap. I.
[770] Il più degli Storici crede che questa colpa le fosse apposta calunniosamente.
[771] estratto
[772] suggerita questa mutazione
[773] dacchè
[774] Prigioni
Sala del Senato, in Venezia.
IL DOGE e SENATORI seduti.
[775] Nobil’Uomini
[776] Ormai non verrò più notando i fra, dei, colla, premj, principj, erarj, sajo, gioja, ecc., cui sono stati costantemente (ma qui sopra è sfuggito un fra loro, e a pag. 203 un fra noi!) sostituiti: tra, de’, con la, premi (sic), princìpi, erari, saio, gioia, ecc.
[777] e quel che monta Forse ancor più
[778] questi
[779] fia
IL CONTE, e DETTI.
[780] chiegga
[781] picciol
[782] cuore
[783] cuor
[784] scelsi
[785] quei
[786] ch’io
[787] Sapiente giudicio
[788] Dei beneficj
[789] Fin ch’io
[790] cacciò del
[791] vuoti
[792] Ediz. 1820 e ’45: su l’armi
[793] e tostamente un guardo
[794] nuove
IL DOGE, e SENATORI.
[795] Così era anche nelle “Notizie storiche„; ma corresse di terra; cfr. pag. 168 e 171.
[796] chieggio
[797] lagno?
[798] risentirsi?
[799] veggio
[800] gittò
[801] chieggio
Casa del Conte.
MARCO, e il CONTE.
Fine dell’atto primo.
[802] che nunzio
[803] sieno
[804] Nuocer
[805] non curanza,
[806] Anco
[807] scuola
[808] disbrigarli
[809] Anche questo contra è rimasto! Cfr. pag. 176.
[810] risuoni?
Parte dal campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA.
SFORZA, FORTEBRACCIO, e DETTI.
TORELLO, e DETTI.
[822] nuovo
[823] Qui Colla: più giù con gli.
[824] Dirovvel’io.
[825] Ripigliar
[826] coll’occhio
[827] sovra
[828] Ufficio
[829] il
[830] Nell’ediz. 1820 e ’45: Donde
[831] accaggia
[832] deggio
[833] veggia
[834] Piglia
[835] quei
[836] v’acconsento
Campo veneziano. Tenda del Conte.
IL CONTE, un SOLDATO.[837]
[837] poi un Soldato che sopraggiunge.
IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO, altri CONDOTTIERI.
Fine dell’atto secondo.
[844] Qui era una nota: Vedasi la Prefazione, a pagina [161].
[845] qual’è?
[846] Sovra. Altrove lascia sovra; cfr. pag. 247.
[847] Scalpitare
[848] Rendon
[849] muor.
[850] romor.
[851] risuona
[852] cuori
[853] giuochi
[854] Ove
[855] giudicio
[856] qual’ora
[857] lo infrange
Tenda del Conte.
IL CONTE e il PRIMO COMMISSARIO.
[858] Or non lo
[859] m’ascolto dir ch’io pur
[860] nuova
[861] Dunque mi giunge una vittoria? E parvi
Il SECONDO COMMISSARIO, e DETTI.
[862] Manca.
[863] cangia
[864] di nuovo
[865] deggio
[866] anco (ma più sù lasciò anco!)
[867] Addoppiato
[868] Ved’ella
[869] sicch’uom
[870] cogli
[871] Quattro cento
[872] ripulsa
[873] a mio mal grado
I PRIGIONIERI,[874] tra i quali PERGOLA figlio, e DETTI.
[874] Prigioni
[875] Prigione; e così sempre.
[876] allorchè
[877] Meglio e più chiaramente virgolato nella prima ediz.:
[878] giovanotto
[879] Cogli
[880] Questa
[881] Io il son.
[882] E tosto
[883] giovanetto
[884] ov’ei
[885] piglia
I due COMMISSARI.
Fine dell’atto terzo.
[886] Contra
[887] la nostra voglia
[888] V’ha
[889] vi
[890] Che
[891] e già si pasce Del suo disegno, come il tenga,
[892] divenirlo
[893] Avvene
[894] ufficio
[895] obbedirlo
[896] v’è
[897] in tempo (ma più giù lascia a tempo!)
[898] Così anche nella prima ediz.; ma altrove, cfr. pochi versi più sù, aveva sempre scritto obbedire ecc.; che ora muta in ubbidire ecc.
Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.
[899] via
[900] fia
[901] Ella
[902] dinanzi a cui
[903] domanda
[904] vi
[905] nuocere
[906] ei voglia
[907] ch’ei
[908] nuovo
[909] V’era
[910] Ma se nemico È della patria; mi si provi, è il mio.—Del resto, tutto questo discorso di Marco riesce più cospicuamente punteggiato nella prima ediz.; dove è messa meglio in evidenza quella specie di dibattito tra le obiezioni presunte e le risposte che vi contrappone l’uomo onesto ed oculato.
[911] Chi sa mai com’è sfuggita alla spietata persecuzione questa j!
[912] in
[913] romor
[914] incontra un nuovo
[915] solo, Signor
[916] Anche questo fra noi (nell’«Adelchi», I, 4ª: fra di noi) è riuscito a sgattaiolare! Poco prima c’è stato un fra tante, come pur nell’«Adelchi», V, 8ª; ma colà sul contrabbando il Manzoni ha chiuso un occhio, per evitare la cacofonia. Vero è che altrove («Carmagnola», I, 4ª) non s’è fatto scrupolo di correggere: Non troverò tra tanti prenci!
[917] sieno
[918] ufficio
[919] io sentii
[920] veggio
[921]; che
[922] Voi, che pensieri avete?
[923] a vuoto
[924] chieggio
[925] questi
[926] Musulman
[927] ufficio
[928] reca
[929] Nella prima stampa anche qui era già: Ubbidirò, ubbidisca: cfr. dianzi pag. 227.
[930] ei troverà,
[931] s’egli indugia, o
[932] serbatelo
[933] stilo
[934] deggio
[935] ho in testimonio
[936] veggia
[937] io son
[938] anco
[939] ei caccerà
[940] aguato
[941] gl’importa
[942] gli
[943] muore!
[944] Giuro
[945] veggio
[946] v’ha
[947] Sic!
[948] Io
Tenda del CONTE.
IL CONTE, e GONZAGA.
Fine dell’atto quarto.
[949] imponevi
[950] sarien
[951] varcato non l’hanno
[952] veggio
[953] Coll’occhio
[954] veggia
[955] Avvene.—Il Manzoni rimase oscillante, nelle tragedie, circa il modo di scrivere le voci composte di codesto verbo. In questa stessa tragedia, lasciò correre, p. es., un avvi nella scena quinta dell’atto I (pag. 191).
[956] Ch’io
[957] Veggiam.
[958] a lor la pace Domanda il Duca,
[959] E pur
Notte.—Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.
IL DOGE, i DIECI, e IL CONTE seduti.
[960] ponea
[961] nuovo
[962] in tempo. Cfr. pag. 226.
[963] chieggio
[964] io dico
[965] Vuoto
[966] ragion
[967] Il cangerei
[968] Ch’io fui
[969] in fra (ma cfr. pag. 240!).
[970] Quel ch’io
[971] veggia
[972] fa [ra] per
[973] Or
[974] stimò
[975] Omai
[976] tribunal
[977] veggio
[978] beneficio
[979] vi
[980] v’è
[981] Questi due versi furono aggiunti nell’ediz. del 1845.
[982] muor
[983] fra le genti armate.
Casa del CONTE.
ANTONIETTA, e MATILDE.
GONZAGA, e DETTI.
Prigione.
ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE.
Fine della tragedia.
[999] Iddio sui buoni.—«Quando.... nel “Carmagnola„ corresse allor che Dio sui boni.... il Manzoni cominciava a profanare con una pedanteria la serena compostezza dell’opera sua.... Veramente, si fermò a codeste inezie, senza manomettere tutto il tesoro della lingua arcaica e poetica di cui s’era largamente valso.... Perfino si lasciò sfuggire il perseguitato dittongo nella scena quinta dell’atto I del “Carmagnola„: i buoni mai Non fur senza nemici». D’Ovidio, Le correzioni ecc., pag. 209-10.
[1000] sciagura
[1001] veggia
[1002] muojo
[1003] È grande il torto
[1004] Ella ne
[1005] veggio
[1006] poscia
[1007] V’è
[1008] Ai
[1009] destina
[1010] infin
[1011] sien
[1012] Muojo
[1013] alla
[1014] sacrificio
[1015] omai
[1016] ode
Anche del Conte di Carmagnola rimangono, tra i manoscritti manzoniani, tre forme: un primo abbozzo; una minuta messa al pulito del primo e del secondo atto; una minuta netta di tutta la tragedia.
Nel primo abbozzo, avanti all’atto I è segnata la data: «15 gennaio 1816»; avanti all’atto II: «18 dicembre 1816»; in principio dell’atto III: «5 luglio», in fine: «15 luglio»; in principio dell’atto IV: «20 luglio»; e del V: «6 agosto»; in fine: «12 agosto». Le scene e i brani, non più compresi nella forma definitiva della Tragedia, che noi diamo qui, seguendo, e qua e là correggendo, il Bonghi (Opere inedite o rare di A. M.; vol. I, pp. 204-235), son tratti appunto da[264] questo primo abbozzo.
La seconda e la terza minuta offrono poche e poco notevoli divergenze dalla stampa.
Scherillo.
Sala del Senato.
STEFANO, MARINO [Senatori].
[1017] È degno di nota che questa sentenza: «non fa patti eterni Con alcun la fortuna», fu poi smaltita dal Manzoni, mettendola in bocca di Adelchi, nel magnifico soliloquio della sc. 2ª dell’atto V.
MARCO, e DETTI.
[1018] Cfr. «Adelchi», V, 8ª: «loco a gentile Ad innocente non v’è».
[corrispondente alla sc. I della stampa].
Entra il DOGE seguito dai Senatori, MARCO si frammischia a questi.
(Esce un Segretario o Bidello o altro magnariso qualunque, a scelta del capo comico).
[1019] Nota marginale del Manzoni: «Accennare qui più distintamente le circostanze in cui si trovava il Duca alla morte di suo padre».
[corrispondente alla sc. III della stampa].
[corrispondente alla sc. V della stampa, dacchè nell’abbozzo manca una scena che corrisponda alla IV, a quella cioè del monologo del CONTE].
A questa scena, che nell’abbozzo era anche indicata come 1ª dell’atto II, seguivano una 2ª ed una 3ª, delle quali non v’ha traccia nella stampa, e che noi riproduciamo qui sotto.
[1020] Nella stampa, con questi ultimi tre versi, di poco variati, finisce l’Atto I.
Via con molto popolo.
Due CITTADINI.
BARTOLOMEO BUSSONE, e DETTI.
La scena 4ª manca; ma è indicata così: Il Doge, il Conte, e seguito.
Rinunziando poi a queste scene, nello stesso primo getto l’Atto II si apriva con queste altre due scene, che pur esse furon da ultimo soppresse.
Campo Veneziano presso Maclodio.—10 ottobre 1427.
MICHELETTO DI COTIGNOLA, LORENZO DI COTIGNOLA.
[1021] Cfr. «Adelchi», III, 1ª: «Torna agli antichi Disegni il re?».
[1022] Ora, atto II, sc. 1ª, dice il Pergola: «Italia forse Mai da’ barbari in poi non vide a fronte Due sì possenti eserciti».
[1023] Cfr. ora atto II, scena 1ª:
[1024] Cfr. ora la nota f), a pag. 169 e 177.
IL CONTE, e DETTI.
[1025] Variante marginale:
La sola strofa che nel manoscritto resti diversa, è la penultima:
Del terzo Atto, nel manoscritto, «è ritentata due volte la prima scena: nel primo getto sarebbe stata sino ad ho vinto, e di qui avrebbe continuato alla seconda. Nel rimanente, l’atto manoscritto è conforme a quello della stampa: ma alla forma in cui si legge, non giunge se non dopo molte e ripetute correzioni fatte nello scriverlo».
Del quarto Atto, il manoscritto non giunge che al verso del soliloquio di Marco, nella scena seconda: Stretto m’avete! Un nobile consiglio. Il rimanente dell’Atto manca. «Sin dove il manoscritto resta, si conforma, eccetto variazioni di minor conto, allo stampato. I personaggi della scena prima sono diversi da quelli che v’hanno parte nella tragedia stampata: I tre Inquisitori di Stato seduti—Il presidente solo parla—Marco in piedi».
Anche l’Atto quinto non è dissimile dallo stampato.
Il Bonghi avverte: «Quattordici fogli sciolti hanno rifacimenti di diverse parti del dramma; ed un foglio, non di mano del Manzoni, porta una serie di emendamenti e suggerimenti alla scena 1ª dell’atto II come si legge ora; sicchè è stata scritta tra la seconda minuta e la terza».
La Lettera seguente non fu, la prima volta, pubblicata dal Manzoni; bensì dal Fauriel, insieme con la traduzione francese delle due tragedie, a Parigi, nei primi mesi del 1823.[1026] Fu ristampata varie volte, e da varii, in Italia (p. es. in fondo al volume «Tragedie ed altre poesie di A. M. milanese, con l’aggiunta di alcune prose sue e di altri, ediz. 2ª fiorentina;[1027] Firenze, tip. all’insegna di Dante, 1827»; e nell’altra: «Opere di A. M. in versi e in prosa; Firenze, Passigli, 1836»); e finalmente dal Manzoni medesimo tra le Opere varie, nel 1845. Non vi fece alcun ritocco.
Fu scritta durante la lunga dimora, che fu anche l’ultima, fatta dal poeta con la sua famiglia—i figliuoli sommavano già a cinque, e l’ultimo, Enrico, era nato poco prima, nel giugno del 1819, e pendeva dal seno materno—a Parigi. Eran partiti da Milano il 14 settembre del 1819, per la via di Torino, col proposito di traversare la Svizzera; ma, dopo un sol giorno di sosta a Torino, «trovando che sarebbe stata cosa troppo grave il viaggiare con una famiglia tanto numerosa e con bambini tanto piccoli», proseguirono per la più corta. Rimasero nella tanto sospirata, e ricca per essi di tanti cari e diversi ricordi, metropoli francese, otto mesi; e, scriveva[296] a una sua cugina l’amabile signora Enrichetta, «in questo intervallo di tempo abbiamo avuto il dolore di vedere la salute di mio marito non vantaggiarsi in alcun modo». Da qualche anno, a Milano, il Manzoni era afflitto da una grave malattia di nervi; e «noi», soggiungeva l’Enrichetta, «avevamo sperato che il mutamento d’aria e un po’ di distrazione avrebbero contribuito alla sua guarigione». Invece, a Parigi, le cose non eran punto migliorate: «egli ebbe in quella città una malattia assai lunga, che ci tenne molto inquieti:... fu malato per quaranta giorni;... e finalmente,... appena si trovò in condizione d’intraprenderlo, ci rimettemmo in viaggio, per tornare in casa nostra». Viaggiarono a piccole giornate, per non affaticare il convalescente; e l’8 agosto 1820, «nel maggior caldo», giunsero a Brusuglio: «ma noi sopportavamo con piacere ogni disagio, nel desiderio di poterci ritrovare di nuovo tranquillamente in casa nostra»[1028].
La Lettre à m. Chauvet rimase manoscritta nelle mani dell’amico insigne, al quale la prima, e fin allora unica tragedia, era dedicata. Il Manzoni, rimpatriato, gliene domanda conto, con quel garbo signorile ed amabile che gli era abituale, in una lettera da Milano, 17 ottobre 1820:
«J’ai honte de vous parler encore de mon fameux coup de lance contre M. Chauvet, mai je n’en fais ici mention que pour vous dire que dans le cas très probable, que vous jugiez que la publication si tardive de ce pauvre factum ne fût plus convenable, et que venant si long-tems après l’attaque elle n’eût tout-à-fait l’air d’être le produit d’une mémoire d’auteur et d’une rancune vraiment italienne, dans ce cas, dis-je, ne croyez pas me faire la plus petite peine en la supprimant; mais si vous persistez dans la résolution de la livrer à l’empressement du public, il vaudrait peut-être mieux la publier séparément, d’abord pour ne pas retarder encore ou pour ne pas trop vous presser dans votre travail sur le romantique, et pour beaucoup d’autres raisons dont je vous épargne l’ennuyeuse énumération».[1029]
Nel poscritto poi d’un’altra lettera, pur da Milano, il 29 gennaio 1821, ripigliava (pag. 323):
«J’oubliais de vous dire encore de ne plus parler de ce petit avorton de lettre à M. Chauvet. Si une bonne occasion se présentait, vous me feriez bien plaisir de m’envoyer, à votre choix, ou la copie ou mon barbouillage, pour le communiquer à Visconti et à quelques autres amis».
E in principio di un’altra, che parrebbe scritta alla fine del febbraio di quell’anno, ripete ancora (pag. 323):
«Pour ma guerre avec M. Chauvet, n’y pensez plus absolument; il n’y a plus ni spectateurs, ni combattants, le champ de bataille même a presque disparu. Sérieusement, je vous prie de n’y plus songer».
Finalmente il Fauriel si fece vivo, e mandò all’amico una copia di quella sua scrittura, qua e là ritoccata, e con l’assicurazione che un giorno o l’altro, forse non molto lontano, sarebbe stata stampata. E il Manzoni, il 3 novembre 1821 (pag. 330):
«J’oubliais de vous remercier de la copie que vous avez bien voulu faire tirer et m’envoyer de la lettre à M. C..... A-t-elle paru? Et que va-t-elle devenir à la veille, et surtout dans le plein jour de la superbe session qui va s’ouvrir? Qui vaudra de la littérature à présent?... Ne m’oubliez pas auprès de Cousin».
Ma ripigliava subito, a buon conto, in un poscritto:
«J’ouvre le paquet pour réunir cette feuille à la première, puisqu’on me l’a rapporté, en disant qu’on me laissait encore quelques momens. Je ne sais que vous dire de votre persistance si amicale à vouloir préserver du déluge cette pauvre lettre a M. C..... Je vous remercie aussi de la pensée que vous avez eue de publier en français la lettre de Goethe. Ces choses-là ne devraient raisonnablement pas faire beaucoup de plaisir; mais quand elles en font, je crois qu’il vaut mieux l’avouer que de dissimuler la reconnaissance, pour feindre la modestie».
Certo, gli avvenimenti politici di quei giorni, in Francia, non erano tali da lasciar prevedere che molti avrebbero avuto la voglia e la calma di tener dietro a una discussione di critica letteraria! Il Ministero moderato, nuovamente ricomposto dopo la sciagurata elezione a deputato del pseudo-regicida abate Grégoire (settembre 1819) e dopo lo stolto attentato di cui cadde vittima il Duca di Berry (13 febbraio 1820), si preparava ad affrontare, in un disperato cimento, le Opposizioni riunite ai suoi danni. Era presieduto, per la seconda volta, dal Duca di Richelieu, gentiluomo di vecchia razza, impeccabile e insospettabile, che aveva per colleghi e collaboratori principali i due più illustri parlamentari della Restaurazione, il Conte De Serre, uno dei più formidabili oratori che abbia mai avuto la tribuna francese, e il «cancelliere» Pasquier, oramai inviso agli ultramonarchici per la politica liberale ch’ei seguiva nei riguardi dell’Italia. La Destra reazionaria, rafforzata dalle ultime elezioni—in grazia della nuova legge che la strenua difesa di Pasquier e di De Serre era riuscita a condurre, l’anno innanzi, in porto, tra lo scontento e le amarezze dei liberali dei due Centri, le invettive e le minacce della Sinistra (Lafayette, Manuel), e i tumulti della piazza,—era risoluta a buttarlo giù; e con essa cospirava, mancando alle sue promesse, l’insofferente Conte d’Artois. Gli antichi amici, i così detti «dottrinarii», che facevan capo al Royer-Collard, già professore alla Scuola Normale e direttore generale per la Pubblica Istruzione, a Camille Jordan, al duca Victor de Broglie (genero di mad.ᵐᵉ de Staël), a De Barante, al Guizot, ora nicchiavano, offesi appunto dalla malaugurata riforma della legge elettorale. Il vecchio re, Luigi XVIII, abbindolato dalle grazie seducenti della Contessa Du Cayla, l’Esther, come le piaceva chiamarsi, di quell’Assuero, non osava di mostrar più risolutamente le istintive sue simpatie pei suoi insigni ministri. A qual sorte, dunque, andava incontro quell’onesto Ministero, sbattuto tra le ambizioni irrompenti dei realisti arrabbiati e i risentimenti appassionati dei liberali, tra le pretese della Destra che avrebbe voluto «il re senza la carta» e quelle della Sinistra che avrebbe voluto «la carta senza il re»? L’apertura[299] della nuova sessione era, quando il Manzoni scriveva, imminente, e la Destra con le armi al piede, impaziente di dar battaglia.
Victor Cousin, quegli appunto a cui il Manzoni voleva esser ricordato, ha narrato d’una scena, svoltasi proprio di quei giorni in casa sua. V’eran raccolti, col Royer-Collard, già maestro e predecessore del Cousin, parecchi degli amici del Centro, e discutevan della condotta da tenere alla Camera. Conveniva meglio lasciar in vita il ministero Richelieu-Pasquier-De Serre, ovvero sgomberare la strada a un ministero De Villèle-Corbière, di pura Destra? Meglio, si tendeva a concludere, attenersi a quest’ultimo partito: i reazionarii, con le loro esagerazioni, non avrebbero potuto rimanere in piedi nemmeno sei mesi, e i liberali avrebbero allora potuto prendere una rivincita sicura, e formare uno schietto ministero liberale, senza magagne e senza compromessi. Assisteva alla conversazione un esiliato piemontese, Santorre di Santa-Rosa, una delle vittime dell’ultima rivoluzione di Torino. Il quale, accorato, si permise di osservare al Cousin: «Il vostro dovere di buoni cittadini è di non combattere un ministero, ch’è l’ultima vostra risorsa contro la fazione nemica d’ogni progresso. Non è permesso di fare il male nella speranza del bene. Voi non siete punto sicuri di rovesciare più tardi Corbière e De Villèle, ma siete invece sicuri di far il male, permettendo che essi giungano al potere. S’io fossi deputato, farei ogni sforzo per ringagliardire il ministero Richelieu contro la Corte e la Destra». In cuor loro tutte quelle brave persone riconoscevan la ragionevolezza di codeste osservazioni, ma, nel fatto, preferirono una tattica che pareva abilissima.[1030] Solite illusioni dei galantuomini, quando, maldestri come sono alle male arti, sventuratamente si risolvono a prendere in prestito i metodi dei furbi senza scrupolo!
Il Manzoni riscrisse al Fauriel il 6 marzo del 1822. La catastrofe era avvenuta, e forse già tutte le illusioni dissipate. Il 14 dicembre 1821, il ministero liberale era stato rovesciato,[300] e gli s’era sostituito un ministero di monarchici intransigenti, punto disposti a lasciar presto il potere. Vi entrarono col De Villèle e il Corbière, il De Peyronnet e Mathieu de Montmorency, al quale ultimo, dopo il Congresso di Verona, fu surrogato quello splendido vanesio ch’era, lo Châteaubriand. «M. de Villèle», ha detto il De Mazade, «esprit plus pratique et plus fin que supérieur, n’aimait pas les hommes brillans autour de lui»; e anche lo Châteaubriand, nell’estate del 1824, sarebbe stato da lui congedato. Intanto, il Richelieu era morto di crepacuore, meno di sei mesi dopo la catastrofe, nella primavera del 1822; e il De Serre, che il Re volle si mandasse ambasciatore a Napoli, moriva, anch’egli di crepacuore (il De Villèle aveva spiegata ogni arte perchè questo Bonghi della Restaurazione non riuscisse deputato nelle elezioni della primavera 1824!), il 21 luglio di quell’anno medesimo, nella villa reale di Quisisana a Castellammare di Stabia.[1031] Non sopravvisse che il Pasquier; il quale, ripensando a quei tristi avvenimenti, scriveva quarant’anni più tardi: «En 1822, il faut bien que je le dise, la maison de Bourbon a commis un grand acte de déraison: elle a brisé, au moment où il pouvait lui être le plus utile, l’instrument qui lui avait déjà rendu de si grands services. La destruction du second ministère du duc de Richelieu a été, voyez-vous, plus qu’une faute politique; elle a été un véritable crime!». La reazione trionfatrice toccò anche più da vicino gli amici del Manzoni; e, per esempio, fu chiusa la bocca al Cousin e al[301] Guizot.[1032] I quali non poteron riprendere i loro corsi se non nell’aprile del 1828, quando una salutare, benchè effimera, bufera, rovesciò il ministero De Villèle, facendo luogo a un ministero liberale con a capo il De Martignac. (Il Cousin dettò allora la sua Introduction a l’Histoire de la Philosophie, e il Guizot l’Histoire de la Civilisation en Europe).
Oramai si poteva anche riparlare di critica letteraria, e, se non altro, propugnare lo sfranchimento dalla tirannia di Aristotile e di Boileau. E il Manzoni riparla della sua Lettre à M. C... (pag. 333):
«Parmi les corrections par lesquelles vous avez bien voulu rendre un peu plus française et un peu plus raisonnable ma pauvre lettre à M. C...., il y a deux petits changements sur lesquels j’ai quelques difficultés à vous proposer. Je vais le faire avec cette liberté que me donne votre ancienne bonté pour moi. —1. Thèse toujours hasardeuse, dans la première page [312], ne me semble pas rendre précisément mon idée, qui est d’exclure toute sorte de raison, et toute chance de succès, du projet de défendre ses ouvrages, c’est-à-dire de prouver que l’on a bien fait. Ne tenez aucun compte de cette observation, si elle vous parait une vétille; dans l’autre cas, ayez la bonté de substituer un autre mot».—[Ora è detto: «thèse toujours insoutenable»]. 2. Dans l’endroit où j’ai parlé de l’étonnement d’une grande partie du public sur ce que des grands revers n’avaient pas été suivis d’un suicide[302] [pag. 362], mon intention était de rappeler quelque chose de la vie réelle et de l’histoire de nos jours. Dans la copie que vous avez eu la bonté de m’envoyer, cet étonnement ne se rapporte qu’à des compositions dramatiques. Peut-être avez-vous eu quelque motifs que je ne peux comprendre d’ici, pour retrancher tout ce qui pourrait avoir rapport à des personnages et des événemens récens: pour ce qui me regarde, je crois qu’il n’y aurait aucun inconvénient; pour toutes les autres considérations, c’est à vous d’en juger, et de faire ce qui vous paraîtra convenable. Voilà bien des raisonnemens pour deux phrases, et voilà toute une feuille remplie de balivernes».
Ci manca il modo d’indagare se l’allusione, che nella forma definiva della Lettera è abbastanza trasparente («l’époque où nous nous trouvons a été bien féconde en catastrophes signalées, en grandes espérances trompées...»), a Napoleone e ai fatali rovesci che a lui e a tanti suoi fidi, e infidi, seguirono, fu in tutto o in parte modificata. Ad ogni modo, appar chiaro che il Fauriel dovè ritoccare il suo ritocco, dacchè nella stampa lo stupore del pubblico riguarda, senza possibilità di equivoco, gli avvenimenti della storia contemporanea, non già alcune presunte azioni drammatiche.
Il 29 maggio di quello stesso anno 1822, il Manzoni riscrive, proponendo qualche altro cambiamento. Molto significativa è la sua risoluzione di cancellare il nome dello Schiller, là dove lo aveva messo in riga con lo Shakespeare e il Goethe. Dice (pag. 335):
«......il faut que je vous donne encore de l’ennui en vous priant de quelques petites corrections. Il y a quelque part [pag. 375]: formule sacramentelle, à quoi je voudrais substituer: mots techniques, ou tel autre tour que vous jugerez à propos.—Ensuite, je voudrais retrancher le nom de Schiller, qui s’y trouve une fois, et d’une manière qui fait supposer une idée beaucoup plus haute que je ne l’ai réellement de l’importance de cet écrivain au point de vue dramatique [pag. 336]. Vous vous souviendrez peut-être des discours que nous avons tenus sur ce sujet; vos idées ont donné aux miennes là-dessus plus d’étendue et de courage; en relisant les tragédies de Schiller, je me suis confirmé dans ces idées; enfin, je ne mérite ni n’ose le nommer.—Ce retranchement rend nécessaire une autre petite correction (oh! pardon de tant d’ennui que je vous cause!): il y a vers la fin [pag. 379]: si les trois poëtes qui ont méprisé ces règles; on pourra mettre à la place: si tous les poëtes... etc.—Enfin, à ces paroles [pag. 377]: les romantiques amis, il faudrait substituer: les romantiques, ou ceux qu’on appelle romantiques, ou telle autre expression que vous jugerez convenable».
Il curioso scrupolo di cercare un equivalente alle parole «formule sacramentelle», non fu assecondato dal Fauriel; e dovè poi parere eccessivo allo stesso Manzoni se, anche dopo, non ha cambiato. E quanto allo Schiller, si può vedere più innanzi, nei Materiali estetici, quel ch’egli prima ne pensasse e ne scrivesse.
Le correzioni e i ritocchi non erano ancora finiti. In un’altra lettera, del 12 settembre 1822, il Manzoni ripiglia (pag. 343):
«Je croyais avoir fini, et il me souvient que j’ai encore de l’ennui à vous donner sur..... c’en est trop! sur la lettre a M. Ch...... où j’ai une phrase qui me donne un remords assez cuisant pour me déterminer à vous prier de faire encore une correction. C’est à peu près au tiers de la lettre, où il est parlé du mélange du comique et du sérieux. Voici la phrase téméraire [pag. 331]: Je pense, comme un bon et loyal partisan du classique, que le mélange de deux effets contraires détruit l’unité d’impression nécessaire pour produire l’émotion et la sympathie. Là il me parait évident que je tombe dans l’inconvénient que j’ai tant censuré, de fixer ou de reconnaître des bornes arbitraires, qui peut-être n’ont pas été franchies, mais qui peuvent l’être dans l’avenir, avec bonheur. Voici donc ce que je voudrais ajouter, après la sympathie, pour correctif à cette phrase: ou, pour parler plus raisonnablement...»
E qui seguiva, con piccoli mutamenti di forma, che notiamo a suo luogo, il brano com’è nella stampa, fino a: «mais c’est bien certainement un point dont il n’y a pas de conséquences à tirer...»; poi continuava:
«Voilà ma lettre remplie de corrections... Bien entendu que cette correction subira une recorrection de votre main, dont elle a bien besoin: car le peu de français que j’avais, m’échappe de jour en jour».
Chi abbia l’occhio al brano aggiunto, s’accorge subito che il Manzoni ha voluto, con le nuove e più precise dichiarazioni, scansare il pericolo d’esser supposto un tiepido ammiratore, anzi un censore, del Faust; del capolavoro di quel Goethe a cui oramai lo legavano tante ragioni d’ammirazione e di gratitudine. Ouvrage étonnant, che tutti reputavano, e reputano,[1033] un chef-d’oeuvre... à la seule condition qu’on ne[304] lui donnerait pas le nom de tragédie;... va bene; ma, tra le opere dell’olimpico poeta, era poi proprio quella che il nostro grande poeta, cui dava uggia il fantastico, l’impreciso, il vago, e perciò propugnava la religione del vero storico anche nella poesia, prediligeva e preferiva? «C’est ce que je n’ai ni le courage d’affirmer, ni la docilité de répéter»!
In una lettera del 10 dicembre 1822 (pag. 345, dove per evidente svista è stampato ottobre; ma cfr. pag. 198), il Manzoni sente ancora il bisogno d’un cambiamento; e questa volta per evitare possibili noie dalla Censura. Prega il Fauriel di procurare che i primi esemplari del volume, che avrebbe contenute le due tragedie tradotte («Adelchi et son frère aîné vestiti del dì delle feste»), gli articoli del Goethe e la Lettera a Ch..., fossero spediti a Vienna.
«Voici pourquoi: l’admission ou le rejet des livres imprimés à l’étranger, dans une langue étrangère, ne sont pas du ressort de la Censure de Milan; on lui envoie à des périodes fixes un catalogue de Vienne, avec les qualifications respectives, dont elle fait l’application aux livres qui lui sont présentés. Si un livre n’est pas porté sur la liste, il faut alors envoyer à Vienne, non le titre, mais l’ouvrage même pour qu’il y soit soumis à la Censure: c’est comme vous voyez un retard considérable, que je voudrais éviter par le moyen d’une expédition prompte à Vienne».
Non era prevedibile, in verità, che il volume incagliasse tra i battenti della Censura;
«mais quelque exemple récent m’a donné sur la possibilité des refus en général des idées qui autrefois m’auraient paru exagérées, même étranges. Un libraire d’ici, ayant demandé la permission de publier une traduction des Lettres de quelques Juifs par l’abbé Guénée, n’a pu l’obtenir; ayant fait demander à Vienne le motif du refus, on lui a fait répondre que cet ouvrage contenait des choses contraires aux lois existantes. Je connais un peu ce livre, et je vous assure que j’ai de la peine à deviner par quel côté une telle qualification peut lui être appliquée, quand ce ne serait par ce qui s’y trouve contre les lois féodales, pour expliquer, et démontrer probable, la prospérité contéstée des Juifs à une certaine époque».
Codesto strano caso suggeriva al Manzoni il curioso mutamento.
«Cela m’a fait ressouvenir que dans ma Lettre a M. Chauvet il y a un mot sur la féodalité: si par quelque hasard l’impression avait avancé lentement, et n’était pas encore arrivée a ce passage, il ne serait[305] pas mal de faire disparaître ce petit mot: quand ce ne serait que pour éviter au censeur qui a approuvé ici ma Lettre le désagrément d’un damnatur, que je lui épargnerais volontiers, pour lui d’abord, et ensuite parce que l’effet immanquable de ce désagrément serait de le rendre encore plus difficile et cauteleux pour l’avenir. Si le passage est imprimé, comme il est probable, n’y pensons plus, et qu’il aille à la garde de Dieu: autrement, je vous propose une correction, que j’ai préféré de faire comme j’ai pu, plutôt que d’avoir l’indiscretion de vous en charger dans cette occasion».
Si era ancora in tempo, e la correzione fu fatta. Ma, purtroppo, non siamo più al caso di ripristinare il testo, con quel motto contro la feodalità. I periodi rifatti son quelli contenuti nel brano che va dal capoverso: Le règne des erreurs grandes et petites... all’altro seguente: Quand elles en sont à cette seconde époque... (pag. 377). Differiscono dalla stampa per parecchi ritocchi di forma; che sembran certo dovuti alle amorevoli cure del Fauriel.
Finalmente, e come Dio volle, il volume, con le tragedie tradotte e la Lettera, venne fuori; e così il Fauriel ne scriveva al Manzoni in una lettera senza data, ma che fu certamente scritta tra il marzo e l’aprile del 1823 (pag. 203):
«Sachez que votre traduction a éprouvé une multitude de retards que je n’avais nullement prévus, et auxquels je ne devais point m’attendre. Il n’y a guère qu’un mois ou 6 semaines qu’elle est en vente, autant qu’un livre est en vente ici avant que les journaux en aient bavardé à leur manière: c’est à quoi je les provoque maintenant, faute de l’avoir pu faire dans le temps des Chambres où la maudite politique prend toutes les colonnes de la littérature. A ce que j’ai pu voir déjà et à ce que je présume, c’est la Lettre à M. Chauvet qui produira le plus d’effet, et excitera le plus d’attention».
In un’altra lettera del Fauriel, del 23 luglio dello stesso anno (pag. 207), si danno queste ultime notizie circa l’accoglienza fatta in Francia a quel singolare saggio di critica drammatica:
«Je ne crois pas vous avoir dit que M. Chauvet se proposait de répondre a votre réponse; c’est ce que l’on m’a annoncé, ce que je ne crois guère, et ce qui est assez indifférent.—Ce que je sais mieux, c’est que l’auteur de Marie Stuard [Pietro Lebrun, che aveva data nel 1820 una tragedia di codesto nome, molto bene accolta] a donné au théâtre une pièce [forse il Cid d’Andalousie] conçue dans vos idées, qu’il adopte entièrement, et ne contestant que les raisons par lesquelles vous combattez le mélange du comique et du sérieux. Il tient lui à ce[306] mélange, le croit dans le but comme dans les moyens de l’art, et espère le faire passer sur notre scène, à la faveur de la popularité de Talma, qui paraît être de son avis et de son goût. Vous voyez que vous n’avez pas prêché tout à-fait dans le désert. Je pourrai bientôt ou vous en dire ou vous en écrive davantage à ce sujet».
Per buona fortuna, le teorie drammatiche del Manzoni avevano avuto in lui medesimo un ben più valido poeta, che non il signor Pietro Lebrun. Il quale, nonostante il valido patrocinio del Talma, andò incontro a un vero naufragio. E gli mancò la voglia e il coraggio di ritentare il teatro. Si rivolse perciò al poema narrativo e descrittivo: e il suo Voyage en Grèce, pel quale forse non gli mancavano gl’incoraggiamenti dello stesso Fauriel, appassionato raccoglitore dei Canti popolari della Grecia moderna, ebbe elogi ch’è sperabile lo compensassero delle amarezze drammatiche.
Il Fauriel, pubblicando la Lettre à M. Chauvet, le premise quest’Avvertenza:
«Plusieurs de nos journaux rendirent compte, avec plus ou moins d’éloges, du Comte de Carmagnola de M. Manzoni, lorsqu’il parut, au commencement de 1820, et notamment le Lycée Français, qui en donna une analyse étendue et soignée, analyse où les beautés de la pièce annoncée étaient appréciées avec beaucoup de goût et d’intérêt, et où le parti qu’avait pris l’auteur de s’affranchir de la règle des unités était combattu par des raisons ingénieuses et en partie nouvelles.
M. Manzoni, qui se trouvait alors à Paris, et qui eut connaissance de cet extrait, ne fut ni insensible aux éloges donnés à son talent par un juge éclairé, ni surpris des objections faites au système dramatique qu’il avait suivi. Mais, loin de trouver ces objections sans réplique, il crut au contraire y apercevoir des nouveaux motifs de persister dans son opinion sur la règle des unités; et il céda à la tentation d’écrire, à ce sujet, quelques observations qu’il se proposait d’adresser, en témoignage de reconnaissance et d’estime, à l’auteur même de l’article qui les lui avait suggérées.
Des obstacles imprévus empêchèrent M. Manzoni de terminer sa lettre assez tôt pour qu’elle pût avoir un à propos de circonstance, et de s’y appliquer autant qu’il y était disposé. Bientôt après, obligé de repartir pour l’Italie, il ne songeait plus à mettre au jour un écrit qu’il n’en estimait pas digne, et auquel il n’avait pu donner tout le soin dont il était susceptible. Cependant, ayant eu communication de[307] cet écrit, j’en avais pensé autrement que son auteur; je l’avais trouvé d’un mérite et d’un intérêt qui m’avaient fait désirer sa publication, et qui me paroissaient rendre fort indifférent le retard accidentel de cette publication. Je priai donc M. Manzoni, à son départ, de me laisser le manuscrit de son ouvrage, en m’autorisant à le mettre au jour quand et comme je le trouverais à propos. Cet ouvrage est celui qui suit, et qui, je l’espère, ne sera pas réputé indigne des deux tragédies auxquelles je le joins ici, comme une sorte d’appendice, qui aidera à comprendre les idées et les vues d’après lesquelles elles ont été conçues et doivent être jugées.
Cet opuscule n’a pas seulement été composé en France; il l’a été en quelque sorte, pour la France, et de plus, en français. Ce sont pour moi des raisons de plus de souhaiter qu’il soit accueilli comme il me semble mériter de l’être. Je dois, du reste, prier les lecteurs de ne pas y chercher plus que son auteur n’a eu le dessein d’y mettre, et d’y voir moins un traité méthodique et en forme sur le sujet indiqué par le titre, que l’effusion libre et abondante de beaucoup d’idées fines ou profondes relatives à ce sujet, et qui ont jailli, rapidement et comme à l’improviste, du choc accidentel des idées contraires».
Scherillo.
[1026] Le «Comte de Carmagnola» et «Adelghis», tragédies de..., traduites de l’italien par M. C. Fauriel: suivies d’un article de Goethe, et de divers morceaux sur la théorie de l’art dramatique: Paris, Bossange frères libr., 1823, impr. de Cellot, in 8º. pp. XX-491.
[1027] La prima, ch’io non ho vista, è del 1825.—Per questa, e per altre edizioni, cfr. il Catalogo della Sala Manzoniana, nella Biblioteca Braidense, Milano, 1890.
[1028] Cfr. De Gubernatis, Il Manzoni ed il Fauriel; pag. 148-49.
[1029] De Gubernatis, Il Manzoni ed il Fauriel; pag. 319.—Nella stessa lettera un po’ prima, il Manzoni accennava già al lavoro che il Fauriel disegnava intorno al Romanticismo; scrivendogli: «Je le charge [Cousin] impitoyablement de toutes les brochures romantiques ou antiromantiques que nous avons pu ramasser. Quant au Conciliateur, qui est indispensable pour avoir une idée complète de la question romantique en Italie, Cousin le réunit à d’autres livres qu’il fait venir d’Italie, et vous l’aurez un peu plus tard. J’ai encore quelque chose à vous dire sur toute cette bouquinerie....». E terminava: «J’ai un scrupule de conscience qu’il me faut absolument tranquilliser. En vous envoyant toutes ces brochures romantiques, je vous donne l’occasion de faire un travail important pour tout le monde, et pour nous autres Italiens surtout; mais si cela doit retarder de beaucoup votre grand travail, et ajourner de beaucoup la publication des premiers volumes, je vous avoue que j’en aurais des remords, j’en ai déjà d’avoir pu vous laisser ce fatras à débrouiller, et d’avoir cru que les termes de votre bonté devaient être celles de mon indiscretion». (Pag. 317 e 320).
[1030] Cfr. Ch. de Mazade, La politique modérée sous la Restauration: nella «Revue des deux mondes» del 1º maggio 1878, pag. 23.
[1031] Mi pare abbastanza singolare, così che meriti d’esser rilevata, la somiglianza tra le parole solenni messe dal Manzoni in bocca di Adelchi moribondo (V, 8ª): «Una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto...» e queste d’uno dei più elevati discorsi parlamentari del De Serre, a proposito dell’idea propugnata dalla Destra, di dichiarare la bancarotta dello Stato verso i creditori, come reazione a tutto ciò che proveniva dalla Rivoluzione. «L’injustice du passé vous révolte», egli disse: «ce sentiment est louable: mais si les siècles pouvaient se rapprocher devant nous, si, dépouillée de la mousse des temps, la racine de tous les droits pouvait se découvrir a nos yeux, pensez-vous que les droits les plus respectés aujourd’hui nous apparaîtraient purs de toute violence, de toute usurpation, de toute injustice?». Cfr. De Mazade, La politique modérée ecc., nella «Revue des deux mondes» del 1º novembre 1877, pag. 26.
[1032] Dato il timore della Censura, sospetto che possa alludere a codesti avvenimenti il seguente brano d’una lettera del Manzoni al Fauriel, del 4 giugno 1822: «Les nouvelles de Cousin m’ont bien rattristé: je ne veux point admettre des craintes pressantes pour sa santé, mais la continuation de son état maladif commence à me faire craindre tout de bon que sa vie, que j’espère devoir être très longue, soit cependant celle d’un valétudinaire. Je suis dans l’attente et dans l’espoir d’apprendre par votre première lettre quelque chose de plus consolant sur cet ami que l’on ne peut oublier.—J’ai reçu le deux prospectus, et la Vie de Shakespeare que je désirais lire avec plus d’empressement que d’espérance: car les livres arrivent plus rarement et plus tard que jamais. Je m’en vais la lire: et je vous en parlerai à la première occasion, puisque vous le voulez bien. Vous vous souviendrez peut-être du plaisir que m’a fait la Vie de Corneille, où je trouvai tant d’idées qui sortaient des doctrines dramatiques communes. Le champ de ces doctrines est bien agrandi à present, et le talent de celui qui en parlait dès-lors d’une manière si distinguée n’a fait que gagner depuis: ainsi, n’ai-je pas raison de m’attendre à un plus grand plaisir, et à un plus grand profit?». L’autore delle Vite di Corneille e di Shakespeare era il Guizot.
