Title: Lucrezia Borgia secondo documenti e carteggi del tempo
Author: Ferdinand Gregorovius
Translator: Raffaele Mariano
Release date: July 27, 2020 [eBook #62773]
Language: Italian
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Digital Library)
F. GREGOROVIUS.
LUCREZIA BORGIA
SECONDO DOCUMENTI E CARTEGGI DEL TEMPO.
TRADUZIONE DAL TEDESCO
PER
RAFFAELE MARIANO.
3ª Ristampa.
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
—
1885.
Proprietà degli Editori.
[i]
Onorevole Signor Duca,
A dedicarle questo scritto mi mossero non solo eventi storici trattati in esso, ma altresì personali relazioni. Ed a Lei è piaciuto accogliere gentilmente ambo i motivi.
In questo libro Ella vedrà comparire antenati dell'antica e celebre casa sua, ma non in prospera luce. I Borgia sono stati nemici capitali dei Gaetani. E gran mercè per costoro, se schivarono quella rovina, che Alessandro VI e il suo formidabile figliuolo avevan loro giurata. Sermoneta con tutti i vistosi beni, appartenuti da tempo antichissimo alla casa Gaetani, furon dai Borgia rapiti. E per mano degli stessi gli avi suoi ebbero morte o dovettero prendere la via dell'esilio. Signora di Sermoneta divenne Donna Lucrezia. E poscia il figliuolo di lei, Rodrigo d'Aragona, fu, come Duca, investito delle possessioni dei Gaetani.
Da quel tempo sono oramai trascorsi secoli; ond'Ella può perdonare le prepotenti manomissioni de' diritti della Casa sua ad una donna bella e sventurata. Già la Bolla di Giulio II, ch'Ella, anche per riguardo alla perfezione [ii] calligrafica, serba qual gioiello nell'Archivio della famiglia, valse a ricostituir ben presto la casa dei Gaetani. E da quel tempo questa conservò sempre il retaggio de' padri gloriosi. E si deve poi a Lei, se gli aviti possedimenti, grazie ad un governo esemplare, siano oggidì tornati di nuovo in fiore.
Il persistere delle tradizioni storiche rispetto alle cose e agli uomini esercita in Roma indicibile attrattiva su tutti i cultori della storia. Su me ha in particolar modo avuto influenza potentissima l'osservare come perdurino caratteri proprii di un passato storico in famiglie romane antichissime, ma che tuttora sussistono, che ancora oggi sono vegete e floride; e l'aver potuto entrare con queste in personali relazioni. I Colonna, gli Orsini e i Gaetani si mostraron meco sempre benevoli. E sempre queste tre celeberrime famiglie mi furono larghe di ogni desiderabile agevolezza. Ed Ella, signor Duca, fu primo in Roma ad aprirmi senza riserva gli archivii della Casa sua. Poi per lunghi anni Don Vincenzo Colonna, del quale serberò eterna memoria, mi concesse pari favore, sino a che l'onorando vegliardo non morì nel Castello di Marino.
I Gaetani, gli Orsini e i Colonna s'erano ritirati da un pezzo dal teatro della storia di Roma. I primi anzi se ne allontanarono molto più presto degli altri. Venne però giorno, in cui Ella, illustre Duca, doveva far rientrare la sua antica stirpe nella storia della città. Fu il giorno, per quella il più onorevole, che, caduto il secolare dominio del Papato, Ella, a capo del Governo cittadino, depose nelle mani di Re Vittorio Emanuele, a Firenze, l'atto di dedizione del popolo romano. Momento [iii] memorando, che chiuse per sempre un lungo periodo della vita della città, iniziandone uno novello! Esso vivrà eterno nella storia de' Gaetani accoppiato al nome suo, e renderà quest'ultimo indelebile dalla memoria de' Romani.
Di quell'avvenimento in Roma io non fui testimone. Pure, parlandone, mi torna in mente tutto quel moto e quella progressiva attività pubblica e privata, alla quale mi fu dato assistere per lunga serie d'anni. Devo a Lei e alla liberale Casa sua l'esser rimasto per sì gran tempo nel più vivo contatto con la storia di Roma. E di tutte le relazioni, che ebbi l'onore di stabilire con insigni famiglie d'Italia, quelle che alla sua mi legano, sono, senza dubbio, le più antiche e le più personali.
Vidi già venir su i suoi nobili figliuoli; e veggo ora con gioia la schiera de' piccoli nipoti, che intorno a Lei, nuovo fondatore della famiglia, comincia a crescere rigogliosa. Possano prosperare, e perpetuare ancora per lunga e felice età la sua antichissima schiatta, e nel più lontano avvenire arricchirla ancora di geste e nomi d'uomini e donne nobili e famosi.
Con tali voti Le offro questo scritto ornato del nome suo. So che Ella lo accoglierà con bontà, che non sarà da meno dell'animo semplice e senza pretensione, col quale io glielo presento. In verità io intendo dare per esso un segno da me desiderato alla casa Gaetani; segno di riconoscente ricordanza, di profonda venerazione per Lei, di devozione grande che mai sempre mi legherà all'illustre famiglia sua.