[1033] Reputano, nonostante la dotta e arguta bizzarria che nel 1865 pubblicò Vittorio Imbriani. Un capolavoro sbagliato: il «Fausto» del Goethe (ripubblicato poi nel volume Fame usurpate: Napoli, Marghieri, 1877).
Monsieur,
C’est une tentation à laquelle il est difficile de résister, que celle d’expliquer son opinion à un homme qui soutient l’opinion contraire avec beaucoup d’esprit et de politesse, avec une grande connaissance de la matière et une ferme conviction. Cette tentation, vous me l’avez donnée, Monsieur, en exposant les raisons qui vous portent à condamner le système dramatique que j’ai suivi dans la tragédie intitulée Il Conte di Carmagnola, dont vous m’avez fait l’honneur de rendre compte dans le Lycée français. Veuillez donc bien subir les conséquences de cette faveur, en lisant les observations que vous m’avez suggérées.
Je me garderai bien de prendre la défense de ma tragédie contre vos bienveillantes censures, mêlées d’ailleurs d’encouragemens qui font plus, pour moi, que les compenser. Vouloir prouver que l’on a fait une tragédie bonne de tout point est une thèse toujours insoutenable[1034], et qui serait ridicule ici, à propos d’une tragédie écrite en italien, par un homme dont elle est le coup d’essai, et qui ne peut, par conséquent, exciter en France aucune attention. Je me tiendrai donc dans la question générale des deux unités; et[310] lorsqu’il me faudra des exemples, je les chercherai dans d’autres ouvrages dont le mérite est constaté par le jugement des siècles et des nations. Que s’il m’arrive parfois d’être obligé de parler de Carmagnola, pour raisonner sur l’application que vous faites de vos principes à ce sujet particulier de tragédie, je tâcherai de le considérer comme un sujet encore à traiter.
Dans une question aussi rebattue que celle des deux unités, il est bien difficile de rien dire d’important qui n’ait été dit: vous avez cependant envisagé la question sous un aspect en partie nouveau; et je la prends volontiers telle que vous l’avez posée: c’est, je crois, un moyen de la rendre moins ennuyeuse et moins superflue.
J’avais dit que le seul fondement sur lequel on a pendant longtemps établi la règle des deux unités est l’impossibilité de sauver autrement la loi essentielle de la vraisemblance; car, selon les partisans les plus accrédités de la règle, toute illusion est détruite dès que l’on s’avise de transporter d’un lieu dans un autre, et de prolonger au-delà d’un jour, une action représentée devant des spectateurs qui n’y assistent que pendant deux ou trois heures, et sans changer de place. Vous paraissez donner peu d’importance a ce raisonnement. «C’est moins encore», dites-vous, «sous le rapport de la vraisemblance qu’il faut considérer l’unite de jour et de lieu que sous celui de l’unite d’action et de la fixité des caractères». J’admettrai donc ces deux conditions comme essentielles à la nature même du drame, et j’essaierai de voir s’il est possible d’en déduire la nécessité de la règle.
J’aurais toutefois, je l’avoue, désiré que vous vous fussiez énoncé d’une manière plus explicite sur la question speciale de la vraisemblance. Comme c’est le grand argument que l’on a opposé jusqu’ici à tous ceux qui ont voulu s’affranchir de la règle, il aurait été important pour moi de savoir si vous le tenez aujourd’hui pour aussi solide qu’il l’a toujours paru, ou si vous avez consenti a l’abandonner. Il arrive quelquefois que des principes soutenus longtemps par des raisonnemens faux se démontrent ensuite par d’autres raisonnemens. Mais, comme le cas est rare, et comme la variation[311] dans les preuves d’un système est toujours une forte présomption contre la vérité de son principe, j’aurais aimé à savoir si c’est pour avoir trouvé insuffisantes ou fausses les anciennes raisons alléguées en faveur du système établi, que vous en avez cherché de nouvelles.
Avant d’examiner la règle de l’unité de temps et de lieu dans ses rapports avec l’unité d’action, il serait bon de s’entendre sur la signification de ce dernier terme. Par l’unite d’action, on ne veut sûrement pas dire la représentation d’un fait simple et isolé, mais bien la représentation d’une suite d’événemens liés entre eux[1035]. Or cette liaison entre plusieurs événemens, qui les fait considérer comme une action unique, est-elle arbitraire? Non, certes; autrement l’art n’aurait plus de fondement dans la nature et dans la vérité. Il existe donc, ce lien; et il est dans la nature même de notre intelligence. C’est, en effet, une des plus importantes facultés de l’esprit humain, que celle de saisir, entre les événemens, les rapports de cause et d’effet, d’antériorité et de conséquence, qui les lient; de ramener a un point de vue unique, et comme par une seule intuition, plusieurs faits séparés par les conditions du temps et de l’espace, en écartant les autres faits qui n’y tiennent que par des coïncidences accidentelles. C’est là le travail de l’historien. Il fait, pour ainsi dire, dans les événemens, le triage nécessaire pour arriver a cette unité de vue; il laisse de côté tout ce qui n’a aucun rapport avec les faits les plus importans; et, se prévalant ainsi de la rapidité de la pensée, il rapproche le plus possible ces derniers entre eux, pour les présenter dans cet ordre que l’esprit aime à y trouver, et dont il porte le type en lui-même.
Mais il y a, entre le but du poëte et celui de l’historien, une différence qui s’étend nécessairement au choix de leurs[312] moyens respectifs. Et, pour ne parler de cette différence qu’en ce qui regarde proprement l’unité d’action, l’historien se propose de faire connaître une suite indéfinie d’événemens: le poëte dramatique veut bien aussi représenter des événemens, mais avec un degré de développement exclusivement propre à son art: il cherche à mettre en scène une partie détachée de l’histoire, un groupe d’événemens dont l’accomplissement puisse avoir lieu dans un temps à peu près déterminé. Or, pour séparer ainsi quelques faits particuliers de la chaîne générale de l’histoire, et les offrir isolés, il faut qu’il soit décidé, dirigé par une raison; il faut que cette raison soit dans les faits eux-mêmes, et que l’esprit du spectateur puisse sans effort, et même avec plaisir, s’arrêter sur cette partie détachée de l’histoire qu’on lui met sous les yeux. Il faut enfin que l’action soit une; mais cette unité existe-t-elle réellement dans la nature des faits historiques? Elle n’y est pas d’une manière absolue, parce que dans le monde moral, comme dans le monde physique, toute existence touche à d’autres, se complique avec d’autres existences; mais elle y est d’une manière approximative, qui suffit à l’intention du poëte, et lui sert de point de direction dans son travail. Que fait donc le poëte? Il choisit, dans l’histoire, des événemens intéressans et dramatiques, qui soient liés si fortement l’un à l’autre, et si faiblement avec ce qui les a précédés et suivis, que l’esprit, vivement frappé du rapport qu’ils ont entre eux, se complaise à s’en former un spectacle unique, et s’applique avidement à saisir toute l’étendue, toute la profondeur de ce rapport qui les unit, à démêler aussi nettement que possible ces lois de cause et d’effet qui les gouvernent. Cette unité est encore plus marquée et plus facile à saisir, lorsqu’entre plusieurs faits liés entre eux il se trouve un événement principal, autour duquel tous les autres viennent se grouper, comme moyens ou comme obstacles; un événement qui se présente quelquefois comme l’accomplissement des desseins des hommes, quelquefois, au contraire, comme un coup de la Providence qui les anéantit; comme un terme signalé ou entrevu de loin, que l’on voulait éviter, et vers lequel on se précipite par le chemin même où l’on s’était jeté pour[313] courir au but opposé. C’est cet événement principal que l’on appelle catastrophe, et que l’on a trop souvent confondu avec l’action, qui est proprement l’ensemble et la progression de tous les faits représentés.
Ces idées sur l’unite d’action me paraissent si indépendantes de tout système particulier, si conformes à la nature de l’art dramatique, a ses principes universellement reconnus, si analogues aux principes même énoncés par vous, que j’ose présumer que vous ne les rejetterez pas. En ce cas, voyez, Monsieur, s’il est possible d’en rien conclure en faveur de la règle qui restreint l’action dramatique à la durée d’un jour et à un lieu invariablement fixé. Que l’on dise que plus une action prend d’espace et de durée, et plus elle risque de perdre ce caractère d’unité si delicat et si important sous le rapport de l’art, et l’on aura raison; mais, de ce qu’il faut à l’action des bornes de temps et de lieu, conclure que l’on peut établir d’avance ces bornes, d’une manière uniforme et précise, pour toutes les actions possibles; aller même jusqu’à les fixer, le compas et la montre à la main, voilà ce qui ne pourra jamais avoir lieu qu’en vertu d’une convention purement arbitraire. Pour tirer la règle des deux unités de l’unité d’action, il faudrait démontrer que les événemens qui arrivent dans un espace plus étendu que la scène, ou, si vous voulez, dans un espace trop vaste pour que l’oeil puisse l’embrasser tout entier, et qui durent au-delà de vingt-quatre heures, ne peuvent avoir ce lien commun, cette indépendance du reste des événemens collatéraux et contemporains, qui en constituent l’unite réelle: et cela ne serait pas aisé. Aussi ceux qui ont fait la règle n’ont-ils songé à rien de tel: c’est pour l’illusion, pour la vraisemblance, qu’ils l’ont imaginée; et il y avait déjà long-temps qu’elle était établie sur cette base quand Voltaire a cherché à lui donner un nouvel appui: car c’est lui qui a voulu, le premier, déduire l’unite de temps et de lieu de l’unite d’action, et cela par un raisonnement dont M. Guillaume Schlegel a fait voir la faiblesse et même la bizarrerie, dans son excellent cours de littérature dramatique.
J’avoue, du reste, que cette manière de considérer l’unité[314] d’action comme existante dans chaque sujet de tragédie, semble ajouter à l’art de grandes difficultés. Il est, certes, plus commode d’imposer et d’adopter des limites arbitraires. Tout le monde y trouve son compte: c’est pour les critiques une occasion d’exercer de l’autorité; pour les poëtes, un moyen sûr d’être en règle, en même temps qu’une source d’excuses; et enfin pour le spectateur, un moyen de juger, qui, sans exiger un grand effort d’esprit, favorise cependant la douce conviction que l’on a jugé en connaissance de cause, et selon les principes de l’art. Mais l’art même, qu’y gagne-t-il sous le rapport de l’unité d’action? Comment lui sera-t-il plus facile de l’atteindre, en adoptant des mesures déterminées de lieu et de temps, qui ne sont données en aucune manière par l’idée que l’esprit se forme de cette unite? Voilà, Monsieur, les raisons qui me font croire, en thèse générale, que l’unité d’action est tout à fait indépendante des deux autres. Je vais à présent vous soumettre quelques réflexions sur les raisonnemens par lesquels vous avez voulu les y associer: je prendrai la liberté de transcrire vos paroles, pour éviter le risque de dénaturer vos idées.
«Pour que cette unité (d’action) existe dans le drame, il faut», dites-vous, «que, dès le premier acte, la position et les desseins de chaque personnage soient déterminés». Quand même on admettrait cette nécessité, il ne s’ensuivrait pas, à mon avis, que la règle des deux unités dût être adoptée. On peut fort bien annoncer tout cela dans l’exposition de la pièce, y mettre tous les germes du développement de l’action, et donner cependant à l’action une durée fictive très considérable, de trois mois par exemple. Ainsi, je ne conteste ici cette nouvelle règle que parce qu’elle me semble arbitraire. Car où est la raison de sa nécessité? Certes, il faut que, pour s’intéresser a l’action, le spectateur connaisse la position de ceux qui y prennent part; mais pourquoi absolument dès le premier acte? Que l’action, en se déroulant, fasse connaître les personnages à mesure qu’ils s’y rallient naturellement, il y aura intérêt, continuité, progression, et pourquoi pas unité? Aussi cette nécessité de les annoncer tous dès le premier acte n’a-t-elle pas été reconnue ni même soupçonnée[315] par plusieurs poëtes dramatiques, qui cependant n’auraient jamais conçu la tragédie sans l’unite d’action. Je ne vous en citerai qu’un exemple, et ce n’est pas dans un théâtre romantique que j’irai le chercher: c’est Sophocle qui me le fournit. Hémon est un personnage très intéressé dans l’action de l’Antigone; il l’est même par une circonstance rare sur le théâtre grec; c’est le héros amoureux de la pièce: et cependant, non seulement il n’est pas annoncé dès le premier acte, si acte il y a, mais c’est après deux choeurs, c’est vers la moitié de la pièce, qu’on trouve la première indication de ce personnage. Sophocle pouvait néanmoins le faire connaître dès l’exposition; il le pouvait d’une manière très naturelle, et dans une occasion qu’un poëte moderne n’aurait sûrement pas négligée. La tragédie s’ouvre par l’invitation qu’Antigone fait à sa soeur Ismène d’aller, avec elle, ensevelir Polynice leur frère, malgré la défense de Créon. Ismène objecte les difficultés insurmontables de l’entreprise, leur commune faiblesse, la force prête à soutenir la loi injuste, et la peine qui en suivra l’infraction. Quelle heureuse occasion Sophocle n’avait-il pas là de mettre dans la bouche d’Antigone les plus beaux discours au sujet d’Hémon, son amant, son futur époux, le fils du tyran! de jeter en avant l’idée du secours que les deux soeurs auraient pu attendre de lui! Le poëte ne trouvait pas seulement, dans ce parti, un moyen commode et simple d’annoncer un personnage, mais bien d’autres avantages plus précieux encore dans un certain système de tragédie. Il nouait fortement, par là, l’intrigue dès la première scène; en signalant des obstacles il faisait entrevoir des ressources, et tempérait, par quelques espérances, le sentiment du péril des personnages vertueux; il annonçait une lutte inévitable entre le tyran jaloux de son pouvoir et le fils chéri de ce tyran; en un mot, il excitait vivement la curiosité. Eh bien! tous ces avantages, Sophocle les a négligés; ou, pour mieux dire, il n’y avait, dans tout cela, rien, non, rien que Sophocle eût regardé comme avantageux, comme digne d’entrer dans son plan.
Vous vous souvenez, Monsieur, de la réponse qu’il fait faire par Antigone à Ismène? «Je n’invoque plus votre secours»,[316] dit-elle; «et si vous me l’offriez maintenant, je ne l’agréerais pas. Soyez ce qu’il vous plaît d’être: moi, j’ensevelirai Polynice, et il me sera beau de mourir pour l’avoir enseveli. Punie d’une action sainte, je reposerai avec ce frère chéri, chérie par lui; car nous avons plus long-temps à plaire aux morts qu’aux habitans de la terre». Voyez, Monsieur, comme tout souvenir d’Hémon aurait été déplacé dans une telle situation; comment, a côté d’un tel sentiment, il l’aurait dénaturé, affaibli, profané! C’est un devoir religieux qu’Antigone va remplir: une loi supérieure lui dit de braver la loi imposée par le caprice et par la force. Ismène seule, à ses yeux, a le droit de partager son péril, parce qu’elle est sous le même devoir. Qu’est-ce qu’un amant serait venu faire dans tout cela? et comment les chances d’un secours humain pouvaient-elles entrer dans les motifs d’une telle entreprise?
Ainsi donc, comme toute cette partie de l’action marche naturellement, sans l’intervention d’Hémon, comme sa présence et son souvenir même y seraient inutiles et d’un effet vulgaire, le poëte s’est bien gardé d’y avoir recours. Mais, lorsqu’Hémon commence a être intéressé a l’action, Sophocle le fait annoncer et paraître un moment après. Antigone est condamnée, l’épouse d’Hémon va périr; celui-ci est appelé par l’action même, et il se montre. Sa situation est comprise et sentie aussitôt qu’énoncée, parce qu’elle est on ne peut plus simple. Hémon vient devant son père défendre la vierge qu’il aime, et qui va mourir pour avoir fait une action commandée par la religion et par la nature; c’est alors et alors seulement qu’il doit être question de lui.
Faudra-t-il dire, après cela, que l’Antigone de Sophocle manque d’unité d’action, par la raison que la position et les desseins de tous les personnages ne sont pas établis dès le premier acte? Dans un certain système de tragédie, qui est, a mes yeux, plutôt l’ouvrage successif et laborieux des critiques, que le résultat de la pratique des grands poëtes, on attache une très grande importance à toutes ces préparations de personnages et d’événemens. Mais cette importance même me paraît indiquer le faible du système; elle dérive d’une[317] attention excessive et presque exclusive à la forme, je dirais presque aux dehors du drame. Il semblerait que le plus grand charme d’une tragédie vienne de la connaissance des moyens dont le poëte s’est servi pour la conduire à bout; qu’on est là pour admirer la finesse de son jeu, et son adresse à se tirer des pièges qu’un art hostile a dressés sur son chemin. On le laisse faire ses conditions dans l’exposition; mais on est, pendant tout le reste de la pièce, aux aguets pour voir s’il les tient. Qu’une situation non préparée trouve place, qu’un personnage non annoncé arrive dans le courant de la tragédie, le spectateur, façonné par les critiques, se révoltera contre le poëte; il lui dira: Je vous comprends fort bien; cette situation n’est nullement embrouillée, nullement obscure pour moi; mais je ne veux pas m’y intéresser, parce que j’avais le droit d’y être disposé d’une autre manière. De là encore cette admiration si petite, je dirais presque cette admiration injurieuse pour ce qu’il y a de moins important dans les ouvrages des grands poëtes. Il est pénible de voir les critiques rechercher avec un souci minutieux quelques vers jetés au commencement d’une tragédie, pour faire connaître d’avance un personnage qui jouera un grand rôle, pour annoncer un incident qui amènera la catastrophe: il est triste de les entendre s’émerveiller sur ces petits apprêts et vous commander, dans leur froide extase, d’admirer l’art, le grand art de Racine. Ah! le grand art de Racine ne tient pas à si peu de chose; et ce n’est pas par ces graves écoliers que sont dignement attestées les beautés supérieures de la poésie: c’est bien plutôt par les hommes qu’elles transportent hors d’eux-mêmes, qu’elles jettent dans un état de charme et d’illusion où ils oublient et la critique et la poésie elle-même, pleinement, uniquement dominés par la puissance de ses effets.
Les autres conditions que vous exigez dans une tragédie, pour que l’unité d’action s’y trouve, sont «que les desseins des personnages se renferment toujours dans le plan que l’auteur s’est tracé, qu’il soit rendu compte au spectateur de tous les résultats qu’ils amènent, non seulement dans le cours de chaque acte, mais encore pendant chaque[318] entr’acte, l’action devant toujours marcher, même hors de ses yeux; enfin que cette action soit rapide, dégagée d’accessoires superflus, et conduite à un dénouement analogue à l’attente excitée par l’exposition».
Certes, il n’y a, dans ces conditions, rien que de juste. Mais vous prétendez encore, Monsieur, que, pour obtenir ces effets, les deux unités sont nécessaires. «Si maintenant», ajoutez-vous, «de longs intervalles de temps et de lieux séparent vos actes, et quelquefois même vos scènes, les événemens intermédiaires relâcheront tous les ressorts de l’action; plus ces événemens seront nombreux et importans, plus il sera difficile de les rattacher à ce qui précède et à ce qui suit; et les parties du drame, ainsi disloquées, présenteront, au lieu d’un seul fait, les lambeaux de la vie entière du héros».
Veuillez avant tout observer, Monsieur, que, dans le système qui rejette les deux unités, et que, pour abréger, j’appellerai dorénavant le système historique, dans ce système, dis-je, le poëte ne s’impose nullement l’obligation de créer à plaisir de longs intervalles de temps et de lieux: il les prend dans l’action même, tels qu’ils lui sont donnés par la réalité. Que si une action historique est partout si entrecoupée, si morcelée qu’elle n’admette pas l’unité dramatique, que si les faits sont épars à de trop grandes distances, et trop faiblement liés entre eux, le poëte en conclut que cette action n’est pas propre à devenir un sujet de tragédie, et l’abandonne.
Permettez-moi de vous dire ensuite qu’il est bien de l’essence du système historique de supposer entre les actes des intervalles de temps plus ou moins longs, mais non des intervalles remplis d’événemens nombreux et importans relativement à l’action. C’est au contraire la portion de temps et d’espace que l’on peut franchir, éliminer ou réduire, comme indifférente à l’action, et sans blesser la vérité dramatique.
On peut aussi, on doit même assez souvent rejeter dans les entr’actes quelques faits relatifs à l’action, et en donner connaissance au spectateur par les récits des personnages; mais cela n’est nullement particulier au système de tragédie[319] que je nomme historique: c’est une condition générale du poëme dramatique, également adoptée par le système des deux unités. Dans l’un comme dans l’autre, on présente à la vue un certain nombre d’événemens, on en indique quelques autres, et l’on fait abstraction de tout ce qui, étant étranger à l’action, ne s’y trouve mêlé que par les circonstances fortuites de la contemporanéité. A cet égard, la différence entre les deux systèmes n’est que du plus au moins. Dans celui que je nomme historique, le poëte se fie pleinement à l’aptitude, à la tendance qu’a naturellement notre esprit a rapprocher des faits épars dans l’espace, dès qu’il peut apercevoir entre eux une raison qui les lie, et à traverser rapidement des temps et des lieux en quelque sorte vides pour lui, pour arriver des causes aux effets. Dans le système des deux unités, le poëte demande de même des concessions à l’imagination du spectateur, puisqu’il veut qu’elle donne à trois heures le cours fictif de vingt-quatre. Seulement il suppose qu’elle ne peut se prêter à rien de plus, et que, quelque rapport qu’il y ait entre deux faits, il lui en coûte un effort désagréable et pénible pour les concevoir à la suite l’un de l’autre, s’il y a de l’un à l’autre un intervalle de deux ou trois jours, et de plus d’une centaine de pas.
Cela posé, quel est maintenant celui des deux systèmes qui donne au poëte le plus de facilités pour démêler, dans un sujet dramatique, les élémens de l’action, pour les disposer à la place qui leur appartient, et les développer dans les proportions qui leur conviennent? C’est assurément celui qui, ne l’astreignant à aucune condition arbitraire et prise en dehors de ce sujet même, laisse à son génie le choix raisonné de toutes les données, de tous les moyens qu’il renferme. Que si, malgré ces avantages, le poëte ne sait point discerner les points saillans de son action, ni les mettre en évidence; s’il se borne à indiquer des événemens qui auraient besoin d’être développés; si ces événemens relégués dans les entr’actes, au lieu de former des anneaux qui entrent dans la chaîne de l’action, ne tendent, au contraire, qu’à isoler ceux qui sont mis sous les yeux du spectateur; si, par leur importance[320] ou par leur multiplicité, ils n’aboutissent qu’à produire une distraction importune de ce qui se passe sur la scène; si, en un mot, l’action est disloquée, la faute en est toute au poëte. Quelque graves qu’ils soient, de tels inconvéniens ne peuvent donc jamais être une raison d’adopter la règle en discussion, puisque l’on peut éviter ces inconvéniens sans se soumettre à cette règle: car je me borne, pour le moment, à prouver qu’elle est inutile.
Vous avez trouvé, Monsieur, dans la tragédie de Carmagnola la preuve de ces mauvais effets, que vous avez attribués au système qui exclut les deux unités; et je n’en parle ici que pour rendre justice à votre critique, et pour ne pas laisser tomber sur ce pauvre système le fardeau des erreurs personnelles de ses partisans. «On voit», dites-vous, «qu’il existe entre le troisième et le quatrième acte l’intervalle d’une campagne tout entière: comment suivre à de telles distances la marche et les progrès de l’action?». J’accorde volontiers que c’est un véritable défaut; seulement faut-il voir à qui l’on doit l’imputer. C’est un peu au sujet, beaucoup a l’auteur; mais nullement au système.
Je passe à l’examen de la règle sous le rapport de la fixité des caractères, et je continue à citer: «Ajoutez à ces inconvéniens l’apparition et la disparition fréquentes, dans ce système, de personnages avec lesquels le spectateur a à peine le temps de faire connaissance».
Il est certes, dans tout sujet, un point au-delà duquel l’apparition et la disparition des personnages devient trop fréquente, et dès lors vicieuse, en ce qu’elle fatigue l’attention et la transporte brusquement d’un objet à un autre, sans lui donner le temps de se fixer sur aucun. Mais ce point peut-il être déterminé d’avance, et par une formule également applicable à tous les sujets? Existe-t-il une limite précise au-delà de laquelle l’inconvénient commence? On peut d’abord affirmer que la règle des deux unités n’est pas cette limite; car il est impossible de prouver que ce n’est que dans une action bornée à un jour et à un petit espace que les personnages peuvent se montrer et se dessiner de manière à être compris par le spectateur et à l’intéresser. Où donc[321] chercher cette limite absolue? il ne faut la chercher nulle part, car elle n’existe pas. C’est une singulière disposition que celle que nous avons à nous forger des règles abstraites applicables à tous les cas, pour nous dispenser de chercher dans chaque cas particulier sa raison propre, sa convenance particulière. Que le poëte choisisse toujours une action dans laquelle il n’y ait qu’un nombre de personnages proportionné à l’attention qu’il est possible de leur donner, que ces personnages restent en présence du spectateur assez long-temps pour lui montrer la part qu’ils ont à l’action, et ce qu’il y a de dramatique dans leur caractère; voilà, je crois, tout ce qu’on peut lui prescrire sur ce point. Or, quel système, encore une fois, peut mieux se prêter à ce but que le système où l’action elle-même règle tout, où elle prend les personnages quand elle les trouve, pour ainsi dire, sur sa route, et les abandonne au moment où ils n’ont plus avec elle de relation intéressante? Et que l’on n’objecte pas que ce système, en admettant beaucoup d’événemens, exige naturellement l’intervention trop rapide de trop de personnages: on répondrait qu’il n’admet juste que les événemens dans lesquels le caractère des personnages peut se développer d’une manière attachante.
Du reste, j’observerai et peut-être conviendrez-vous que l’habitude et l’esprit systématique peuvent facilement faire paraître vicieux ce qui ne l’est pas pour des hommes autrement disposés. Des spectateurs ou des lecteurs instruits, éclairés et se croyant impartiaux, peuvent trouver que les personnages d’une action tragique disparaissent trop vite et reviennent trop souvent, par la seule raison qu’ils sont accoutumés à voir, dans des tragédies qu’ils admirent avec justice, les mêmes personnages occuper la scène jusqu’à la fin. Ils regardent ce qui les choque comme un vice réel, comme une opposition aux lois naturelles de leur intelligence; et ce ne sera néanmoins que l’opposition à un type artificiel de tragédie qu’ils ont admis et auquel ils ramènent toute tragédie possible. Car recevoir l’impression pure et franche des ouvrages de l’art, se prêter à ce qu’ils peuvent offrir de vrai et de beau indépendamment de toute théorie, est un[322] effort difficile et bien rare pour ceux qui en ont une fois adopté une.
Si, accoutumés, comme ils le sont, à trouver dans la tragédie une action qui marche toujours sur les mêmes échasses, qui se replie, pour ainsi dire, à chaque instant, et toujours à peu près de la même manière sur elle-même, ils assistent, par hasard, à une tragédie conçue dans un système tout différent, à une tragédie où l’action se déroulera d’une manière plus conforme à la réalité, il est fort à présumer qu’ils ne seront pas dans la disposition la plus favorable pour l’examiner impartialement, pour y voir ce qui y est et n’y voir que cela. Tout leur examen ne sera qu’une comparaison pénible entre la tragédie d’un nouveau genre qu’ils ont sous les yeux, et l’idée abstraite qu’ils se sont faite de la tragédie. Dites-leur que l’habitude a une grande part à leur jugement, ils se révolteront, parce qu’ils savent que l’habitude affaiblit la liberté, et que nous sommes portés à nier tout ce qui asservit notre esprit. Ils ne manqueront pas de déclarer que c’est pour obéir aux lois de l’éternelle raison, à l’inspiration de la nature, qu’ils jugent comme ils jugent, qu’ils sentent comme ils sentent. Mais quoi qu’ils disent, il n’en sera pas moins vrai que toute leur critique à été fondée sur un étroit empirisme, qu’elle à été toute déduite de faits spéciaux; et c’est probablement cela même qui la fait paraître à tant d’hommes une connaissance éminemment philosophique.
Mais, pour revenir au point précis de la discussion, si un personnage se montre lorsqu’il est nécessaire; si, dans le temps long ou court qu’il passe sur la scène, il dit des choses qui caractérisent une époque, une classe d’hommes, une passion individuelle, et qui les caractérisent dans le rapport qu’elles ont avec l’action principale à laquelle elles se rattachent; si l’on voit comment ces choses influent sur la marche des événemens; si elles entrent, pour leur part, dans l’impression totale de l’ouvrage, ce personnage ne se sera-t-il pas fait assez connaître? Qu’il disparaisse ensuite, quand l’action ne le réclame plus, quel inconvénient y a-t-il?
Mais voici, selon vous, Monsieur, un effet bien plus grave de la transgression de la règle: en outrepassant ses limites,[323] il serait impossible de combiner la vraisemblance et l’intérêt dans le caractère des principaux personnages, avec sa fixité. Et quant à ceux (des personnages) sur lesquels vous fixez particulièrement l’attention du spectateur, si vous les montrez toujours animés du même dessein, il en résultera langueur, froideur, invraisemblance, souvent même inconvenance choquante. Comment, par exemple, offrir, sans exciter le dégoût, un meurtre prémédité pendant plusieurs années et en plusieurs pays différens? Si au contraire les desseins des personnages varient, l’unité d’action disparaît et l’intérêt s’affoiblit.
Permettez-moi de remonter à un principe bien commun, mais toujours sûr dans l’application. La vraisemblance et l’intérêt dans les caractères dramatiques, comme dans toutes les parties de la poesie, dérivent de la vérité. Or, cette vérité est justement la base du système historique. Le poëte qui l’a adopté ne crée pas les distances pour le plaisir d’étendre son action; il les prend dans l’histoire même. Pour prouver que la persistance d’un personnage dans un même dessein sort de la vraisemblance lorsqu’elle se prolonge au-delà des limites de la règle, il faudrait prouver qu’il n’arrive jamais aux hommes d’aspirer à un but éloigné de plus de vingt-quatre heures, dans le temps, et de plus de quelques centaines de pas, dans l’espace; et, pour avoir le droit de soutenir que le degré de persistance dont il s’agit produit la langueur et la froideur, il faudrait avoir démontré que l’esprit humain est constitué de manière à se dégoûter et à se fatiguer d’être obligé de suivre les desseins d’un homme au-delà d’un seul jour et d’un seul lieu. Mais l’expérience atteste suffisamment le contraire; il n’y a pas une histoire, pas un conte peut-être qui n’excède de si étroites limites. Il y a plus; et l’on pourrait affirmer que, plus la volonté de l’homme traverse, si l’on peut le dire, de durée et d’étendue, et plus elle excite en nous de curiosité et d’intérêt; que plus les événemens qui sont le produit de sa force se prolongent et se diversifient, pourvu toutefois qu’ils ne perdent pas l’unité, et qu’ils ne se compliquent pas jusqu’à fatiguer l’attention, et plus ils ont de prise sur l’imagination. Loin de se[324] déplaire a voir beaucoup de résultats naître d’une seule résolution humaine, l’esprit ne trouve, dans cette vue, que de la satisfaction et du charme. La langueur et la froideur ne surviennent que dans le cas où cette résolution est mal motivée, ou n’a pas un objet important; ce qui est tout-à-fait indépendant de la durée de ses suites.
Quant au changement de desseins dans les personnages, je ne vois pas comment son effet serait d’affaiblir l’intérêt. Il fournit au contraire un moyen de l’exciter, en donnant lieu de peindre les modifications de l’âme, et la puissance des choses extérieures sur la volonté. Il favorise le développement des caractères, sans obliger à les dénaturer, parce que les desseins ne sont pas le caractère même, mais plutôt des indices, des conséquences du caractère. Je ne vois pas davantage comment le changement dont il s’agit détruirait l’unite dramatique. Cette unité ne consiste pas dans la fixité des vues et des projets des personnages tragiques; elle est dans les idées du spectateur sur l’ensemble de l’action. En voici une preuve de fait, qui me paraît sans réplique: les desseins de personnages importans, souvent principaux, varient dans des tragédies auxquelles assurément vous ne refuserez pas l’unité d’action; et pour n’en chercher d’exemples que dans un seul auteur, Pyrrhus, Néron, Titus, Bajazet, Agamemnon, passent d’une résolution à la résolution opposée. Leur caractère n’en est pas, pour cela, moins constant: il y a plus; ces variations sont nécessaires pour le mettre pleinement à découvert. Celui de Néron, par exemple, se compose d’un certain goût pour la justice et pour la gloire, d’une pudeur qui est le fruit de l’éducation, de l’habitude de céder aux volontés des personnes à qui une haute réputation de vertu, ou une grande force d’âme, les droits de la nature, ou des services signalés, ont donné de l’ascendant: avec cela se combinent la haine de toute supériorité, un grand amour de l’indépendance, le goût de la domination, et la vanité même de paraître dominer. Une passion que Néron ne peut satisfaire sans commettre un crime vient mettre en collision ces élémens contraires, ces deux moitiés, pour ainsi dire, de son âme. Les mauvais penchans triomphent, le crime[325] est résolu, il est commandé: l’admirable discours de Burrhus fait varier les projets de Néron; l’indigne Narcisse, précisément parce qu’il connaît le caractère de son maître, sait trouver, dans ses passions les plus vives et les plus basses, que Burrhus avait en quelque façon étouffées, les motifs d’une nouvelle variation, qui produit le dénouement de l’action. Il en est de même d’Agamemnon; si ses desseins étaient invariablement arrêtés, son caractère ne serait plus ce qu’il est, un mélange d’ambition et de sentimens naturels.
Que la représentation d’un meurtre prémédité pendant plusieurs années, et en plusieurs pays différens, ne soit propre qu’à exciter le dégoût, je suis fort disposé à le croire. Mais le dégoût dérive du sujet même, indépendamment du système suivant lequel on pourrait le traiter. Je crois, par exemple, que tout le monde à peu près s’accorde à trouver l’Atrée de Crébillon un personnage révoltant, et néanmoins le poëte ne fait pas parcourir à son action le temps réel qui s’est écoulé entre le tort et la vengeance; il ne représente que la dernière journée: mais qu’importe? le temps est énoncé dans la pièce, et il n’en faut pas davantage pour motiver le dégoût de l’auditoire. L’idée de tant d’années qui n’ont pas calmé la haine, qui n’ont pas affaibli le souvenir de l’injure, qui n’ont rien changé à des projets d’une atrocité ingénieuse et romanesque, n’en est pas moins présente a la pensée du spectateur, malgré l’abstraction que fait le poëte du temps écoulé; la préméditation du crime n’en est pas moins sentie.
La détermination arrêtée et constante de tuer son semblable suppose nécessairement l’état de l’âme le plus dépravé, j’ajouterais, et le plus dégradé, le moins poétique. Si une telle détermination est en harmonie avec le caractère du personnage; si c’est un intérêt privé, une passion egoiste qui la lui ont inspirée; s’il n’a pas eu de grandes répugnances à vaincre pour se résoudre à l’assassinat, c’est le caractère même qui est misérable, dégoûtant et peut-être incapable de devenir un sujet d’imitation poétique. Si, au contraire ce n’est pas seulement avec de profonde souffrances, mais par la séduction d’une grande pensée, d’un dessein extraordinaire, d’une illusion puissante, qu’un homme a pris cette[326] horrible résolution; si le sentiment du devoir et la voix de l’innocence qui cherche à triompher y ont opposé des obstacles; si cet homme a combattu, pour ainsi dire, sur tous les degrés de l’abîme, c’étaient alors ces pensées, ces illusions, ces combats et la chute par laquelle ils ont fini, qu’il fallait représenter. C’est cela qui était profond, instructif et dramatique. Mais lorsque la lutte morale est terminée, lorsque la conscience est vaincue, et que l’homme n’a plus à surmonter que des résistances hors de lui, il est peut-être impossible d’en faire un spectacle intéressant; et peut-être le meurtre prémédité est-il un de ces sujets que le poëte tragique doit s’interdire.
Je dis peut-être, parce que toutes ces règles exclusives et absolues sont trop sujettes à être démenties par des expériences contraires et que l’on n’avait pu prévoir: on peut bien, sans péril, condamner a priori tout sujet qui n’aurait pas la vérité pour base; mais il me semble trop hardi de décider, pour tous les cas possibles, que tel ou tel genre de vérité est à jamais interdit à l’imitation poétique; car il y a dans la vérité un intérêt si puissant, qu’il peut nous attacher à la considérer malgré une douleur véritable, malgré une certaine horreur voisine du dégoût. Si donc le poëte réussit, à force d’intérêt, à faire supporter au spectateur ces sentimens pénibles, il faudra bien reconnaître qu’il a su mettre en œuvre les moyens de l’art les plus forts et les plus sûrs. Il ne restera plus qu’à juger les effets de cette puissance qu’il aura exercée sur les âmes. Or, si l’impression qu’il a produite est éminemment morale, si le dégoût qu’il a excité est le dégoût du mal; si, en associant au crime des idées révoltantes, il l’a rendu plus odieux; s’il a réveillé dans les cœurs une aversion salutaire pour les passions qui entraînent à le commettre, pourra-t-on raisonnablement lui reprocher de n’avoir pas assez ménagé la délicatesse du spectateur? Je crois qu’on a imposé trop d’égards aux poëtes pour cette susceptibilité du public; qu’on leur a trop fait un devoir d’éviter tout ce qui pouvait déplaire: il y a des douleurs qui perfectionnent l’âme; et c’est une des plus belles facultés de la poésie que celle d’arrêter, à l’aide d’un[327] grand intérêt, l’attention sur des phénomènes moraux que l’on ne peut observer sans répugnance.
Au reste, cela est indifférent à la question des deux unités; car le système historique, se prêtant admirablement à la peinture graduée des événemens et des passions qui peuvent porter au meurtre, donne les moyens d’écarter, dans tous les sujets où le meurtre est représenté, cette longue et dégoûtante préméditation. Je ne sais si le système des deux unités présente à cet égard les mêmes facilités, et s’il ne met pas le poëte dans l’alternative de supposer le meurtre prémédité, ou de l’amener d’une manière invraisemblable et forcée. On pourrait peut-être, pour la solution de ce doute, tirer quelque lumière de l’examen comparatif de deux tragédies traitées dans deux systèmes différens, et dont le sujet est foncièrement à peu près le même: ce sont l’Othello de Shakespeare et la Zaïre de Voltaire. Dans l’une et dans l’autre pièce, c’est un homme qui tue la femme qu’il aime, la croyant infidèle. Shakespeare a pris tout le temps dont il avait besoin; il l’a pris de l’histoire même qui lui a fourni son sujet. On voit, dans Othello, le soupçon conçu, combattu, chassé, revenant sur de nouveaux indices, excité et dirigé, chaque fois qu’il se manifeste, par l’art abominable d’un ami perfide; on voit ce soupçon arriver jusqu’à la certitude par des degrés aussi vraisemblables que terribles. La tâche de Voltaire était bien plus difficile. Il fallait qu’Orosmane, généreux et humain, fût assez difficile sur les preuves de son malheur pour n’être pas d’une crédulité presque comique; que, plein, le matin, de confiance et d’estime pour Zaïre, il fût poussé, le soir du même jour, à la poignarder, avec la conviction d’en être trahi. Il fallait des preuves assez fortes pour produire une telle conviction, pour changer l’amour en fureur, et porter la colère jusqu’au délire. Le poëte ne pouvant, dans un si court intervalle, rassembler les faux indices qui nourrissent lentement les soupçons de la jalousie, ne pouvant conduire par degrés l’âme d’Orosmane à ce point de passion où tout peut tenir lieu de preuve, a été obligé de faire naître l’erreur de son héros d’un fait dont l’interprétation fût suffisante pour produire la certitude de la[328] trahison. Il a fallu, pour cela, régler la marche fortuite des événemens de manière que tout concourût à consommer l’illusion d’Orosmane, et mettre à l’écart tout ce qui aurait pu lui révéler la vérité. Il a fallu qu’on écrivît à Zaïre une lettre équivoque, que cette lettre tombât dans les mains d’Orosmane, et qu’il pût y voir que Zaïre lui préférait un autre amant. Ce moyen, qui n’est ni naturel, ni istructif, ni touchant, ni même sérieux, est cependant une invention très ingénieuse, le système donné, parce qu’il est peut-être le seul qui pût motiver, dans Orosmane, l’horrible résolution dont le poëte avait besoin.
La force croissante d’une passion jalouse dans un caractère violent, l’adresse malheureuse de cette passion à interpréter en sa faveur, si on peut le dire, les incidens les plus naturels, les actions les plus simples, les paroles les plus innocentes, l’habileté épouvantable d’un traître à faire naître et à nourrir le soupçon dans une âme offensée, la puissance infernale qu’un scélérat de sang-froid exerce ainsi sur un naturel ardent et généreux; voilà quelques-unes des terribles leçons qui naissent de la tragédie d’Othello: mais que nous apprend l’action de Zaïre? que les incidens de la vie peuvent se combiner parfois d’une manière si étrange, qu’une expression équivoque, insérée par hasard dans une lettre qui a manqué son adresse, vienne à occasionner les plus grands crimes et les derniers malheurs? A la bonne heure: ce sera là une leçon, si l’on veut; mais une leçon qui n’aura rien de bien impérieux, rien de bien grave. La prévoyance et la morale humaines ont trop à faire aux choses habituelles et réelles pour se mettre en grand souci d’accidens si fortuits, et, pour ainsi dire, si merveilleux. Ce qu’il y a, dans Zaïre, de vrai, de touchant, de poétique, est dû au beau talent de Voltaire; ce qu’il y a dans son plan de forcé et de factice me semble devoir être attribué, en grande partie, à la contrainte de la règle des deux unités.
L’intervention de Jago, que j’ai indiquée rapidement tout à l’heure, mérite une attention plus expresse: elle est en effet, dans la tragédie d’Othello, un grand moyen et peut-être un moyen indispensable pour produire la vraisemblance.[329] Jago est le mauvais génie de la pièce; il arrange une partie des événemens, et les empoisonne tous; il écarte ou dénature toutes les réflexions qui pouvaient amener Othello à reconnaître l’innocence de Desdemona. Voltaire a été obligé de faire naître des accidens pour confirmer les soupçons auxquels tient la catastrophe de sa pièce: il fallait bien qu’Orosmane eût aussi un mauvais conseiller pour l’égarer; et ce mauvais conseiller, c’est le hasard: car, si l’on recherche la cause du meurtre auquel il se laisse emporter, elle est tout entière dans un jeu bizarre de circonstances que l’auteur n’a pas même eu la pensée de rattacher à l’idée de la fatalité, et qui n’ont point en effet le caractère au moyen duquel elles auraient été susceptibles d’y être ramenées. Dans Othello, le crime découle naturellement, et comme par son propre poids, de la source impure d’une volonté perverse; ce qui me paraît aussi poétique que moral. On voudrait exclure de la scène les scélérats subalternes, parce qu’on trouve que la bassesse dans le crime est dégoûtante: soit; mais ne faudrait-il pas en exclure aussi le crime même? Cependant, puisque le crime a une si grande part dans la tragédie, je ne vois pas quel mal y a à le représenter accompagné toujours de quelque chose de bas. Il n’arrive guère, heureusement, que les affaires où ne prennent part que de belles âmes se terminent par un meurtre; et je crois que cette indication de l’expérience est bonne à consacrer dans les compositions poétiques.
Voilà, Monsieur, les observations que j’avais à vous soumettre sur les nouveaux fondemens que vous voudriez donner à la règle des deux unités. Je n’examinerai point ici les autres objections que l’on fait au système historique: il ne serait pas juste de vous ennuyer par la discussion formelle d’opinions qui ne sont peut-être pas les vôtres. Mais, puisque j’ai déjà perdu l’espoir de faire cette lettre courte, permettez-moi d’y joindre encore quelques réflexions sur la manière dont on pose et dont on traite généralement la question des unités dans le drame. Si ces réflexions étaient fondées, elles pourraient faciliter la solution de la question elle-même.
Plusieurs d’entre ceux qui soutiennent la nécessité de la règle emploient souvent, pour qualifier les deux opinions contraires, des mots qui expriment des idées on ne peut plus graves, mais qui, au fond, n’ajoutent rien à la force de leurs argumens. Ce sont, pour eux, d’un côté, la nature, la belle nature, le goût, le bon sens, la raison, la sagesse, et, peu s’en faut, la probité; de l’autre côté, ce sont l’extravagance, la barbarie, la monstruosité, la licence, et que sais-je encore? Certes, si, de tous ces grands mots, les premiers peuvent s’appliquer au système des deux unités, et les autres au système contraire, le procès est jugé. Il est hors de doute que la sagesse vaut mieux que l’extravagance, et même que celle-ci ne vaut rien du tout; et quand Horace ne l’aurait pas formellement prescrit, tout le monde conviendrait de bonne grâce qu’il ne faut pas loger les dauphins dans les bois. Mais lorsque les adversaires de la règle soutiennent que la tragédie, telle qu’ils la conçoivent, n’est pas un bois, et qu’ils n’y transportent pas des dauphins; lorsqu’ils prétendent que c’est pour ne pas blesser la nature et la raison qu’ils récusent la règle; lorsqu’ils veulent prouver que c’est celle-ci qui est bizarre parce qu’elle est arbitraire; c’est là-dessus qu’il faut les attaquer, et les réfuter, si l’on peut. Au reste, on doit le savoir et en prendre son parti, ceux qui défendent des opinions établies ont l’avantage de parler au nom du grand nombre; ils peuvent, sans témérité, employer le langage le plus affirmatif, le plus sentencieux, et c’est un avantage auquel il est rare que l’on veuille renoncer. Jugez, d’après cela, Monsieur, si je me félicite d’avoir trouvé l’occasion de justifier une opinion nouvelle devant un critique qui, au lieu de se prévaloir de la force que le consentement de la majorité et une espèce de prescription peuvent donner à la sienne, ne cherche, au contraire, qu’à l’appuyer sur le raisonnement!
Une autre méthode, à peu près aussi expéditive, aussi usitée et aussi concluante que la précédente, de prouver la nécessité de l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, c’est de montrer que, sur certains théâtres où la règle n’est pas admise, on a donné souvent à l’action une étendue excessive;[331] c’est de citer avec un mépris triomphant ces tragédies dans lesquelles un personnage,
Cela est absurde, sans doute: et ceux qui ne veulent pas de la règle font mieux que de reconnaître simplement cela pour absurde; ils en prouvent l’absurdité par des raisons tirées de leur système. Ce qu’ils contestent, c’est la règle:
On peut très aisément éviter l’excès signalé dans les vers de Boileau, sans adopter la limite posée par lui. Se fonder sur cet excès pour établir cette limite, c’est faire comme celui qui, après avoir sans peine démontré que l’anarchie est une fort mauvaise chose, voudrait en conclure qu’il n’y a rien de mieux, en fait de gouvernement, que le gouvernement de Constantinople.
Enfin, après avoir désapprouvé, à raison ou à tort, tel ou tel exemple donné par quelque poëte qui s’est affranchi de la règle, on s’en prend au système historique, sans examiner si ce qu’un poëte a fait, dans un cas donné, est ou n’est pas une conséquence de son système. Ainsi, par exemple, Shakespeare a souvent mêlé le comique aux événemens les plus sérieux. Un critique moderne, à qui l’on ne pourrait refuser sans injustice beaucoup de sagacité et de profondeur, a prétendu justifier cette pratique de Shakespeare, et en donner de bonnes raisons. Quoique puisées dans une philosophie plus élevée que ne l’est en general celle que l’on a appliquée jusqu’ici à l’art dramatique, ces raisons ne m’ont jamais persuadé; et je pense, comme un bon et loyal partisan du classique, que le mélange de deux effets contraires détruit l’unité d’impression nécessaire pour produire l’émotion et la sympathie; ou,[1036] pour parler plus raisonnablement, il me semble que ce mélange, tel qu’il a été employé par Shakespeare,[332] a tout-à-fait cet inconvénient. Car, qu’il soit réellement et à jamais[1037] impossible de produire une impression harmonique et agréable par le rapprochement de ces deux moyens,[1038] c’est ce que je n’ai ni le courage d’affirmer, ni la docilité de répéter. Il n’y a qu’un genre dans lequel on puisse refuser d’avance tout espoir de succès[1039] durable, même au génie, et ce genre c’est[1040] le faux: mais interdire au génie[1041] d’employer des matériaux qui sont dans la nature, par la raison qu’il ne pourra pas en tirer un bon parti, c’est évidemment pousser la critique au-delà de son emploi[1042] et de ses forces. Que sait-on? Ne relit-on pas tous les jours des ouvrages[1043] dans le genre narratif, il est vrai, mais des ouvrages où ce mélange se retrouve bien souvent, et sans qu’il ait été besoin de le justifier, parce qu’il est tellement[1044] fondu dans la vérité entraînante de l’ensemble, que personne ne l’a remarqué pour en faire un sujet[1045] de censure? Et le genre dramatique lui même[1046] n’a-t-il pas produit un ouvrage étonnant, dans lequel on trouve des impressions bien autrement diverses et nombreuses, des rapprochemens bien autrement imprévus que ceux qui tiennent à la simple combinaison du tragique et du plaisant? et cet ouvrage, n’a-t-on[1047] pas consenti à l’admirer, à la seule condition qu’on ne lui donnerait pas le nom de tragédie? condition du reste[1048] assez douce de la part des critiques, puisqu’elle n’exige que le sacrifice d’un mot, et accorde, sans s’en apercevoir, que l’auteur, en produisant un chef-d’œuvre, a de plus[1049] inventé un genre. Mais, pour rester plus strictement dans la question, le mélange du plaisant et du sérieux pourra-t-il être transporté heureusement[1050] dans le genre dramatique d’une manière stable, et dans des ouvrages qui ne soient pas une exception? C’est, encore une fois, ce que je n’ose pas savoir. Quoi[1051] qu’il en soit, c’est un point particulier à discuter, si l’on croit avoir assez de données pour le faire; mais c’est bien certainement un point dont il[333] n’y a pas de conséquences à tirer contre le système historique que Shakespeare a suivi: car ce n’est pas la violation de la règle qui l’a entraîné à ce mélange du grave et du burlesque, du touchant et du bas; c’est qu’il avait observé ce mélange dans la réalité, et qu’il voulait rendre la forte impression qu’il en avait reçue.
Jusqu’ici je me suis efforcé de prouver que le système historique non seulement n’est pas sujet aux inconvéniens que vous lui attribuez, en ce qui concerne l’unité d’action et la fixité des caractères; mais qu’il offre, sous ces rapports, les moyens les plus aisés et les plus sûrs d’approcher de la perfection de l’art. Du reste, quand je n’aurais pas réussi, quand il serait bien démontré que ces inconvéniens sont réels, la condamnation du système ne s’ensuivrait pas encore. Il faudrait auparavant les comparer à ceux qui naissent de l’observance de la règle et choisir le système qui en offre le moins; car on ne saurait penser que le système des deux unités soit sans inconvéniens, et qu’une règle, qui impose à l’art qui imite des conditions qui ne sont pas dans la nature que l’on veut imiter, aplanisse d’elle-même toutes les difficultés de l’imitation.
Sans prétendre examiner à fond l’influence que les deux unités ont exercée sur la poésie dramatique, qu’il me soit permis d’examiner quelques-uns de leurs effets qui me semblent défavorables; et, pour m’éloigner le moins possible du point de vue que vous avez choisi, je noterai de préférence ceux qui me paraissent résulter du plan que vous avez proposé pour le sujet de Carmagnola. Vous ne verrez, je l’espère, dans le choix de ce texte, ni une intention hostile, ni une misérable représaille. Je voudrais être aussi sûr que cette lettre ne sera pas ennuyeuse, que je le suis d’avoir été déterminé à l’écrire par un sentiment d’estime pour vous, et de respect pour ce qui me paraît la vérité. Si les règles factices n’induisaient en erreur que des esprits faux et dépourvus du sens du beau, on pourrait les laisser faire et s’épargner la peine de les combattre: ce sont les mauvais effets de leur tyrannie sur les grands poëtes et sur les critiques judicieux qu’il importerait de constater, pour les prévenir;[334] je transcris donc la partie de votre article que j’ai ici en vue:
«Supposons, maintenant, qu’un auteur asservi aux règles eût eu ce sujet à traiter. Il eût d’abord rejeté dans l’avant-scène, et l’élection de Carmagnola au généralat vénitien, et la bataille de Maclodio, et la déroute de la flotte, et l’affaire de Crémone. Tout cela est antérieur a l’action proprement dite, et un récit pouvait l’exposer parfaitement. La pièce eût commencé au moment où le comte, rappelé par le sénat, est attendu à Venise. Le premier acte eût peint les alarmes de sa famille, excitées par les bruits qui circulent sur les intentions perfides du sénat. Mais bientôt l’arrivée du comte, et sa réception triomphale changent les craintes en joie, et l’acte finit au moment où il se rend au conseil pour délibérer sur la paix. Ainsi la pièce était aussi avancée à la fin du premier acte qu’elle l’est chez M. Manzoni à la fin du quatrième; et l’auteur, pour fournir sa carrière, se trouvait comme forcé de créer une action, un nœud, des péripéties, de mettre en jeu les passions, d’exciter la terreur et la pitié. Mais quelles ressources n’avait-il pas pour cela? Et les révélations de Marco, et les intrigues du duc de Milan, et les divisions dans le sénat, et les mécontentemens populaires, et le pouvoir du comte sur l’armée, et enfin tout le trouble et tous les dangers d’une république qui a confié sa défense à des troupes mercenaires. Ce grand tableau est a peine ébauché dans la pièce de M. Manzoni. Ne pouvait-on pas d’ailleurs faire en sorte que Carmagnola, sollicité par le duc de Milan, se trouvât un moment maître du sort de la république? La parenté de sa femme avec le duc, son empire sur les autres condottieri, et l’assistance du peuple, pouvaient amener naturellement cette situation. Le poëte eût ainsi mis en présence dans l’âme du héros les sentimens de l’homme d’honneur avec l’imagination turbulente du chef d’aventuriers, et Carmagnola, abandonnant par vertu le projet de livrer Venise qui veut le perdre, n’en eût été que plus intéressant lorsqu’il succombe; tandis que ce même projet eût servi à motiver et à peindre la timide et cruelle politique du sénat. C’est[335] ainsi que les limites de l’art donnent l’essor à l’imagination de l’artiste, et le forcent à devenir créateur. Que M. Manzoni se le persuade bien; franchir ces limites, ce n’est point agrandir l’art, c’est le ramener à son enfance».
Voici, Monsieur, les principaux inconvéniens qui me semblent résulter de cette manière de traiter dramatiquement les sujets historiques:
1. On se règle, dans le choix à faire entre les événemens que l’on représente devant le spectateur, et ceux que l’on se borne à lui faire connaître par des récits, sur une mesure arbitraire, et non sur la nature des événemens mêmes et sur leurs rapports avec l’action.
2. On resserre, dans l’espace fixé par la règle, un plus grand nombre de faits que la vraisemblance ne le permet.
3. On n’en omet pas moins, malgré cela, beaucoup de matériaux très poétiques, fournis par l’histoire.
4. Et c’est là le plus grave, on substitue des causes de pure invention aux causes qui ont réellement déterminé l’action représentée.
Et d’abord, pour ce qui regarde le premier inconvénient, il est sûr que, dans chaque partie de l’action, le poëte peut découvrir le caractère et les raisons qui la rendent propre à être mise en scène, ou qui exigent qu’elle ne soit donnée qu’en narration. Or, ces raisons tirées de la nature des événemens, et de leur rapport avec l’ensemble de l’action et avec le but de l’art dramatique, le poëte se trouve obligé de les négliger, dans une partie souvent très importante de l’action, je veux dire en ce qui concerne les faits qui ont précédé le jour de la catastrophe, et n’ont pu se passer dans le lieu choisi pour la scène. Indépendamment de toute considération sur leur importance et sur leur intérêt poétique, ces faits doivent être relégués dans l’avant-scène, et supposés avoir eu lieu loin du spectateur. Je conçois fort bien que, lorsqu’on a adopté les deux unités, on soit disposé à regarder ces sortes de faits, dans tout sujet dramatique, comme antérieurs à l’action proprement dite; mais, Monsieur, sans incidenter sur votre opinion dans l’exemple particulier que vous citez, je me permets de vous faire observer qu’il est en général[336] fort difficile de déterminer le point où commence une action théâtrale, et qu’il serait contraire à toute raison et à toute expérience d’affirmer que toutes les actions historiques qui peuvent être, sous les autres rapports, de bons sujets de tragédie, ont eu leur véritable commencement dans les vingt-quatre heures qui ont précédé leur accomplissement. Je crois même que ce cas est très rare, et voilà pourquoi le poëte asservi aux règles, obligé, d’un côté, de reconnaître que plusieurs de ces faits, antérieurs au jour qu’il a choisi, ne le sont cependant pas à l’action, mais en font partie, se trouve réduit à la gêne des expositions, de ces expositions si souvent froides, inertes, compliquées, à l’ennui desquelles on se résigne, avec justice, comme à une condition rigoureuse du système accrédité. On est si bien convenu de la difficulté des expositions tragiques, que l’on sait gré, même aux poëtes du premier ordre, de réussir quelquefois à en faire d’intéressantes et de dramatiques. Celle de Bajazet, par exemple, passe pour un chef-d’œuvre de difficulté vaincue. Elle est fort belle, en effet; mais qu’est-ce qu’un système qui oblige d’admirer, dans un poëte tel que Racine, une exposition en action? Qu’est-ce qu’un système dans lequel il a fallu en venir à accorder au poëte tout le premier acte, pour préparer l’effet des quatre suivans, et dans lequel le spectateur n’a pas lieu de se plaindre si la partie dramatique du drame commence au second, quelquefois même au troisième acte?
Maintenant veut-on se faire une idée de tout ce qu’une telle méthode a de désavantageux pour l’art en général? Rien n’est plus facile: il n’y a, pour cela, qu’à considérer quelles beautés perdraient à être assujetties à cette règle des unités, des sujets largement et simplement conçus d’après le système contraire. Que l’on prenne les pièces historiques de Shakespeare, et de Goethe[1052]; que l’on voie ce qu’il en faudrait ôter à la représentation, ou remplacer par des récits, et que l’on décide si l’on gagnerait au change! Mais, pour[337] appliquer ici ces réflexions à un exemple particulier, je ne saurais mieux faire que de traduire un passage d’un écrit où cette application est on ne peut plus heureusement faite. Il s’agit d’un dialogue italien sur les deux unités, par mon ami M. Hermès Visconti, qui, dans quelques essais de critique littéraire, a déjà donné au public la preuve d’une haute capacité, et qui promet d’illustrer l’Italie par les travaux philosophiques auxquels il s’est particulièrement voué. Il suppose, dans ce dialogue, qu’un partisan des règles, qui n’a pas cependant le courage de contester au sujet de Macbeth le mérite d’être admirablement tragique, propose les moyens de l’assujettir aux deux unités.
«Il fallait», fait-il dire à cet interlocuteur, «choisir le moment le plus important et supposer le reste comme déjà avenu». Voici sa réponse. «Vous choisirez la catastrophe, vous représenterez Macbeth tourmenté par les remords du passé, et par la crainte de l’avenir; vous exciterez le zèle des défenseurs de la cause juste; vous mettrez en récit les crimes antécédens; vous peindrez lady Macbeth, simulant l’assurance et le calme, et dévoilant dans ses rêves le secret de sa conscience. Mais, de cette manière, aurez-vous tracé l’histoire de la passion de Macbeth et de sa femme? aurez-vous fait voir comment un homme se résout à commettre un grand crime? aurez-vous dépeint la férocité triste encore, bien que satisfaite, de l’ambition qui a surmonté le sentiment de la justice? Vous aurez, à la vérité, choisi le plus beau moment, c’est-à dire le dernier période des remords; mais une grande partie des beautés du sujet aura disparu, parce que la beauté poétique de ce dernier période dépend de la loi de continuité dans les sentimens de l’âme. Et, pour donner la connaissance de ce qui a précédé, ne serez-vous pas forcé de recourir aux expédiens des récits, des monologues destinés à informer le spectateur, qui comprend toujours, et fort bien, qu’ils ne sont destinés à autre chose qu’à l’informer? Au lieu de cela, dans la tragédie de Shakespeare, tout est en action, et tout de la manière la plus naturelle».
Je passe au second inconvénient de la règle, celui de[338] forcer le poëte à entasser trop d’événemens dans l’espace qu’elle lui accorde, et de blesser par là la vraisemblance. On ne manque pas, je le sais, lorsque cela arrive, de dire que la faute en est au poëte, qui n’a pas su vaincre les difficultés de son sujet et de son art. C’était à lui, prétend-on, à disposer avec habileté les événemens dont se composait son action, dans les limites prescrites.
A merveille! cependant combien de bonnes raisons ces pauvres auteurs de tragédies n’auraient-ils pas à donner à ces capricieux faiseurs de règles! Eh quoi! pourraient-ils leur dire, vous prétendez, vous souffrez du moins que nous imitions la nature; et vous nous interdisez les moyens dont elle fait usage! La nature, pour agir, prend toujours du temps à son aise, tantôt plus, tantôt moins, suivant le besoin qu’elle en a; et vous, vous nous mesurez les heures avec presque autant d’economie et de rigueur que si vous les preniez sur la durée de vos plaisirs. La nature ne s’est pas astreinte à produire une action intéressante dans un espace que les yeux d’un témoin puissent embrasser commodément; et vous, vous exigez que le champ d’une action théâtrale ne dépasse pas la portée des regards d’un spectateur immobile. Encore si vous borniez pour nous l’idée et le choix des sujets tragiques à ceux où se rencontre réellement l’unité de temps et de lieu, ce serait certes une législation étrange et bien rigoureuse; elle serait du moins conséquente. Mais non: vous reconnaissez pour intéressans des sujets où cette unité est impossible; et nous voilà dès lors dans un singulier embarras. Ou permettez-nous de ne pas appliquer à ces derniers sujets les deux règles prescrites; ou proclamez que ce n’est pas une invraisemblance, une témérité gratuite de l’art, de forcer la succession réelle et graduée des événemens; de mutiler, pour les accommoder à la capacité d’un théâtre et à la durée d’un jour, des faits que la nature n’a pu produire que lentement et qu’en plusieurs lieux.
Et ces plaintes contre les difficultés imposées a l’art par les règles, cette déclaration formelle de l’impuissance de les appliquer a beaucoup de sujets d’ailleurs très beaux, ce ne sont pas des poëtes vulgaires qui les ont faites; ce ne sont[339] pas de ces hommes pour lesquels tout est obstacle, parce qu’ils ne savent point se créer de ressources: c’est à Corneille, au grand Corneille lui-même qu’elles échappent. Écoutons comment il s’exprime là-dessus, après cinquante ans d’expérience du théâtre: «Il est si malaisé», dit-il, «qu’il se rencontre dans l’histoire, ni dans l’imagination des hommes, quantité de ces événemens illustres et dignes de la tragédie, dont les délibérations et leurs effets puissent arriver en un même lieu et en un même jour, sans faire un peu de violence a l’ordre commun des choses...».
Qui ne s’attendrait ici que Corneille va donner pour conséquence du fait reconnu par lui, qu’il ne faut pas qu’un poëte tragique s’astreigne à la règle d’un lieu et d’un jour, puisque cette règle met en opposition le but et les moyens de la tragédie? Mais l’on poursuit, et l’on voit jusqu’où va la tyrannie des opinions arbitraires sur les esprits les plus élevés: «Je ne puis croire», ajoute Corneille, «cette sorte de violence tout-à-fait condamnable, pourvu qu’elle n’aille pas jusqu’à l’impossible: il est de beaux sujets où on ne la peut éviter; et un auteur scrupuleux se priverait d’une belle occasion de gloire, et le public de beaucoup de satisfaction, s’il n’osait s’enhardir à les mettre sur le théâtre, de peur de se voir forcé à les faire aller plus vite que la vraisemblance ne le permet».
Ainsi c’est la vraisemblance qu’il s’agit de sacrificier à des règles que l’on prétend n’être faites que pour la vraisemblance!
Cette conséquence est si contraire au génie, au grand sens de Corneille, et aux idées que tant de méditations et une si longue pratique lui avaient données sur ce qu’il y a de fondamental dans l’art dramatique, que l’on ne peut guère expliquer ce passage, à moins de se retracer les circonstances où ce grand homme se trouvait en l’écrivant. Gourmandé, régenté long-temps par des critiques qui avaient apparemment ce qu’il fallait pour être les maîtres de Pierre Corneille, il voulait apaiser ces critiques, leur faire voir qu’il entrait dans leurs idées, qu’il comprenait et pouvait suivre leurs théories. Ici, il croyait se trouver entre deux écueils, entre l’invraisemblance[340] et la violation des règles. Les critiques n’étaient pas bien rigoureux sur l’article de la vraisemblance; ils ne l’avaient pas inventée: mais les règles! oh les règles! c’était leur bien, et l’unique bien de plusieurs d’entre eux; il les avaient importées fraîchement je ne sais d’où, et venaient de les imposer au théâtre français. Le pauvre Corneille aurait-il pu mourir en paix s’il n’en eût reconnu l’autorité?
Le talent n’est jamais complètement sûr de lui même; il désire toujours un témoignage extérieur qui lui confirme ce qu’il soupçonne de ses forces. Et comment, en effet, pourrait-il s’en rapporter à sa propre décision, quand il s’agit de savoir s’il est pur et vrai, ou s’il n’est qu’apparent et affecté? Le dédain le trouble donc toujours; et en le meconnaissant, on est presque sûr de le réduire à douter de lui-même. Il ne demande qu’à être compris, qu’à être jugé; toutefois il voudrait l’être non-seulement par la bonne foi, mais par des lumières certaines. Il se laisse presque toujours entraîner au désir de la gloire; toutefois il n’en veut qu’à condition de voir ceux qui la dispensent bien convaincus qu’il la mérite. Il accepte toujours les censures, mais il exige qu’elles lui apprennent quelque chose; et de plus il a besoin d’être persuadé qu’elles ne sont pas le fruit de la passion.
Maintenant, pour revenir à Corneille, ce grand poëte avait dû trop voir que ce qui s’opposait le plus au calme et à l’impartialité nécessaires pour le juger, c’étaient ces critiques qui le jugeaient toujours. Il y avait un moyen de les adoucir un peu; mais il n’y en avait qu’un; c’était de céder sur les points auxquels ils tenaient le plus, en transigeant sur le reste; et ce fut précisément ce qu’il fit. A moins de cela, les critiques auraient crié bien plus fort, auraient brouillé bien davantage les idées du public sur les admirables productions du génie de Corneille; car rien n’était si facile. Si le public s’en laissait charmer, il n’y avait qu’à lui dire plus durement encore que de coutume qu’il n’y entendait rien; il n’y avait qu’à y découvrir encore plus de défauts: et pour cela, il suffisait d’inventer un principe, deux principes, vingt principes et de prouver ensuite qu’ils étaient violés dans les tragédies de Corneille. Qu’en avait-il coûté à Scudéri pour[341] démontrer que le Cid était une fort mauvaise pièce? Rien, c’est-à-dire rien de plus que de faire, en grands termes, l’énumération de beaucoup de choses qui, selon lui, étaient indispensables dans une tragédie pour qu’elle fût bonne, et de constatar que ces choses-là n’étaient pas dans le Cid. La grande science de Scudéri consistait à ne pas comprendre Corneille; et son grand travail, à empêcher qu’il ne fût compris des autres. Corneille aima donc mieux renoncer à quelques conséquences qui découlaient naturellement des principes établis, que de donner à ceux qui s’étaient faits ses juges plus de moyens de le chicaner, en réduisant toute la discussion sur ses ouvrages à l’examen de la forme, pour distraire l’attention du public de ce qu’ils avaient au fond d’original et de sublime.
Mais pour saisir encore mieux les véritables idées de Corneille sur la règle des deux unités, il n’y a qu’à lire la suite du passage dont j’ai transcrit le commencement. Ici, Corneille annulle tout-à-fait cette règle a laquelle il a rendu plus haut un hommage forcé. «Je donnerais», poursuit-il, «en ce cas (au poëte), un conseil que peut-être il trouverait salutaire; c’est de ne marquer aucun temps préfix, dans son poëme, ni aucun lieu particulier où il pose les acteurs. L’imagination de l’auditeur aurait plus de liberté de se laisser aller au courant de l’action, si elle n’était point fixée par ces marques; et il pourrait ne s’apercevoir pas de cette précipitation, si elles ne l’en faisaient souvenir et n’y appliquaient son esprit malgré lui. Je me suis toujours repenti d’avoir fait dire au roi, dans le Cid, qu’il voulait que Rodrigue se délassât une heure ou deux après la défaite des Maures, avant que de combattre Don Sanche: je l’avais fait pour montrer que la pièce était dans les vingt-quatre heures, et cela n’a servi qu’à avertir les spectateurs de la contrainte avec laquelle je l’y avais réduite. Si j’avais fait résoudre ce combat sans en designer l’heure, peut-être n’y aurait-on pas pris garde».
Ainsi, Corneille demande que le temps et le lieu ne soient point marqués, pour que l’auditeur ne s’aperçoive pas que l’action dépasse les vingt-quatre heures, et qu’elle change[342] de place. Au fait, c’est demander l’abolition de la règle, parce qu’elle consiste essentiellement à restreindre l’action dans ses limites d’une manière qui soit sensible pour le spectateur. Et la règle, en effet, au lieu de lui faciliter la marche de l’action dans le Cid, n’avait servi qu’à faire ressortir ce qu’il y avait de forcé. «Si j’avais fait résoudre ce combat», dit-il, sans en designer l’heure, peut-être n’y aurait-on pas pris garde». Qui n’y aurait pas pris garde? le public? Non certes. Mais les critiques? Oh! ceux-là ne seraient pas restés en défaut: ils auraient infalliblement découvert l’équivoque, et fait inexorablement leur devoir, qui était d’en avertir le public. A quoi pensait donc le bon Corneille? croyait-il les sentinelles du bon goût capables de s’endormir? Chimère! Lorsque le public, entraîné par des beautés grandes et neuves, par le charme combiné de l’idéal et du vrai, se laisse aller aux impressions qu’un grand poëte sait produire, les critiques sont toujours là pour l’empêcher de s’égarer avec lui, pour gourmander son illusion, et ramener son attention un moment surprise et absorbée par les choses mêmes, à ce qui doit passer avant tout, à l’autorité des formes et des règles.
Y aurait-il de la témérité à plaindre Corneille d’avoir vu la vérité et de n’avoir pas osé s’y tenir? Ce n’était pas un genie de la justesse et de la force du sien qui pouvait méconnaître que le public, abandonné à lui-même, ne voit jamais, dans une action dramatique, que l’action elle-même; que l’imagination du spectateur non prévenu se prête sans effort au temps fictif que le poëte a besoin de supposer dans sa pièce, ou que, pour mieux dire, il n’y pense pas. Mais le grand Corneille n’a pas eu le courage de dire que, puisque telle est la disposition naturelle du spectateur, telle l’art doit la prendre, sans chercher ailleurs que dans l’essence et l’étendue même du sujet qu’il veut mettre en drame, les conditions de temps et de lieu qui en sont inséparables.
Voilà donc ce que gagnent les arts et la philosophie des arts à recevoir des règles arbitraires: de forcer les plus grands hommes à imaginer des subterfuges pour éviter des inconvéniens, à trouver des argumens subtils pour échapper à la chose en adoptant le mot!
Mais si, en choisissant pour sujet d’une action dramatique ces événemens illustres et dignes de la tragédie, dont parle Corneille, on veut éviter la faute de les entasser d’une manière invraisemblable, l’on tombe nécessairement dans une autre; il faut alors abandonner une partie de ces événemens, et quelquefois la plus intéressante; il faut renoncer à donner à ceux que l’on conserve un développement naturel: en d’autres termes, il faut rendre la tragédie moins poétique que l’histoire.
Le moyen le plus court de se convaincre qu’il en est vraiment ainsi, c’est d’examiner quelqu’une des tragédies conçues dans le système historique, une tragédie dont l’action soit une, grande, intéressante; et de voir si l’on pourrait lui conserver ce qu’elle a de plus dramatique, en la pressant dans le cadre des unités. Considérons, par exemple, le Richard II de Shakespeare, qui n’est cependant pas la plus belle de ses pièces tirées de l’histoire d’Angleterre.
L’action de cette tragédie est le renversement de Richard du trône d’Angleterre et l’élévation de Bolingbroke à sa place. La pièce commence au moment où les desseins de ces deux personnages se trouvent dans une opposition ouverte, où le roi, ayant conçu une véritable inquiétude des projets ambitieux de son cousin, se jette, pour les déjouer, dans des mesures qui finissent par en amener l’exécution. Il bannit Bolingbroke: le duc de Lancastre, père de celui-ci, étant mort, le roi s’empare de ses biens, et part pour l’Irlande. Bolingbroke enfreint son ban, et revient en Angleterre, sous le prétexte de réclamer l’héritage qui lui a été ravi par un acte illégal. Ses partisans accourent en foule autour de lui: à mesure que le nombre en augmente, il change de langage, passe par degrés des réclamations aux menaces; et bientôt le sujet venu pour demander justice est un rebelle puissant qui impose des lois. L’oncle et le lieutenant du roi, le duc d’York, qui va à la rencontre de Bolingbroke pour le combattre, finit par traiter avec lui. Le caractère de ce personnage se déploie avec l’action où il est engagé: le duc parle successivement, d’abord au sujet révolté, puis au chef d’un parti nombreux, enfin au nouveau roi; et cette progression[344] est si naturelle, si exactement parallèle aux événemens, que le spectateur n’est pas étonné de trouver, a la fin de la pièce, un bon serviteur de Henri IV dans le même personnage qui a appris avec la plus grande indignation le débarquement de Bolingbroke. Les premiers succès de celui-ci étant connus, c’est naturellement sur Richard que se portent l’intérêt et la curiosité. On est pressé de voir l’effet d’un si grand coup sur l’âme de ce roi irascible et superbe. Ainsi, Richard est appelé sur la scène par l’attente du spectateur en même temps que par le cours de l’action.
Il a été averti de la désobéissance de Bolingbroke et de sa tentative: il quitte précipitamment l’Irlande et débarque en Angleterre dans le moment où son adversaire occupe le comté de Glocester; mais certes, le roi ne devait pas marcher droit a l’audacieux agresseur sans s’être bien mis en mesure de lui résister. Ici la vraisemblance se refusait, aussi expressément que l’histoire même, a l’unité de lieu, et Shakespeare n’a pas suivi plus exactement celle-ci que la première. Il nous montre Richard dans le pays de Galles: il aurait pu disposer sans peine son sujet de manière a produire les deux rivaux successivement sur le même terrain; mais que de choses n’eût-il pas dû sacrifier pour cela? et qu’y aurait gagné sa tragédie? Unité d’action? nullement; car où trouverait-on une tragédie où l’action soit plus strictement une que dans celle-là? Richard délibère, avec les amis qui lui restent, sur ce qu’il doit faire, et c’est ici que le caractère de ce roi commence à prendre un développement si naturel et si inattendu. Le spectateur avait déjà fait connaissance avec cet étonnant personnage, et se flattait de l’avoir pénétré; mais il y avait en lui quelque chose de secret et de profond qui n’avait point paru dans la prospérité, et que l’infortune seule pouvait faire éclater. Le fond du caractère est le même; c’est toujours l’orgueil, c’est toujours la plus haute idée de sa dignité: mais ce même orgueil qui, lorsqu’il était accompagné de puissance, se manifestait par la légèreté, par l’impatience de tout obstacle, par une irréflexion qui ne lui permettait pas même de soupçonner que tout pouvoir humain a ses juges et ses bornes; cet orgueil, une[345] fois privé de force, est devenu grave et sérieux, solennel et mesuré. Ce qui soutient Richard, c’est une conscience inaltérable de sa grandeur, c’est la certitude que nul événement humain n’a pu la détruire, puisque rien ne peut faire qu’il ne soit né et qu’il n’ait été roi. Les jouissances du pouvoir lui ont échappé; mais l’idée de sa vocation au rang suprême lui reste: dans ce qu’il est, il persiste à honorer ce qu’il fût; et ce respect obstiné pour un titre que personne ne lui reconnaît plus ôte au sentiment de son infortune tout ce qui pourrait l’humilier ou l’abattre. Les idées, les émotions par lesquelles cette révolution du caractère de Richard se manifeste dans la tragédie de Shakespeare sont d’une grande originalité, de la poésie la plus relevée, et même très touchantes.
Mais ce tableau historique de l’âme de Richard et des événemens qui la modifient embrasse nécessairement plus de vingt heures, et il en est de même de la progression des autres faits, des autres passions et des autres caractères qui se développent dans le reste de l’action. Le choc des deux partis, l’ardeur et l’activité croissante des ennemis du roi, les tergiversations de ceux qui attendent la victoire pour savoir positivement quelle est la cause à laquelle les honnêtes gens doivent s’attacher; la fidélité courageuse d’un seul homme, fidélité que le poëte a décrite telle que l’histoire l’a consacrée, avec toutes les idées vraies et fausses qui déterminaient cet homme à rendre hommage au malheur en dépit de la force: tout cela est admirablement peint dans cette tragédie. Quelques inconvenances, que l’on en pourrait ôter sans en altérer l’ordonnance, ne sauraient faire illusion sur la grandeur et la beauté de l’ensemble.
J’ai presque honte de donner une esquisse si décharnée d’un si majestueux tableau; mais je me flatte d’en avoir dit assez pour faire voir du moins que ce qu’il y a de caractéristique dans ce sujet exige plus de latitude que n’en accorde la règle des deux unités. Supposons maintenant que Shakespeare, après avoir composé son Richard II, l’eût communiqué a un critique persuadé de la nécessité de cette règle. Celui-ci lui aurait probablement dit: il y a dans votre pièce de fort belles situations et surtout d’admirables sentimens;[346] mais la vraisemblance y est déplorablement choquée. Vous transportez votre public de Londres à Coventry, du comté de Glocester dans le pays de Galles, du parlement au château de Flint; il est impossible au spectateur de se faire l’illusion nécessaire pour vous suivre. Il y a contradiction entre les situations diverses où vous voulez le placer et la situation réelle où il se trouve. Il est trop sûr de n’avoir pas changé de place, pour pouvoir imaginer qu’il a fait tous ces voyages que vous exigez de lui.
Je ne sais, mais il me semble que Shakespeare aurait été bien étonné de telles objections. Eh grand Dieu! aurait-il pu répondre, que parlez-vous de déplacemens et de voyages! Il n’en est point question ici; je n’y ai jamais songé, ni mes spectateurs non plus. Je mets sous les yeux de ceux-ci une action qui se déploie par degrés, qui se compose d’événemens qui naissent successivement les uns des autres, et se passent en différens lieux; c’est l’esprit de l’auditeur qui les suit, il n’a que faire de voyager ni de se figurer qu’il voyage. Pensez-vous qu’il soit venu au théâtre pour voir des événemens réels? et me suis-je jamais mis dans la tête de lui faire une pareille illusion? de lui faire croire que ce qu’il sait être déjà arrivé il y a quelques centaines d’années arrive aujourd’hui de nouveau? que ces acteurs sont des hommes réellement occupés des passions et des affaires dont ils parlent, et dont ils parlent en vers?
Mais, j’ai trop oublié, Monsieur, que ce n’est pas sur l’objection tirée de la vraisemblance que vous fondez le maintien des règles, mais bien sur l’impossibilité de conserver sans elles l’unité d’action et la fixité des caractères. Voyons donc si cette objection peut s’appliquer à la tragédie de Richard II. Eh! comment s’y prendrait-on, je vous le demande avec curiosité, pour prouver que l’action n’y est pas une, que les caractères n’y sont pas constans, et cela parce que le poëte est resté dans les lieux et dans les temps donnés par l’histoire, au lieu de se renfermer dans l’espace et dans la durée que les critiques ont mesurés de leur chef à toutes les tragédies? Qu’aurait encore répondu Shakespeare à un critique qui serait venu lui opposer cette loi des vingt quatre heures?[347] Vingt-quatre heures! aurait-il dit: mais pourquoi? La lecture de la chronique de Holingshed a fourni à mon esprit l’idée d’une action simple et grande, une et variée, pleine d’intérêt et de leçons; et cette action, j’aurais été la défigurer, la tronquer de pur caprice! L’impression qu’un chroniqueur a produite en moi, je n’aurais pas cherché à la rendre, à ma manière, à des spectateurs qui ne demandaient pas mieux! j’aurais été moins poëte que lui! Je vois un événement dont chaque incident tient à tous les autres et sert à les motiver; je vois des caractères fixes se développer en un certain temps et en certains lieux: et pour donner l’idée de cet événement, pour peindre ces caractères, il faudra absolument que je mutile l’un et les autres au point où la durée de vingt-quatre heures et l’enceinte d’un palais suffiraient à leur développement?
Il y aurait, Monsieur, je l’avoue, dans votre système, une autre réplique a faire à Shakespeare: on pourrait lui dire que cette attention qu’il a eue à reproduire les faits dans leur ordre naturel et avec leurs circonstances principales les plus avérées l’assimile plutôt à un historien qu’à un poëte. On pourrait ajouter que c’est la règle des deux unités qui l’aurait rendu poëte, en le forçant a créer une action, un noeud, des péripéties; car «c’est ainsi», dites-vous, «que les limites de l’art donnent l’essor à l’imagination de l’artiste, et le forcent à devenir créateur». C’est bien là, j’en conviens, la véritable conséquence de cette règle; et la plus légère connaissance des théâtres qui l’ont admise prouve de reste qu’elle n’a pas manqué son effet. C’est un grand avantage selon vous: j’ose n’être pas de cet avis, et regarder au contraire l’effet dont il s’agit comme le plus grave inconvénient de la règle dont il résulte; oui, cette nécessité de créer, imposée arbitrairement à l’art, l’écarte de la vérité, et le détériore à la fois dans ses résultats et dans ses moyens.
Je ne sais si je vais dire quelque chose de contraire aux idées réçues; mais je crois ne dire qu’une vérité très simple, en avançant que l’essence de la poésie ne consiste pas à inventer des faits: cette invention est ce qu’il y a de plus facile et de plus vulgaire dans le travail de l’esprit, ce qui[348] exige le moins de réflexion, et même le moins d’imagination. Aussi n’y a-t-il rien de plus multiplié que les créations de ce genre; tandis que tous les grands monumens de la poésie ont pour base des événemens donnés par l’histoire, ou, ce qui revient ici au même, par ce qui a été regardé une fois comme l’histoire.
Quant aux poëtes dramatiques en particulier, les plus grands de chaque pays ont évité, avec d’autant plus de soin qu’ils ont eu plus de génie, de mettre en drame des faits de leur création; et à chaque occasion qui s’est présentée de leur dire qu’ils avaient substitué, sur des points essentiels, l’invention à l’histoire, loin d’accepter ce jugement comme un éloge, ils l’ont repoussé comme une censure. Si je ne savais combien il y a de témérité dans les assertions historiques trop générales, j’oserais affirmer qu’il n’y a pas, dans tout ce qui nous reste du théâtre tragique des Grecs, ni même dans toute leur poesie, un seul exemple de ce genre de création, qui consiste à substituer aux principales causes connues d’une grande action, des causes inventées à plaisir. Les poëtes grecs prenaient leurs sujets, avec toutes leurs circonstances importantes, dans les traditions nationales. Ils n’inventaient pas les événemens; ils les acceptaient tels que les contemporains les avaient transmis: ils admettaient, ils respectaient l’histoire telle que les individus, les peuples et le temps l’avaient faite.
Et, parmi les modernes, voyez, Monsieur, comme Racine cherche, dans toutes ses préfaces, a prouver qu’il a été fidèle à l’histoire; comme, jusque dans les sujets fabuleux, il songe toujours à s’appuyer sur des autorités. Ne trouvant pas convenable de terminer par le sacrifice d’Iphigénie la tragédie qui en porte le nom, et n’osant faire de son chef une chose contraire à la tradition la plus accréditée là-dessus, il se félicite d’avoir trouvé, dans Pausanias, le personnage d’Ériphile, qui lui fournit un autre dénouement: «l’heureux personnage d’Ériphile, sans lequel», dit-il, «je n’aurais jamais osé entreprendre cette tragédie». Eh quoi! ce personnage dont Racine avait un si grand besoin, n’aurait-il donc pu l’inventer, ou quelque chose d’équivalent? Ce genre[349] d’invention, libéralement départi par la nature à deux ou trois cents auteurs tragiques, Racine ne l’aurait pas eu? Voyez si ces auteurs sont jamais embarrassés à dénouer leurs pièces lorsqu’il ne s’agit pour cela que d’inventer un personnage ou un prodige! Non, non, Racine n’était pas dépourvu d’une faculté si commune chez les poëtes: mais Racine, doué d’un sentiment exquis de la vérité et des convenances, savait que, dans les sujets historiques, un fait qui n’a pas existé et que l’on voudrait donner comme cause ou comme résultat d’autres faits réels et connus, n’a pas non plus de vérité poétique. Dans les sujets fabuleux même, il sentait que ce qui a fait partie d’une tradition, ce qui a été cru par tout un peuple, a toujours un genre et un degré d’importance que ne peut obtenir la fiction isolée et arbitraire de l’homme qui se renferme dans son cabinet pour y forger des bouts d’histoire, selon son besoin et son goût. Mais, dira-t-on peut-être, si l’on enlève au poëte ce qui le distingue de l’historien, le droit d’inventer les faits, que lui reste-t-il? Ce qui lui reste? la poésie; oui, la poésie. Car enfin que nous donne l’histoire? des événemens qui ne sont, pour ainsi dire, connus que par leurs dehors; ce que les hommes ont exécuté: mais ce qu’ils ont pensé, les sentimens qui ont accompagné leurs délibérations et leurs projets, leurs succès et leurs infortunes; les discours par lesquels ils ont fait ou essayé de faire prévaloir leurs passions et leurs volontés sur d’autres passions et sur d’autres volontés, par lesquels ils ont exprimé leur colère, épanché leur tristesse, par lesquels, en un mot, ils ont révélé leur individualité: tout cela, à peu de chose près, est passé sous silence par l’histoire; et tout cela est le domaine de la poésie. Eh! qu’il serait vain de craindre qu’elle y manque jamais d’occasions de créer, dans le sens le plus sérieux et peut-être le seul sérieux de ce mot! Tout secret de l’âme humaine se dévoile, tout ce qui fait les grands événemens, tout ce qui caractérise les grandes destinées, se découvre aux imaginations douées d’une force de sympathie suffisante. Tout ce que la volonté humaine a de fort ou de mystérieux, le malheur de religieux et de profond, le poëte peut le deviner; ou, pour mieux dire, l’apercevoir,[350] le saisir et le rendre. Lorsque l’on montra à César la tête de Pompée, César pleura sur son illustre ennemi, et fit voir beaucoup d’indignation contre les lâches auteurs de sa mort. Voilà ce que nous savons par l’histoire. Maintenant, lorsque Corneille fait prononcer par Philippe ces paroles qu’il met dans la bouche de César,
Corneille n’invente pas un fait, il n’invente pas même un sentiment; ces vers sont cependant une création, et une belle création poétique. Ce que Corneille a trouvé, c’est une expression par laquelle un homme tel que César a pu convenablement manifester son caractère, dans la circonstance donnée. Le poëte a traduit, en quelque sorte, en sa langue, les larmes du guerrier victorieux sur le sort tragique du héros vaincu. Ce mélange de magnanimité et d’hypocrisie, de générosité et de politique, cette dissimulation de toute joie dans un excès de fortune, cette émotion de pitié qui vient d’un certain retour sur lui-même et de sa réflexion sur la fin si misérable d’un homme naguère si puissant; tous ces sentimens, dont l’histoire ne donne que le résultat abstrait, Corneille les a mis en paroles, et dans des paroles que César aurait pu prononcer.