Roma, 9 marzo 1874.
Gregorovius.
[v]
Lucrezia Borgia è la figura della più sciagurata delle donne nella storia moderna. È forse tale, perchè fu insieme la più colpevole? Ovvero le tocca soltanto portare il peso dell'esecrazione, che il mondo per errore le ha inflitto? Perchè il mondo, in verità, si diletta dello spettacolo di virtù e di colpe in persone tipiche, appartengano esse al mito o alla storia.
Quelle domande aspettano ancora una risposta.
I Borgia stimoleranno per lungo tempo lo storico e lo psicologo alla ricerca. Un amico di molto ingegno mi domandava un giorno, come accadesse che tutto quanto si riferisce ad Alessandro VI e a Cesare e a Lucrezia Borgia, e ogni fatto della vita loro e ogni lettera nuovamente scoperta dell'uno o dell'altro di essi, ecciti la curiosità nostra più vivamente che non facciano simili cose rispetto ad altri individui, storicamente anche più importanti. Io non conosco spiegazione migliore di questa: la Chiesa di Cristo è pe' Borgia il loro fondo stabile; su questo sorgono e crescono; su questo si mantengono; e l'acuta opposizione della natura loro col concetto del santo gl'impronta di un carattere demoniaco. I Borgia sono la satira di una forma o di un concetto grande del mondo ecclesiastico, che essi abbattono [vi] o negano. Le basi, sulle quali s'elevano le loro figure, spiccano in alto, e i visi loro sono pur sempre tocchi dalla luce dell'ideale cristiano. Mediante questa noi li vediamo e riconosciamo. L'impressione morale delle azioni loro a noi non giunge che attraverso quel mezzo, tutto penetrato di concetti religiosi. Senza ciò, i Borgia, posti in loco profano, scenderebbero al livello di molti altri uomini della stessa tempra, e presto finirebbero per essere non più che singoli nomi di una grande classe.
Di Alessandro VI e di Cesare v'è una storia: di Lucrezia Borgia invece abbiamo appena qualcosa più di una leggenda. E, stando a questa, essa non è che una Menade, l'ampollina del veleno in una mano, nell'altra il pugnale: una Furia, con insieme i lineamenti belli e dolcissimi di una Grazia.
Vittor Hugo l'ha rappresentata qual mostro morale. E, come tale, fa ancora oggidì il giro de' teatri d'Europa. E così pure la concepisce tuttora l'immaginazione degli uomini in generale. Chi ami la vera poesia condannerà, come un grottesco traviamento dell'arte poetica, la Lucrezia Borgia, il dramma mostruoso del romantico poeta. Quanto poi al conoscitore della storia, questi, di certo, potrà sorriderne, non senza, per altro, scusare al tempo stesso lo spiritoso poeta della ignoranza e della credulità di lui ad una tradizione ammessa dal Guicciardini in poi.
Il Roscoe aveva già posto in dubbio siffatta tradizione e tentato confutarla. L'apologia scritta da lui venne dagl'italiani, per amor di patria, accolta con grato animo. E fra loro stessi s'è andato propagando negl'ultimi tempi un moto di reazione contro quella comune maniera di rappresentarsi la Lucrezia.
La miglior critica della leggenda non poteva esser [vii] fatta che ne' luoghi, ove sussiste il più gran numero di memorie e documenti relativi alla vita di lei: Roma e Ferrara; poi Modena e Mantova, ove trovasi nell'una l'Archivio degli Este, nell'altra quello dei Gonzaga. Alcuni scritti d'occasione mostrarono, che la questione sollevata continuava ad essere dibattuta ed esigeva una soluzione.
Ai tempi nostri scriveva primieramente di nuovo la storia de' Borgia Domenico Cerri nel suo: Borgia, ossia Alessandro VI papa, e i suoi contemporanei, Torino, 1858. Un anno dopo, Bernardo Gatti pubblicava in Milano le lettere di Lucrezia al Bembo. Nel 1866 il marchese G. Campori di Modena diè nel fascicolo di settembre della Nuova Antologia un breve scritto: Una vittima della storia — Lucrezia Borgia. E nel 1867 venne alla luce quello di monsignor Antonelli ferrarese: Lucrezia Borgia in Ferrara, sposa a Don Alfonso d'Este — Memorie storiche. Ed un altro opuscolo: Lucrezia Borgia duchessa di Ferrara, Milano, 1869, fu quindi pubblicato da Giovanni Zucchetti di Mantova. Intendimento di tutti questi autori fu di schiarire storicamente la leggenda di Lucrezia, e di fare un'apologia della sventurata donna.
Anche altri non Italiani, sopra tutto Francesi e Inglesi, cooperarono all'intento medesimo. Armando Baschet, al quale dobbiamo alcune meritevoli pubblicazioni diplomatiche, annunziava nel suo Aldo Manuzio, Lettres et Documents, 1475-1515, Venezia, 1867, che da anni preparava un'opera sulla vita di madonna Lucrezia Borgia, e che all'uopo aveva raccolto grande copia di documenti. Sciaguratamente il lavoro di codesto esimio conoscitore di parecchi Archivii d'Italia non è sin qui apparso; cosa che per mia parte deploro, senza però rinunziare alla speranza che il Baschet sciolga un giorno la sua promessa.