Il est cependant certain que, si l’on interdisait au poëte toute faculté d’inventer des événemens, on se priverait d’un très grand nombre de sujets de tragédie. Cette faculté lui doit donc être accordée, ou, pour mieux dire, elle est donnée par les principes de l’art: mais quelle en est la limite? à partir de quel point l’invention commence-t-elle à devenir vicieuse?
Les critiques ont admis généralement les deux principes: qu’il ne faut point falsifier l’histoire, et que l’on peut, que l’on doit même souvent y ajouter des circonstances qui ne s’y trouvent point, pour rendre l’action dramatique. Ils ont ensuite cherché une règle qui pût concilier ces deux principes, et sont à peu près convenus d’admettre celle-ci: que[351] les incidens inventés ne doivent pas contredire les faits les plus connus et les plus importans de l’action représentée. La raison qu’ils en ont donnée est que le spectateur ne peut pas ajouter foi à ce qui est contraire à une vérité qu’il connaît. Je crois la règle bonne, parce qu’elle est fondée sur la nature, et assez vague pour ne pas devenir une gêne gratuite dans la pratique; j’en crois même la raison fort juste: mais il me semble qu’il y a à cette règle une autre raison plus importante, plus inhérente a l’essence de l’art, et qui peut donner une direction plus sûre et plus forte pour l’appliquer avec succès; cette raison est que les causes historiques d’une action sont essentiellement les plus dramatiques et les plus intéressantes. Les faits, par cela même qu’ils sont conformes à la vérité pour ainsi dire matérielle, ont au plus haut degré le caractère de vérité poétique que l’on cherche dans la tragédie: car quel est l’attrait intellectuel pour cette sorte de composition? Celui que l’on trouve à connaître l’homme, à découvrir ce qu’il y a dans sa nature de réel et d’intime, à voir l’effet des phénomènes extérieurs sur son âme, le fond des pensées par lesquelles il se détermine à agir; à voir, dans un autre homme, des sentimens qui puissent exciter en nous une véritable sympathie. Quand on raconte une histoire à un enfant, il ne manque jamais de faire cette question: Cela est-il vrai? Et ce n’est pas là un goût particulier de l’enfance; le besoin de la vérité est l’unique chose qui puisse nous faire donner de l’importance à tout ce que nous apprenons. Or, le vrai dramatique, où peut-il mieux se rencontrer que dans ce que les hommes ont réellement fait? Un poëte trouve dans l’histoire un caractère imposant qui l’arrête, qui semble lui dire: Observe-moi, je t’apprendrai quelque chose sur la nature humaine; le poëte accepte l’invitation; il veut tracer ce caractère, le développer: où trouvera-t-il des actes extérieurs plus conformes à la véritable idée de l’homme qu’il se propose de peindre que ceux que cet homme a effectivement exécutés? Il a eu un but; il y est parvenu, ou il a échoué: où le poëte trouvera-t-il une révélation plus sûre de ce but et des sentimens qui portaient son personnage à le poursuivre que dans les moyens choisis par celui ci[352] même? Poussons la proposition un peu plus loin pour la compléter. Notre poëte rencontre de même dans l’histoire une action qu’il se plaît à considérer, au fond de laquelle il voudrait pénétrer; elle est si interéssante qu’il désire la connaître dans toutes ses parties et en donner l’idée la plus vraie, la plus entière et la plus vive. Pour y parvenir, où cherchera-t-il les causes qui l’ont provoquée, qui en ont décidé l’accomplissement, si ce n’est dans les faits mêmes qui ont été ces causes?
C’est peut-être faute d’avoir observé ce rapport entre la vérité matérielle des faits et leur vérité poétique que les critiques ont apporté à la règle dont j’ai parlé une exception qui ne me semble pas raisonnable. Ils ont dit que lorsque les principales circonstances d’une histoire n’étaient pas très connues, on pouvait les altérer, ou leur en substituer d’autres de pure invention: mais, ou je me trompe fort, ou cela ne s’appelle pas faciliter au poëte la disposition de son sujet; c’est bien plutôt lui ôter les moyens les plus sûrs d’en tirer parti. Qu’importe que ces événemens soient ou non connus du spectateur? Si le poëte les a trouvés, c’est un fil qui lui est donné pour arriver au vrai; pourquoi l’abandonnerait-il? Il tient quelque chose de réel, pourquoi le rejeter? pourquoi renoncer volontairement aux grandes leçons de l’histoire? A quoi bon créer une action, un noeud, des péripéties, pour motiver un résultat dont les motifs sont des faits? Voudrait-on par hasard faire voir comment s’y prendrait la nature humaine pour agir si elle avait adopté la règle des deux unités? On croit sans doute faire autre chose; mais, sérieusement, fait on autre chose que cela dans toutes ces créations où la vérité est altérée à si grands frais et avec des effets si mesquins?
Ainsi donc, trouver dans une série de faits ce qui les constitue proprement une action, saisir les caractères des acteurs, donner à cette action et à ces caractères un développement harmonique, compléter l’histoire, en restituer, pour ainsi dire, la partie perdue, imaginer même des faits là où l’histoire ne donne que des indications, inventer au besoin des personnages pour représenter les moeurs connues d’une époque donnée, prendre enfin tout ce qui existe et ajouter ce qui[353] manque, mais de manière que l’invention s’accorde avec la réalité, ne soit qu’un moyen de plus de la faire ressortir, voilà ce que l’on peut raisonnablement dire créer; mais substituer des faits imaginaires à des faits constatés, conserver des résultats historiques et en rejeter les causes parce qu’elles ne cadrent pas avec une poétique convenue, en supposer d’autres par la raison qu’elles peuvent mieux s’y adapter, c’est évidemment ôter à l’art les bases de la nature. Veut-on que ce soit là une création? à la bonne heure; mais ce sera du moins une création à peu près semblable à celle d’un peintre qui, voulant absolument faire entrer dans un paysage plus d’arbres que l’espace figuré sur la toile ne peut en contenir, les presserait les uns contre les autres, et leur donnerait à tous une forme et un port que n’ont pas les arbres de la nature.
L’application que vous faites, Monsieur, de votre théorie au sujet historique de Carmagnola, me paraît à moi-même très propre à servir d’exemple pour expliquer et justifier les idées que je viens de vous soumettre. Je crains seulement, en me servant de cet exemple, d’avoir l’air de repousser votre critique et de défendre ma tragédie: mais s’il vous est resté quelque léger souvenir de la manière dont j’ai traité ce sujet, veuillez, Monsieur, l’écarter tout-à-fait de votre esprit, et vous en tenir à examiner seulement ce qu’il peut fournir, tel qu’il est dans l’histoire, à un poëte dramatique; et je vous exposerai les motifs qui me détourneraient de le traiter de la manière que vous proposez.
Permettez-moi de remettre ici encore une fois sous les yeux du lecteur une partie du plan que vous tracez pour cette tragédie.
«Ne pouvait-on pas d’ailleurs faire en sorte que Carmagnola, sollicité par le duc de Milan, se trouvât un moment maître du sort de la république? La parenté de sa femme avec le duc, son empire sur les autres condottieri, et l’assistance du peuple, pouvaient amener naturellement cette situation. Le poëte eût ainsi mis en présence, dans l’âme du héros, les sentimens de l’homme d’honneur avec l’imagination turbulente du chef d’aventuriers; et Carmagnola,[354] abandonnant par vertu le projet de livrer Venise qui veut le perdre, n’en eût été que plus intéressant lorsqu’il succombe, tandis que ce même projet eût servi à motiver et à peindre la timide et cruelle politique du sénat».
Ce plan est très ingénieux dans le système que vous croyez le meilleur; quant à moi, ce qui m’empêcherait de l’adopter, c’est que rien de tout ce que vous y faites entrer n’a existé. Il est vrai que des sénateurs, exerçant la puissance souveraine, ont envoyé à la mort un general qui avait été leur bienfaiteur et leur ami; mais cette puissance que vous voudriez attribuer à celui-ci, il ne l’a jamais eue, et le sénat vénitien n’a jamais eu non plus ces craintes par lesquelles vous voudriez motiver ce qu’il a fait. Il l’a cependant fait; il a eu des motifs pour le faire; la connaissance de ces motifs est d’un grand intérêt, je dis d’un grand intérêt dramatique, parce qu’il est très intéressant de voir les véritables pensées par lesquelles les hommes arrivent à commettre une grande injustice: c’est de cette vue que peuvent naître de profondes émotions de terreur et de pitié, si l’on veut caractériser la tragédie par la propriété de produire ces émotions. Or ces motifs où puis-je les trouver? nulle autre part que dans l’histoire même; ce n’est que là que je puis découvrir le caractère propre des hommes et de l’époque que je veux peindre. Eh bien! un des traits les plus prononcés de cette époque, et l’un de ceux qui contribuent le plus à lui donner une physionomie toute particulière, une couleur toute locale, c’est une jalousie si âpre de commandement et d’autorité, c’est une défiance si alerte et si soupçonneuse de tout ce qui pouvait, je ne dis pas les anéantir, mais les entraver un instant; c’est un besoin si outré de considération politique, que l’on se portait facilement au crime pour défendre non seulement le pouvoir, mais la réputation du pouvoir. Ces idées étaient tellement prédominantes, qu’elles modifiaient tous les caractères, ceux des gouvernés comme ceux des gouvernans, et que l’on aurait fait une politique, une morale, et, ce qui est horrible à dire, une morale religieuse, qui pussent aller avec elles. On regardait si peu la vie des hommes comme une chose sacrée qu’il ne semblait[355] pas nécessaire d’attendre qu’elle fût réellement dangereuse pour la leur ôter. On avait si bien pris ses précautions contre les mauvaises conséquences d’une condamnation illégale, l’opinion publique était si muette ou si pervertie, que les hommes placés à la tête de l’état, loin d’avoir à redouter une punition, appréhendaient à peine le blâme. C’est dans de telles circonstances, c’est au milieu de telles institutions, que je vois un homme en opposition avec elles par tout ce qu’il y a en lui de généreux, de noble ou d’impétueux, mais forcé toutefois de s’y ployer, pour pouvoir exercer l’activité de son âme, pour pouvoir être, comme on dit, quelque chose. Je vois cet homme, célèbre par ses victoires, recherché par les puissances, parce qu’elles en avaient besoin, et détesté par elles à cause de sa supériorité et de son humour indocile et fière. Car, qu’il fût incapable de ployer sous la volonté d’autrui, sa brouillerie avec le duc de Milan qu’il avait remis sur le trône, et la résolution prise par le sénat de Venise de le tuer, le font assez voir: qu’il y eût aussi en lui de la témérité et une grande confiance en sa fortune, on n’en peut douter à la facilité avec laquelle il crut aux fausses protestations d’amitié de ceux qui voulaient le perdre, avec laquelle il donna dans leurs pièges et devint leur victime.
J’observe, dans l’histoire de cette époque, une lutte entre le pouvoir civil et la force militaire, le premier aspirant à être indépendant, et celle ci à ne pas obéir. Je vois ce qu’il y avait d’individuel dans le caractère de Carmagnola éclater et se développer par des incidens nés de cette lutte. Je trouve que, parmi ceux qui ont décidé de son sort, il y avait des hommes qui étaient ses ennemis personnels, qu’il avait blessés dans les points les plus sensibles de leur orgueil, qu’il avait offensés comme individus et comme gouvernans; je lui trouve aussi des amis, mais des amis qui n’ont pas su ou pu le sauver. Enfin je lui vois une épouse, une fille, compagnes dévouées, mais étrangères aux agitations de la vie politique, et qui ne sont là que pour recevoir la part de bonheur ou de souffrance que leur fera l’homme dont elles dépendent. Voilà en partie ce que ce sujet me semble présenter de poétique, voilà ce que je voudrais savoir peindre et expliquer,[356] si j’avais à traiter de nouveau ce sujet. Mais je ne pourrais jamais, je l’avoue, le traiter en y introduisant les mécontentemens populaires: il n’y en a pas eu, ou au moins il n’en a point paru. Cela aurait changé totalement la face des choses. Je ne voudrais pas non plus y faire entrer les alarmes de la famille de Carmagnola, excitées par les bruits qui circulent sur les intentions perfides du sénat. C’était le grand caractère de cette époque, que les résolutions importantes, surtout lorsqu’elles étaient iniques, ne fussent jamais précédées de bruits: rien n’avertissait la victime. On ne peut changer ces circonstances sans ôter à la peinture de ces moeurs ce qu’elle a de plus saillant et de plus instructif. Expliquer ce que les hommes ont senti, voulu et souffert, par ce qu’ils ont fait, voilà la poésie dramatique: créer des faits pour y adapter des sentimens, c’est la grande tâche des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours.
Je ne prétends pas pour cela que ce genre de composition soit essentiellement faux; il y a certainement des romans qui méritent d’être regardés comme des modèles de vérité poétique; ce sont ceux dont les auteurs, après avoir conçu, d’une manière precise et sûre, des caractères et des moeurs, ont inventé des actions et des situations conformes à celles qui ont lieu dans la vie réelle, pour amener le développement de ces caractères et de ces moeurs: je dis seulement que, comme tout genre a son écueil particulier, celui du genre romanesque c’est le faux. La pensée des hommes se manifeste plus ou moins clairement par leurs actions et par leurs discours; mais, alors même que l’on part de cette large et solide base, il est encore bien rare d’atteindre à la vérité dans l’expression des sentimens humains. A côté d’une idée claire, simple et vraie, il s’en présente cent qui sont obscures, forcées ou fausses; et c’est la difficulté de dégager nettement la première de celles-ci qui rend si petit le nombre des bons poëtes. Cependant les plus médiocres eux-mêmes sont souvent sur la voie de la vérité: ils en ont toujours quelques indices plus ou moins vagues; seulement ces indices sont difficiles à suivre: mais que sera-ce si on les néglige, si on les dédaigne? Or c’est la faute qu’ont commise la plupart[357] des romanciers en inventant les faits; et il en est arrivé ce qui devait en arriver, que la vérité leur a échappé plus souvent qu’à ceux qui se sont tenus plus près de la réalité; il en est arrivé qu’ils se sont mis peu en peine de la vraisemblance, tant dans les faits qu’ils ont imaginés que dans les caractères dont ils ont fait sortir ces faits; et qu’à force d’inventer d’histoires, de situations neuves, de dangers inattendus, d’oppositions singulières de passions et d’intérêts, ils ont fini par créer une nature humaine qui ne ressemble en rien à celle qu’ils avaient sous les yeux, ou, pour mieux dire, à celle qu’ils n’ont pas su voir. Et cela est si bien arrivé que l’épithète de romanesque a été consacrée pour désigner généralement, à propos de sentimens et de moeurs, ce genre particulier de fausseté, ce ton factice, ces traits de convention qui distinguent les personnages de roman.
Dire que ce goût romanesque a envahi le théâtre, et que même les plus grands poëtes ne s’en sont pas toujours préservés, ce n’est pas hasarder un jugement; c’est tout simplement répéter une plainte déjà ancienne, et qui devient tous les jours plus générale, une plainte que la vérité a arrachée aux admirateurs les plus sincères et les plus éclairés de ces grands poëtes. Laissant de côté toutes les causes du mal qui sont étrangères à la question actuelle, et qui d’ailleurs ont déjà été l’objet de beaucoup de recherches ingénieuses et savantes, quoique détachées et incomplètes, je me bornerai à hasarder quelques indications légères sur la part que peut y avoir la règle des deux unités.
D’abord elle force l’artiste, comme vous dites, Monsieur, à devenir créateur. J’ai déjà dit quelques mots de ce que me semble ce genre de création; permettez-moi de revenir sur ce point important; je voudrais le développer un peu plus.
Plus on considère, plus on étudie une action historique susceptible d’être rendue dramatiquement, et plus on découvre de liaison entre ses diverses parties, plus on aperçoit dans son ensemble une raison simple et profonde. On y distingue enfin un caractère particulier, je dirais presque individuel, quelque chose d’exclusif et de propre, qui la constitue ce qu’elle est. On sent de plus en plus qu’il fallait de telles[358] moeurs, de telles institutions, de telles circonstances pour amener un tel résultat, et de tels caractères pour produire de tels actes; qu’il fallait que ces passions que nous voyons en jeu, et les entreprises où nous les trouvons engagées, se succédassent dans l’ordre et dans les limites qui nous sont donnés comme l’ordre et les limites de ces mêmes entreprises.
D’où vient l’attrait que nous éprouvons à considérer une telle action? pourquoi la trouvons-nous non seulement vraisemblable, mais intéressante? c’est que nous en discernons les causes réelles; c’est que nous suivons, du même pas, la marche de l’esprit humain et celle des événemens particuliers présens à notre imagination. Nous découvrons, dans une serie donnée de faits, une partie de notre nature et de notre destinée; nous finissons par dire en nous-mêmes: Dans de telles circonstances, à l’aide de tels moyens, avec de tels hommes, les choses devaient arriver ainsi. La création imposée par la règle des deux unités consiste à déranger tout cela, et à donner à l’effet principal que l’on a conservé et que l’on représente une autre série de causes nécessairement différentes et qui doivent néanmoins être également vraisemblables et intéressantes; à déterminer par conjecture ce qui, dans le cours de la nature, a été inutile, à faire mieux qu’elle enfin. Or comment a-t-on dû s’y prendre pour atteindre cet inconcevable but?
Nous avons vu Corneille demander la permission de faire aller les événemens plus vite que la vraisemblance ne le permet, c’est-à-dire plus vite que dans la réalité. Or ces événemens que la tragédie représente de quoi sont-ils le résultat? de la volonté de certains hommes, mus par certaines passions. Il a donc fallu faire naître plus vite cette volonté en exagérant les passions, en les dénaturant. Pour qu’un personnage en vienne en vingt-quatre heures à une résolution decisive, il faut absolument un autre degré de passion que celle contre laquelle il s’est débattu pendant un mois. Ainsi cette gradation si intéressante par laquelle l’âme atteint l’extremité, pour ainsi dire, de ses sentimens, il a fallu y renoncer en partie; toute peinture de ces passions qui prennent un peu[359] de temps pour se manifester, il a fallu la négliger; ces nuances de caractère qui ne se laissent apercevoir que par la succession de circonstances toujours diverses et toujours liées, il a fallu les supprimer ou les confondre. Il a été indispensable de recourir à des passions excessives, à des passions assez fortes pour amener brusquement les plus violens partis. Les poëtes tragiques ont été, en quelque sorte, réduits à ne peindre que ce petit nombre de passions tranchées et dominantes, qui figurent dans les classifications idéales des pédans de morale. Toutes les anomalies de ces passions, leurs variétés infinies, leurs combinaisons singulières qui, dans la réalité des choses humaines, constituent les caractères individuels, se sont trouvées de force exclues d’une scène où il s’agissait de frapper brusquement et à tout risque de grands coups. Ce fond général de nature humaine, sur lequel se dessinent, pour ainsi dire, les individus humains, on n’a eu ni le temps ni la place de le déployer; et le théâtre s’est rempli de personnages fictifs, qui y ont figuré comme types abstraits de certaines passions, plutôt que comme des êtres passionnés. Ainsi l’on a eu des allégories de l’amour ou de l’ambition, par exemple, plutôt que des amans ou des ambitieux. De là cette exagération, ce ton convenu, cette uniformité des caractères tragiques, qui constituent proprement le romanesque. Aussi arrive-t-il souvent, lorsqu’on assiste aux représentations tragiques, et que l’on compare ce qu’on y a sous les yeux, ce que l’on y entend, à ce que l’on connaît des hommes et de l’homme, que l’on est tout surpris de voir une autre générosité, une autre pitié, une autre politique, une autre colère que celles dont on a l’idée ou l’expérience. On entend faire, et faire au sérieux, des raisonnemens que, dans la vie réelle, on ne manquerait pas de trouver fort étranges; et l’on voit de graves personnages se régler, dans leurs déterminations, sur des maximes et sur des opinions qui n’ont jamais passé par la tête de personne.
Que si, ne voulant pas accélérer les événemens connus, on préfère d’en substituer quelques-uns de pure invention, surtout pour amener le dénoûment, on reste à peu près dans les mêmes inconvéniens. En effet, dès que l’on se propose[360] de faire agir, en peu d’heures et dans un lieu très resserré, des causes qui opèrent une révolution grande et complète dans la situation ou dans l’âme des personnages, il faut de toute nécessité donner à ces causes une force que n’auraient pas eue les causes réelles; car, si elles l’avaient eue, on ne les aurait pas écartées pour en inventer d’autres. Il faut de rudes chocs, de terribles passions, et des déterminations bien précipitées, pour que la catastrophe d’une action éclate vingt-quatre heures au plus tard après son commencement. Il est impossible que des personnages à qui l’on prescrit tant de fougue et d’impétuosité ne se trouvent pas entre eux dans des rapports outrés et factices. Le cadre tragique étant de la même dimension pour tous les sujets, il en est résulté que les objets qui s’y meuvent ont dû avoir à peu près une même allure; de là l’uniformité, non seulement dans les passions agissantes, mais dans la marche même de l’action, uniformité telle, qu’on en est venu à compter et à mesurer le nombre de pas qu’elle doit faire a chaque acte, et par lesquels elle doit se précipiter de l’exposition au noeud, et du noeud à la catastrophe.
Des génies du premier ordre ont travaillé dans ce système: admirons-les doublement d’avoir su produire de si rares beautés au milieu de tant d’entraves; mais nier les fautes nécessaires où le système les a entraînés, ce n’est pas montrer un amour raisonné de l’art, ce n’est pas s’intéresser à sa perfection, ce n’est pas même montrer pour ces beaux génies un respect bien sincère: une admiration de ce genre a tout l’air d’une admiration de courtisan.
Les faux événemens ont produit en partie les faux sentimens, et ceux-ci, à force d’être répétés, ont fini par être réduits en maximes. C’est ainsi que s’est formé ce code de morale théâtrale, opposé si souvent au bon sens et a la morale véritable, contre lequel se sont élevés, particulièrement en France, des écrits qui restent, et auxquels on a fait des réponses oubliées.
Il ne faudrait pas, j’en conviens, trop insister sur l’influence que ces fausses maximes, pompeusement étalées et mises en action dans la tragédie, ont pu exercer sur l’opinion;[361] mais l’on ne saurait non plus nier qu’elles n’en aient eu quelqu’une; car enfin le plaisir que l’on éprouve a entendre répéter ces maximes ne peut venir que de ce qu’on les trouve vraies, et de ce que l’on peut y donner son assentiment. On les adopte donc, et, lorsqu’ensuite il se presente, dans la vie réelle, quelque incident auquel elles sont applicables, il est tout simple que l’on se les rappelle. Ce serait peut-être une recherche curieuse que celle des opinions que le théâtre a introduites dans la masse des idées morales. Je n’ai garde de l’entreprendre ici; mais je ne veux pas rejeter l’occasion de citer au moins un exemple de cette influence des doctrines théâtrales; je veux parler de celle du suicide; elle est on ne peut plus commune dans la tragédie, et la cause en est claire: on y met ordinairement les hommes dans des rapports si forcés; on les fait entrer dans des plans où il est si difficile que tous puissent s’arranger; on leur donne une impulsion si violente vers un but exclusif, qu’il n’y a pas moyen de supposer que ceux qui le manquent en prendront leur parti, et trouveront encore dans la vie quelque chose qui leur plaise, quelque intérêt digne de les occuper: ce sont des malencontreux dont le poëte se débarrasse bien vite par un coup de poignard.
A force de pratique on a dû en venir a la théorie, et un poëte a donné la formule morale du suicide dans ces deux vers célèbres:
Mais lorsqu’on sort du théâtre, et que l’on entre dans l’expérience et dans l’histoire, dans l’histoire même des nations païennes, on voit que les suicides n’y sont pas à beaucoup près aussi fréquens que sur la scène, surtout dans les occasions où les poëtes tragiques y ont recours. On voit des hommes qui ont subi les plus grands malheurs ne pas concevoir l’idée du suicide, ou la repousser comme une faiblesse et comme un crime. Certes l’époque où nous nous trouvons a été bien feconde en catastrophes signalées, en grandes espérances trompées; voyous-nous que beaucoup de suicides s’en[362] soient suivis? non;[1053] et si la manie en est devenue de nos jours plus commune, ce n’est pas parmi ceux qui ont joué un grand rôle dans le monde, c’est plutôt dans la classe des joueurs malheureux, et parmi les hommes qui n’ont ou croient n’avoir plus d’intérêt dans la vie dès qu’ils ont perdu les biens les plus vulgaires: car les âmes les plus capables de vastes projets sont d’ordinaire celles qui ont le plus de force, le plus de résignation dans les revers. N’est-il donc pas un peu surprenant de voir que l’on ait gardé ces maximes de suicide précisément pour les grandes occasions et pour les grands personnages? et n’est-ce pas à cette habitude théâtrale qu’il faut attribuer l’étonnement que tant de personnes ont manifesté lorsqu’elles ont vu des hommes qui ne se donnaient pas la mort après avoir essuyé de grands revers? Accoutumées à voir les personnages tragiques déçus mettre fin à leur vie en débitant quelques pompeux alexandrins ou quelques endécasyllabes harmonieux, serait-il étrange qu’elles se fussent attendues à voir les grands personnages du monde réel en faire autant dans les cas semblables? Certes il faut plaindre les insensés qui, désespérant de la providence, concentrent tellement leurs affections dans une seule chose, que perdre cette chose ce soit avoir tout perdu, ce soit n’avoir plus rien à faire dans cette vie de perfectionnement et d’épreuve! Mais transformer cet égarement en magnanimité, en faire une espèce d’obligation, un point d’honneur, c’est jeter de déplorables maximes sur le théâtre, sans se demander si elles n’iront jamais au-delà, si elles ne tendront pas à corrompre la morale des peuples.
On a beaucoup reproché aux poëtes dramatiques de l’école française, sans en excepter ceux du premier ordre, d’avoir donné, dans leurs tragédies, une trop grande part a l’amour; surtout d’avoir fréquemment subordonné à une intrigue amoureuse des événemens de la plus haute importance, et où il est bien constaté que l’amour ne fut jamais pour rien. Je ne veux pas décider ici si ces reproches sont fondés ou non;[363] mais je ne puis me défendre d’observer que, parmi les causes qui ont concouru à rendre l’amour si dominant sur le théâtre français, on n’a jamais compté la règle des deux unités. Elle a dû cependant y être pour quelque chose. Cette règle, en effet, a forcé le poëte à se restreindre à un nombre plus limité de moyens dramatiques, et parmi ceux qui lui restaient, il était naturel qu’il s’arrêtât de préférence à ceux que lui fournissait la passion de l’amour, cette passion étant de toutes la plus féconde en incidens brusques, rapides, et partant plus susceptibles d’être renfermés dans le cadre étroit de la règle.
Pour produire une révolution dans une tragédie fondée sur l’amour, pour faire passer un personnage de la joie à la douleur, d’une résolution à la résolution contraire, il suffit des incidens en eux-mêmes les plus petits et les plus détachés de la chaîne générale des événemens. Ici vraiment les faits occupent la moindre place possible en durée comme en espace. La découverte d’un rival est bientôt faite; un dédain, un sourire, quelques mots qui donnent l’espérance ou qui la détruisent sont bientôt échappés, bientôt entendus, et ont bientôt produit leur effet. Il est difficile, par exemple, de trouver une tragédie où l’action marche avec plus de rapidité et de suite, précipitée par les oscillations et les obstacles même qui semblent devoir l’arrêter, que celle d’Andromaque. Racine n’a point eu de difficulté à faire entrer une telle action dans le cadre resserré du système qu’il avait adopté, parce que tout, dans cette action, dépend d’une pensée d’Andromaque et de la résolution qu’elle va prendre. Mais les grandes actions historiques ont une origine, des impulsions, des tendances, des obstacles bien différens et bien autrement compliqués; elles ne se laissent donc pas si aisément réduire, dans l’imitation, à des conditions qu’elles n’ont pas eues dans la réalité.
Cette part capitale donnée à l’amour dans la tragédie ne pouvait pas être sans influence sur sa tendance morale: on ne pouvait pas se borner à sacrifier au développement de cette passion tous les autres incidens dramatiques, il fallait encore lui subordonner tous les autres sentimens humains,[364] et plus rigoureusement les plus importans et les plus nobles. Je n’ignore pas que le poëte tragique écarte avec soin ce qui n’est pas relatif à l’intérêt qu’il se propose d’exciter, et en cela il fait très bien; mais je crois que tous les intérêts qu’il introduit dans son plan il doit les développer, et que si des élémens d’un intérêt plus sérieux et plus élevé que celui qu’il aspire particulièrement à produire tiennent tellement à son sujet qu’il n’ait pu les écarter tout à fait, il est obligé de leur donner, dans l’imitation, cette prééminence qu’ils doivent avoir dans le coeur et dans la raison du spectateur. Or c’est ce que le système tragique, où l’amour domine, n’a pas toujours permis: il a, si je ne me trompe, forcé quelquefois de grands poëtes à rejeter dans l’ombre ce qu’il y avait dans leurs sujets de plus pathétique et d’incontestablement principal; il est quelquefois arrivé à ces poëtes, après avoir touché par hasard, et comme à la dérobée, les cordes du coeur humain les plus graves et les plus morales, d’être obligés de les abandonner bien vite, pour ne pas courir le risque de compromettre l’effet des émotions amoureuses, auquel tendait principalement leur plan.
Avec l’admiration profonde que doit avoir pour Racine tout homme qui n’est pas dépourvu de sentiment poétique, et avec l’extrême circonspection qu’un étranger doit porter dans ses jugemens sur un écrivain proclamé classique par deux siècles éclairés, j’oserai vous soumettre quelques réflexions sur la manière dont ce grand poëte a traité le sujet d’Andromaque. Malgré l’art admirable et les nuances délicates de coloris avec lesquels est peinte la passion de Pyrrhus, d’Hermione et d’Oreste, je suis persuadé que, pour tout spectateur doué, je ne dirai pas d’une sensibilité exquise, mais d’un degré ordinaire d’humanité, l’intérêt principal se porte sur Astyanax. Il s’agit, en effet, de savoir si un enfant sera ou ne sera pas livré à ceux qui le demandent pour le faire mourir; et je crois que toutes les fois que l’on jettera une telle incertitude dans l’âme de spectateurs qui porteront au théâtre des dispositions naturelles et non faussées par des théories arbitraires, le sentiment qu’elle excitera en eux prendra décidément le dessus parmi tous les autres, et[365] laissera moins de prise aux agitations et aux souffrances de ces héros et de ces héroïnes qui s’aiment tous à contre-temps. Cependant ce pauvre Astyanax, ce malheureux fils d’Hector, ne paraît jamais dans la pièce que comme un accessoire, comme un moyen. On voit bien qu’il faut, pour que les affaires des amoureux se brouillent ou s’arrangent, que le sort de l’enfant soit décidé; mais ce n’est que relativement à l’intrigue amoureuse qu’ il est question de lui, excepté lorsque c’est Andromaque qui en parle. Ainsi Oreste ne désire pas, il est vrai, d’obtenir Astyanax pour le livrer à ses bourreaux; mais c’est parce qu’il entre dans le plan de son amour que Pyrrhus le lui refuse:
Ainsi encore, lorsque Pyrrhus refuse l’innocente victime, c’est bien la pitié qu’il donne pour motif de son refus; mais le spectateur ne s’y méprend pas: il voit clairement que le vrai motif de Pyrrhus est de ne pas blesser à jamais le cœur d’Andromaque, et de ménager une chance favorable à son amour. Cela est si vrai que, lorsqu’Andromaque rejette ses vœux, il lui déclare qu’il va livrer Astyanax; et l’on voit alors, d’un côté, une femme à genoux qui s’écrie: N’égorgez pas mon enfant; et, de l’autre, un amant qui dit et redit à cette femme que son enfant sera livré pour la punir de son indifférence pour lui Pyrrhus. Le sentiment le plus simple, le plus vif, le plus commun de la nature, Pyrrhus ne le suppose pas; il ne lui vient jamais a l’esprit qu’Andromaque puisse aimer son fils indépendamment de l’amour ou de la haine qu’elle peut avoir pour un homme qui la recherche.
Observera-t-on que Pyrrhus, lorsqu’il a une fois résolu[366] d’abandonner Astyanax aux bourreaux qui le réclament, montre quelques regrets sur le sort de cet enfant? oui; mais c’est à cause d’Andromaque: il voit la douleur et les larmes où la perte d’un fils adoré va plonger la femme qu’il aime; voilà ce qui le préoccupe, et non la lâcheté dont il se rend coupable en accédant à un acte inhumain de politique. Mais quoi! l’amour le fascine au point qu’il va jusqu’à douter un moment si, après avoir perdu son fils, Andromaque ne sera pas un peu piquée de voir celui qui l’a livré devenir l’époux d’une autre femme:
Enfin rien ne fait mieux sentir que la mort d’Astyanax n’est rien dans la pièce que la manière dont Phœnix en est affecté. Il n’est pas amoureux celui-là; il n’a point d’intérêt personnel à cette persécution d’un enfant par la Grèce entière; et il y aurait calomnie à le traiter de méchant homme. Il ne manque même pas de ce genre de bonté, pour ainsi dire toute philosophique, que l’on ne rencontre guère que dans les confidens vertueux de tragédie, et qui ne laisse pas d’avoir sa singularité. En effet, ces personnages se mêlent de tout, et n’agissent jamais dans des vues personnelles: ils tiennent de près à l’action tragique, mais ils n’y tiennent par aucun motif qui leur soit propre; ils ont fait leur affaires et leurs passions des affaires et des passions d’autrui. Parfaitement désintéressés, et cependant pleins de zèle, inaccessibles à la corruption, à la tentation même, ce sont des courtisans d’une espèce nouvelle, qui s’oublient, qui ne sont rien dans le monde et n’y veulent rien être: ce sont de purs esprits, qui semblent n’avoir pris momentanément un corps que pour faire aller une tragédie. Aussi n’est-il pas rare de les voir montrer la plus haute sagesse au milieu des passions les plus folles, et un sang-froid admirable dans les plus horribles dangers. Et c’est peut-être ce calme imperturbable, ce désintéressement absolu, qui ont donné à quelques critiques l’idée un peu bizarre de comparer les confidens de la tragédie française aux chœurs des Grecs.
Mais revenons à Phœnix. Eh bien! Phœnix, louant Pyrrhus du parti qu’il a pris enfin de livrer Astyanax, n’a pas l’air de soupçonner qu’il y ait dans ce parti rien de lâche et de barbare. Il y a un moment où l’on pourrait espérer qu’il va laisser percer quelque scrupule là-dessus; on écoute, et c’est pour l’entendre dire:
Et Dieu sait ce qu’il allait ajouter si Pyrrhus ne lui eût coupé un peu brusquement la parole sur un exorde si expressif!
Je n’ai rien dit d’Hermione; mais qu’y a-t-il à en dire sous le rapport que je considère? Ivre du bonheur de voir Pyrrhus rendu à son amour, peut-il lui venir dans l’idée que la mort d’un enfant troyen va être le gage de ce bonheur? Cependant elle est bien obligée d’y songer un instant, lorsqu’Andromaque vient, en suppliante, la conjurer de fléchir Pyrrhus; mais du reste elle se dispense de se rendre à la prière de cette mère désolée, sous le prétexte d’un devoir austère, et se contente de dire:
c’est-à-dire je n’insisterai pas pour que votre fils soit égorgé.
Il sera vrai, si l’on veut, que d’abominables préjugés, de fausses institutions, des passions effrénées, aient porté un homme, quelques hommes, tout un peuple, au degré de férocité que supposeraient de telles mœurs: j’admettrai que cette férocité puisse se trouver combinée avec l’amour le plus tendre et le plus raffiné; j’irai plus loin, s’il le faut, je croirai qu’il n’est pas impossible que ce soit cet amour lui-même qui ait engendré un oubli si complet des sentimens les plus universels de l’humanité. Ce qui m’étonne, ce que je voudrais savoir et n’ose presque demander, c’est comment il arrive que là où l’on représente de telles mœurs, cet oubli même[368] de l’humanité et de la nature ne soit pas, pour le spectateur, la partie dominante et la plus terrible du spectacle? J’ai peine à comprendre comment, en présence de phénomènes moraux aussi étranges, aussi monstrueux que ceux dont il s’agit, l’on peut se prendre d’un intérêt sérieux pour des incertitudes et des querelles d’amour? comment la curiosité ne se porte pas plutôt à démêler, dans le cœur et dans l’esprit de ces étonnans personnages offerts à sa contemplation, les sentimens et les idées qui en ont fait des exceptions à la nature humaine? Que si ces sentimens, ces idées ont été ceux d’un peuple et d’une époque, il n’en est que plus important d’en observer tous les indices, de savoir comment ils se produisent, et d’apprécier ce qui en résulte. J’ai surtout de la peine, je le répète, à concevoir que, dans le choc des passions de Pyrrhus, d’Oreste et d’Hermione, Astyanax ne soit pas l’objet essentiel de l’anxiété du spectateur; que celui-ci puisse être frappé des soupirs et des fureurs des trois amans, par un motif plus pressant que celui de savoir si le malheureux enfant leur sera ou non sacrifié!
Mais peut-être, dans le système dramatique où l’amour domine, est-on obligé de considérer tout le reste comme accessoire; et Racine, à ce qu’il paraît, en a ainsi jugé, puisque la tragédie d’Andromaque se termine sans que le sort d’Astyanax soit décidé. Il est, pour le moment, en sûreté avec sa mère: le peuple les a pris tous les deux sous sa protection; mais le projet conçu par la Grèce entière d’immoler le fils d’Hector subsiste; la vie de cet enfant est toujours en danger; car ses ennemis sont toujours les plus forts, et les motifs qu’ils ont pu avoir de l’immoler sont plutôt renforcés qu’affaiblis, depuis que sa mère semble avoir trouvé un parti dans le Grèce même. L’observation que je fais ici relativement à Andromaque trouverait son application dans une foule d’autres tragédies dont l’intérêt roule de même sur l’amour, et où il est tellement principal, qu’une fois les personnages amoureux contens ou morts, il ne reste plus dans l’action aucun sujet d’incertitude ou de curiosité; où tout ce qui n’est pas l’amour se rapporte encore a l’amour, et n’excite d’attention que comme moyen offert ou comme obstacle[369] oppose aux flammes des amans. Il y a, par exemple, dans Andromaque même l’énoncé d’un fait qui, si on allait le scruter de trop près, pourrait bien produire une impression fort contraire au sentiment que le poëte veut inspirer pour la veuve d’Hector. Il s’agit de ce qu’Oreste dit, dès la première scène, à propos d’Astyanax:
Si le spectateur, dis-je, prenait cela au sérieux, et voulait régler ses sentimens pour Andromaque sur ce que le poëte raconte d’elle, il y a beaucoup d’apparence que la pitié pour cette héroïne serait un peu affaiblie par le souvenir d’une action si cruelle: car enfin ce n’est ni à Andromaque ni à Astyanax, c’est à une mère et à un enfant que le spectateur s’intéresse; et, s’il se rencontre une mère qui ait pu livrer l’enfant d’une autre à la mort, on n’éprouvera jamais pour elle une sympathie entière et pure lorsqu’elle sera en danger de voir périr le sien. Je crois que, pour prendre un intérêt complet aux malheurs d’un personnage quelconque, le spectateur a besoin de lui trouver des sentimens d’humanité. Un être humain qui pour connaître la pitié aurait attendu d’en avoir besoin, qui l’invoquerait sans l’avoir jamais sentie, courrait beaucoup de risque de n’inspirer qu’un faible intérêt. Tout ce qu’on lui devrait, ou du moins tout ce que l’on pourrait lui accorder, serait un pénible mélange de commisération et d’horreur; et Andromaque elle-même, s’il était vrai qu’elle eût commis une cruauté pour prévenir une infortune, nous toucherait bien moins quand cette infortune vient à l’accabler; ses douleurs auraient l’air d’une punition du ciel; ses larmes auraient, pour ainsi dire, été souillées dans leur source même; elles auraient perdu ce qu’ont de plus puissant et de plus sacré les larmes d’une mère qui supplie pour la vie de son enfant.
Un critique qui, il faut bien le croire, a été quelque temps une autorité en littérature[1054], a paru soupçonner que l’idée[370] du sacrifice d’Astyanax pouvait produire un sentiment nuisible à l’effet de la tragédie de Racine, et voici comme il aplanit toute la difficulté: «Si Pyrrhus», dit-il, «n’obtient pas la main d’Andromaque, il livrera le fils de cette princesse aux Grecs, qui le lui demandent. Ils ont des droits sur leur victime, et il ne peut refuser à ses alliés le sang de leur ennemi commun, à moins qu’il ne puisse leur dire: Sa mère est ma femme, et son fils est devenu le mien. Voilà des motifs suffisans, bien conçus et bien dignes de la tragédie». Des droits! le droit de tuer un enfant parce qu’il est le fils d’un ennemi! Le critique ne le pensait pas, aussi ajoute-t-il de suite ces paroles non moins étonnantes: «Quoique ce sacrifice d’un enfant puisse nous paraître tenir de la cruauté, les mœurs connues de ces temps, les maximes de la politique et les droits de la victoire l’autorisent suffisamment». Cela peut être: mais, dans ce cas, ce sont ces mœurs, ces maximes de politique, et cette manière de concevoir les droits de la victoire, c’est l’horrible puissance qu’on leur attribue de porter les hommes à sacrifier un enfant, qui est le côté le plus terrible et le plus dramatique du sujet, c’est le sujet tout entier, si je ne me trompe; car l’amour devient, pour ainsi dire, une passion de luxe, une frivolité, si on le rapproche d’une idée si grave. Mais, me dira-t-on sans doute, ne doit-on pas admirer l’art du poëte qui a su si pleinement nous captiver pour des intérêts amoureux, en présence et, pour ainsi dire, en dépit des intérêts les plus simples et les plus sacrés de l’humanité? Oui, certes, on doit l’admirer; mais n’est-il-pas permis aussi de trouver quelque chose à redire à un système dans lequel un des plus heureux génies poétiques qui aient jamais existé emploie toutes ses ressources à faire prédominer une impression qui n’est que secondaire, pour le genre et le degré de sympathie qu’elle peut produire, sur une impression aussi pure, aussi religieuse, aussi éminemment poétique, que la pitié pour un enfant que des hommes veulent égorger, en vertu des prétendus droits de la victoire et de la politique? N’y a-t-il rien à regretter dans un système qui oblige ou qui expose incessamment le poëte à faire taire la voix de l’humanité, pour ne laisser entendre que celle de l’amour?
Je n’ai pas prétendu indiquer, bien s’en faut, tous les effets des règles arbitraires sur le poëme dramatique; il faudrait pour cela examiner, dans tous ses développemens, la tragédie telle qu’elle est résultée de l’observance de ces règles. Si, comme il me semble démontré, elles introduisent dans l’art des élémens étrangers, si elles imposent aux sujets dramatiques une forme indépendante de leur nature, il est bien clair que la tragédie n’a pu les admettre sans se ressentir désavantageusement, et dans toutes ses parties, de leur influence; et l’on peut en dire autant de toutes les règles factices dans tous les genres de poesie.
Remarquez, je vous prie, Monsieur, sur quels principes on s’est fondé pour les établir ces règles. C’est de la pratique qu’on les a toujours prises. Ainsi, dans le poëme épique, on est parti de l’Iliade pour trouver les règles: et le raisonnement que l’on a fait, pour prouver qu’elles s’y trouvaient, est assurément un des plus curieux qui soient jamais tombés dans l’esprit des hommes. On a dit que puisqu’Homère avait atteint la perfection en remplissant telles et telles conditions, ces conditions devaient être regardées comme nécessaires partout, pour tout et pour toujours. On n’a oublié en cela qu’un des caractères les plus essentiels de la poésie et de l’esprit humain: on n’a pas vu que tout poëte, digne de ce nom, saisit précisément dans le sujet qu’il traite les conditions et les caractères qui lui sont propres; et qu’à un but déterminé et spécial il ne manque jamais d’approprier des moyens également spéciaux. Aussi les règles générales que l’on a tirées, Dieu sait comment, de l’Iliade, pour les imposer à tout poëme sérieux de longue haleine, se sont trouvées non seulement gratuites, mais inapplicables relativement à beaucoup de productions du premier ordre, par la raison que les auteurs de celles-ci ont vu dans leur sujet, ainsi qu’Homère dans le sien, ce que ce sujet avait de propre et d’individuel; par la raison que, comme Homère, ils se sont conformés, dans l’exécution, à cette vue première, à cette perception rapide et simultanée des moyens qui convenaient à leur but. Il a dû arriver de la sorte aux théoristes de trouver, dans bien des poëmes épiques, des choses[372] qu’ils n’avaient ni prévues ni soupçonnées, puisqu’elles n’étaient pas dans l’Iliade. Mais les théoristes de l’épopée ont l’air d’avoir été plus accommodans que ceux du drame: ils ont admis des exceptions aux règles déduites de l’Iliade, pour les sujets qui ne se prêtaient pas à ces règles: et, comme ces exceptions ne laissent pas d’être nombreuses, sont même plus nombreuses que les cas réguliers, il y a vraiment lieu à se féliciter de cette condescendance de la part des régulateurs de l’épopée.
Parmi les ouvrages modernes qui approchent le plus de l’idéal convenu pour le poëme épique, et qui sont regardés comme classiques dans l’Europe entière, il y en a trois, je crois, où l’on est parvenu, tant bien que mal, à trouver l’application des règles homériques, et le vrai type du genre; ce sont la Jérusalem délivrée, la Lusiade et la Henriade: mais, pour la Divine comédie et le Roland furieux, pour le Paradis perdu, la Messiade et tant d’autres poëmes, les critiques ont eu beau se tourmenter à leur faire une case dans leurs théories, ils n’ont pu en venir à bout; ces poëmes leur ont toujours échappé par quelque côté. Dans le premier, on a cherché en vain une certaine unité conforme à l’idée générale que l’on s’en était faite; dans le second, on n’a pas su au juste quel était le protagoniste; dans l’autre, enfin, les événemens n’étaient pas du genre épique proprement dit: si bien que l’on a fini par ne plus savoir de quel titre qualifier ces compositions indociles; tout ce dont on est convenu à leur égard, c’est qu’elles n’avaient pas moins d’agrémens ou moins de beautés que les modèles auxquels elles ne ressemblaient pas. Le plus plaisant est que les critiques, au lieu de se donner tant de peine pour essayer de ranger sous une dénomination commune tant de poëmes divers, ne se soient jamais avisés de réfléchir que cette dénomination n’existait pas à priori, et que le vrai titre de chacun de ces poëmes était celui que lui avait donné son auteur. Mais cela était trop complexe, trop opposé a l’idée commode de l’unité; il fallait à la théorie, pour la mettre à son aise, un nom de genre pour les poëmes épiques. Mais il eût fallu pour cela que la théorie devançât la pratique: alors plus d’exceptions obligées, et partant plus de difficultés, plus d’embarras.
Forcés de reconnaître des exceptions, les critiques épiques ont du moins essayé de les limiter et de les restreindre, combattant encore ainsi pour l’honneur des règles, alors même qu’ils semblaient les sacrifier: ils ont déclaré qu’ils voulaient accorder le privilège de violer ces règles, mais qu’ils ne voulaient l’accorder qu’à de grands génies. Y pensaient ils bien? Si ce sont les grands génies qui violent les règles, quelle raison restera-t-il de présumer qu’elles sont fondées sur la nature, et qu’elles sont bonnes à quelque chose?
Il est impossible de tromper un homme de goût sur l’unité de lieu, et difficile de le tromper sur celle de temps. Aussitôt que, dans votre pièce, une décoration change, il vous prend en flagrant délit, et il est prouvé dès lors que vous ne connaissez pas les premiers élémens de l’art.
Et par respect pour qui supporterait-on à perpétuité cette gêne? Par respect pour quelques commentateurs d’Aristote? Ah! si Aristote le savait! Mais n’est-il pas bien démontré aujourd’hui qu’il n’a jamais songé a prescrire à la tragédie les règles qui lui ont été imposées en son nom, et que l’on a abusé de son autorité pour établir un déplorable despotisme? Si ce philosophe revenait, et qu’on lui présentât nos axiomes dramatiques comme issus de lui, ne leur ferait-il pas le même accueil que fait M. de Pourceaugnac à ces jeunes Languedociens et à ces jeunes Picards dont ou veut à toute force qu’il se déclare le père? Voyez, Monsieur, par quelles voies ces règles se sont glissées dans le théâtre français. C’est d’Aubignac qui le premier en France s’avisa de croire que l’on n’aurait jamais de tragédie à moins de les adopter; c’est Mairet qui le premier les mit en pratique; c’est Chapelain qui fut chargé des négociations auxquelles il fallut recourir pour vaincre la répugnance des comédiens à jouer une pièce où ces règles étaient observées. Ce sont ces règles qui, à peine nées, ont donné à Scudéri le pouvoir de faire passer de mauvaises nuits à ce bon et grand Corneille. Corneille s’est débattu quelque temps sous le joug, et ne l’a à la fin subi qu’en frémissant; Racine l’a porté dans toute sa rigueur: car braver une erreur qui est dans la vigueur de la jeunesse, cela ne vient à la tête de personne. Les esprits[374] les plus éclairés et les plus indépendans sont les derniers à lutter contre un préjugé qui va s’établir; ils sont les premiers à s’élever contre un préjugé qui a long-temps régné: il ne leur est pas donné de faire plus. Racine a donc porté le joug; mais on ne voit pas qu’il l’ait aimé. Et quelle raison aurait-il eue de l’aimer? quelle obligation a-t-il aux règles de d’Aubignac? quelles beautés leur doit-il? Il serait plus facile de dire en quoi elles ont contrarié et gêné son admirable talent que de faire voir comment elles l’ont aidé. On ne soutiendra pas peut-être que ce talent, si complet et si sûr, se serait égaré en s’exerçant dans un champ plus vaste. Il y aurait, je pense, plus de justice à présumer que, plus libre dans son art, Racine n’eût pas pour cela abusé des heureux dons de la nature; qu’en traitant des sujets plus relevés et plus graves il n’aurait rien perdu de cette rectitude de jugement, de cette délicatesse de goût, qui lui font toujours trouver ce qu’il y a de plus fort dans le vrai, de plus exquis dans le naturel. Il est permis de croire que l’amour n’était pas l’unique passion qu’il pût faire parler avec éloquence; qu’avec plus de moyens de pénétrer dans les profondeurs de l’histoire, et de suivre la marche franche et naturelle des événemens tragiques, il n’aurait pas oublié le secret de ce style enchanteur, où l’art se cache dans la perfection, où l’élégance est toujours au profit de la justesse, où l’on reconnaît à chaque trait le reflet d’un sentiment profond qui démêle toutes les nuances des idées et des objets, avec le don de s’arrêter constamment aux plus poétiques.
Mais Racine, entend-on dire tous les jours, Racine et bien d’autres poëtes qui, pour n’être pas ses égaux, ne sont cependant pas des écrivains vulgaires, ont examiné les règles dont il s’agit, ils s’y sont soumis; et n’y-a-t-il pas un orgueil intolérable à croire que l’on voit plus juste et plus loin qu’eux, que de tels hommes se sont laissés garrotter par des liens que le moindre effort de leur raison aurait dû briser? Eh non, il n’y a pas d’orgueil à se croire, en certaines choses, plus éclairé que les grands hommes qui nous ont précédés. Chaque erreur a son temps et, pour ainsi dire, son règne, pendant lequel elle subjugue les esprits les plus élevés:[375] des hommes supérieurs ont cru pendant des siècles aux sorciers, et il n’y a assurément aujourd’hui d’orgueil pour personne a se prétendre plus éclairé qu’eux sur le point de la sorcellerie.
Une fois ces règles adoptées, voyez, Monsieur, tout ce qu’il a fallu faire pour les soutenir; que de nouveaux argumens on a dû chercher à chaque nouvelle attaque! comme on a été obligé de trouver de nouveaux étais pour soutenir un édifice toujours chancelant sur ses bases! à quelles concessions arbitraires il a fallu en venir de temps à autre dans la théorie, sans avantage décisif pour la pratique! Vous même, Monsieur, en voulant raisonner sur ces règles plus exactement qu’on ne l’avait fait jusqu’ici, vous avez été obligé d’en altérer un peu la formule sacramentelle[1055]. Vous avez substitué le terme d’unité de jour à celui d’unité de temps, et j’ose présumer que c’est pour avoir senti l’absurdité d’un terme qui ne signifie rien, s’il exprime autre chose que la conformité entre le temps réel de la représentation et le temps fictif que l’on attribue à l’action. Dans ce cas même, ce terme baroque d’unité de temps ne rend pas l’idèe d’une manière précise. Vous avez donc bien fait de l’abandonner; mais celui que vous y substituez, en exprimant une idée fort nette, ne laisse que mieux voir ce qu’il y a d’arbitraire dans la règle énoncée. On comprend fort bien ce que veut dire unité de jour, mais on est de suite tenté de s’écrier pourquoi justement un jour? J’ose même vous annoncer qu’il vous faudra changer aussi le terme d’unité de lieu; car il ne peut signifier que la permanence de l’action dans le lieu où l’on a une fois introduit le spectateur. Mais si vous admettez, Monsieur, que l’on puisse transporter le lieu de l’action, au moins à de petites distances, il faut trouver un terme qui exprime quelque autre chose que la stricte unité de lieu, puisque celle-là vous l’avez sacrifiée. Ce n’est pas ici une dispute sur les mots; car le défaut de l’expression et la difficulté d’en[376] trouver une qui soit claire et précise viennent de l’arbitraire, du vague et de l’oscillation de l’idée même que l’on cherche à exprimer.
Vous paraissez, Monsieur, effrayé pour moi de la témérité qu’il y a dans le projet de faire supporter, dans ma patrie, des tragédies qui ne soient pas soumises à la règle des deux unités. «Qu’on juge après cela», dites-vous, «du projet d’introduire une pareille innovation en Italie!». Ce n’est pas sûrement à moi à vous dire de quelle manière l’essai dramatique, dont vous avez eu la bonté de parler, a pu être accueilli par mes compatriotes; mais, en thèse générale, je puis vous assurer que les idées romantiques ne sont pas si discréditées en Italie que vous paraissez le croire. Elles y sont fort débattues, et c’est déjà un présage de triomphe pour le côté de la raison. Quelques écrivains, dégoûtés de la pédanterie et du faux qui dominent dans les théories reçues de la poésie et de la littérature en général, frappés des vérités éparses dans quelques écrits français, allemands, anglais et italiens, sur les doctrines du beau, ont donné une attention particulière à ces questions. Sans adopter aucun des divers systèmes proposés par des littérateurs philosophes, ils ont recueilli de toutes parts les idées qui leur ont paru vraies, en ont séparé ce qui, à leur sens, tenait à des circonstances locales, à des systèmes particuliers de philosophie, ou même à des préjugés nationaux, et se sont ralliés à un principe général, qu’ils ont exposé, enrichi de nouvelles preuves, et agrandi, ce me semble, en laissant au principe et aux doctrines le nom de romantiques, bien que ce nom ne représente pas pour eux le même ensemble d’idées auquel il a été appliqué chez d’autres nations.
J’irais au delà de la vérité si je vous disais que leurs efforts ont obtenu un plein succès. L’erreur ne se laisse nulle part, et dans aucun genre, détruire en un jour. La torture a duré long-temps encore après l’immortel traité des délits et des peines; cela reconnu, il faudrait être bien impatient et bien egoïste pour se plaindre de la ténacité des préjugés littéraires. Mais parmi les défenseurs de ces doctrines, dont je suis fâché de ne pouvoir faire ici qu’une mention collective[377] et rapide, il se trouve des hommes particulièrement voués aux études philosophiques et accoutumés à porter dans toute discussion les lumières qui résultent d’un grand ensemble de connaissances: il s’y trouve des poëtes dont le talent n’est pas contesté même par ceux qui ne partagent pas encore leurs principes littéraires; des poëtes, dont les uns ont fait valoir ce talent pour populariser leur doctrine poétique, et dont d’autres l’ont déjà justifiée par d’heureux essais. On a vu d’excellens esprits, prévenus d’abord contre ces doctrines, finir par les adopter. L’erreur est déjà troublée dans sa possession, avec le temps elle sera dépossédée; et puisqu’il est assez ordinaire aux hommes qui abandonnent de guerre lasse les vieilles erreurs, d’outrer les vérités nouvelles qu’ils sont forcés d’adopter, et de les interpréter avec une rigueur pédantesque, comme pour se donner l’air de ne pas arriver trop tard à leur secours, je ne désespère pas de voir le jour où les romantiques[1056] actuels de l’Italie s’entendront reprocher de n’être pas assez romantiques.
Le règne des erreurs grandes et petites[1057] me semble avoir deux périodes bien distinctes. Dans la première, c’est comme étant la vérité qu’elles triomphent; elles sont admises sans discussion, prêchées avec assurance; on les affirme, on[1058] les impose; on en fait des règles, et l’on se contente de rappeler, sans aucun raisonnement, à l’observance[1059] de ces règles ceux qui s’en écartent dans la pratique. S’il se rencontre quelqu’un d’assez[1060] hardi pour les rejeter[1061], pour les attaquer, on dit sèchement qu’il[1062] ne mérite pas de réponse, et l’on s’en tient là[1063]. Mais peu à peu ces hommes qui ne méritent pas de réponse augmentent en nombre; ils en réclament, ils en exigent une[1064], et font[1065] tant de bruit que l’on ne peut plus faire[378] semblant de ne pas les entendre; on est forcé de croire[1066] à leur existence, et il n’est plus permis[1067] de dire qu’on les a confondus quand on les a appelés des hommes à paradoxe. Alors il paraît des écrivains (et, par je ne sais quelle fatalité, ce sont toujours des hommes d’esprit), qui, par des argumens auxquels personne n’avait songé, prennent à tâche de prouver[1068] que la chose dont on conteste la vérité est d’une incontestable utilité[1069]; qu’il ne faut pas en examiner le principe à la rigueur; que, dans la guerre qu’on lui fait, il y a quelque chose de léger, de puéril même[1070]; que les raisons que l’on[1071] entasse, pour en démontrer la fausseté, sont d’une évidence tout-à-fait vulgaire, presque niaises.[1072] Ils vous disent qu’il ne faut pas s’arrêter à l’apparence,[1073] mais bien chercher,[1074] dans la durée de cette opinion, les raisons de sa convenance, et la preuve de son utilité dans l’heureuse application qu’en ont faite des hommes qui étaient bien d’autres génies que les hommes d’à présent.[1075]
Quand elles en sont à cette seconde époque, les erreurs ont peu de temps à vivre: une fois dépostées de leurs premiers retranchemens, elles ne peuvent plus s’y rétablir. Or, je ne serais pas loin de croire que la règle des deux unités en est à sa seconde période; on ne prétend plus la fonder sur l’idée de l’illusion et de la vraisemblance, idée absolue, et avec laquelle il n’y aurait pas lieu à transiger; mais cette idée n’est pas soutenable, la fausseté en est reconnue. Il faut donc prouver que les règles n’étant pas nécessaires par elles-mêmes, le sont du moins pour obtenir certains effets réputés avantageux, et qui dépendent de leur observance. Elles se trouvent dès lors dans une position nouvelle, qui paraît encore assez bonne; elles y sont défendues par des hommes habiles, je le sais: mais dans ce changement de position je ne puis voir qu’un pas, et même un grand pas de l’erreur à la vérité.
Oserai-je vous dire, Monsieur, qu’en France même, où les règles dont nous parlons paraissent si affermies, où l’on est accoutumé à les voir appliquées à des chefs-d’oeuvre hors de toute comparaison dans le système suivant lequel ils ont été conçus, et qui ne périront jamais, oserai-je vous dire que l’époque de leur décadence n’est probablement pas bien éloignée? Ce qui me porte à le croire, c’est la tendance historique, que le théâtre français semble prendre depuis quelque temps. Des essais isolés, et suivis quelquefois d’un succès éphémère, avaient bien paru à d’autres époques; mais jamais la tendance n’avait été décidée, et les causes en sont bien connues et seraient bien aisées à dire. Mais, de nos jours, nous avons des tragédies historiques auxquelles des succès soutenus et brillans ont déjà promis le suffrage de la postérité; aujourd’hui, de beaux talens sont entrés dans cette carrière, et semblent avoir ouvert à l’art dramatique une période nouvelle, qui ne sera pas moins glorieuse que la précédente. Or, je m’abuse fort, ou, à mesure que l’art théâtral fera de nouveaux pas dans le vaste champ de l’histoire, on aura plus d’occasions de constater les inconvéniens de la règle des deux unités; et les hommes nés avec du génie en viendront à la fin à s’indigner des entraves qui les empêcheraient de rendre fidèlement les conceptions où ils verraient leur gloire et les progrès de l’art. Ils sentiront l’étrange duperie qu’il y aurait, pour eux, à renoncer aux matériaux tragiques si imposans, si variés, qui leur sont donnés par la nature et la réalité, pour en forger de romanesques. Dans tous les temps, dans tous les pays, ils trouveront des hommes que l’énergie de leur caractère a poussés hors de la sphère commune, qui ont échoué ou réussi dans de grandes choses, et donné les mesures des forces humaines. Ces heureux talens se demanderont avec impartialité si les poëtes dramatiques qui ont méprisé les règles,[1076] et les nations qui admirent[380] ces poëtes, sont effectivement, comme on l’a tant dit, des poëtes et des nations barbares. Ils examineront cette loi qui aura tyrannisé leurs devanciers; ils remonteront à son origine; ils verront quels hommes l’ont rendue, pour quels motifs elle l’a été, et s’indigneront de la proposition de continuer à y obéir. Si général que puisse être le préjugé dominant, il leur faudra moins de courage pour s’y soustraire, quand ils songeront que la plupart des poëtes dont les ouvrages leur ont survécu, ont eu aussi quelque préjugé à vaincre, et ne sont devenus immortels qu’en bravant leur siècle en quelque chose.
Il est d’ailleurs impossible que ce préjugé ne s’affaiblisse pas de jour en jour; le goût toujours croissant des études historiques finira par modifier aussi les idées des spectateurs, et par rendre rares et difficiles les succès de théâtre qui ne sont fondés que sur l’ignorance du parterre. L’histoire paraît enfin devenir une science; on la refait de tous côtés; on s’aperçoit que ce que l’on a pris jusqu’ici pour elle n’a guère été qu’une abstraction systématique, qu’une suite de tentatives pour démontrer des idées fausses ou vraies, par des faits toujours plus ou moins dénaturés par l’intention partielle à laquelle on a voulu les faire servir. Dans le jugement du passé, dans l’appréciation des anciennes moeurs, des anciennes lois et des anciens peuples, de même que dans les théories des arts, ce sont les idées de convention et la prétention vaniteuse d’atteindre un but exclusif et isolé, qui ont dominé et faussé l’esprit humain.
A mesure que le public verra plus clair dans l’histoire, il s’y affectionnera davantage, et sera plus disposé à la préferer aux fictions individuelles. Accoutumé à trouver, dans la connaissance des événemens, des causes simples, vraies et variées à l’infini, il ne demandera pas mieux que de les voir développer sur la scène; il finira même, je crois, par s’étonner et par murmurer, si, assistant à une tragédie dont le sujet lui est connu, il s’aperçoit que, pour ne pas heurter un préjugé, on a négligé les incidens les plus frappans et les plus relevés de ce sujet. Déjà des tentatives hardies ont été faites sur la scène française pour transporter l’action des[381] bornes de la règle à celles de la nature; et ces tentatives, repoussées avec une colère qui aurait bien voulu être du mépris, ont du moins manifesté un commencement de volonté de secouer le joug. Mais des transgressions plus prudentes n’ont reçu que des applaudissemens; et, pour peu que les écrivains qui se les sont permises veuillent et sachent mettre à profit l’ascendant que donnent des succès obtenus pour en obtenir d’autres, je crois qu’il ne tient qu’à eux d’arriver à détruire la loi à force d’amendemens. Mais, si cela arrive, où s’arrêtera-t-on? On n’ira pas trop loin; la nature y a pourvu; elle a posé des bornes, et l’art du poëte consiste à les connaître. Ces bornes sont la faiblesse même de l’homme; sa vie est trop courte; l’influence de sa volonté est trop facilement resserrée par les obstacles les plus prochains; l’énergie de ses facultés, la force même de sa conception, diminuent trop à mesure qu’elles agissent sur des objets plus éloignés et plus épars, pour qu’une action humaine puisse jamais s’étendre et se prolonger au delà de certaines limites. Ainsi, tout poëte qui aura bien compris l’unité d’action verra dans chaque sujet la mesure de temps et de lieu qui lui est propre; et, après avoir reçu de l’histoire une idée dramatique, il s’efforcera de la rendre fidèlement, et pourra dès-lors en faire ressortir l’effet moral. N’étant plus obligé de faire jouer violemment et brusquement les faits entre eux, il aura le moyen de montrer, dans chacun, la véritable part des passions. Sûr d’intéresser à l’aide de la vérité, il ne se croira plus dans la nécessité d’inspirer des passions au spectateur pour le captiver; et il ne tiendra qu’à lui de conserver ainsi à l’histoire son caractère le plus grave et le plus poétique, l’impartialité.
Ce n’est pas, il faut le dire, en partageant le délire et les angoisses, les désirs et l’orgueil des personnages tragiques, que l’on éprouve le plus haut degré d’émotion; c’est au-dessus de cette sphère étroite et agitée, c’est dans les pures régions de la contemplation désintéressée, qu’à la vue des souffrances inutiles et des vaines jouissances des hommes, on est plus vivement saisi de terreur et de pitié pour soi-même. Ce n’est pas en essayant de soulever, dans des âmes[382] calmes, les orages des passions, que le poëte exerce son plus grand pouvoir. En nous faisant descendre, il nous égare et nous attriste. A quoi bon tant de peine pour un tel effet? Ne lui demandons que d’être vrai, et de savoir que ce n’est pas en se communiquant à nous que les passions peuvent nous émouvoir d’une manière qui nous attache et nous plaise, mais en favorisant en nous le développement de la force morale à l’aide de laquelle on les domine et les juge. C’est de l’histoire que le poëte tragique peut faire ressortir, sans contrainte, des sentimens humains; ce sont toujours les plus nobles, et nous en avons tant besoin! C’est à la vue des passions qui ont tourmenté les hommes, qu’il peut nous faire sentir ce fond commun de misère et de faiblesse qui dispose à une indulgence, non de lassitude ou de mépris, mais de raison et d’amour. En nous faisant assister à des événemens qui ne nous intéressent pas comme acteurs, où nous ne sommes que témoins, il peut nous aider à prendre l’habitude de fixer notre pensée sur ces idées calmes et grandes qui s’effacent et s’évanouissent par le choc des réalités journalières de la vie, et qui, plus soigneusement cultivées et plus présentes, assureraient sans doute mieux notre sagesse et notre dignité. Qu’il prétende, il le doit, s’il le peut, à toucher fortement les âmes; mais que ce soit en vivifiant, en développant l’idéal de justice et de bonté que chacune porte en elle, et non en les plongeant à l’étroit dans un idéal de passions factices; que ce soit en élevant notre raison, et non en l’offusquant, et non en exigeant d’elle d’humilians sacrifices, au profit de notre mollesse et de nos préjugés!
Pour terminer cette lettre déjà si longue, permettez-moi, Monsieur, de vous exprimer un sentiment bien agréable que m’a fait éprouver l’article dans lequel vous avez combattu mes opinions littéraires.
En examinant le travail d’un étranger, qui n’a pas l’honneur d’être connu personnellement de vous, vous y avez repris ce qui vous a paru contraire à l’idée que vous avez de la perfection dramatique: mais vos critiques, adoucies même par des encouragemens flatteurs, ne sont conçues, pour ainsi dire, que dans l’intérêt universel de la littérature. On[383] n’y voit aucune trace de cet esprit d’aversion et de dédain avec lequel on a traité trop souvent, dans tous les pays, les littératures étrangères. Vous combattez même, Monsieur, pour les foyers poétiques de l’Italie, en homme qui voudrait voir dans tous les pays la perfection de l’art, et qui la regarde, partout où elle se trouve, comme la richesse de tous, comme un patrimoine acquis à toute intelligence capable de l’apprécier. Je ne vous ferai pas le tort de vous louer de cette disposition qui se manifeste partout dans votre écrit, puisque la disposition contraire est injuste et absurde; mais je ne puis ni ne veux me défendre de l’impression heureuse que toute âme honnête éprouve sans doute en voyant ce besoin de bienveillance et de justice devenir de jour en jour plus général en France et en Italie, et succéder à des haines littéraires que leur extrême ridicule n’empêchait pas d’être affligeantes. Il n’y a pas long-temps encore que juger avec impartialité les génies étrangers attirait le reproche de manquer de patriotisme; comme si ce noble sentiment pouvait être fondé sur la supposition absurde d’une perfection exclusive, et obliger, par conséquent, quelqu’un à prendre une jalousie stupide pour base de ses jugemens; comme si le coeur humain était si resserré pour les affections sympathiques qu’il ne pût fortement aimer sans haïr; comme si les mêmes douleurs et la même espérance, le sentiment de la même dignité et de la même faiblesse, le lien universel de la vérité, ne devaient pas plus rapprocher les hommes, même sous les rapports littéraires, que ne peuvent les séparer la différence de langage et quelques degrés de latitude. C’est une considération pénible, mais vraie, que des écrivains distingués, que ceux là même qui auraient dû se servir de leur ascendant pour corriger le public de cet égoïsme prétendu national, aient, au contraire, cherché à le renforcer; mais le sens commun des peuples et un sentiment prépondérant de concorde, ont vaincu les efforts et trompé les espérances de la haine. L’Italie a donné naguère un exemple consolant de cette disposition. Un homme célèbre, et qu’elle était accoutumée à écouter avec la plus grande déférence, avait annoncé qu’il laissait après lui un écrit où il avait consigné[384] ses sentimens les plus intimes. Le Misogallo a paru, et la voix d’Alfieri, sa voix sortant du tombeau, n’a point eu d’éclat en Italie, parce qu’une voix plus puissante s’élevait, dans tous les coeurs, contre un ressentiment qui aspirait à fonder le patriotisme sur la haine. La haine pour la France! pour cette France illustrée par tant de génie et par tant de vertus! d’où sont sortis tant de vérités et tant d’exemples! pour cette France que l’on ne peut voir sans éprouver une affection qui ressemble à l’amour de la patrie, et que l’on ne peut quitter sans qu’au souvenir de l’avoir habitée il ne se mêle quelque chose de mélancolique et de profond qui tient des impressions de l’exil!....
Fin de la lettre à M. C***
[1034] Il Fauriel avrebbe voluto sostituire: thèse toujours hasardeuse. Cfr. più sù, pag. 301.
[1035] On ne peut croire que Boileau ait prétendu s’exprimer rigoureusement quand il a dit:
S’il n’avait voulu qu’un fait dans chaque tragédie, sa théorie, absolument inapplicable, serait en contradiction avec la pratique de tous les théâtres.
[1036] Di qui comincia un brano aggiunto posteriormente, con la lettera del 12 settembre 1822 (cfr. l’«Avvertenza», pag. 303), che va sino a: dont il n’y pas de conséquences à tirer... Ne notiamo le varianti dalla lettera.
[1037] qu’il soit à jamais
[1038] effets
[1039] d’avance l’espoir de tout succès
[1040] est
[1041] même au génie
[1042] devoir
[1043] des ouvrages d’imagination
[1044] si
[1045] objet
[1046] dramatique même
[1047] imprévus; et n’a-t-on
[1048] au reste
[1049] que l’auteur n’a pas seulement produit un chef-d’oeuvre, mais qu’il a de plus
[1050] heureusement transporté
[1051] Mais quoi
[1052] Nel manoscritto qui era menzionato anche Schiller. Cfr. l’«Avvertenza», pag. 302.
[1053] Cfr. nell’«Avvertenza» (pag. 302) il brano di lettera al Fauriel, che si riferisce a questo luogo.
[1054] La Harpe, Cours de littérature.
[1055] Il Manzoni propose al Fauriel di sostituire a formule sacramentelle qualcosa d’equivalente; ma l’amico dovette dissuaderlo dal mutare. Cfr: l’«Avvertenza», pag. 302.
[1056] Nel manoscritto era les romantiques amis; il Manzoni cancellò poi amis. Cfr. l’«Avvertenza», pag. 302.
[1057] Tutto questo brano, fino all’altro capoverso, fu rifatto nella lettera del 10 dicembre 1822, per non dar pretesto a una condanna della Censura di Vienna, con un «mot sur la féodalité» ch’era nel manoscritto. Cfr. l’«Avvertenza», pag. 304-5. Noto le varianti. Si tratta di correzioni del Fauriel? Parrebbe proprio di sì.
[1058] et on
[1059] à l’exécution
[1060] Si quelqu’un est assez
[1061] récuser
[1062] ou en est quitte pour dire qu’il
[1063] pas de réponse.
[1064] nombre; ils en veulent une absolument
[1065] ils font
[1066] entendre, de ne pas croire
[1067] possible
[1068] vous prouvent
[1069] utilité incontestable
[1070] même de puéril
[1071] qu’on
[1072] évidence vulgaire, presque niaise
[1073] s’arrêter là
[1074] qu’il faut chercher
[1075] convenance, et dans l’heureuse application qu’en on faite des hommes qui valaient mieux que les gens de maintenant, la preuve de son utilité.
[1076] Il Manzoni, riferendosi più particolarmente allo Shakespeare, al Goethe e allo Schiller, che aveva citati dianzi (pag. 336), qui ripigliava: si les trois poëtes qui ont..... Cancellato sopra il nome dello Schiller, qui propose di correggere: si tous les poëtes.... Cfr. l’«Avvertenza», pag. 302.
Il Bonghi, pubblicando, non senza qualche scorrezione, le pagine che seguono, nel III volume delle Opere inedite o rare del Manzoni, vi premetteva quest’Avvertenza:
«Il titolo che do agli scritti raccolti in questa parte del volume, è del Manzoni stesso; ma non posso accertare se, nel foglio che lo porta, egli stesso abbia introdotto e collocato tutti quelli che ora vi si trovano, così come vi stanno. Per le ragioni dette più volte, non mi è stato possibile di ordinarli nel solo modo che l’ordine avrebbe avuto un valore; cioè in quello del tempo in cui sono usciti dalla mano dell’autore. Tutti hanno questo in comune, che non sono stati riguardati e corretti; il che se occorresse prova, l’avrebbe nei richiami che il Manzoni fa talora a sè medesimo, per ritornarci sopra. D’una parte di tali appunti si voleva certamente servire a un lavoro complessivo[1077], che poi non ha fatto; ma di parecchi s’è giovato nella Prefazione alla tragedia Il Conte di Carmagnola e nella Lettre à M. C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. Io mi contenterò di pubblicarli nell’ordine in cui si trovano nei fascicoli che li contengono, senza distinguerli secondo le materie alle quali più specialmente si riferiscono.....».
Scherillo.
[1077] «J’amasse des idées et des observations pour un long discours qui doit accompagner ma tragédie» (Il Carmagnola). Lettera al Fauriel, 13 luglio 1816.
La più parte dei giudizj storti in letteratura, come nel resto, viene da principj di cui si è convinti perchè sono retti, e che si vogliono applicare a cose cui non convengono. Così è nel fatto della poesia drammatica. Si ha l’idea di una tragedia, nella quale l’interesse nasca dalla incertezza di un evento importante, dalla probabilità e difficoltà quasi eguale dello scioglimento in un modo o nell’altro, dai contrasti di passioni tra persone legate per vincoli di sangue o di amicizia, ecc. ecc. E questa idea è non solo chiara in teoria, ma confermata in pratica da molte tragedie, nelle quali questo genere d’interesse è portato ad un alto grado: quali sono le migliori del teatro francese, e degli altri teatri di scuola francese. Ma partendo da questa idea, le si paragonano tutte le tragedie; e quelle in cui non si trovano queste condizioni, si rigettano per questa sola ragione. E qui mi pare che si abbia il torto, finchè non si provi che non è possibile alcun altro genere d’interesse, e che la drammatica non può avere altri fini, nè procedere per altri mezzi.
Tre cose si devono esaminare nel giudizio di un’opera letteraria:
Qual è l’intento dell’autore?
Questo intento è ragionevole?
L’autore l’ha egli ottenuto?
Sulle due prime questioni io ragionerò alquanto, esponendo le idee nell’ordine in cui mi si presentano. So che teorie applicabili ad un lavoro già fatto, ed esposte dall’autore di esso, sogliono per lo più riuscire seccanti. Io non dirò al lettore[388] che queste possano essere d’un interesse generale, e tocchino punti importantissimi dell’arte drammatica. Non chieggo nemmeno scusa al lettore di presentargliele, pel riflesso che egli può chiudere il libro al momento in cui si sente annojato.
Interessare ad uno o più personaggi, tener sospeso l’animo dello spettatore sulla sorte di esso, mostrarla cangiata inaspettatamente in bene o in male, commovere con questa ansietà, far passare nell’animo dello spettatore le passioni di questo ecc., sono i soli effetti sperabili dalla tragedia? E quella che li ottiene è esclusivamente buona tragedia? Chi rispondesse affermativamente senz’altro esame, porrebbe arbitrariamente dei limiti all’ingegno umano ed allo sviluppo dell’arte non solo, ma trascurerebbe un fatto importante e noto, cioè che vi ha tragedie d’un altro genere, e tragedie che hanno i tre suffragi dai quali pare solo sia accertato il merito di una composizione letteraria, quello della moltitudine, dei pochi teoristi pensatori, e del tempo.
Il genere di questa tragedia poi è superiore ad ogni altro genere di tragedie? Anche a questo quesito non si deve rispondere senza un esame ragionato.
V’è una tragedia la quale, trascurando in molti casi quest’interesse di curiosità e d’incertezza, anzi escludendolo perchè non combinabile con un altro interesse potente, è fatta per commovere e per istruire.—V’è una tragedia che si propone d’interessare vivamente colla rappresentazione delle passioni degli uomini, e dei loro intimi sensi, sviluppati da una serie progressiva di circostanze e di avvenimenti; di dipingere la natura umana, e di creare quell’interesse che nasce nell’uomo al vedere rappresentati gli errori, le passioni, le virtù, l’entusiasmo, e l’abbattimento a cui gli uomini sono trasportati nei casi più gravi della vita,[389] e a considerare nella rappresentazione degli altri il mistero di sè stessi.—Una tragedia la quale, partendo dall’interesse che i fatti grandi della storia eccitano in noi, e dal desiderio che ci lasciano di conoscere o d’immaginare i sentimenti reconditi, i discorsi ecc., che questi fatti hanno fatto nascere, e coi quali si sono sviluppati (desiderio che la storia non può, nè vuole accontentare), inventa appunto questi sentimenti nel modo il più verosimile, commovente e istruttivo. La pratica di quest’ideale drammatico si vede portata al più alto grado in molte tragedie di Shakespeare; ed esempj notabilissimi ne sono pure le tragedie di Schiller, del signor Goethe, per non parlare che di quelle ch’io conosco.—La teoria è (non già completa, nè senza eccezione, nè senza alcuna picciola contradizione, nè senza mancamento in alcuna sua parte, come pare che la domandino alcuni che dimenticano che a nessuna teoria umana si è mai domandato tanto) la teoria è negli scritti del signor Schlegel, di M.ᵐᵉ di Stäel, del signor Sismondi, nel Discours des préfaces, premesso alla traduzione di Shakespeare; e dei tratti nuovi e luminosi se ne trovano pure in varj recentissimi scritti di nostri Italiani, principalmente negli estratti ragionati di opere drammatiche che stanno nel Conciliatore.
Che questo genere non abbia alcune perfezioni dell’altro, è questione almeno inutile, perchè quelli che lo lodano lo concedono benissimo; dicono anzi che non le deve avere, perchè ne escludono alcune che sono proprie di esso e di esso solo. Per esempio, l’agitazione che eccita l’incertezza dello scioglimento della Rodogune, dell’Eraclio, del Bajazet, la perplessità di vedere se soccomberà il personaggio che lo spettatore ama o quello che gli è odioso, non si trova nella Maria Stuarda di Schiller. Ma chi dicesse: lo spettatore non è incerto fra la morte di Elisabetta o di Maria, dunque non può essere interessato; non avrebbe egli il torto? Gli si risponderebbe: Schiller ha creduto che lo spettacolo di una donna che ha gustate le più alte prosperità del mondo, di una donna caduta nella forza della sua nemica, di una donna lusingata da speranze di esser tolta alla morte, rassegnata nello stesso tempo quando la vede inevitabile, memore de’[390] suoi falli, pentita, consolata dai sentimenti e dai soccorsi della religione; che lo spettacolo di questa donna, che vediamo avvicinarsi di momento in momento ad una morte certa, sia commoventissimo. Ora quella parte di commozione, che nasce appunto dalla certezza che lo spettatore ha che questo carattere grandioso e interessante va alla sua ruina, non era combinabile colla incertezza del suo destino.—Ma il mantenere lo spettatore in perplessità, commoverebbe di più.—Questo è un affare di sentimento. Chi lo può decidere? Basta che non si possa senza irriflessione, o senza ostinazione, dire che il modo scelto dallo Schiller non è atto a commovere.
Così pure (per applicare un altro principio noto alla stessa tragedia) Aristotele ha detto una cosa ch’è stata ripetuta universalmente e costantemente: che l’uccisione d’un personaggio per volontà del suo nemico, è la meno tragica. Benissimo, quando si tratti di non cavare gli effetti che dal contrasto dei doveri e dei sentimenti colle passioni, o dalla terribile sventura di commettere per ignoranza l’azione da cui si sarebbe più lontani, quella cioè di cagionare la morte di chi si ama. Ma se Schiller avesse voluto servirsi appunto della inimicizia di Elisabetta e di Maria per rappresentare la sorte di chi cade in mano di un nemico potente, artificioso e vendicativo; se avesse voluto rappresentare lo stato dell’animo di chi prova questa sorte, il contrasto tra le antiche passioni di avversione e di rancore e l’abbattimento della sventura, tra il desiderio di deprimere il nemico e quello di placarlo, e dall’altra parte la triste e amara e torbida gioia di chi si tien quel nemico con cui ebbe tanti contrasti e del quale ha temuto, la smania della vendetta e il timore della infamia che le può seguire, la viltà ingegnosa degli adulatori, che la propongono come necessaria alla pubblica tranquillità, e il coraggio degli uomini dabbene che la vogliono impedire; se avesse voluto rappresentare i diversi sentimenti che eccitano le due nemiche in quelli che le circondano, la ambizione cortigianesca mista di disprezzo interno che si agita intorno alla fortunata, la compassione mista di prevenzioni fanatiche e l’amore misto di debolezza che eccita quella[391] che è nella sventura: se, dico, Schiller avesse voluto cavare questo partito dal soggetto di un nemico che ne sacrifica un altro, si avrebbe ragione di piantargli in faccia la sentenza di Aristotele, e di dirgli: il vostro soggetto non è interessante? Ma si dovrebbe prima esaminare se tutti questi mezzi, ed altri ch’io taccio, sieno mezzi di commozione e d’istruzione morale.
Dico d’istruzione morale; e, senza appoggiarmi a questo esempio, io credo che questo genere, considerato in teoria, sia per questa parte molto superiore all’altro; e questa parte è importantissima. Senza avanzare la nota questione se il fine della poesia sia di commovere o d’istruire, io partirò da un principio nel quale tutti convengono: che il diletto e la commozione devono essere subordinati allo scopo morale, o almeno non contradirgli......................
Parlerò ora del Coro introdotto in questa Tragedia[1078], il quale, per non essere nominati i personaggi che lo compongono, deve al lettore sembrare piuttosto un capriccio e un enigma che altro; e adducendo i motivi per cui questo Coro siasi introdotto, mostrerò quale egli sia.
La vera essenza dei Cori greci non è stata conosciuta che da qualche critico dei nostri tempi, che, mostrando false e superficiali le ragioni che i critici anteriori ne avevano date, ne dimostra le reali ed importanti. Io tradurrò qui alcuni squarci su questo soggetto, dal Corso di letteratura drammatica del signor Schlegel; e scelgo questo scrittore perchè (dei letti da me) è il primo che abbia dato del Coro questa idea (v. Gravina, per precauzione), e perchè mi sembra che essa vi sia assai bene espressa. Il Coro è da riguardarsi, dic’egli, come la personificazione dei pensieri morali che l’azione[392] ispira, come l’organo dei sentimenti del poeta, che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni opera il Coro (qual che si fosse la parte sua propria ch’egli altronde vi facesse) fosse principalmente il rappresentante del genio nazionale, e appresso il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; egli temperava le impressioni troppo violente o dolorose d’una imitazione talvolta troppo vicina al vero, e presentando allo spettatore reale il riflesso delle sue proprie emozioni, gliele rimandava addolcite dal diletto d’una espressione lirica e armoniosa, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ricorda quindi il signor Schlegel gli ufficj che Orazio attribuisce al Coro nella Poetica, i quali concordano assai con questi, e passa quindi a enumerare le opinioni dei critici sull’uso del Coro presso i Greci. Altri lo stimarono fatto per non lasciar vuota la scena; altri l’hanno biasimato come un testimonio inutile e incomodo di affari talvolta secreti; altri l’hanno stimato destinato a conservare e motivare l’unità di luogo; altri hanno creduto ch’esso non fosse che una reliquia della prima forma della tragedia, conservata a caso, come avviene in molte altre cose. Basta però rileggere le tragedie di Sofocle, per vedere quanto sia vera l’opinione sopra annunciata, sull’uso dei Cori. Essi, considerati a questo modo, pajono veramente belli ed utili.
Alcuni poeti moderni, continua il signor Schlegel, e poeti talvolta di prim’ordine, cercarono sovente, dopo il rinascimento degli studj dell’antichità, d’introdurre il Coro nelle favole loro, ma mancò ad essi un’idea distinta [precisa], e soprattutto un’idea attiva della sua destinazione. Siccome nè la nostra danza nè la nostra musica gli è appropriata, e oltre a ciò non v’è nei nostri teatri un posto da dargli, difficilmente può aver buon esito il tentativo di renderlo usuale da noi. (Lezione terza).
Ora, mi è sembrato che un mezzo per ottenere una parte (dico una parte) delle bellezze dei Cori greci, e di ottenerla senza discapito della Tragedia, sarebbe appunto d’inserire, dopo ogni Atto, uno squarcio lirico composto nell’idea di quei Cori. Certo che esso non produrrà l’effetto di cose dette[393] da personaggi interessati nell’azione, ma un qualche effetto lo farà; e per qualche compenso della sua minor virtù, si può dire ch’esso non ha inconvenienti. Poiché queste canzoni non essendo collegate coll’azione, non fa d’uopo alterarla e scomporla per accomodarla ad esse; possono essere meditate da sè e ritoccate e cambiate e tralasciate, senza toccare menomamente il disegno dell’opera. Quando non si trovasse il modo di farle convenientemente recitare, servirebbero alla lettura: che è l’uso più frequente delle Tragedie, specialmente in Italia.
Ponno essere occasione ad un buon poeta di comporre bellissime liriche; ponno servire ad interpretare l’intenzione morale dello scrittore, a regolare e a correggere le false interpretazioni dello spettatore, a dare insomma al vero morale quella forza diretta, che non riceve che da chi lo sente per la meditazione spassionata e non per l’urto delle passioni e degl’interessi. Certo, la lirica non deve essere dissertatrice; ma si osservi che l’espressione de’ sentimenti che nascono dall’avere osservato una serie di fatti e di discorsi importanti, può esser piena dell’azione più poetica. Dirò per ultimo che l’uso di questa maniera di Cori riserberebbe al poeta un cantuccio, donde mostrarsi e parlare in persona propria: vantaggio da osservarsi. Il poeta vuole quasi sempre comparire, e spesso fa dire ai personaggi quello ch’egli vorrebbe dire, e che starebbe bene in bocca sua e sta male in bocca loro: difetto dei più notabili e dei più notati nei moderni tragici. Ora, avendo egli quest’agio di manifestare i suoi proprj sentimenti, sarà ben frettoloso e bene inesperto se non saprà starsi in disparte sino alla fine dell’Atto, facendo intanto che i personaggi parlino come ad essi si conviene: cosa però non delle più facili. Di questo genere sono i Cori dell’Aminta: hanno però il difetto d’essere opposti di fronte allo scopo principale; ognuno vede che spirano, massime il primo, l’immoralità più grossolana.
Quanto alla scelta e all’ordine nella successione dei fatti, non deve la Tragedia, a parer mio, differire da un racconto qualunque, fuorchè in ciò, che in un racconto tutti sono narrati, e nella Tragedia parte narrati e parte rappresentati. In[394] questo[1079] si eleggono i fatti importanti, e legati fra di loro in modo che si vada chiaramente alla cognizione del fine, si omettono le circostanze volgari o estranee benchè unite di tempo o di luogo, e si va insomma dietro al fatto dov’egli si trova. Così, in una Tragedia conviene seguire l’andamento del soggetto, e presentare di volta in volta allo spettatore quella parte che più si collega col passato e con ciò che deve venir poi, quella parte alla quale egli è più disposto in quel punto. Se per questo deve la scena correr dietro al fatto, vi si faccia correre: l’illusione principale che nasce dall’unità dell’azione sarà osservata; il male è far correre il fatto dietro la scena. Sacrificare lo scopo principale dell’arte a un mezzo arbitrario, mi sembra una fanciullaggine.
I drammi di Shakespeare possono servire di filo ad un narratore. Gli eventi e i discorsi famigliari sono utili nella Tragedia, oltre a molte altre cose, anche perchè molte passioni non possono essere spinte al loro più alto punto se non per mezzo di questi fatti. Per esempio, quanto la gelosia d’Otello supera quella d’Orosmane! E una delle ragioni è che il poeta si è servito di mezzi, che ad un critico volgare possono parere di carattere comico per la famigliarità. Il fazzoletto è essenziale nella tragedia di Shakespeare. Si vedano le due tragedie. Voltaire, volendo far senza Jago, fu obbligato a far da Jago egli stesso: voglio dire che il poeta è quegli che studia tutti i modi per tener viva la gelosia di Orosmane; e così l’artificio è apparentissimo. Quando la gelosia cede, la tragedia minaccia rovina, e il poeta fa nascere un incidente che la rimetta in vigore. Nell’Otello invece v’è un genio maligno che ordina le cose a fomentare questa passione nel protagonista, e a distruggere la fiducia che vorrebbe nascere nell’animo suo. Che quegli che concepisce il primo un soggetto lo lasci mancante, e un altro imitandolo lo perfezioni, non fa meraviglia; bensì il contrario, come in questo caso. La colpa è del modo di concepire la[395] Tragedia, che era in voga in Francia ai tempi del Voltaire; quei principj di Poetica eran per questo la condizione sine qua non, e a questi sacrificò il principale. È impossibile la pittura di una gelosia conjugale senza particolarità domestiche.
Dimostrare che il Bossuet, il Nicole e il Rousseau, come s’apposero nel dire immorali le opere teatrali francesi, così errarono nel credere che il teatro sia essenzialmente immorale. —Questo loro errore viene in parte dal non aver conosciuto il teatro inglese, e in parte forse dal non immaginare che potessero le cose teatrali essere trattate in altro modo da quello seguito dai Francesi; nei quali trovavano l’arte portata al più alto grado in ogni parte, fuorchè nella morale.
Toccare questo punto: che la perfezione morale è la perfezione dell’arte, e che perciò Shakespeare sovrasta agli altri, perchè è più morale.—Più si va in fondo del cuore, più si trovano i principj eterni della virtù, i quali l’uomo dimentica nelle circostanze comuni e nelle passioni più attive che profonde, e nelle quali hanno gran parte i sensi. I Francesi dipingono gli uomini occupati ad ottenere uno scopo manifesto, e quindi eccitano minor simpatia. Questa nasce più forte per i patimenti che per i desiderj e per i conati verso un intento, sia d’amore, sia d’ambizione o d’altro. Noi non ci immedesimiamo colla rappresentazione dell’uomo mosso da queste passioni, come con quella dei dolori e dei terrori. Il desiderio eccita minor simpatia, perchè per desiderare bisogna trovarsi nelle circostanze particolari, e per esser commosso e atterrito basta esser uomo. La rappresentazione dei dolori profondi e dei terrori indeterminati è sostanzialmente morale, perchè lascia impressioni che ci avvicinano alla virtù. Quando l’uomo esce coll’immaginazione dal campo battuto delle cose note e degli accidenti coi quali è avvezzo a combattere, e si trova nella regione infinita dei possibili mali,[396] egli sente la sua debolezza, le idee ilari di vigore e di difesa lo abbandonano, e pensa che, in quello stato, la sola virtù e la retta coscienza, e l’aiuto di Dio, ponno dar qualche soccorso alla mente. Ognuno consulti sè stesso dopo la lettura di una tragedia di Shakespeare, se non senta un consimile effetto nel suo animo.
Cangiamento che deve produrre in ogni giudizio delle nostre azioni, e in ogni nostro sentimento, questa massima, resa volgare dal Vangelo: Che ogni avvenimento di questa vita mortale è mezzo e non fine.
La morale dei Cori greci consisteva nei sentimenti che dovevano conseguire dal dogma della fatalità. L’idea divulgata dalla Religione Cristiana deve predominare in ogni componimento.
Quegli i quali accusano la Religione di essere inutile all’uomo, perchè tutto dispone ad un’altra vita, fanno a parer mio due errori. Il primo è una petizione di principio: perchè come la Religione propone il conseguimento della felicità (vero fine dell’uomo, senza quistioni) nella vita futura, bisogna provare che questa promessa sia falsa e che non vi sia un’altra vita più importante, prima di accusare la Religione di trascurare le cose importanti di questa, perchè essa ottiene il suo fine quando conduca l’uomo alla felicità maggiore. Il secondo errore sta nel non riflettere che la Religione, per farci ottenere questa seconda vita, propone appunto i mezzi che possono rendere la presente meno infelice all’universale[1080].
Alcune belle opere moderne sulla poesia sono cagione che più non si ripeta così frequentemente quel falso principio: che i precetti non influiscono sul miglioramento di quest’arte.[397] Sì, i precetti materiali che non riguardano che l’ordine esteriore e la forma; ma i precetti morali, che insegnano quali sentimenti si debbano eccitare dalla poesia e che gli eccitano insegnandoli, producono un effetto grandissimo. Quando uno scrittore, cogli esempj dei grandi poeti e colle considerazioni generali sull’animo umano, mostra quello che la poesia può fare, illumina ed accende gli spiriti nati alla poesia, e li toglie dal volgare affatto: ai mediocri che vogliono pur battere la strada della imitazione, toglie ogni fama, e lo fa vedere quale egli è, e così scoraggia chi li vorrebbe seguire.
I teatri sono utili, secondo l’opinione di alcuni politici, per procurare un divertimento all’universale, e distorlo dal pensiero de’ suoi mali e da altre occupazioni pericolose.
Ad ogni modo, quegli che credono di provare che i teatri, come sono, sono utili come preservativi di mali maggiori, hanno torto di dedurre da ciò, che facciano male quegli che per principj religiosi conducono un picciol numero a starne lontani. Poiché i principj religiosi che persuadono questi ad una tale astinenza, fanno che essi non abbisognino di questo rimedio; chè se potessero persuadere tutti, toglierebbero in un tempo a tutti questo bisogno. Appena possono dire che sarebbero imprudenti, se suggerissero di togliere i teatri senza sostituire l’influenza universale dei principj religiosi, ed un’altra serie d’interessi e di occupazioni.
Perchè si possano togliere i teatri, bisogna fare in modo che quelli che li frequentano perdano la voglia di frequentarli. Sulla possibilità e sul modo di far questo, io non istarò a discorrere, che è troppo vasta materia.
Al tempo che i medici vestivano toga e parlavano latino, trovandosi uno d’essi in una brigata, se gli fece presso un solenne mangiatore, e gli chiese che dovesse fare per certe indigestioni che di frequente lo molestavano.—Ad ogni indigestione, pigliatevi un buon purgante, rispose il medico. —Ma, replicò il ghiottone, io ho inteso dire che i purganti[398] sciupano lo stomaco.—Pur troppo è vero, disse il medico; ma questo è un male inevitabile. Volete voi lasciare ammassare nel vostro corpo tanti mali umori, che vi portino ad una febbre gastrica, e questa al sepolcro?—Un uomo che era presente al consulto, e che non era dell’arte, si fece ardito di proferire con molta modestia questa sua opinione:—Se questo signore vivesse sobriamente, non potrebb’egli schivare le indigestioni e i purganti?—Il medico gli si volse con un grave sorriso, e disse: Io do consigli pratici, e non faccio progetti romanzeschi.—Un altro presente, sorridendo al bel tratto del medico, aggiunse questa profonda sentenza: Alcune cose sono bellissime in teoria, che non valgono nulla in pratica.—Al che fu applaudito dagli astanti: un dei quali proruppe in quest’altra non meno profonda sentenza: Bisogna considerare gli uomini quali sono e non quali dovrebbero essere.—Queste sentenze sono ora divenute comuni, e sono gran parte della sapienza del secolo.
Rivolgendo l’occhio al corso delle scienze morali dal loro principio fino ai dì nostri, è doloroso il vedere come tutti quelli che in queste primeggiarono, furono o perseguitati o beffeggiati e straziati almeno; e tanto più, quanto più grande si manifestava negli scritti loro il desiderio del progresso durevole degli uomini, e il sentimento affettuoso della carità universale. Un uomo eccellente nelle scienze fisiche e nelle arti liberali è stretto spesse volte dalla invidia e dalle ire dei malevoli; ma questi ch’io dico si trovano in guerra col genere umano. Volevo dire col genere letterato.
Si vede come i contemporanei hanno potuto perdonare ad un astronomo, ad un naturalista, ad un matematico (non sempre però), di averli spinti assai in là in queste dottrine; ma appena, in fatto di scienze morali, scorgono gli uomini uno che li precorra di un gran tratto, e che gl’inviti a seguirlo, si danno a toglier pietre da ogni parte e a lapidarlo. Quando poi quella generazione è morta in cammino,[399] i posteri vanno oltre, trovano quelle pietre, le raccolgono divotamente, ne fanno un monumento al povero defunto, e cantano un inno di lode a questi, e d’imprecazioni ai loro antecessori, non omettendo però di gettar pietre a chiunque di loro ardisca d’imitarlo e di precederli. Omettendo le persecuzioni dei potenti, non fu scrittor morale di prim’ordine che non abbia avuto a dolersi de’ suoi pari; i quali, invece di esser riconoscenti a chi li amava e li bramava migliori, invece di consolarlo, cogli amorevoli applausi, del dolore più intenso che lo spettacolo dei mali cagiona a tali animi, invece di ajutarlo a portare la croce del genio, lo satollarono di odj e di scherni e di sospetti, peggio che non avrebbero fatto ad un nemico. Ben è vero che il più di questi scrittori ricordano talvolta, con una cert’aria d’indifferenza e di tranquillo disprezzo, tutte queste contradizioni; ma io non son di parere che si debba loro affatto credere in questo: chè essi mostrarono questi sentimenti o per ingannare i loro disgusti, o per non rallegrare i nemici del vero e del bello, ai quali par troppo gran trionfo il contristare un uomo tanto a loro superiore. Io stimo che ognuno di questi abbia provato una continua amaritudine dal contegno dei suoi contemporanei: perchè è una dote dolorosa dei sommi ingegni, il desiderio irrequieto e ardente che gli uomini ricevano la verità che essi mettono in luce: perchè negli animi elevati regna un senso di benevolenza, che si affligge dell’inimicizia; perchè a questi animi ogni giudizio della mente d’un uomo pare di una tale importanza e dignità, che non si possono ridurre a non farne conto per quanto traviati essi sieno, e quando son tali che è loro forza disprezzarli, questo disprezzo riesce loro penosissimo; perchè infine nessuno è tanto forte e sicuro in sè medesimo, che possa far senza gli applausi e l’incoraggiamento de’ suoi simili.
L’emulazione letteraria fra le nazioni, che anima gli scrittori dell’una a vituperare gli scrittori delle altre, è picciola, illiberale e dannosa. Quando avrete creduto provare che la[400] nazione tale non ha poesia, non ha versi, non ha una bella lingua (lasciando da parte che l’assunto è assurdo), non darete già più pregio alla vostra poesia, ai vostri versi, alla vostra lingua; farete credere anzi che voi siete tanto poco sicuri della vostra gloria patria, che non potete farla comparir grande che comprimendo le altre. Gli uomini animati dal vero amore del bello, considerano ogni progresso nelle arti letterarie e in ogni cosa appartenente all’uomo, come un guadagno comune; e se in un’altra contrada, in un’altra lingua, sorge, per esempio, un gran poeta, si rallegrano che il genere umano ha un gran poeta di più. Poichè uno non può esser grande in queste facoltà, che dicendo cose utili a tutti gli uomini.
Allora le belle lettere saranno trattate a proposito, quando le si riguarderanno come un ramo delle scienze morali. Le lettere ebbero per anni, anzi per secoli, un singolare destino in Italia: d’essere cioè pregiate e magnificate oltremodo da quelli che le coltivavano, e tenute in vilissimo conto da quelli che attendevano a studj diversi. Il che procedeva dall’essere le lettere male esercitate dagli uni, e male intese dagli uni e dagli altri. Scorrendo le poesie di più di due secoli, vi si vede predominare una stima preponderante per la poesia stessa e pei poeti quali essi sieno, non mancando il poeta quasi mai di parlare di sè come di un uomo sovrumano. Il parlare coi fati, l’alzare monumenti indistruttibili, il dar da fare al tempo edace, il farsi beffe della morte, sono le solite canzoni che vi si trovano per entro. Nello stesso tempo si parla con disprezzo quasi d’ogni altra cosa, salvo sempre i potenti vivi. Egli è strano udire un uomo, in un componimento fatto per cantare, verbi grazia, le nozze del signor tale colla signora tale, o altro fatto di simile importanza, l’udirlo, dico, parlare con disprezzo di coloro che per sete d’oro tentano l’elemento infido, e tali altre bazzecole; le quali non voglion dire altro se non che il commercio è una corbelleria, anzi una peste, e l’uomo che vuole ben meritare dei contemporanei e[401] dei posteri, deve starsene a scander versi per le nozze del signor tale colla signora tale. Così, nei libri di scienze, scritti da un di quegli uomini che vedono una cosa sola e non sanno distinguere nemmeno le più vicine a quella, è parlato della poesia come di una baja da fanciulli. E non è raro di trovare l’epiteto poetico per qualificare una immaginazione falsa, non fondata, o stravagante. Il che non vuol dire altro se non che questi scrittori non sanno che sia, che sia stata, e che possa essere, la poesia[1081].
Le scienze morali tendon, come tutte le altre scienze, a riunire in corpo una serie di verità naturalmente collegate, e ad escludere le false opinioni che si contrappongono ad esse. E perciò progrediscono assai più lentamente delle altre scienze, perchè non basta a far ricevere le verità che vi si propongono che si persuada l’intelletto, ma è d’uopo vincere le passioni che odiano queste verità, e le abitudini che non vogliono essere sconciate da esse. E non è raro vedere uno, che proponga una di queste tali verità, non trovare chi gli possa opporre una buona ragione, e dover essere contento di avere in risposta un sorriso o il titolo di sognatore.
Gli scrittori in fatto di queste scienze si dividono in due classi assai distinte. L’una, e la più scarsa, è di coloro che cercano in esse la verità, e raggiunta che l’hanno, essa o la sua immagine, la espongono quale essa appare all’intelletto loro, non badando allo stupore, alle contradizioni, che è per far levare; e che, nè per questo nè per altri riguardi, non si compongono in nulla con quello che essi stimano errore. L’altra è di quelli che scelgono, tra le verità non divulgate, quelle che nel corso dell’intelletto umano sono più vicine alle ultime ricevute, e che quindi troveranno manco ostacoli; quelle che ne troveranno nel minor numero o nel manco autorevole; e le mischiano pure con qualche opinione che essi tengono falsa, ma che, essendo assioma presso i moltissimi, può dar di loro opinione che sieno uomini savj: e queste opinioni ch’essi tengono false, sono quelle che metton fuori con maggiore asseveranza. Questi fanno più pronti effetti, ed ottengono una gloria più precoce; quella degli altri è più tarda, ma d’assai maggiore......
[1078] Il Conte di Carmagnola, nella cui Prefazione le idee che seguono sono assai brevemente accennate. [Bonghi].
[1079] S’intende nel racconto. Le parole fuorchè.... rappresentati sono state aggiunte tra le linee dal Manzoni, dopo scritte quelle che precedono e quelle che seguono. [Bonghi].
[1080] Le parole Quegli.... universale sono state scritte dal Manzoni in un diverso momento dalle precedenti: Cangiamento.... componimento, come appare dal carattere. [Bonghi].
[1081] Qui il Bonghi rimandava all’uscita di Renzo, già brillo, nel cap. XIV dei Promessi Sposi: «To’, è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico delle curiose....»; e all’umoristico commento che vi ricama sù il romanziere: «Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che presso il volgo di Milano, e del contado ancora più poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?».—Sennonchè i due luoghi hanno un’ispirazione diversa, e quasi opposta; e meglio forse si potrebbe confrontare questo col passo della Colonna Infame, dove si biasima il Frammento del Parini.—Sch.
Se io fossi giunto a provare, com’era mio desiderio, che la regola delle due unità è arbitraria e falsa, e che può quindi essere trascurata, verrei ad avere in un tratto dimostrato ch’ella è nocevole all’arte e che dev’essere trascurata. Poiché ogni legge che non risulti dalla natura stessa dell’arte, che non sia richiesta dalla costituzione del soggetto, altererà necessariamente l’organizzazione del soggetto medesimo. Ma non sarà fuor di proposito il cercare, negli esempj dell’uno e dell’altro genere di comporre, qualche prova di quest’assunto. Si osservi in che diverso modo procedano due scrittori di opposto sistema.
L’uno, scoprendo in un racconto storico di varj avvenimenti un centro principale d’interesse, sente che questi avvenimenti possono formare soggetto di azione drammatica. L’effetto che essa può fare, lo argomenta dall’effetto prodotto in lui dalla contemplazione di quei fatti. Esamina il concetto[403] che gliene è rimasto, e procura di copiarlo, per dir così; e per ciò fare, egli sceglie appunto quelle parti principali che vede averlo formato in lui. Egli imita lo storico nella scelta dei fatti, se lo storico ha colto egli stesso il punto di unità; e al pari di questo, egli tralascia gli eventi estranei all’azione benché uniti di luogo e tempo, e raccoglie in un fascio i lontani, quando sieno congiunti al nodo dell’azione. Perchè il poeta cederebbe il più bel pregio dell’arte sua, se consentisse di porre in un’azione meno cause o meno effetti di uno storico, quando queste non nuocano[1082], ma conducano invece all’unità. Egli vede, per esempio, le cagioni per cui la guerra sostenuta da Bruto, dopo la morte di Cesare, fu inutile al suo scopo. Vede in Plutarco come questi due fatti, benchè disgiunti di tempo e di luogo, si avvicinano all’intelletto che li contempla, e giudica che se nel racconto di Plutarco egli ha sentito questa relazione, potrà farla sentire, e assai più fortemente, in un’opera dove quegli che v’ebbero parte s’introducano a parlare. Appunto come Plutarco ha scritto le Vite di uomini illustri, raccontando di ciascuno di essi quelle cose che tendono a mostrare in lui un carattere, uno scopo ecc., così il poeta drammatico potrà alle volte rappresentare l’intera vita di un uomo, facendo la stessa scelta.
Legge Shakespeare la novella nona della giornata seconda del Decamerone. Alquanti mercatanti italiani, trovandosi in Parigi, parlano delle donne loro: Bernabò Lomellin da Genova esalta la castità della sua, Ambrogiuolo da Piacenza se ne ride, e si vanta di potere, quando il voglia, vincere la virtù di essa; propone una scommessa. Bernabò accetta la disfida. Ambrogiuolo parte per Genova, tenta invano la virtuosa donna; per non essere svergognato, trova modo di dare a Bernabò un segno falso, che persuade a lui d’essere tradito. Egli, credulo e disperato, ordina che si uccida[404] la moglie. Essa è salvata dalla pietà del sicario, fugge, e dopo varj accidenti si trova in luogo dove scopre al marito l’innocenza sua, e confonde lo scellerato vantatore. Shakespeare, dico, leggendo questa novella, sente ciò che di vero, di grande, di commovente, di terribile, si può supporre che personaggi dotati di tale animo, e posti in queste circostanze, ponno aver detto; lo sente, e col sovrumano suo ingegno lo descrive in una tragedia.[1083] Ma egli si guarda bene dall’alterare le parti essenziali di questo fatto, perchè da queste appunto nasce la verisimiglianza e la forza della sua azione. Perchè questa si spieghi, è necessario che si rappresenti la parte accaduta in un luogo e quella accaduta in un altro. Egli ritiene adunque Parigi e Genova (o Roma e Londra), come condizioni indispensabili al suo soggetto.
Se il lettore è stanco di questi esempj, salti alcuni fogli, perchè io stimo di doverne, colla maggior brevità possibile, proporre un altro pure di Shakespeare, cavato dalla storia d’Inghilterra; ed è quello su cui è ordito il Riccardo Secondo. Questa tragedia[1084] riunisce gli avvenimenti dei due ultimi anni della vita di quel re, e al pari di quasi tutte le altre di quel sommo poeta, segue assai fedelmente la storia. Le bellezze maravigliose che vi splendono per ogni parte, si devono certo al genio maraviglioso di Shakespeare; ma io stimo si possa affermare che il suo sistema drammatico era una condizione essenziale perchè queste bellezze vi potessero stare. Perchè i discorsi fossero sì veri e sì profondi, perchè i caratteri fossero sì scolpiti e sì interessanti, e sì continuati, era necessario che i personaggi fossero posti in quelle circostanze disegnate di tempo, e in quei luoghi diversi in cui la storia ce li ha rappresentati.
Alcuni critici del secolo scorso riponevano il sommo pregio nel vincere le difficoltà, e asserivano che il diletto del lettore nasce dalla contemplazione della virtù del poeta in questa vittoria; ma egli è il vero che, quando la difficoltà[405] viene da una disproporzione tra i mezzi e il fine, il pregio dell’arte sta nello schivarla, come hanno fatto tutti i sommi scrittori.
La lettura del Riccardo è la miglior prova ch’io possa dare di quello che io ho affermato intorno a questa tragedia, onde ad essa con fiducia rimetto il lettore; giacchè io non intendo di qui tutto analizzarlo, che sarebbe lungo e difficile assunto. Mi sembra nulladimeno che, toccandone appena i capi principali, si possa brevemente mettere in evidenza la mia proposizione.
Enrico Bolingbroke, cugino del re Riccardo, accusa di traditore Tommaso Mowbray, e s’impegna in presenza del re di provarlo tale in un duello, secondo l’uso d’allora. Il re, tentato invano di rappattumarli, statuisce il campo e il giorno. Giunto questo e mentre i due rivali stanno per prendere le mosse, il re si frappone, proibisce il combattimento e li esiglia entrambi, Mowbray in vita, e Bolingbroke per dieci anni. Il pretesto si è l’amor della pace, il motivo è il desiderio di allontanare Bolingbroke, di cui il re non si tiene sicuro. Bolingbroke parte, Giovanni di Gaunt Duca di Lancastro, suo padre, inferma. Riccardo lo visita, sprezza gli ultimi consigli del buon vecchio, di cui pochi momenti dopo gli viene annunziata la morte. Il re, acciecato dal potere, corrotto ed aggirato dai suoi favoriti, propone di appropriarsi i beni di esso, dovuti al figlio Bolingbroke, e servirsene per la guerra d’Irlanda. Il Duca di York, zio del re, tenta invano dissuaderlo. Bolingbroke coglie il destro di ritornare in Inghilterra a valersi del suo partito, e di presentarsi non come un ribelle o un ambizioso, ma per ripetere un suo diritto. Un suo amico annunzia il suo imbarco ad alcuni altri. Il re è partito per l’Irlanda. Si annunzia alla regina che Bolingbroke è sbarcato in Inghilterra. Il vecchio York si dispone a combatterlo. Bolingbroke compare nella contea di Gloucester. I suoi partigiani gli si fanno incontro. Si abbocca con York; questi, veggendolo già forte, dopo averlo assai rimbrottato, si contenta di dichiararsi neutrale.—Questo a un dipresso è il disegno dell’atto primo, nel quale gli avvenimenti si distendono appunto coll’ordine storico, voglio dire coll’ordine[406] che la mente nostra desidera scorgere in una serie di fatti. E già in quest’atto si trovano discorsi e situazioni, che non si potevano certamente inserire così proprj, se non si seguiva quest’ordine.
Nel secondo, appare Bolingbroke, il quale condanna due favoriti del re Riccardo a morte. Nel suo parlare si vede a poco a poco spiegarsi la sua ambizione, moderata dalla ipocrisia secondo le circostanze. Il primo discorso è, come gli altri, mirabile per l’arte con cui egli va crescendo le sue pretese a misura che gli cresce la forza; e il passaggio dal suddito che si richiama di un torto, al potente che comanda, è maestrevolmente disegnato. York segue pure quella via, e il luogotenente di Riccardo si vede diventare suddito e fautore di Bolingbroke, con quell’arte cortigianesca che sa unire la quiete e la fortuna colla riputazione di uomo probo. Egli va per gradi così eguali e insensibili, che al fine del dramma lo spettatore trova, senza stupirsi, in quell’uomo, che udì con tanta indegnazione lo sbarco di Bolingbroke, un buon servitore di questo divenuto re. Mutazioni che non avvengono, nè si immaginano avvenute, in un giorno; e pittura finissima di caratteri, che non si può trovare nei drammi tessuti colle ridette regole.
Giunta l’azione a questo punto, io domando: dove si rivolge la curiosità e l’interesse dello spettatore? che desidera egli ora d’intendere? qual personaggio vorrebb’egli considerare, se non Riccardo? Egli è quegli sull’anima del quale i fatti fin ora rappresentati devon produrre il più grande effetto, e quest’effetto appunto aspetta di contemplare lo spettatore. Qui dunque entra in iscena Riccardo. E mi si permetta di avvertire di passaggio, che Shakespeare è eccellente nell’arte di presentare agli occhi quelle cose appunto alle quali egli ha rivolta l’attenzione, e che questo pregio lo deve, come gli altri, parte all’ingegno suo e parte al suo sistema. Appare dunque Riccardo; ma in qual luogo si figura ch’egli appaja? Non avrà egli certo voluto sbarcare nella contea di Gloucester dove si trova il suo emulo, chè nè la sicurezza sua, nè il cammino, lo conducevano a questa unità di luogo. Egli scende sulle coste del paese di Galles. Avrebbe forse potuto[407] l’autore fare in modo che si trovassero i due rivali successivamente nello stesso luogo, e non mancano esempj di simili orditure; vi avrebbe messo grandissimo studio, e vi sarebbe riuscito alla meglio: ma montava egli il pregio di farlo?
Riccardo, posto piede a terra, si consulta cogli amici che gli rimangono. E qui cominciano quelle scene, dove si vede il re orgoglioso, leggiero, dispotico, irreflessivo, temperato da quel gran maestro che è la sventura: da quel maestro, che sarebbe tanto utile ai potenti ed ai deboli, se le sue lezioni non fossero sempre dimenticate al momento ch’egli depone la sferza, e s’egli potesse produrre un sol fatto per mille proponimenti. Mirabili scene! Mirabile Shakespeare, se esse sole rimanessero del tuo divino intelletto, che rara cosa non sarebbero tenute! Ma l’intelletto tuo ha potuto tanto trascorrere per le ambagi del cuore umano, che bellezze di questa sfera diventano comuni nelle tue opere.
Il carattere del re si è cangiato, o per dir meglio, i casi hanno fatto comparire quello che nel suo carattere v’era di più nascosto e di più profondo. Il corso di questo carattere, i pensieri che dall’annunzio della disgrazia fino allo sbarco sono succeduti nella sua mente, s’indovinano quasi, e certo la storia, direi così, dell’animo di Riccardo, abbraccia più di qualche ora. Questa situazione poteva trattarsi, a quello ch’io vi posso scorgere, in tre modi: o tralasciare questo rivolgimento d’animo prodotto dal rivolgimento della fortuna; o ristringerne e menomarne i segni, in modo che non richiedesse più spazio di qualche ora; o supporre il tempo che non è rappresentato, e dare il carattere compiuto. Quale di questi tre modi abbia eletto Shakespeare, ognuno il vede; e come io spero, ognuno vede ch’egli ha fatto ottimamente.
[1082] Il Bonghi avverte: «Qui una crocetta richiama questa citazione, trascritta nel margine superiore [Gerus. Lib. XIX, 14]:
[1083] Nel Cymbeline.—Sch.
[1084] L’analisi n’è fatta anche, non in diverso modo, ma per un fine diverso, nella Lettre à M. C... sur l’unité de temps etc. [Bonghi].
Perchè le discussioni tornassero davvero a profitto delle lettere, si vorrebbe tener conto degli argomenti della contraria parte; e quando una questione è messa in campo, non la porre da un canto prima di scioglierla. Ma invece si usa[408] assai, come si è usato sempre, di ripetere molte volte le stesse ragioni, senza badare a quelle che altri vi abbia contrapposto. S’ode verbigrazia dire ogni giorno che Shakespeare è un genio rude ed indisciplinato, che, senza regole, senza intenzione premeditata, scorre qui e là, e s’incontra talvolta in qualche bellezza straordinaria. Questa opinione tanto ripetuta è espressamente e lungamente confutata dal sig. Schlegel (Cours de Litt. dram.). Questa confutazione pare a me tale da distruggere affatto questa opinione; ma ad ogni modo è certo che non conviene più ad uomo che nelle lettere cerchi il vero di quelle, il ridire questa tale opinione, senza mostrare come ella sia vera a malgrado di quello che ne ha detto il sig. Schlegel. Se alcuno trova argomenti più in là dei suoi, sarà da rendergli grazie; ma non curarli, è un troppo esser certo della opinione propria e volgare: giacchè senza dubbio questi meritano d’essere, se non ricevuti, almeno confutati......
[Pel Conte di Carmagnola].
Lessing (Dramaturgie, t. 2º, pag. 54, a proposito del Riccardo III, tragedia del Weiss)[1085] vuole provare, contro il Corneille, che in ogni caso è vera la massima di Aristotele, che «le malheur, tout-à-fait exempt de faute, d’un homme vertueux, n’est point un sujet pour la tragédie; car cela est odieux». Rivedere accuratamente questo passo sì in Aristotele che in Lessing, e averlo presente nella composizione del carattere e dei patimenti della moglie del Conte.
Esaminare più ponderatamente quel passo del Lessing [pag. 57]: «La pensée qu’il puisse y avoir des hommes malheureux sans la moindre faute de leur part, est en elle-même affreuse. Les Payens avoient cherché à éloigner d’eux[409] cette noire idée autant que possible; et nous voudrions la nourrir, et nous amuser à des spectacles qui la confirment? Nous, à qui la Religion et la raison doivent avoir persuadé qu’elle est aussi fausse que blasphématoire?».—Questo motivo della Religione cristiana, che il Lessing cita per confermare il suo sistema, mi pare anzi che gli faccia contro. Il Cristianesimo,
ha talmente cambiate le idee e i sentimenti intorno al bene e al male, all’utile e al dannoso, che mi pare che convenga andar sempre cauti assai nell’applicazione dei principj morali degli scrittori Gentili. Questa vita mortale, che il Gentilesimo rappresentava come avente il principio e il fine in sè stessa, il Cristianesimo ce la fa considerare come vita di preparazione. Quindi gli avvenimenti si riguardano non solo pel diletto o pel dolore che arrecano con sè, ma ancora, anzi principalmente, pei rapporti loro colla vita futura, nella quale sola noi possiamo concepire il compimento d’ogni nostro destino. Quindi quegli accidenti pei quali agli Ateniesi un uomo pareva un homme malheureux, non bastano perchè appaja a noi tale nel più esteso senso: perchè noi sappiamo considerare i dolori presenti come espiazione dei falli, da cui nemmeno i più puri vanno esenti, stromento di perfezionamento in chi soffre, come preparazione a beni futuri, e quindi come veri beneficj della Provvidenza. Questi mali poi, oltre che non sono assoluti perchè compiscono il destino di chi gli sopporta, sono anche temperati assai da due virtù, che sono de’ più bei doni che Dio abbia fatto agli uomini: la speranza, e la rassegnazione che da essa viene.
[1085] Ho tra mani l’edizione di cui si serviva il Manzoni: Dramaturgie ou observations critiques sur plusieurs pièces de théâtre tant anciennes que modernes; ouvrage intéressant, traduit de l’allemand de feu M. Lessing par un François, revu corrigé et publié par M. Junker, premier professeur de droit public à l’Ecole royale militaire et censeur royal. A Paris, 1785; in due parti.—Sch.
«Entrambi hanno fatto il loro dovere». Questo si è detto molte volte, e si dice tuttavia in molti casi, nei quali si suppongono[410] a due persone doveri contrarj su uno stesso oggetto. Supposizione assurda. Si osservino tutti questi casi, e si vedrà che i due doveri supposti sono fondati su opinioni speciali e temporanee, su istituzioni ecc., e che si dimentica sempre il fine che si deve cercare nella determinazione da prendersi dalle due persone. Ora, il fine giusto non può essere che uno. Esempio: la scena, per tanti rapporti bellissima, del Tiberio di Chénier, nella quale Cneo implora Agrippina perchè desista dall’accusare Pisone padre di Cneo. Agrippina risponde che il dovere suo è di accusarlo e di perderlo, e il dovere di Cneo di far tutto per salvarlo. Questo sentimento è falso, perchè due tendenze opposte non ponno essere egualmente buone e giuste. Ora, donde viene il falso in questo caso? Dall’essersi il poeta applicato puramente ai rapporti personali delle due parti, alla sorte di Pisone e alla vendetta di Germanico, e dall’aver dimenticato la verità e la giustizia, e il fine per cui sono istituite le accuse, le difese, i tribunali[411] e i giudici: il qual fine è tutt’altro che di dare occasione ai parenti d’un morto di vendicarlo, e di mostrarsi sensibili alla sua perdita, e di dare occasione ad un figlio di salvare suo padre.
Dalla stessa assurda confusione nasce il sentimento, posto sovente in bocca ai personaggi tragici virtuosi: cioè il desiderio di non riuscire in un’impresa alla quale dirigono i loro sforzi.—Contradittorio e falso: sinonimi.
[1086] Questo frammento si trova scritto nella prima pagina d’un mezzo foglio, nella cui seconda è trascritto il seguente passo di Montesquieu, quantunque fra i due non vi sia relazione: «La lecture des ouvrages distingués, écrits dans des époques plus ou moins éloignées de la nôtre, doit souvent faire réfléchir bien tristement sur les bornes et l’incertitude des connaissances humaines. On voit dans un livre le cachet d’un esprit supérieur, on y trouve des idées tres-avancées pour le temps dans lequel elles furent découvertes, et on n’en reconnaît pas moins que ces idées sont legères, superficielles, fausses. On dit: c’était admirable pour le temps. Quoi! il est donc des erreurs inévitables, et qu’il faut traverser pour arriver à la vérité? Et que deviendra un jour cette masse de lumières que nous croyons être le domaine de l’époque actuelle, et dont nous nous glorifions? Peut-être un sujet de pitié pour les générations futures. On pourrait peut-être tirer de ces réflexions un résultat utile, en observant quel est le caractère de ces idées excellentes pour un temps, et qu’on est forcé de rejeter dans un autre: on y trouverait, je crois, quelque chose de local, de spécial; on verrait dans l’esprit de ceux qui les ont mises en avant un défaut de logique et de courage dans l’application rigoureuse et suivie des grands principes qu’ils avaient eux-mêmes reconnus; on y verrait un sacrifice à des opinions dominantes, à des institutions puissantes; une frayeur de paradoxes, frayeur déraisonnable, et qui ne produit rien de bon, et n’empêche rien, puisque ces conséquences qui paraissent hardies seront tirées un jour infailliblement si elles découlent logiquement des principes». V. L’Esprit des Lois, et son commentaire moderne. [Nota del Bonghi].
L’inquietudine, connaturale all’uomo finch’egli rimane su questa terra dove non può giungere al suo ultimo fine, fa sì ch’egli sia sempre scontento del proprio stato, e supponga che maggior riposo si trovi nelle altre condizioni[1087]. Quindi quella opinione, comune agli uomini che vivono nell’agitazione degli affari e nelle pompe mondane, che nelle condizioni che si chiamano inferiori si trovi maggior contentezza d’animo. Il fatto è però che anche in esse domina la medesima inquietudine. Mi sembra dunque che i poeti rappresentino al vero la natura, quando dipingono i potenti mossi da una certa invidia degli uomini privati e oscuri, in quelle circostanze però in cui sentono più vivamente il dolore e il vuoto dello splendore mondano. Ma quando il Tasso rappresenta il famoso pastore che accoglie Erminia, pago della sua sorte, cade, mi sembra, in un errore volgare, immaginando l’animo del pastore non quale doveva essere, ma quale doveva sembrare ad Erminia. Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero. Essa tende a confermarci nel costume che abbiamo, pur troppo, di dedurre una falsa conseguenza da un fatto pur troppo reale; cioè dal non esser noi sodisfatti che altri, in circostanze diverse dalle nostre, possano esserlo.—Vedi, per confronto, la famosa scena di Agamennone col vecchio nella Ifigenia in Aulide di Euripide.—Ag: Beatum te judico, o senex: Beatum judico virorum[412] quicumque non periculosam Vitam transegit ignotus, inglorius: Eos vero qui in honore versantur, minus beatos judico.—Senex: Atqui decus est ibi vitae».
Poetica è quindi assai la rappresentazione delle rimembranze meste del passato che ci sembra essere stato più felice per noi, e delle speranze dell’avvenire; ma deve il poeta far sentire la vanità di questi sentimenti. A chi dicesse che la poesia è fondata sull’immaginazione e sul sentimento, e che la riflessione la raffredda, si può rispondere che più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo, più si trova poesia vera. Non è però che non si possa godere una certa tranquillità in questo mondo, ma essa viene da principj soprannaturali, ed è falso che sia tolta dalla natura stessa delle cose e dei desiderj nostri.
Se gli uomini seguissero i precetti del Vangelo, godrebbero fra loro tutta quella pace che si può avere a questo mondo. Le gare vengono dal volere ognuno possedere quelle cose che il mondo chiama beni: il Vangelo insegna a sprezzarli. Ognuno se ne ritirerebbe, e aspirerebbe a quei beni per cui non ci può esser gara litigiosa, essendo essi infiniti, e potendo ognuno acquistarli, non solo senza privarne gli altri, ma cooperando a farli acquistare agli altri. Mirabile sapienza del Vangelo! e mirabile corruttela dell’uomo!
[1087] Cfr. nei Promessi Sposi, cap. ultimo, la similitudine del letto. [B.].
Dio liberi! La poesia è uno dei più nobili ornamenti della natura umana. Coltivata da tutti i popoli e in tutti i tempi, ella è la viva espressione dei più alti, dei più intimi sensi[413] che possano capire nell’animo dell’uomo. Essa serve mirabilmente a rappresentare come esistente quel bello morale, che è così vero nei nostri desiderj e nelle nostre idee, ma che non ci è dato vedere in questa vita così interamente come noi lo immaginiamo; e a questo modo consola e migliora gli uomini. Ma se ella dovesse stortare i nostri giudizj, pervertire i nostri sentimenti sul bene e sul male, sarebbe una peste, un vitupero, un flagello. «La proscrizione iniqua gli perdona»! Mai no, messer Ludovico. Virgilio all’incontro non ha potuto far perdonare a sè medesimo la sua indegna adulazione. Per quanto gli uomini amino i bei versi, amano ancor più la sicurezza e la vita, e le eterne idee della giustizia; e le orribili carneficine non si dimenticano per le lodi d’un poeta. Se l’indegnazione contro l’ingrato, vile, e crudele pupillo di Cicerone, non si è manifestata sempre così vivamente nella memoria dei secoli come si conveniva, è da attribuirsi non già al giudizio di Virgilio, ma sibbene alla potenza de’ suoi successori, come avverte il Machiavelli. Ma tanto è vero che le lodi dei poeti non bastano a corrompere il giudizio dei posteri sulle azioni dei potenti, come vorrebbe qui far credere l’Ariosto, ch’egli medesimo mostra di non dar nessun peso a quelle lodi, dicendo che
e facendo così vedere ch’egli s’informa dei fatti non dai poeti, ma dagli storici, e che vuole anche in questi distinguere il vero dal falso.
Due ottave più sù aveva egli detto che i Signori
Bell’ufficio della poesia! Egli è come un dire agli uomini che non hanno la sorte di nascer poeti: Fratelli, anzi non fratelli; questi Signori vi hanno fatto del male assai: essi hanno calpestata la giustizia e l’umanità, e voi avete dovuto sopportarli e sentirne dir bene: veramente parrebbe almeno[414] che la morte dovesse venire a fare le parti più giuste, e che l’abbominazione dei posteri fosse almeno il castigo di costoro; ma dovete sapere ch’essi hanno fatto del bene a noi poeti, cioè ci hanno accarezzati e pasciuti, e noi, che siamo più poeti che uomini, vogliamo che, per ricompensa, alle azioni triste di costoro si dia il premio dovuto alle buone, la gloria e la benedizione dei posteri. Noi, abbandonando la confederazione che unisce gli uomini di cuor retto al sostegno delle massime virtuose, quella confederazione nella quale gli uomini di alto intelletto dovrebbero essere i primi, ci studiamo di dar forza al vizio.—Ah! messer Ludovico, quando scrivevate quelle ottave non vi avete pensato bene, o avete parlato per baja: il che sta male in argomento così serio!
Benchè la regola della così detta Unità di Tempo sia stata combattuta presso altre nazioni, io credo ch’ella sia tenuta in Italia per legge in fatto e in dottrina, almeno per la Tragedia, giacchè tutte le tragedie lodate sono ordinate secondo essa, e non conosco scrittore che di proposito vi abbia contradetto. Io non so se l’opinione siasi (come accade sovente) internata in questa questione più che gli scritti, ma in iscritto io la credo questione nuova. Ma siccome appunto gli stranieri, come dissi sopra ed ognuno sa, la vanno da qualche tempo ventilando, non è possibile trattarla senza ridire cose già dette da essi. Non sapendo io medesimo sceverare, astrarre, e dispiccare, per così dire, le idee mie proprie su questo soggetto da quelle che possono essere ricavate o suggerite da opere anteriori, e non volendo essere nè parere plagiario, cito a piè di pagina quelle di queste opere che io ho lette[1088].
In esse si vuol provare che questa regola è arbitraria e nocevole all’arte; e per quello che a me sembra, ciò vi è provato più che a sufficienza. Ma egli è certamente un danno pel progresso delle idee intorno alla drammatica, che gli argomenti posti in mezzo da questi scrittori non sieno nè generalmente ricevuti, nè confutati. Essi hanno discusse le ragioni di coloro che tengono l’opinione contraria, hanno addotte le ragioni per cui quelle sembrano loro insussistenti; e queste ragioni essi (singolarmente i tre più moderni) le hanno ricavate da principj certo più alti e più riposti che quelli a cui gli avversarj loro fossero giunti mai. Eppure si ode sovente ripetere la regola, ed i principj su cui essa è fondata, come se le opposizioni non meritassero il pregio di farne parola. Ciò si vede sovente nelle dispute letterarie. Eppure esse meritano d’essere, se non ricevute, almeno confutate. Questi scrittori avranno in qualche parte errato trattando questa questione; ma se non hanno trovato sempre la verità, sono iti a cercarla, per vie nuove, profonde e difficili, in quella lontana e vasta regione ov’ella si trova; essi portano novelle di quel paese, e all’aria loro, ai loro discorsi, fanno sentire di esservi stati.
La regola dell’Unità di Tempo è stata difesa prima colla autorità e poscia coi principj. A questi tempi, quando uno cita Aristotele in questa questione, io credo che lo nomini non come giudice, ma, dirò così, come testimonio: voglio dire che non lo fa per confermare la regola coll’autorità dell’opinione di quel filosofo, ma perchè il nome suo è stato tante volte unito a questa, che va con essa per abitudine. Egli è riconosciuto ormai che l’autorità degli uomini non vale che a confermar quelle cose, che quegli uomini soli potevano sapere per mezzi che non sieno concessi agli altri. Così, per esempio, l’autorità storica, la quale, benchè fallibile, pure si segue, quando non ripugni alla ragione; e in questo[416] si largheggia assai per l’innato amore alla certezza. Il fondamento di quest’autorità non è altro che il non poter noi con altri mezzi renderci sicuri dei fatti accaduti prima di noi, che per l’attestato di quelli che ne furono testimonj. Un altro genere di autorità, il quale non è più tanto in vigore, si è quello appunto per cui tante opinioni di Aristotele, o credute di Aristotele, furono tenute giudizj irrefragabili; ed è fondato su questo argomento: quell’uomo vide tanto addentro nelle cose, che è difficilissimo, quasi impossibile, che egli si sia ingannato. Ma siccome Aristotele non è testimonio di fatti veduti da lui solo, ma della verità di idee le quali rimangono in perpetuo esposte alla contemplazione degli uomini, così doveva venire, e venne assai prima d’ora, il momento in cui fossero ascoltati coloro che dissero: Esaminiamo le idee e le ragioni di Aristotele col giudizio nostro. E a quelli che dissero che l’autorità di Aristotele era superiore a questo, risposero perentoriamente che quest’autorità stessa era fondata sul solo giudizio nostro; poichè l’idea di questa autorità deriva dall’esame e dal paragone delle cose trattate da Aristotele colle idee di Aristotele intorno ad esse, e dal giudizio della conformità tra quelle cose e queste idee. Questo giudizio adunque, dissero essi, è potente a scoprire alcune verità nella natura delle cose, poichè vi ha scoperto la uniformità con le idee di Aristotele: serviamocene adunque per cercare di scoprire la natura delle cose. D’allora in poi, se uno propone di provare che Aristotele, per esempio, ha detto uno sproposito, il lettore sta attento bene agli argomenti, e li vuole di peso, prima di arrendersi a credere che un tale la indovini meglio di Aristotele; quando prima non si ammetteva alcuno a provare che Aristotele avesse detto uno sproposito. Io vo ricantando cose vecchie, ma forse non del tutto inutili, poichè questo modo di valersi dell’autorità, benchè non sostenuto da alcuno in principio, è usitatissimo in pratica; e quando in una discussione letteraria, o altra che sia, uno può citare l’opinione conforme alla sua d’un uomo riputato, se ne serve ordinariamente più che la ragione nol comporti, e fa di tutto per poter chiudere la disputa con questa come ultima ragione.
E anche in questo caso, gli scrittori che non vogliono ammettere l’Unità del Tempo, non solo enumerarono le ragioni contro di essa, ma dovettero combattere l’autorità di Aristotele con argomenti estrinseci alla questione particolare; facendo vedere in sostanza che Aristotele, colla sola esperienza del teatro greco, non poteva comprendere tutti i possibili modi di verosimiglianza teatrale: ed enumerando molti altri motivi, per cui un uomo non poteva fare questa legge all’arte.
Ma uno di questi, il signor Schlegel, non solo nega il diritto di far la legge, ma nega l’esistenza della legge stessa. Il codice c’è, e ognuno puo accertarsi del fatto. Il signor Schlegel cita il solo passo della Poetica, dove si tratta di questa Unità di Tempo; ed io lo trascrivo qui dalla traduzione del Castelvetro: «Ora l’Epopea accompagnò la Tragedia in fino a questo termine solo, che con parole è rassomiglianza de’ nobili. Ma[1089] sono differenti in questo, che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa e fornita di lunghezza, e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l’Epopea è smoderata per tempo, e in ciò è differente dalla Tragedia. Egli è vero che da prima similmente facevano questo stesso nelle Tragedie e ne’ versi Epici». (Parte principale seconda, particella settima).
«Il faut remarquer d’abord», aggiunge il signor Schlegel [lez. X], «qu’Aristote ne donne ici aucun précepte, mais qu’il assigne à deux genres un caractère distinctif, tiré historiquement des exemples qu’il a sous les yeux». E ciò che dimostra che qui non è precetto, si è che Aristotele non ne dà ragione alcuna; e quelle che si sono addotte per provare che questo è un precetto, sono state cavate fuori da quelli che, ritenendo esser questo un precetto perchè lo videro esser conforme alla pratica più usuale dei Greci, credettero essere necessario[418] di ragionarlo. Nè questo è il solo caso che questioni lunghissime, passate d’una in altra generazione, e agitate ancora, si sieno fatte sopra un libro, che appunto non sia letto da una millesima parte di coloro che pigliano parte nella questione. Forse che gli uomini amano di tenere oscuri gli argomenti disputati, per timore di venire ad accordo?[1090]
«Dans les lettres et dans les arts, les règles sont les leçons de l’expérience, le résultat de l’observation sur ce qui doit produire l’effet qu’on se propose». (Marmontel, Elem. de Litt., alla parola Règles).—Come le parole influiscono sul senso, accade sovente che ad una voce, presa per analogia da un’altra serie d’idee, e che è metaforica, si dia tutto il valore che ha nel suo significato proprio. Così accadde alle Regole; e dietro a questo nome, è venuto nelle lettere il corredo degli altri nomi che vanno con esso, quando è preso nel senso naturale. Quindi si ode dire: trasgressione, osservanza ecc. Si dice: pigliarsi una licenza, quando uno scrittore non segue strettamente il modo dimostrato in questa scuola dell’esperienza; e ciò per ottenere un maggior effetto. E questo vocabolo licenza è improprio assai, perchè il giudizio di quel tal modo di trattare l’argomento non deve ricavarsi dalla esperienza del modo con cui furon trattati gli argomenti anteriori, ma dal modo con cui si gusti quello di cui si tratta; e così le Regole non ci hanno che fare. Le Regole risultano da ogni particolare soggetto, e sono per esso il modo con cui piace agli uomini di concepirlo. Ogni cosa difforme da questo modo è fallo, e ogni cosa conforme non è licenza, ma convenienza, non dovendosi raffrontare che col soggetto stesso.
Per convincersi che la regola arbitraria delle due Unità nuoce all’arte, basti osservare la progressione dei loro effetti nelle opere di Corneille[1091]. Nel Cid, egli tralasciò quella di Luogo, evidentemente; e quella di Tempo la seguì più in apparenza che in realtà, poichè diede e ai sentimenti e ai fatti un corso, che non si può comprendere verisimilmente in un giorno. E come sì gli uni che gli altri sono dedotti con progressione non men naturale e verisimile che maravigliosa, la regola non ha fatto danno, e basterebbe cangiare le parole che accennano l’unità per toglierne l’idea, come gli effetti non ci sono. Il grand’uomo fu, come ognun sa, straziato da uomini, il cui giudizio la posterità non vede senza fremito essere stato anteposto al suo (benchè sia pronta a far lo stesso). Allora egli, per aver pace e per godere senza ostacoli quella riputazione che aspettava dai suoi lavori, difese prima quella divina tragedia dagli oppositori, non già provando che i principj loro erano sciocchezze, ma che la tragedia era conforme a quei loro principj; d’indi in poi, egli si attenne sempre alle Regole, e storpiò gli argomenti, e abbandonò quelli che non si potevano storpiare così facilmente. E quale è quella sua tragedia dove si trovino quei pregi originali, e di un carattere moderno e nuovo, come nel Cid?... (Verificar questo, rileggendo le tragedie e le prose di Corneille, e distinguere meglio la differenza tra il Cid e le altre)[1092].
Veniamo ora alle ragioni, colle quali si è voluto provare che la regola dell’Unità di Tempo non è punto arbitraria, ma che deriva dalla costituzione organica del Dramma. Siccome il fondamento che si pone a questa regola e a quella dell’Unità di Luogo è il medesimo, così verrà a trattarsi dell’una e dell’altra insieme, e gli esempj si prenderanno promiscuamente dall’una e dall’altra.
La necessità intrinseca che il fatto rappresentato nella Tragedia non oltrepassi lo spazio d’un giorno, e che la rappresentazione si mantenga sempre in un luogo, è dedotta da un solo principio. Io lo rapporterò colle parole di un celebre spositore della Poetica, il Castelvetro; benchè, a dir vero, le ragioni per cui sembra a lui che sia inverisimile la rappresentazione che oltrepassi quello spazio e quel luogo, vi sieno enumerate con maggior diligenza che delicatezza.
Ecco quello ch’egli dice, nella sposizione al passo della Poetica citato poco sopra: «Aristotele parla spezialmente dello spazio che può al più occupare la Tragedia, che è un giro del sole, là dove lo spazio dell’azione dell’Epopea non è determinato. Perciocchè l’Epopea, narrando con parole sole, può raccontare un’azione avvenuta in molti anni ed in diversi luoghi senza sconvenevolezza niuna, presentando le parole all’intelletto nostro le cose distanti di luogo e di tempo; la qual cosa non può fare la Tragedia, la quale conviene avere per soggetto un’azione avvenuta in picciolo spazio di luogo ed in picciolo spazio di tempo, cioè in quel luogo ed in quel tempo dove e quando i rappresentatori dimorano occupati in operazione, e non altrove, nè in altro tempo. Ma così come il luogo stretto è il palco, così il tempo stretto è quello che i veditori possono a loro agio dimostrare sedendo in teatro, il quale io non veggo che possa passare il giro del sole, cioè ore dodici: conciosia cosa che per la necessità del corpo, come è mangiare, bere, diporre i superflui pesi del ventre e della vescica, dormire, e per altre necessità, non possa il popolo continuare oltre il predetto termine così fatta dimora in teatro. Nè è possibile dargli ad intendere che sieno passati più dì e notti, quando essi sensibilmente sanno che non sono passate se non poche ore, non potendo l’inganno in loro aver luogo, il quale è tuttavia riconosciuto dal senso».
Se questa è la vera cagione della pretesa inverisimiglianza, che nasce dalla differenza fra il corso del tempo supposto ed il reale, possiamo noi moderni a ragione vantarci di avere, colla bene intesa costruzione dei nostri teatri, allargati del doppio i confini della illusione teatrale. Poichè noi abbiamo teatri ove si può con ogni agio fare, e tuttavia si fanno, quelle[421] cose di cui parla il Castelvetro, e che non giova ripetere; e quindi (almeno per una parte degli uditori, e per quella appunto che naturalmente dev’essere la più attenta) si può supporre che la dimora in teatro sia di due giorni. Ma io non vorrei essere tacciato di avere scelto un testo sguajato, per toglier fede al principio e forza alla difficoltà: chè, a dir vero, essa, comunque in altri modi espressa, non viene a dire altro in tutti gli scritti dove io possa averla rinvenuta. Tutti convengono in questo, che essendo nel Dramma i fatti posti dinnanzi agli occhi dello spettatore, a differenza della Epopea che li narra con parole, perchè in esso si trovi quel grado di verisimiglianza che crea l’illusione, devono i fatti esser rappresentati come se accadessero realmente. Ora, siccome se quei fatti accadessero realmente non potrebbe lo spettatore assistere in poche ore a quelli che occupano mesi o anni, nè assistere senza muoversi a quelli che avvengono in diversi luoghi, così, perchè lo spettatore possa essere veramente illuso, deve il tempo e il luogo dell’azione conformarsi a quel tempo che lo spettatore sente veramente trascorrere, a quella unità di luogo in cui egli sente veramente di rimanere.
Due massime erronee sono qui, a parer mio, il fondamento della regola. L’una, che la presenza materiale dello spettatore sia una delle condizioni dell’arte; la seconda, che l’arte, per eccitare in noi la simpatia colla rappresentazione, debba valersi degli stessi mezzi con cui le cose reali fanno impressione sull’animo nostro. E quanto alla prima, egli è evidente che la presenza dello spettatore è riguardata come parte essenziale, poichè la inverisimiglianza si deduce, non dal volere che un uomo concepisca successivamente fatti successivi per lunghi intervalli di tempo e di luogo, ma che li veggia senza lunghezza di tempo e mutazione di luogo. Basterà dunque il dire che la presenza dello spettatore non deve entrare nella composizione dell’opera. Lo spettatore non è già una parte dell’azione, è una mente estrinseca ad essa che la contempla: lo spettatore non è governato coi modi stessi che l’azione, nè l’azione coi modi dello spettatore; l’azione ha un tempo, il quale deve parer verisimile[422] allo spettatore considerandolo nell’azione stessa, ma paragonandolo alle sue proprie modificazioni. Egli è, ripeto, fuori dell’azione. Se la massima di cui si tratta potesse essere ammessa, ne verrebbe una strana conseguenza, cioè che il porre in iscena i drammi nuoce alla perfezione dell’arte loro: poichè è concesso da tutti i critici che il non astringersi ai modi reali di tempo e di luogo lascia un più largo campo ad una più varia e più forte imitazione. Quante volte non s’ode dire: sì, quello scrittore ha grandi bellezze, ma le ottiene a discapito della verisimiglianza. Ora, se la inverisimiglianza non viene che dalla presenza dello spettatore, se i dialoghi drammatici che formano un’azione possono dilettare senza la recita materiale, se letti sono pur sempre opera dell’arte, convien dire che è possibile una più grande, più bella Tragedia, che non è quella che si può vedere in teatro. «Tragedia da tavolino», si dirà; ma l’Iliade, l’Eneide, l’Orlando non sono essi poemi da tavolino? Sofocle ed Euripide ci dilettano in altro modo che per la lettura? E la recita accresce tanto pregio all’arte, che senz’essa l’arte non produce i suoi più grandi effetti?
Nè si dica che il difetto vi si troverebbe pure alla lettura, perchè la mente si trasporta alla rappresentazione; poichè io suppongo un genere di composizione nel quale le cose si rappresentino col solo dialogo, e i fatti che non si conoscono da esso vi sieno accennati semplicemente, come il nome di chi parla. E questo genere è possibile, ed ha in sè tutte le condizioni per esser perfetto, senza la rappresentazione. Ma perchè ho io detto possibile? Tutto Shakespeare è tale! E se dai lavori prodotti in un genere si può stimare il genere stesso, nessuno dubiterà che la Tragedia da leggersi non sia superiore alla Tragedia da rappresentarsi, perchè nessuno dubiterà che la lettura, verbigrazia, del Macbeth non produca un più vario, un più profondo effetto di commozione, di simpatia e d’istruzione morale, che qualunque delle moderne tragedie in cui le unità sono osservate. Nè io per questo concedo che il Macbeth e tante altre divine tragedie sieno da togliersi al teatro: io tengo che la verisimiglianza di cui l’arte abbisogna vi si trovi[423] perfettamente; ma dalla conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
Il secondo principio, al parer mio, erroneo, si è: che l’arte, per formare in noi un’impressione colla rappresentazione, debba valersi degli stessi mezzi con cui le cose reali fanno impressione sull’animo nostro. E che questo principio sia sottinteso nelle ragioni che si adducono per la regola delle Unità, mi sembra chiaro, poichè queste ragioni si riducono a questo: che siccome nella realtà il mezzo, col quale io posso assistere agli avvenimenti che occupano una data lunghezza di tempo, si è di percorrere quel tempo, il mezzo col quale io posso assistere ad avvenimenti che accadono in diversi luoghi, si è di trasportarmi a quei luoghi; così l’arte, non potendo usare gli stessi mezzi, non può produrre gli stessi effetti, e quindi bisogna ristringere gli effetti ai mezzi reali che io ho e che posso impiegare a quella rappresentazione. Ma il fatto sta che le arti non si valgono, per farci impressione, degli stessi mezzi che servono alle cose reali. Le arti imitative non sono venute da altro che dall’aver gli uomini riflettuto e sentito che si poteva produrre un’impressione simile al concetto nato in noi dalle cose reali, senza riprodurle. L’imitazione non consiste adunque nel creare cose eguali al fatto, ma di modo somiglianti al fatto che sieno il più che si può eguali al concetto; perchè il fine è questo, e i modi di creare quest’imitazione sono mezzi subordinati a questo fine.
Io credo di poter dilucidare questo principio coll’esempio d’un’altra arte; e benchè sappia quanto i paragoni fra esse riescano spesso fallaci, mi sembra che in questo caso possano condurre al vero, poichè si tratta di una cosa comune alle arti tutte, che è il concetto umano. Pigliamo un esempio dunque dalla pittura; e per non uscire di teatro, pigliamolo da una scena, e sia questa un paese. La pittura è l’arte di rappresentare agli occhi nostri la somiglianza d’una cosa per mezzo di un’opera artefatta, che non è la cosa stessa. Quando io contemplo un paese reale, si crea di esso un idolo, un concetto, nella mia mente. Se io sciolgo questo concetto nelle varie parti di cui è composto, e per così dire conflato, se[424] paragono una, o più di queste parti del concetto, colle parti del paese reale che le ha originate nella mia mente, trovo che non sono ad esse perfettamente eguali, cioè che l’idolo parziale di questa parte non corrisponde alla parte che ha nel concetto generale. Per esempio, una pianta alta sei uomini, distante da me cinquecento braccia, mi sembra più picciola che una pianta alta quattro e distante cento braccia. Io veggo qui dunque la distanza alterare nel mio concetto l’idea della grandezza, e sento che io posso concepire questo paese in due differenti modi: quale è di questi due modi che l’arte pittorica imita? Quello analitico, per così dire, non le è dato imitarlo, nè essa tende a ciò; ma sibbene il modo dell’unico concetto. Può essa bensì avvicinarsi, più o meno, al modo analitico; ma, a misura che si avvicina a questo, ella va perdendo il carattere e il nome d’arte. Può, p. es., imitare un ramo d’albero che si contenga in un quadro, dando ad ogni foglia i contorni di grandezza naturale; ma oltrechè in questa cosa pure l’è forza di usare la prospettiva, essa fa uno dei suoi meno nobili e meno lodati effetti. Il modo di concetto che la pittura imita, si è il secondo, perchè gli uomini hanno trovato che si può in un picciolo spazio, su un piano liscio, imitare il concetto creato in noi dalla veduta di un esteso paese. Hanno trovato che gli effetti prodotti dalla distanza, dalla ineguaglianza della superficie, si possono imitare senza riprodurre queste condizioni, e così dilettare. La pittura adunque non rifà le cose reali, perchè, a dirla con parola tecnica, l’arte non lo promette; non imita nello spazio quella sola parte di cose reali che ci potrebbe stare, perchè l’arte promette assai più, ma rinchiude in quel dato spazio l’imitazione di quelle cose che possono riprodurre un concetto. (Più chiaro). Il senso poi dell’artista trova in ogni quadro i limiti che l’arte e il concetto danno alla estensione delle cose imitate. Questi sono indicati dalla novità e dalla somiglianza al concetto interiore.
Nello stesso, stessissimo modo, mi sembra che proceda l’arte drammatica. Essa non può rinnovare nell’anima dello spettatore la serie intera delle sensazioni, che nascerebbero in lui dal trovarsi presente ad avvenimenti che richieggono[425] uno spazio di tempo e di luogo più esteso di un teatro e di tre o quattr’ore. Non vuole rinchiudere l’azione in questo spazio, nei casi (e sono i novantanove centesimi) in cui l’azione non vi potrebbe stare. Non imita dunque nè la totale e intera azione, con tutte le sensazioni che l’accompagnerebbero se fosse reale, perchè non lo può; nè si ristringe a quella parte di essa che trova una corrispondenza reale in chi la rimira, perchè, come ho detto della pittura, l’arte promette assai più, essendo la mente capace di considerare in tre ore i fatti, le cause, gli effetti, le passioni, i rivolgimenti ecc. ecc., che possono accadere in un assai più lungo spazio di tempo. Essa rinchiude adunque, in quel dato spazio, l’imitazione di quelle cose che possono imitare il concetto nato in noi dalla rimembranza di questi fatti. Non potendo servirsi dei mezzi con cui apprendiamo, nella successione di spazio e di luogo, gli accidenti veri, si serve dei mezzi proprj ad essa, ed appropriati alla mente umana. Quindi, p. es., essa, non potendo servirsi della reale durata del tempo (l’attenzione non può in generale durare, se è molto interrotta), supplisce a questa colle idee che richiamano alla mente quella della durata, ed è la successione ragionata degli avvenimenti. Da una serie di questi astrae quelli che tendono a formare un’unità intellettuale. (Vegga il lettore sulle Unità l’eccellente Lezione decima del libro sopra citato del signor Schlegel). E qui pure, come nella pittura, il senso dell’artista deve trovare in ogni azione drammatica i limiti che l’arte e il concetto le assegnano. Quella congerie di avvenimenti, che la mente si diletta a contemplare insieme perchè vi scorge una tendenza ad un fine, è atta a diventare soggetto di una azione drammatica. Trovata questa, l’estensione dello spazio fittizio e di luogo e di tempo dove bisogna cercarla se non nell’azione stessa? E con qual regola bisogna misurarla, se non colla proporzione che le parti hanno fra di loro, e colla durata possibile dell’attenzione ad un concetto, senza stancarsi, e colla moltiplicità possibile di cose legate ad un fine, senza che ne venga la confusione?
Quale è l’uomo che ha potuto trovare un modulo di tempo fittizio per tutte le possibili azioni drammatiche? Aristotele[426] non lo ha certamente preteso. Ma i suoi commentatori, e coloro che hanno ricevuto le dottrine loro, hanno creduto di poterlo ritrovare. E qui si sono messi in luogo, dove non si appoggiano nè ai principj veri dell’arte, nè ai principj veri stabiliti da loro; poichè, veggendo che chi riduce la drammatica alle sole cose possibili nel tempo occupato dalla imitazione, viene a privarla dei suoi più grandi mezzi di diletto, hanno allargato questo tempo con un confine arbitrario. Al che non hanno voluto stare alcuni di coloro che ammettevano il principio della illusione intesa a quel modo, e questi, come è stato osservato, sono i più conseguenti: il che spesso si vede, chè fra quelli che tengono un’opinione falsa, i meglio ragionatori vengono a rendere il sistema più stravagante. Ma quelli che vogliono comporsi per avvicinarsi al vero, senza abbandonare quello ch’essi credono il solo vero, bisogna che inventino temperamenti arbitrarj. E tale è questo delle dodici o ventiquattr’ore. Poichè non sono possibili nella imitazione drammatica che due modi di tempo, il reale o il fittizio. Il reale è quello che s’impiega, il fittizio è quello che si suppone impiegarvisi; e il giro del sole (quando si sia stabilito per tutti i drammi) non è nè l’uno nè l’altro. Si può anzi credere che questo sistema non sarebbe venuto in mente ad alcuno, se Aristotele non avesse fatto parola del giro del sole. Il signor Schlegel, che osservò che Aristotele non parlò di esso dottrinalmente ma storicamente, ha trovate le ragioni per cui (oltre il Coro permanente, parte essenziale del dramma dei Greci) le azioni drammatiche non abbisognavano presso di loro, ordinariamente, d’un tempo fittizio che oltrepassasse il giro del sole. Se il povero filosofo ritornasse a questo mondo, si stupirebbe delle opinioni che gli si attribuirono, non meno che M. de Pourceaugnac della prole che gli attribuiscono quelle due finte provinciali.
Rimetto di nuovo il lettore alla stessa bella Lezione decima. E per conchiudere col paragone della pittura, la regola del giro del sole equivale ad una di questa sorte sui quadri che rappresentano paesi: non sia lecito rappresentare in una scena l’estensione che oltrepassi, per esempio, trecento braccia.[427] Ma lo spettatore, che vede la scena che gli rappresenta una gran lontananza di paese, che sa che le condizioni reali del paese non vi sono, che nè egli nè gli altri vi possono passeggiare per entro, che la distanza non vi esiste quale è finta ecc.; lo spettatore, che pure si accontenta di quella illusione che gli dà quel paese, non crederà poi che basti quella dell’azione, se le condizioni reali del fatto non vi sono conservate in modo ch’egli debba credere di poter assistervi realmente?
Questo tempo proprio dell’azione, è, per così dire, di due maniere, il reale e il supposto. Scegliendo da una storia, per esempio, quei fatti che costituiscono una unità, si rappresenta realmente il tempo occupato da quei fatti, si suppone il tempo che li divide. Il tempo, per cui questi fatti sono distesi, è il supposto; quello che essi tengono, è il reale. Il tempo invece dello spettatore è tutto reale, perchè egli non suppone, nè deve supporre, in sè una durata fittizia. Il tempo reale da lui impiegato basta a concepire gli avvenimenti rappresentati. Così, le tre ore materiali dello spettatore possono essere proporzionate alla intelligenza di un fatto di tre mesi; e se si consideri il fine, che è la contemplazione dell’unità, più proporzionate, secondo l’arte, che l’assistenza al fatto pel corso reale di tre mesi, pei quali le sensazioni relative ad esso verrebbero interrotte da mille altre sensazioni, e dopo i quali, per averne un concetto unico, bisognerebbe appunto fare astrazione da tutte queste modificazioni estranee. L’arte imita nello spettatore immaginario quello che la memoria farebbe in uno spettatore reale.
Quando si dice che le due Unità, di tempo e di luogo, non sono prescritte da Aristotele, i sostenitori di esse rispondono: che importa che Aristotele le abbia prescritte o no? esse sono fondate sulla ragione: ecco ciò che importa.
È utile alla scoperta del vero la storia delle opinioni. Quella delle Unità è venuta a questo modo. Si è creduto trovarla in Aristotele, in un tempo in cui egli era creduto infallibile; quindi, l’idea dell’autorità fu più esaminata, e si dubitò delle sue asserzioni; quindi, si cercò anche nelle sue asserzioni con più cura quello che vi era stato aggiunto: allora i partigiani[428] delle Unità furono costretti ad abbandonare Aristotele, e vollero trovare delle ragioni. Ma su questo campo sono venuti per forza; ma hanno credute e sostenute le Unità, credendo di non aver bisogno di ragioni. Questa opinione è cominciata con un errore di diritto, cioè che Aristotele non potesse ingannarsi, e con un errore di fatto, cioè che Aristotele avesse prescritte le due Unità. Sarebbe strano che una idea vera s’introducesse per queste vie, ma non impossibile. No, certamente: una conseguenza falsa può essere un’idea vera. Ma bisogna provarlo. E questo è ciò che non possono fare i partigiani delle Unità: gli argomenti loro sono di quelli che si cercano per comprovare un’opinione ricevuta per pregiudizio, non di quelli che conducono a provare un’opinione, e ad esserne persuasi. Essi ascoltano le ragioni degli avversarj coll’impazienza di chi non vorrebbe dubitare....................
[1088] Shakespeare, traduit de l’anglais; t. I, Discours des Préfaces, pag. C e seg.
De la Littérature du Midi de l’Europe par J. C. L. Sismonde de Sismondi; t. III, pag. 462 e seg.
De l’Allemagne par M.ᵐᵉ La Baronne de Staël-Holstein; t. II, pag. 7 e seg.
Cours de Littérature dramatique par A. W. Schlegel, traduit de l’allemand; t. II, pag. 86 e seg.
[1089] Qui comincia la citazione fatta di questo luogo nella prefazione al Carmagnola. Della parte avuta dal Castelvetro nella creazione della dottrina delle due Unità, il Manzoni ragiona lungamente in una nota alla parte seconda del Discorso sul Romanzo Storico. [Bonghi].
[1090] Qui, avverte il Bonghi, sono aggiunte tra le linee queste parole, che però paiono cancellate: «Tempo fa, sarebbe bastato il provare che Aristotele non ne aveva fatto un precetto, per farlo abbandonare; ma ora l’effetto dura, anche tolta la causa. Piaga per allentar d’arco non sana».
[1091] Si confronti la Lettre à M. C*** sur l’unité de temps, etc. [Bonghi].
[1092] La parentesi è aggiunta da me [Bonghi], per mostrar meglio che questo è un richiamo che il Manzoni fa a sè.
Nella quistione se il teatro sia utile o dannoso ai costumi, è avvenuto un fatto non unico, ma osservabile, ed è: che essendo essa stata ventilata più volte, l’opinione dei più e la pratica sieno rimaste favorevoli al teatro, e nello stesso tempo non duri la memoria che degli scritti che lo impugnano. Un’opera apologetica, che si citi come libro di morale profonda, e di cui si dica: questa ha sciolte le difficoltà degli oppositori; non v’è, ch’io sappia. Ma chi non conosce, almeno di nome, le operette che contro il teatro scrissero in Francia due grandi scrittori, ed un uomo di grandi talenti, voglio dire Nicole, Bossuet, e G. G. Rousseau? Non parlo degli Italiani, perchè scrittori che sieno, nel discutere questa materia, saliti a principj un po’ reconditi di filosofia morale, nè io mi sono abbattuto a trovarne, nè la fama mi ha avvertito esservene alcuno. Da chi abbia letto il Discorso del marchese Maffei sui teatri antichi e moderni, non mi sarà spero imputato a colpa il non tenerne conto, poichè è impossibile non sentire quanto egli sia lontano dall’aver veduto in questa discussione gl’importanti argomenti di considerazioni morali che vi hanno veduto i Francesi sunnominati. Fa veramente stupore il trovare, in quella dissertazione tanto poveretta di pensieri quanto ridondante di una certa erudizione, che l’autor suo aveva lette le Riflessioni di Bossuet, poichè le cita; e[430] non si sa come dalla lettura di quel libro egli sia disceso a ripigliare la materia, che ivi è trattata con osservazioni tolte dall’intimo del cuore umano e con principj alti e generali, per trattarla poi tanto superficialmente.
Dopo il Nicole e il Bossuet, la questione non fu per molti anni più suscitata, ch’io sappia, se non dai teologi di professione. Ma, nelle materie morali specialmente, le opinioni dei teologi non divenivano quasi più soggetto di discussione (poichè cominciava a prevalere quella massima, che si è poi tanto diffusa, essere la Teologia una scienza da sè, che ha le sue opinioni, le quali non servono per lo più che ad entrare nel corpo di essa scienza, e non a far parte della sapienza civile e ad esser norma della condotta nei casi della vita), quando un uomo, ch’era tutt’altro che teologo, pubblicò la famosa lettera a D’Alembert contro il Teatro, e richiamò per qualche tempo l’attenzione della colta Europa su questo argomento.
L’opinione che Rousseau sostenne, venne attribuita al suo genio pei paradossi: eppure la sua Lettera è ancora celebre, e letta, e le confutazioni di D’Alembert e di Marmontel sono quasi dimenticate; per non parlar di quelle che lo furono al loro nascere. La Lettera di Rousseau, che per la più parte è composta di ragioni tolte dall’operetta di Bossuet di cui non vi è mai fatta menzione, ebbe tosto una fama più estesa e più alta di questa: e questa superiorità di fama le è venuta, s’io non m’inganno, da quello appunto che la rende inferiore all’altra in vero merito. Bossuet, in questo scritto, come in tutti gli altri, cava i suoi argomenti dalla Rivelazione, considera tutta la natura dell’uomo in rapporto con essa, subordina i mezzi allo scopo, la vita presente alla eterna, estimando l’una e l’altra secondo il valor loro. Rousseau non considera che il bene o il male nel tempo; e benchè voglia tutto ridurre alla morale, spoglia questa della sua vera importanza, non riducendola a Dio che ne è il principio. Non è quindi da stupirsi se conseguenze, che hanno del vero in sè, fossero più gradite all’intelletto, e meno avverse al senso, in un autore che le presenta isolate, e stanti da sè come principj, e aventi in sè la loro ragione e la loro sanzione,[431] che quindi possono essere tranquillamente abbandonate, quand’anche sembrino incontrastabili; che in chi le cava e le mostra unite ad un corpo di dottrina e di morale, che il mondo non vuol ricevere, o che vuol dimenticare.
Io oso qui ripigliare una parte di questa quistione, nella quale mi sembra che i sunnominati scrittori si sieno ingannati. La quistione si distingue principalmente in due punti, e sono: il teatro, ossia lo spettacolo, e le opere drammatiche considerate come scritti, come poemi. Essi condannarono l’uno e l’altro: io intendo di prescindere affatto dal primo. Il secondo comprende la poesia tragica e la comica, e le altre specie che in fine poi si riducono a queste due; delle quali io scelgo di parlare puramente della tragica.
In questa, essi hanno esaminate due cose: il modo con cui è stata trattata, e lo hanno detto immorale, provandolo con assai esempj; il modo possibile di trattarla, e hanno detto dover essere naturalmente immorale, poichè il fine che l’arte vi si propone, cioè d’interessare, non si può ottenere che a discapito della morale. Dover quindi la Tragedia essere viziosa secondo l’arte, o dannosa al costume. Verrebbe da ciò una conseguenza, che essi non hanno lasciato di dedurre: che più una tragedia sarà perfetta, più sarà immorale. Se la conseguenza fosse giusta, nessuno può dubitare che la Tragedia non fosse da proscriversi; perchè nessuno vorrà affermare essere da conservarsi una cosa che sia opposta allo scopo morale, a cui tutto si deve dirizzare.
Io spero però di poter provare che questi scrittori hanno errato nell’affermare che non è possibile la Tragedia morale; e che l’errore è venuto in tutti da una stessa origine. Essi hanno osservato una sola scuola drammatica, e dagli esempj di questa hanno dedotti tutti i possibili modi di poesia drammatica. Essi hanno supposto che non si poteva interessare in altro modo.
Io esporrò il principio colle loro stesse parole; indi m’ingegnerò di provare che esso è arbitrario, che non è necessario far derivare l’interesse drammatico dal principio che essi hanno creduto il solo, e il quale convengo con loro nel chiamare immorale. Che anzi il più alto interesse drammatico si[432] ottiene in diverso modo; e addurrò esempj che mostrino essere questo genere di Tragedia non solo possibile, ma esistente da molto tempo. E come nel leggere i poeti tragici più rinomati coll’intenzione di osservare la parte morale, mi è sembrato scoprire alcuni fonti più comuni d’immoralità che non ho trovato accennati da altri, io li additerò, spiegandoli con esempj tolti dai più lodati. Nel che se trovassi il vero, potrei ottenere due fini: di indicare, a chi scrive drammi, certi scogli ove hanno inciampato gli altri; e di segnarli ai lettori di quelle opere, perchè li possano più facilmente avvertire. Nè agli uni nè agli altri io pretendo far da maestro; ma non è impossibile che, essendomi io fermato molto tempo in queste considerazioni, v’abbia veduta qualche cosa che può essere sfuggita ad occhi più acuti de’ miei.
Il motivo per cui sembra ai tre scrittori suddetti essere il dramma di sua natura immorale, si è che il suo scopo è, a loro dire, di eccitare le passioni e di assecondarle. «Le but même de la comédie engage les poëtes à ne représenter que des passions vicieuses. Car le fin qu’ils se proposent est de plaire aux spectateurs; et ils ne leur sauraient plaire, qu’en mettant dans la bouche de leurs acteurs... etc. C’est ce qui fait qu’il n’y a rien de plus pernicieux que la morale poétique et romanesque, parceque ce n’est qu’un amas de fausses opinions, qui naissent de la concupiscence, et qui ne sont agréables qu’en ce qu’elles flattent les inclinations corrompues des lecteurs ou des spectateurs.... Ce qui rend encore plus dangereuse l’image des passions que les comédies nous proposent, c’est que les poëtes pour les rendre agréables sont obligés non seulement de les représenter d’une manière fort vive... etc.». (Nicole, Traité de la comédie).
Ecco che dice Nicole contro il dramma in generale; benchè pare ch’egli si contenti quasi di condannare quelli che al suo tempo si conoscevano, si leggevano e si recitavano in Francia, senza cercare diligentemente se potrebbe darsi un[433] dramma onesto. Ma contro questa ipotesi, si leva apertamente il Bossuet. Udiamolo: «Le premier principe sur lequel agissent les poëtes tragiques et comiques, c’est qu’il faut intéresser le spectateur; et si l’auteur ou l’acteur d’une tragédie ne le sçait pas émouvoir, et le transporter de la passion qu’il veut exprimer, où tombe-t-il si ce n’est dans le froid, dans l’ennuyeux, dans le ridicule, selon les règles des maîtres de l’art?».................
[1093] Questo titolo ha una variante: Dello scopo morale della Tragedia considerato nei suoi rapporti colla perfezione estetica.
V’ha due modi di considerare le quistioni morali: prescindendo dal Vangelo—, ponendolo per fondamento.
Convinto della verità di esso, deggio seguire questa seconda via.—Assurdità della prima.
Impugnatori più noti del Teatro: Bossuet, Nicole, J. J. Rousseau.—I due primi cristianamente; in alcune parti il terzo, e come.
Le loro objezioni si dividono in due parti: Opere drammatiche, Teatro.—Si prescinde dalla seconda quistione.
Le objezioni contro il dramma si risolvono in questa: Che si eccitano le passioni, e che non si può esser poeta drammatico altrimenti.—Questo giudizio è nato dal non esaminare che drammatici francesi. Essi sono tali; ma si può e si deve interessare altrimenti.—Essi fanno simpatizzare il lettore colle passioni dei personaggi, e lo fanno complice.
Si può farlo sentire separatamente dai personaggi e dei personaggi, e farlo giudice.—Esempio insigne: Shakespeare.
Varj modi di immoralità drammatiche:
1.º Il già detto.
2.º Noi abbiamo una inclinazione a seguire più il nostro giudizio che le leggi divine ed umane. Quando ci sembri che vi sia più bene o minor male a farlo, siamo più contenti, perchè combiniamo la coscienza col sodisfacimento dell’orgoglio. Quindi tutti i casi trovati per mostrare come talvolta sia lecito mentire. I poeti drammatici hanno assecondata[434] questa inclinazione, rappresentando casi in cui mille inconvenienti si trovino nella esecuzione della legge, e mille vantaggi e mille sentimenti virtuosi nella trasgressione.—Esempj: Heraclius, Tell.
Foss’anche giusto quello che si propone in questi drammi, è pericoloso, è inutile: perchè non si deve temere che gli uomini pecchino di troppo scrupolo. Falso poi: perchè noi non dobbiamo render conto delle conseguenze delle nostre azioni, ma dei motivi; perchè quelle non sono in mano nostra, ma questi. Noi non prevediamo quello che nascerà: forse evitando un male colla infrazione, male di cui non saremmo colpevoli, ne produciamo mille impreveduti, e che verranno per nostra volontà. Chi ha fatto la legge immutabile, sapeva le conseguenze; e non avendo fatte eccezioni, non le possiamo far noi.
3.º modo d’immoralità: rappresentare i beni e i mali con quel falso aspetto col quale siamo già inclinati a considerarli. È noto che l’uomo va d’illusione in illusione cercando la felicità. Disingannato d’una, cerca l’altra; abbandona, conosce, e disprezza una vanità, e le contrappone un’altra vanità come realtà. Nella vita reale non possiamo trattenerci a lungo in questo errore sopra un oggetto particolare, perchè la vanità di esso si manifesta da sè. Ma i poeti ci trasportano a supporre la realtà del godimento negli altri. Trovano in noi la disposizione a questo inganno; perchè riconosciamo in noi la falsità, ma, per la inclinazione a supporre beni reali quelli che non abbiamo, crediamo felici quelli che li possiedono. Ci rappresentano uomini correnti dietro un oggetto, e ci sembra che saranno compiutamente felici nel possederlo. L’animo nostro non analizza nè distingue questi sentimenti, ma li prova. Esempj, oltre i francesi: il Pastore del Tasso, e in opposizione, il Vecchio di Euripide nella Ifigenia.[1094]
Opinione ricantata e falsa: che il poeta, per interessare, deve movere le passioni. Se fosse così, sarebbe da proscriversi la poesia. Ma non è così. La rappresentazione delle passioni[435] che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita, è più poetica d’ogni altra.—Pensare ben bene e dichiarare questa risposta.
Una prova di questo si è che le tragedie di lieto fine interessano meno. Finchè mi rappresentate gli uomini anelanti ad uno scopo finito, io sento con essi per la disposizione sopraddetta; ottenuto che l’hanno, benchè io non rifletta alla vanità di esso, pure vi perdo ogni interesse,—per pensare ad altro; poichè noi viviamo nell’avvenire, cioè nella speranza. E questo è giusto e vero: ma ci sono speranze veraci e speranze fallaci. Ora il poeta non deve trattenerci in queste, ma condurci alle altre. Altrimenti è poeta immorale, quindi superficiale. Quando io, leggendo versi, penso più in là del Poeta, e contra quello che ha detto il poeta, l’effetto è tolto, ed il lettore è più poeta di lui.
Si è accennato che le obiezioni dei moralisti suddetti pigliano di mira le Opere e il Teatro.—Esposizione succinta della seconda quistione. Si prescinde assolutamente da essa.
—Quelli che lo credono utile, errano disapprovando i moralisti cristiani che ne dissuadono. Essi lo credono utile come rimedio; riflettano che i moralisti cristiani insegnano a farne senza a quelli che persuadono ad astenersene.—Apologo del medico.
Nella scena prima dell’atto IV del Guglielmo Tell, vi è un esempio del pericolo di far partecipare lo spettatore alla passione del personaggio; tanto più che questa passione sembra giusta, mentre è ira contra uno scellerato. Un pescatore osserva con un suo figliuoletto la barca dov’è Gessler con Tell, agitata dai venti:—«Giudizj di Dio! Sì, è desso, il Governatore, che là è tratto. Egli naviga là, e conduce seco il suo delitto. La mano del vendicatore lo ha bentosto ritrovato: ora egli riconosce un potente signore sopra di sè. Queste onde non [cedono alla sua voce]. Queste rupi non piegano le loro teste dinnanzi al suo cappello». E aggiunge: —«O fanciullo, non pregare, non istrapparlo dal braccio del Giudice». Il fanciullo:—«Io non prego pel Governatore, io prego per Tell che è nella barca con lui».—Questo sentimento orribile è espresso senza disapprovazione; nè io[436] voglio credere che uscisse dal cuore di Schiller, ma egli avrà voluto rappresentare al vivo l’abbominio di quegli uomini per Gessler. Ma egli ha errato, mettendosi a rischio di far sentire lo spettatore come il suo personaggio. Del resto, mi sembra che, poichè egli ha immaginato di far pregare il fanciullo, ha perduto l’occasione di una scena bellissima. Se il padre invece (il che è nella natura d’un uomo pio e retto) dicesse al figlio di pregare anche per Gessler, che commozione non ecciterebbe! Quanti sentimenti non risveglierebbe di quella Religione che insegna a chi l’ascolta di pregare per Gessler e per Tell, per l’oppresso e per l’oppressore; a riguardare gli uomini i più scellerati come creati anch’essi per la virtù, come capaci di emendarsi e di seguirla, e sè stesso come capace dei più grandi errori, qualora Dio lo abbandoni; che insegna a riguardar tutti gli uomini come fratelli, e se gl’iniqui vogliono rompere questo santo vincolo, c’impone di tenerci stretti a loro, con quella carità che ha per fondamento non il merito loro, ma i precetti e gli esempj di Gesù Cristo!
Quanto più Gessler è stato dipinto scellerato, più pericoloso è questo sentimento, perchè lo spettatore è disposto a riceverlo. Certo, v’è una simpatia in ciò; ma dev’egli, il poeta, secondare questa inclinazione nostra? No, certamente; e se il diletto è il fine della poesia, io m’immagino che dall’aver vinto questo impeto d’odio, e dall’avere accolti in sè i sentimenti sublimi che ho accennato poco sopra, ne debba nascere un vivo, soave ed alto piacere, e questo deve il poeta trasfondere nello spettatore.—Questi può avere piaceri viziosi e piaceri virtuosi: i secondi sono i più poetici.—Satiabor cum apparuerit gloria tua. (Salmo XVI).
[1094] Leggesi nel margine inferiore: «Il peggio si è che anche i poeti lirici ne sono pieni». [Bonghi].
Distinzione di bello poetico e di vero morale, assurda.
Punto dove coincidono questi due attributi in un componimento dell’arte.
La Verità, la quale è sommamente piacevole, e sommamente perfezionatrice.
Verità nella rappresentazione dei fatti dell’animo. Ciò che è fatti, ciò che dovrebb’essere conati, desiderj.
Verità nell’eccitamento degli affetti. Simpatia al bene.
Verisimiglianza, mezzo unico per arrivare a queste due. Verità storica, tipo della verisimiglianza.
(Dialogo con un amico).
Passeggiando jeri dopo il pranzo, come si suole, sul Corso di Porta Orientale, mi abbattei, come accade, in un amico, il quale, fermatomi, come si fa, mi chiese, ed io a lui, notizie della salute, le quali, grazie al cielo, furono ottime da ambe le parti.—E quella staffilata che Monti ha data ai romantici? diss’egli poi tosto. Scrivo com’egli disse: Monti, senza più, giacchè è uno di quei nomi, che, fuori d’ogni taccia d’inciviltà, si può dire e scrivere senz’altri accompagnamenti. Ma per tornare al fatto:—Che staffilata? domandai io.—Diavolo! diss’egli; lì, dopo i personaggi del dialogo in cinque pause.... via, nell’ultimo volume della Proposta.—Da vero ch’io non vi capisco, risposi.—Come? replicò egli, non avete lette quelle parole: Il luogo della scena è romantico, cioè dove torna più conto?—Oh santa provvidenza![439] sclamai io: e questa vi pare una staffilata?—No, eh? diss’egli: sarà un biscottino.—Oh bene, ripresi io, giacchè voi l’intendete a questo modo, non sarà vero ch’io vi lasci finchè io non v’ho fatto vedere che l’intendete a rovescio; voi andate di qua, ed io torno indietro e vengo con voi.—Così detto, innestai bravamente il mio braccio destro tra il suo sinistro e le coste di questa parte, e m’avviai con lui.
—Come diavolo, dissi poi, avete voi potuto sentire una staffilata in quelle parole?—Come? rispose egli: oh non è ella chiara? o burlate voi? Non voglion dire quelle parole che i romantici schivano le difficoltà, fanno quello che torna loro più comodo?—Oh bella! diss’io: non fanno così tutti gli uomini che hanno cervello? Volete che si faccia ciò che torna men conto? Noi andiamo ora a casa vostra; se venisse uno e dicesse: vedete, coloro vogliono andare a Porta Vercellina, e camminano per la Corsìa dei Servi, che è la strada più breve; vogliono andar presto e con la minor fatica possibile, e mettono un piede innanzi l’altro, invece di andare a piè zoppo: fanno quello che torna loro più conto: credete voi che costui ci darebbe una staffilata?—Oh! disse l’amico: questa è ben curiosa! che ha che fare l’andare a casa col luogo della scena?[1096]—Hanno che fare in questo, risposi io,[440] che nell’un caso e nell’altro è cosa molto ragionevole far ciò che torna conto; e chi osserva che voi fate così, non intende burlarvi. Che cosa vuol dire tornar conto? Essere spediente, venire utile, servire all’intento. Se Monti avesse detto che il mutare la scena, come i romantici dicono che si debba fare, secondo lo richiede l’azione, è metodo che allontana dall’intento che l’autore si debbe prefiggere, avrei inteso, con maraviglia però, ch’egli voleva censurare quel metodo. Ma egli dice il contrario, e per me non posso vedere in quelle parole altro che una approvazione. E non vedete che egli stesso in quel dialogo ha seguito un tal metodo?—Sì, replicò l’amico, ma quivi è tutto in burla, non è mica un componimento serio. —Che vuol dire? ripigliai io; che negli argomenti serii bisogna fare quello che non torna conto? Ma non vedete che, serio o scherzevole che l’argomento sia, il principio è lo stesso? Perchè Monti ha mutata la scena in quel dialogo? Perchè ad esprimere quell’un concetto che egli aveva immaginato, bisognava fare scorrere l’immaginazione del lettore in varie parti. E facendolo egli in un soggetto tutto fantastico, dove i luoghi sono affatto immaginarj, come volete voi che censuri il metodo che insegna a mutare la scena a seconda di trasposizioni di personaggi, o realmente avvenute, o molto più[441] verosimili? il metodo che prende queste mutazioni, o nelle cose stesse, o nella natura delle cose?
—Ma se queste parole non volessero dire altro se non il tornar conto usuale, ragionevole, perchè Monti le avrebbe dette? Se ne togliete la staffilata, non significano più niente. Che sugo c’è, in grazia?—Molto sugo, a parer mio, risposi; e giacchè stiamo interpretando ognuno secondo le nostre idee, io vi dirò il senso che ho inteso in quelle parole, e che mi pare assai arguto e opportuno. Nelle cose della vita non si rimprovera ad uno il fare secondo che gli torna conto, ma nelle cose della letteratura...—Oh le belle cose!...—Signor sì, questo è sovente un soggetto di rimprovero. Ed ecco come è venuta questa strana idea, se avete pazienza di ascoltarmi un momento. Si è osservato che nel far bene v’è difficoltà, si è associata l’idea della difficoltà a quella della perfezione, e con un passo facilissimo si è venuto a supporre, così in nube, come si suole, che vincere le difficoltà sia sempre avvicinarsi alla perfezione; evitarle, sia allontanarsene. E non si è osservato che molte difficoltà non vengono da altro, che da una opposizione al buon senso con fini storti ed arbitrarii. Ora in quelle poche parole, applicando al metodo romantico quella formola comune, si fa sentire che quella regola universale, e riconosciuta da tutti nelle altre cose, vale pure per le cose letterarie; che le difficoltà, gl’impicci, i giuochi di forza non sono più ragionevoli in letteratura che nel resto: cosa che non avrebbe sugo, se non fosse invalso un principio, o pure un sentimento confuso del contrario, ma che ne ha appunto perchè è invalso. Ditemi un po’, se venisse uno e dicesse: «Monti adopera quello stile così peregrino e così naturale, così forbito e così veemente, così singolare di perfezione insomma, perchè...., perchè adopera le parole che trova più opportune ad esprimere il suo felice concetto, sceglie quelle che gli torna conto. Ma il Cieco d’Adria non faceva così, non prendeva la via facile, quando fece quel sonetto di cui tutte le parole cominciano con un D». Ditemi un po’, di chi credereste che volesse rider costui, di Monti o del Cieco d’Adria? E volete un’altra prova? Non vi ricordate che tutti i romantici, che hanno scritto per provare che[442] la scena va mutata a seconda dell’azione, hanno tutti addotta questa ragione, che il far così torna conto? E volete voi supporre che Monti voglia denotare come scansatori di difficoltà, come uomini che hanno bisogno di aiutarsi colle irregolarità per far qualche cosa, Shakespeare e Goethe? che questi non avrebbero saputo adattarsi, con un po’ di buona grazia, ad una legge di cui diecimila autori hanno trovato l’esecuzione così agevole? che egli abbia voluto....
—Oh! disse l’amico: io non so nè voglio sapere che cosa si vogliano tutte queste ciarle, e non m’importa un zero di scena e di non scena. Ho gittata quella parola tanto per dir qualche cosa, non mai credendo di tirarmi addosso tutta questa tiritera. I letterati se la sbrighino tra loro, che a me non fa nulla. E parliamo d’altro.—Tiritera! diceva io tra me, mentre egli andava cercando in suo cuore l’appicco d’un altro discorso. Tiritera! Scriverò queste belle ragioni che ho dette, le manderò al giornale, e il pubblico dirà poi s’ella è stata una tiritera.
[1095] La parte 2ª del III volume della Proposta di Vincenzo Monti fu pubblicata nel 1824; il primo dialogo in cinque pause che vi si contiene, ha per interlocutori: i poeti dei primi secoli della lingua italiana, e il luogo della scena, vi si dice, è romantico, cioè dove torna più conto.—Da queste parole, come nel rimanente è detto dal Manzoni stesso, questi prese occasione al seguente Dialogo con un amico sulla staffilata ai romantici, che l’amico pretendeva vi si contenesse, ed egli finge di credere che non vi si contenga.... Il concetto v’è tutto; e, come suole, è acuto, e pieno di lepore il modo di esprimerlo. Ma si vede che il breve scritto è un primo getto; e tuttora molto lontano dalla perfezione a cui il Manzoni l’avrebbe condotto, se si fosse risoluto a pubblicarlo. [Bonghi].
[1096] Ecco, annota il Bonghi, come questi due primi paragrafi sono trascritti:
«Passeggiando jeri dopo il pranzo, come s’usa, sul corso di Porta Orientale, mi abbattei, come accade, in un amico che fermatomi, come si fa, mi chiese, ed io a lui notizie della salute, le quali furono, grazie al cielo, ottime d’ambe le parti.—E quella staffilata che Monti ha data al sistema romantico? diss’egli poi tosto. Scrivo, come egli disse: Monti, senza più: e tal sia di lui, s’egli ha tanto divolgato quel suo nome, che a nessuno vien mai in capo di accompagnarlo con qualche titolo di civiltà. Ora, per tornare al fatto:—Che staffilata? domandai io.—Come! rispose egli, non avete notata l’indicazione del luogo della scena al dialogo in cinque pause, nell’ultimo volume della Proposta?—Ebbene? domandai io ancora.—Ebbene, diss’egli, avete lette sì o no quelle parole: Il luogo della scena è romantico, cioè dove torna più conto?—Oh bontà dei Numi! sclamai io: e questa vi pare una staffilata al sistema romantico?—No, eh? diss’egli: sarà un biscottino.—Oh bene, ripresi io, giacchè voi volete intenderla a codesto modo, non sarà vero ch’io vi lasci fin che non v’abbia fatto toccar con mano che l’avete intesa a rovescio. Voi andate verso casa vostra, ed io torno indietro, e vi accompagno. Così detto, incastrai bravamente il mio braccio destro tra il suo sinistro e le costole di quel lato, e mi avviai con lui.—Come diamine, continuai, avete voi potuto supporre che Monti abbia voluto con quelle parole dare una botta al sistema romantico?—Come? rispose l’amico: oh non è ella chiara? o burlate voi? Non voglion dire quelle parole che i poeti drammatici nel sistema romantico schivano le difficoltà, fuggono gl’impicci, vogliono insomma far le cose nel modo più facile?—Oh bella! diss’io: non fanno così tutti gli uomini che hanno cervello? E voi volete credere che il Monti si burli dei poeti drammatici che fanno come loro? Se venisse ora uno e dicesse di noi: Vedete coloro: vogliono andare a Porta Vercellina, e pigliano la strada che mena colà; vogliono andar presto e con la minor fatica possibile, e mettono un piede innanzi l’altro invece di andare a piè zoppo: ah! ah! fanno ciò che torna loro più conto: credete voi che costui ci darebbe una staffilata?—Oh! disse l’amico: questa è ben curiosa! che ha che fare l’andare a casa col luogo della scena nel dramma?».
NOTA.—La prima edizione ha questo frontispizio: Inni sacri | di | Alessandro Manzoni || Milano | Dalla Stamperia di Pietro Agnelli | in Santa Margarita | 1815. (pagg. 37, in 8º). L’opuscolo contiene (p. 5) I. La Risurrezione, con la data 1812; (p. 14) II. Il nome di Maria, 1813; (p. 22) III. Il Natale, 1813; (p. 31) IV. La Passione, 1815.—Nel 1822, presso Vincenzo Ferrario, ne fu fatta la seconda edizione; ove furon soppresse le date, e aggiunte, in fine dell’opuscolo, le Note, bibliche.—Nel 1823, gl’Inni furon ristampati a Cremona, a Torino, a Udine; nel 1826, a Cremona e a Roma; nel 1827, con la data d’Italia; nel 1829, a Milano e a Udine; nel 1831, a Terni; nel 1834, a Brescia e a Pesaro; e così via. (Cfr. Catalogo della Sala Manzoniana nella Braidense, Milano, 1890, pag. 32 ss.).
La Pentecoste fu pubblicata più tardi, e a parte. L’opuscoletto, di pagg. 14, e dello stesso formato dell’altro, ha questo frontispizio: La | Pentecoste | Inno | di Alessandro Manzoni | — | Stampato a 50 copie | in Milano | da Vincenzo Ferrario | 1822.—L’anno appresso comparve: La | Pentecoste | Inno | di Alessandro Manzoni | colla | traduzione latina | di | Fedele Sopransi | già Consigliere nella cessata Corte di Cassazione | — | Milano | da Vincenzo Ferrario | 1823. (pagg. 19, in 8º). E a Cremona, presso i Fratelli Manini (pagg. 22, in 8º), nello stesso anno, «colla traduzione latina in doppio metro dell’abate Luigi Bellò». Nel 1824, a Milano, per Giovanni Silvestri (pagg. 24, in 8º), «con la traduzione latina dell’abate Luigi Alvergna». Nel 1870, poi, in occasione di nozze, fu ripubblicato «colla versificazione latina di Benedetto Del Bene», e con una lettera del Manzoni al Del Bene, da Milano, 25 febbraio 1823 (Verona, tip. Vicentini e Franchini, pagg. 16, in 16º).
Le Strofe furono stampate nel 1832 e nel 1837, in un foglietto di pagg. 4, in 8º, che porta in testa: Strofe | da cantarsi | da | un coro di giovanetti | alla prima comunione | nella I. R. Chiesa prepositurale | di Santa Maria della Scala in S. Fedele || Milano | coi tipi di Luigi di Giacomo Pirola | 1832 (o 1837).—Delle sette strofe, come furon poi ripubblicate tra le Opere varie nel 1845 e come qui si riproducono, in questa prima stampa eran solo la prima, la quarta e la settima.—Nel 1834, in un foglietto simile, e con la medesima intestazione, erano state stampate le due altre strofette: Questo terror divino...., Con che fidente affetto.....
Gl’Inni e le Strofe furon dal Manzoni ristampate, nell’ordine nella forma e con le Note che noi riproduciamo, tra le Opere varie, Milano, 1845. Diamo anche qui, a pie’ di pagina, le varianti dalle prime edizioni.
Scherillo.
[1097] masso,
[1098] a l’impeto
[1099] romorosa
[1100] calle,
[1101] senza le virgole.
[1102] riveggia
[1103] De la
[1104] Figliuol
[1105] una ineffabile
[1106] a l’imo
[1107] Onde
[1108] fra
[1109] a l’odio,
[1110] persona.
[1111] Parvolo,
[1112] tremano,
[1113] A l’uom
[1114] Da le
[1115] eterie
[1116] scende;
[1117] dei
[1118] senza la virgola.
[1119] dei
[1120] Da chi ’l
[1121] Dond’era
[1122] Figliuol
[1123] ne l’umil
[1124] L’Angiol
[1125] a gli
[1126] dei
[1127] A le
[1128] fra
[1129] lui,
[1130] volo,
[1131] Fra
[1132] Quei
[1133] accolto
[1134] Fanciul,
[1135] su l’empia
[1136] dinanzi
[1137] ne la
[1138] ascoso
[1139] de l’ira
[1140] vesta
[1141] Fra
[1142] dei
[1143] L’Ostia
[1144] Profferì
[1145] cuor.
[1146] costui, che dinanzi a l’Eterno,
[1147] il santo il
[1148] a la
[1149] cerchj
[1150] figliuolo;
[1151] partir.
[1152] ne l’anima
[1153] le angosce
[1154] A la
[1155] de l’uomo
[1156] sangue
[1157] dei
[1158] l’ebro
[1159] Ne le offese
[1160] gioja
[1161] dinanzi
[1162] potente
[1163] qual
[1164] Su la
[1165] mandò,
[1166] in sul
[1167] da l’ardue
[1168] fra
[1169] dei
[1170] Sì
[1171] su la
[1172] dei
[1173] dei buoni
[1174] sien
[1175] da l’un
[1176] De l’avello
[1177] inebriato
[1178] a la
[1179] da la
[1180] dipartita
[1181] Da la
[1182] vallea
[1183] te.
[1184] Fra
[1185] l’Emanuele!
[1186] de l’inimico,
[1187] Sole,
[1188] Che parlando
[1189] A la
[1190] Quando assorto
[1191] pensiero
[1192] de gli
[1193] l’alba,
[1194] viso
[1195] in su l’Ucciso;
[1196] pendice;
[1197] A la
[1198] coi pallj
[1199] de la
[1200] Fra
[1201] dei
[1202] Da l’altar
[1203] De la
[1204] imbandigioni
[1205] a l’umil
[1206] tripudj
[1207] De la gioja
[1208] sacri;
[1209] alacri
[1210] Ne la strada de l’errore?
[1211] Chi s’affida nel Signore
[1212] dei
[1213] senza le virgole.
[1214] preghi,
[1215] sperano.
[1216] Tu
[1217] dei
[1218] monte;
[1219] varii
[1220] suscita,
[1221] lido;
[1222] Spose, cui
[1223] ascoso,
[1224] Ai
[1225] D’Ibernia
[1226] Ma d’un cor solo in Te,
[1227] t’imploriam!
[1228] Ai
[1229] t’ignora:
[1230] Il Vincitor mercè.
[1231] pensier,
[1232] virtude:
[1233] su le umili
[1234] t’imploriam!
[1235] Nei
[1236] infelice,
[1237] ciglia;
[1238] copia
[1239] dei
[1240] gioje
[1241] dei
[1242] a la
[1243] lodando
[1244] de gl’intenti
[1245] a la
[1246] Obbediente
[1247] a l’amor
[1248] a la
[1249] De le
[1250] suona
[1251] beata:
[1252] li
[1253] beata:
[1254] Te
[1255] bronzo,
[1256] Ne le
[1257] de la
[1258] a Te
[1259] lagrima
[1260] te
[1261] de la
[1262] Te,
[1263] de gl’imi
[1264] dei
[1265] obblianza
[1266] ne l’estremo
[1267] con
[1268] Vati
[1269] Sovra
[1270] Nella prima stampa, invece delle due ultime strofe, ve n’è una sola; ch’è questa:
a) Parvulus enim natus est nobis, et Filius datus est nobis. Is. IX, 6.
b) Et fons de domo Domini egredietur, et irrigabit torrentem spinarum. Ioel. III, 18.
c) Filius meus es tu, ego hodie genui te. Psalm. II, 7.
d) Et tu, Bethlehem Ephrata, parvulus es in millibus Iuda: ex te mihi egredietur qui sit dominator in Israel, et egressus eius ab initio, a diebus æternitatis. Mich. V, 2.
e) Et pannis eum involvit, et reclinavit eum in præsepio. Luc. II, 7.
f) Et pastores erant in regione eadem vigilantes... Et ecce angelus Domini stetit iuxta illos, et claritas Dei circumfulsit illos... Et subito facta est cum angelo multitudo militiæ cælestis laudantium Deum, et dicentium: Gloria in altissimis Deo... Luc. II, 8, 9, 13, 14.
g) Et ascendet sicut virgultum coram eo, et sicut radix de terra sitienti... Despectum et novissimum vivorum, virum dolorum, et scientem infirmitatem; et quasi absconditus vultus eius... et nos putavimus eum quasi leprosum et percussum a Deo. Is. LIII, 2, 3, 4.
h) Posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum. Is. LIII, 6.
i) Peccavi, tradens sanguinem iustum. Matth. XXVII, 4.
j) Sanguis eius super nos et super filios nostros. Matth. XXVII, 25.
k) Omnes nos quasi oves erravimus. Is. LIII, 6.
l) Qui suscitavit eum a mortuis. Paul. ad Galat. I, 1.
m) Et excitatus est tanquam dormiens Dominus, tanquam potens crapulatus a vino. Psalm. LXXVII, 65.
n) Et orietur vobis timentibus nomen meum Sol iustitiæ. Malach. IV, 2.
o) Et veniet Desideratus cunctis gentibus. Agg. II, 8.
p) Ab exitu sermonis, ut iterum ædificetur Ierusalem, usque ad Christum ducem, hebdomades septem, et hebdomades sexaginta duæ erunt.... Et post hebdomades sexaginta duas occidetur Christus, et non erit eius populus qui eum negaturus est. Dan. XI, 25, 26.
q) Vespere autem sabbati, quæ lucescit in prima sabbati, venit Maria Magdalene et altera Maria videre sepulchrum.—Et ecce terræmotus factus est magnus. Angelus enim Domini descendit de cœlo: et accedens revolvit lapidem, et sedebat super eum.—Erat autem aspectus eius sicut fulgur, et vestimentum eius sicut nix.—Præ timore autem eius exterriti sunt custodes, et facti sunt velut mortui.—Respondens autem angelus dixit mulieribus:...—Non est hic; surrexit enim. Matth. XXVIII, 1-6.
r) Christus Dominus surrexit. La Chiesa.
s) Regina cœli lætare, quia quem meruisti portare, resurrexit sicut dixit: ora pro nobis Deum. La Chiesa.
t) Et dominabitur a mari usque ad mare. Ps. LXXI, 8.—[Cfr. nel Cinque maggio: «Scoppiò da Scilla al Tanai, Dall’uno all’altro mar».—Sch.]
u) Altare de terra facietis mihi. Exod. XX, 24.
v) Non potest civitas abscondi supra montem posita. Matth. V, 14.
z) Beati pauperes, quia vestrum est regnum Dei. Luc. VI, 20.
A) Exurgens autem Maria in diebus illis abiit in montana... Et intravit in domum Zachariæ, et salutavit Elisabeth. Luc. I, 39, 40.
B) Ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Luc. I, 48.
C) Ecce virgo concipiet, et pariet Filium. Is. VII, 14.—Ipsa conteret caput tuum. Gen. III, 15.
D) Electa ut sol, terribilis ut castrorum acies ordinata. Cantic. VI, 9.
Nel manoscritto (cfr. Opere Inedite o rare di A. M. pubblicate da R. Bonghi; vol. I, p. 173 ss.) v’è, in principio, la data: 13 luglio 1813: in fine, 29 settembre 1813, e tra molti sgorbi e svolazzi: Explicit infeliciter.
Tra le molte strofe rifatte e rifiutate, credo che metta conto di riferire solo le quattro che, nel primo getto, tenevan luogo delle due: L’Angel del cielo..... e E intorno a lui..... Eccole:
Il Bonghi annota (p. 177): «È di tutti quello che ha meno strofe rifatte; e più varianti non cancellate delle strofe attuali.—Ha in principio la data: Incipit 3 marzo 1814, però non ne furono scritte che le due prime strofe, e smise; innanzi alla terza, è scritto: Ripreso il giorno 11 luglio, e dopo la strofa terza e quarta, levò mano da capo; innanzi alla quinta, è scritto: 1815, ripreso 5 gennajo, e scrisse le strofe quinta, sesta, settima, ottava: innanzi alla nona, è posta la data: 26 settembre; innanzi alla decima, 28 settembre; in ultimo: Explicit ottobre 1815».
In principio è la data: Aprile 1812; in fine: Explicit 23 giugno. Da correggersi. «Però», osserva il Bonghi (p. 165), «non si vede che lo correggesse: l’inno è stato stampato come qui è scritto».
La strofa: Ai mirabili Veggenti..... fu più volte tentata.
La gioia dei fanciulli, che ora è accennata nella sola seconda metà della strofa: O fratelli, il santo rito..., era prima espressa in un’intera strofa, cui manca o il penultimo o l’antipenultimo verso.
Nel manoscritto, il principio è scritto in due forme molto diverse. Innanzi alla prima, che va sino alla decima strofa, è la data 21 giugno 1817. Il Manzoni l’ha abbandonata, ma non cancellata. Le prime tre strofe son molto tormentate di varianti, e rifatte per intero due volte, prima di lasciare da parte. Sonavano così (la prima stesura della prima strofa non ha ancora a posto i versi tronchi):
Seguivano poi tre altre strofe, qua e là variate ma non rifatte. Esse dicono:
La settima strofa appar ritentata più volte:
E poi ancora tre strofe:
Innanzi alla nuova forma è scritto: Ricominciato il 17 aprile 1819; e in fine: 2 ottobre. «Nessun altro inno ha più pentimenti, cancellature, tentativi di questo», scrive il Bonghi, che vi si sofferma. Io mi limiterò a notare che, dopo le prime due strofe, che gli fluirono[479] dalla penna come poi le stampò (salvo che, in luogo de’ vv. 3 e 4 della 1ª, aveva prima scritto:
il Manzoni ritentò d’incastrare la tenera e cara similitudine, intorno a cui aveva tanto, e sì vanamente, lavorato nella prima stesura (str. 7ª e 8ª); ma anche questa volta dovè abbandonare per disperata l’impresa. Ecco i più notevoli tra i nuovi rimaneggiamenti:
La magnifica strofa: Come la luce rapida... è costata molto lavoro. Da prima il Manzoni scrisse:
Poi, cercò d’esprimere l’effetto della discesa dello Spirito sui popoli con una similitudine, che, ritentata, lasciò da ultimo a mezza strada:
Poi, si rifece alla prima forma (cfr. str. 6ª del primissimo getto):
Poi, finalmente, spuntò la similitudine della luce; che si presentò così:
E seguitava:
A mezzo della strofa seguente, Adorator degl’idoli..., ripigliava:
Dopo il verso Nel suo dolor pensò?..., ripigliava:
Ma qui gli fallì la lena. Vi scrisse più tardi: Ripreso di nuovo il 26 settembre 1822. Ricopiò la strofa: Perchè, baciando i pargoli.... e ad essa fece seguire le altre, di poco variate.
In principio ha la data: 9 novembre 1812; in fine: 19 aprile 1813. Nel manoscritto, in calce della prima pagina, dov’è la prima strofa (il cui quarto verso suona: «D’una cognata annosa»), è la seguente osservazione (cfr. più sù, i Materiali estetici):
All’ingegno umano pajono belle quelle cose dell’arte che hanno analogia con esso. Le regole sono i modi già trovati e posti in uso per arrivare a questa analogia. Coloro che giudicano secondo le regole, intendono principalmente a scoprire l’analogia dell’opera colle regole, e così l’animo loro preoccupato non può sentire se vi sia quell’altra prima analogia. Questi giudizj sono imperfetti per molte ragioni; e le principali sono: che le regole non comprendono tutte le possibili analogie, e che si può errare nell’applicazione di esse anche buone. Il vocabolo pedantesco pare significhi tali maniere di giudizj.
L’Inno sembra avesse da principio questo diverso cominciamento:
Qui è scritto Incipit, e quella che poi fu la prima strofa. Dopo la strofa: O Vergine, o Signora..., seguiva quest’altra:
La strofa: In che lande selvagge.... fu tentata più volte.
La strofa: La femminetta.... fu cominciata così:
poi postillò: «Et quae desperat tractata nitescere posse, relinquit»; ma, per buona fortuna, ci si rimise.
In margine, scrisse finalmente i due versi come ora si leggono.
La signora Luisa Collet, essendo venuta a Milano sulla fine del 1859, presentò al Manzoni una copia del suo poemetto La femme. Il poeta, rivedendola, le disse: «Voi sentite profondamente la natura. Ho trovato nel vostro poema della donna, e particolarmente nella Paysanne, dei passi che me l’hanno fatto capire. C’è in quel racconto un paragone tra le anime le cui virtù rimangono nascoste, e certe bellezze della montagna dischiuse soltanto allo sguardo di Dio, che mi ha colpito. Io pure ho fatto un avvicinamento dello stesso genere, in una poesia che non ho poi pubblicata».
I versi della signora Collet, cui il Manzoni pare alludesse, son questi:
Più tardi, quando la signora Collet era per lasciare Milano, il Manzoni le diresse la lettera seguente:
Madame, des vers comme ceux que vous avez eu la bonté de m’envoyer, et la bonté encore plus grande de m’adresser, m’auraient dans un autre temps donné l’envie irrésistible, quoique audacieuse, d’y répondre par d’autres vers; mais à présent il ne me reste plus pour la poésie que la faculté de la goûter; je dis cette poésie qui, sortant du cœur, passe par une imagination brillante et féconde. Et puisque sur ce sujet vous pourriez ne pas entendre à demi-mot, je suis forcé d’ajouter que c’est de votre poésie que j’entends[487] parler. Je dois encore ajouter que j’aurais peut-être exprimé ce sentiment d’un cœur plus libre, avant de connaître les louanges qu’une indulgence excessive vous a dictées, et contre lesquelles je proteste du fond de ma conscience.
Vous trouverez pourtant des vers, madame, en tournant la page; car je ne puis résister à la tentation de vous transcrire ceux dont j’ai eu l’honneur de vous parler, et dans lesquels j’ai eu le bonheur de me rencontrer avec vous.
C’était dans un hymne commencé trop tard, et que j’ai laissé inachevé, sitôt que je me suis aperçu que ce n’était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m’essoufflais à courir après elle. J’y voulais répondre à ceux qui demandent quel mérite on peut trouver aux vertus, stériles pour la société, des pieux solitaires. Ce n’est que dans les deux dernières strophes que vous trouverez, je l’espère, madame, quelques-unes de vos pensées et de vos images, quoique moins vives; je transcris aussi les deux premières, pour l’intelligence de l’ensemble.
Ed ecco i versi:
La signora Collet li pubblicò nella sua Italie des Italiens (Paris, Dentu, 1862; vol. I, pag. 376). Li ripubblicarono poi: A. Stoppani, I primi anni di A. Manzoni, Milano, 1874, pag. 243-5; E. Bonghi, Opere ined. o rare, I, 201-3; G. Sforza, Epistolario di A. Manzoni, Milano, Carrara, 1883, II, 283.
Il Bonghi annotò: «Quale fosse il titolo dell’Inno cui questi versi appartengono, non è detto da lui; ma un suo amico, che ne ricorda un’altra strofa, crede che così queste trascritte dal Manzoni, come quella tenuta a mente da lui, appartengano ad un inno a’ Santi. Che sarebbe quello che nell’autografo degl’Inni ha titolo Ognissanti, ma di cui ivi non esistono se non i motti latini, che vi sarebbero stati scritti per epigrafe»:
La strofa, tenuta a mente dall’amico del Manzoni cui accenna il Bonghi, è questa:
Scherillo.
NOTA.—La prima edizione a stampa del Cinque maggio non fu fatta dal poeta, ma comparve, non senza mende e inesattezze (perfino nel frontispizio!), a Lugano, sulla fine del 1822, con la versione latina di Erifante Eritense (al secolo Pietro Soletti di Oderzo). Il traduttore vi premise la seguente letterina ricevuta dal Manzoni, con la data di Milano, 20 giugno 1822:
«Chiarissimo signore, Le debbo doppj ringraziamenti, e pel pensiero ch’Ella ha avuto d’abbellire in versi latini quella mia Ode Ei fu, e per la gentilezza con la quale si è piaciuto di comunicarmi la sua bella versione. La prego di gradire le mie sincere congratulazioni: non posso esprimerle il sentimento da me provato alla replicata lettura della sua composizione; questo sentimento è stato il diletto che fanno nascere i bei versi. La copia dell’Ode da Lei comunicatami differisce dal testo in qualche piccola cosa. Le noto qui sotto le poche differenze per obbedirla, non già perchè Ella cangi nulla alla versione, la quale sta pur bene com’è. Rimango pieno di riconoscenza per l’onore ch’Ella m’ha fatto, e col più sincero ossequio.
Suo umiliss. devot. servitore
Alessandro Manzoni».
Contemporaneamente, e magari qualche giorno prima, l’Ode fu pubblicata, insieme con la traduzione tedesca del Goethe, nel vol. IV, fasc. 1º, pag. 182-88, del giornale Ueber Kunst und Alterthum, ottobre o novembre del 1822. Il Goethe lesse e tradusse, nella str. E ripensò..., percorse valli invece di percossi valli. Quella sua traduzione egli la recitò alla Corte di Weimar l’8 agosto 1822. (Cfr. nella Cultura del Bonghi, fasc, del 1º febbraio 1883, una lettera di H. Simon di Berlino).
Il consigliere Grüner narra in una sua lettera d’aver sentito leggere dal Goethe stesso il testo dell’ode manzoniana. Il gran poeta, egli scrive, «era quasi trasfigurato e commosso, i suoi occhi mandavano scintille, la precisa accentazione di ogni parola e insieme l’espressione m’incantavano; e quando ebbe finito, ci fu un momento di pausa. Ci guardammo a vicenda, e leggemmo il nostro entusiasmo l’uno negli occhi dell’altro. Non è vero, riprese Goethe,[492] non è vero che Manzoni è un gran poeta? Io vorrei, gli risposi, che Manzoni fosse stato presente a questa declamazione: egli avrebbe avuto un ampio compenso dell’opera sua». (Cfr. L. Senigaglia, Relazioni di Goethe e di Manzoni, nella Rivista Contemporanea, Firenze, 1888).
Annota il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 15-16): «Certo che il Manzoni non la pubblicò lui. Dopo averla scritta, la mandò alla Censura per ottenerne licenza, e questa gliela negò. Ma egli, come raccontava, aveva usato un piccolo sotterfugio: alla Censura ne aveva mandato due copie, facendo conto che qualcuno degl’impiegati di polizia n’avrebbe trafugata una, e così la poesia si sarebbe divulgata. Il che appunto accadde, e sin dal giorno dopo tutta Milano la leggeva, senza che all’autore se ne potesse far colpa».—Dalle Carte segrete della polizia austriaca (II, 317) si apprende come, ancora nel 1823, «la polizia di Vicenza avvertisse essersi sparsa un’ode in morte di Napoleone, della quale sospettavasi autore un tal Manzoni di Verona, mentre poi un poliziotto letterato, il Lancetti, ne asseriva autore il Monti!». (Cfr. D’Ancona, Poesie di A. M., Firenze, Barbèra, 1892, p. 88).
Riproduco il testo dell’edizione autentica delle Opere varie, 1845, ponendo a pie’ di pagina le varianti dell’edizione di Jena 1827. Per alcuni emendamenti alle copie che correvano manoscritte, cfr. la lettera del Manzoni al Pagani, del 15 novembre 1821; e per tutto il resto, D’Ovidio, Discussioni manzoniane, pag. 198 ss.
L’ode Marzo 1821 e il frammento Il proclama di Rimini furono la prima volta stampati in un opuscoletto di 15 pagine, a Milano, tipografia di Giuseppe Redaelli, nel 1848, col titolo: Pochi versi | inediti | di Alessandro Manzoni, Nel verso della pagina di frontispizio è questa avvertenza: «Edizione messa sotto la tutela delle veglianti leggi e convenzioni, e che si vende una lira italiana, in favore dei profughi veneti, per cura della Commissione Governativa delle offerte per la causa nazionale.—NB. Si riterranno contraffatte tutte le copie che non portassero il marchio della Commissione suddetta». Difatto, sul frontispizio della copia che possiedo, c’è un bollo rotondo, con dentro scrittovi: Gov.º Provv.º | Commissione | delle offerte.—In quel medesimo anno fortunoso, furon di quei versi fatte altre tre edizioni, a Milano «luglio 1848», a Venezia e a Livorno.—Di poi, nel 1860, il Manzoni li fece ristampare coi tipi e nel sesto dell’edizione delle Opere varie del 1845, continuando la numerazione di queste, e ripetendone, completato, l’indice. Nella copia che ho tra mani, essi fanno corpo col resto, senza che appaia traccia visibile del diverso anno della stampa.
Riproduco quest’ultimo testo, riscontrandolo con quello dell’opuscoletto del 1848, quasi in tutto identico.
Scherillo.
[1272] In morte di Napoleone (Il cinque maggio).
[1273] Ei fu:
[1274] sta;
[1275] fatale,
[1276] sfolgorante
[1277] soglio
[1278] tacque,
[1279] raggio,
[1280] Mansanàre
[1281] Gioja
[1282] Ferve
[1283] sperar,
[1284] Ei sparve
[1285] scese;
[1286] Ei ripensò
[1287] obbedir.
[1288] E l’avviò sui
[1289] desiderj
[1290] Ov’è
[1291] Bella, immortal, benefica
[1292] avvezza,
[1293] questo:
[1294] Lui
ALLA ILLUSTRE MEMORIA
DI
TEODORO KŒRNER[1295]
POETA E SOLDATO
DELLA INDIPENDENZA GERMANICA
MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA
IL GIORNO XVIII D’OTTOBRE MDCCCXIII
NOME CARO A TUTTI I POPOLI
CHE COMBATTONO PER DIFENDERE
O PER RICONQUISTARE
UNA PATRIA.
APRILE 1815.
NOTA.—Il sonetto, ove il Manzoni fece il ritratto di sè stesso, è del 1801. Corse manoscritto tra le mani degli amici e ammiratori del Manzoni, e non fu stampato se non dopo la sua morte. Nella Introduzione al vol. I di queste Opere, ne riproduciamo l’autografo.
Il sonetto al Lomonaco fu stampato alla pag. 4 del I volume dell’opera: Vite degli eccellenti Italiani, composte per Francesco Lomonaco, Italia, 1802, con l’intestazione: «A Francesco Lomonaco. Sonetto per la Vita di Dante, di Alessandro Manzoni, giovine pieno di poetico ingegno ed amicissimo dell’autore».—Mi attengo a questo testo.
L’idillio Adda fu mandato dal Manzoni al Monti con una lettera del 15 settembre 1803. Fu stampato nel 1875, postumo.
Gli sciolti In morte di Carlo Imbonati furono la prima volta stampati a Parigi, coi tipi di P. Didot il maggiore, nel 1806. Alla pag. 15, dove la poesia finisce, è detto: «Tirato a 100 esemplari». Questa è l’unica edizione dell’autore; ed è quella che seguiamo.
Gli sciolti A Parteneide son della fine del 1807 e il principio del 1808. Rispondono a un’Ode del poeta danese Jens Baggesen, intitolata Parteneide a Manzoni, che il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 136-7) dà tradotta. Un brano di questi versi stampò prima il Sainte-Beuve, nel saggio sul Fauriel, il 1845 (Portraits contemporains, Paris, 1889, vol. IV, pag. 200); li stamparon poi tutti il De Gubernatis (Il Manzoni e il Fauriel, p. 40-2) e il Bonghi.
L’Urania fu la prima, e l’unica, volta pubblicata dal poeta in Milano, dalla Stamperia Reale, nel 1809. Su questa è esemplata la presente ristampa.
L’Ira d’Apollo fu pubblicata la prima volta nell’Eco, giornale di scienze, lettere, arti, commercio e teatri, di lunedì 16 novembre 1829 (Milano, a. II, n.º 137). Vi furon premesse queste parole: «Allorchè si cominciò a quistionare tra i romantici e i classicisti, certo Grisostomo pubblicò una lettera semiseria, in cui fra le altre cose volle escludere dalla poesia la mitologia greca. Mentre molti gridavano contro quella temerità, si vide venire, senza saper d’onde, una canzone che fu molto lodata. Eccola, come fu rinvenuta fra le carte di un galantuomo che morì tre settimane sono». Le varianti che dà il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 153 ss.) son molte; ma mi è parso superfluo ridarle qui.
I versi pel ritratto del Monti furon la prima volta pubblicati dal Tommaseo, nell’edizione fiorentina delle Opere del Manzoni, presso i fratelli Batelli, 1828-29.
I versi latini Volucres furono stampati nella Perseveranza del 29 maggio 1868; con un’avvertenza in cui, tra altro, era detto averli il Manzoni «fatti passeggiando, come suole ogni giorno, nei Giardini pubblici. Gli uccelli, chiusi nella gabbia del Bignami, hanno risvegliato, nell’animo verde e giovanile di quel venerando canuto, il pensiero e il desiderio della libertà».
Pei due distici al prof. Michele Ferrucci, dell’Università di Pisa, vedi la noterella del Bonghi (I, 294).
SONETTO.
[1300] Di riposo e di gloria insiem desio.
IDILLIO.
Ch’ambo i vestigi tuoi cerchiata piangendo.
Casa.
[1301] Il Fauriel, che aveva tradotto in prosa francese il poema idillico in dodici canti, e in tedesco, del danese Baggesen, «Parthénäis». La traduzione fu pubblicata solo più tardi, nel 1810.
[1302] Postilla del Manzoni: «Quando ai due illustri amici [il Baggesen ed il Fauriel] non pajano affatto cattivi, mi studierò di farli ancor men cattivi, avendo già notate varie cose da levarsi, e pensatene alcune che si potrebbero più opportunamente aggiungere».
POEMETTO.
[1303] Parlano gli Uccelli chiusi nelle gabbie dei Giardini pubblici di Milano, alle Anitre diguazzanti nel laghetto.
[1304] Questi versi rispondono a quelli che il Ferrucci, mutuandoli da Orazio, scrisse su un esemplare dei suoi distici latini a stampa, che mandò al Manzoni:
Dedica a Ruggiero Bonghi | pag. | V |
Il decennio dell’operosità poetica di Alessandro Manzoni, studio di Michele Scherillo | » | IX |
Avvertenza per la presente edizione, di M. Scherillo | CLXIII | |
Al Lettore (prefazione del Manzoni alla sua edizione delle Opere varie, Milano, 1845) | » | 1 |
Adelchi, tragedia | » | 3 |
Notizie storiche | » | 7 |
Tragedia | » | 18 |
Appendice—Il primo getto dell’Adelchi | » | 119 |
Il Conte Di Carmagnola, tragedia | » | 149 |
Prefazione | » | 153 |
Notizie storiche | » | 165 |
Tragedia | » | 178 |
Appendice—Il primo getto del Conte di Carmagnola | » | 263 |
Lettre à m. C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie | » | 293 |
Avvertenza alla Lettre à m. C***, di M. Scherillo | » | 295 |
Lettre à m. C***, ecc. | » | 309 |
Appendice—Materiali estetici | » | 385 |
(Dei due sistemi tragici moderni più conosciuti, pag. 388.—Della Unità di Tempo, pag. 414). | ||
Della moralità delle opere tragiche | » | 429 |
(Di alcuni oppugnatori del Teatro, p. 429.—Traccia del Discorso, pag. 433.—Dello scopo morale e della perfezione estetica della Tragedia, pag. 436). | ||
Sopra una staffilata del Monti ai Romantici (Dialogo con un amico) | » | 438 |
[540]Inni sacri | » | 443 |
Il Natale | » | 445 |
La Passione | » | 449 |
La Risurrezione | » | 453 |
La Pentecoste | » | 457 |
Il nome di Maria | » | 462 |
Strofe per una prima Comunione | » | 466 |
Appendice—Il primo getto degl’Inni sacri | » | 471 |
(Il Natale, pag. 473.—La Passione, pag. 474.—La Risurrezione, pag. 474.—La Pentecoste, pag. 475.—Il nome di Maria, pag. 484). | ||
Frammento d’un Inno (A Lui che nell’erba del campo) | » | 486 |
Odi | » | 489 |
Il Cinque maggio | » | 493 |
Marzo 1821 | » | 497 |
Il Proclama di Rimini (frammento di canzone) | » | 501 |
Poesie non accolte dall’autore nella sua edizione delle “opere varie„ | » | 503 |
Ritratto di sè stesso (sonetto) | » | 507 |
A Francesco Lomonaco, per la Vita di Dante (sonetto) | » | 508 |
Adda (idillio) | » | 509 |
In morte di Carlo Imbonati (versi sciolti) | » | 512 |
A Parteneide (versi sciolti) | » | 519 |
Urania, (poemetto) | » | 523 |
L’ira d’Apollo per la Lettera Semiseria di Grisostomo (ode) | » | 533 |
Versi da scriversi sotto il ritratto di Vincenzo Monti | » | 536 |
Volucres (epigramma latino) | » | 537 |
Ad Michaëlem Ferrucium (distici latini) | » | 538 |
NB.—Alla pag. 119 è occorso uno svarione tipografico. Il visto della Censura per l’“Adelchi„ ha la data 2 maggio 1822, e non, com’è facile intendere, 1882!