[viii]
Frattanto vedeva la luce a Londra nel 1869 un libro, il primo abbastanza esteso, sull'argomento: Lucrezia Borgia Duchess of Ferrara, a Biography illustrated by rare and unpublished documents, di Guglielmo Gilbert. Disgraziatamente il manco di scienza e di metodo diminuisce il valore di questo libro, utile, del resto, che, come discendente inglese del libro del Roscoe, richiamò su di sè una certa attenzione.
Il torrente delle apologie, fatto oramai fiumana, produsse in Francia una delle più architettate manipolazioni che siano mai sbocciate nel campo della letteratura storica. L'Ollivier, un Domenicano, pubblicò nel 1870 la prima parte di un libro: Le pape Alexandre VI et les Borgia. È l'estremo opposto fantastico del dramma di Vittor Hugo. L'Hugo maltrattò la storia a fin di ottenere un mostruoso morale per l'effetto scenico; non la falsò meno l'Ollivier con l'intenzione contraria affatto. Se non che i tempi, in che i frati Domenicani imponevano al mondo i loro favolosi libri storici, ormai non è più possibile ripristinare. Il ridicolo romanzo dell'Ollivier fu senza tregua confutato sin da' più rigidi rappresentanti della Chiesa: primieramente dal Malagne nella Revue des questions historiques (Parigi, aprile 1871 e gennaio 1872); poi dalla Civiltà Cattolica, giornale della Compagnia di Gesù. Questa pubblicò il 15 marzo 1873 un articolo, nel quale l'autore abbandona la difesa del carattere morale di Alessandro VI, come quello che non è più dato poter salvare in presenza di documenti indubitabili.
L'articolo si fondava sul Saggio di Albero genealogico e di Memorie su la famiglia Borgia, specialmente in relazione a Ferrara, quivi pubblicato nel 1872 da L. N. Cittadella, Bibliotecario della Comunale di quella città. Il Saggio segnò notevole progresso ne' modi di schiarire [ix] la storia della famiglia Borgia, abbenchè non potesse essere scevro d'errori.
Sullo scorcio del 1872 mi posi anch'io nella serie degli scrittori enumerati. Dopochè nel 1870 fu apparso il volume della mia Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, che comprende i tempi di Alessandro VI, volli io pure portare il mio contributo romano alla storia dei Borgia. Nelle ricerche da me fatte negli Archivii d'Italia ero già venuto in possesso di molti documenti relativi ai Borgia. Ma non tutto potei mettere a profitto nella Storia della città di Roma. Epperò mi proposi impiegare il prezioso materiale in una monografia, che poteva avere per soggetto principale Cesare o la sorella.
Mi decisi per Madonna Lucrezia per motivi varii, il primo de' quali estrinseco, e fu questo. Nella primavera del 1872 nell'Archivio de' Notai al Campidoglio mi capitò in mano il Protocollo di Camillo de Beneimbene, per moltissimi anni notaio di fiducia di Alessandro VI. In quel voluminoso manoscritto scoprii un tesoro insperato. Avevo innanzi un'intera e lunga serie di documenti autentici, sino allora sconosciuti. Vi trovai tutte le tavole nuziali di Donna Lucrezia e molti altri pubblici contratti, che si riferiscono alle più intime faccende dei Borgia. Nel novembre 1872 lessi, a proposito di questo Protocollo, una memoria nella Sezione storica della Reale Accademia di scienze di Monaco, che fu pubblicata nel Bollettino delle tornate. Il contenuto de' documenti da quello estratti gettava nuova luce sulla storia della famiglia Borgia, intorno alla quale appunto allora il Cittadella aveva pubblicato la genealogia innanzi citata.
A tali fatti s'aggiunsero anche altre ragioni per determinarmi a scrivere di Donna Lucrezia. La storia politica di Alessandro VI e di Cesare era già stata da me largamente trattata e nuovamente esposta; ma di Lucrezia [x] non m'ero occupato che solo alla lontana. E la figura di costei m'attraeva, come qualcosa di misterioso, che portava nel seno suo una contraddizione non spiegata e che voleva essere sciolta.
Io mi posi all'opera senza intenzione preconcetta. Non intendevo scrivere un'apologia, ma in rapidi tratti una storia di Lucrezia. E a me era per di più concesso fermarmi soprattutto sul periodo della vita di quella in Roma, ch'è pure il periodo veramente importante rispetto all'enimma non ancora risoluto. Volevo vedere quale specie di figura s'andrebbe formando tra le mie mani, ove facessi di Lucrezia Borgia il soggetto di una trattazione storica nel modo più rigoroso e sicuro che mai si potesse, appoggiandomi cioè a' documenti.
Raccolsi gli altri materiali necessarii. Feci ricerche ne' luoghi, ove quella donna aveva vissuto. Andai ripetute volte a Modena e a Mantova. Gli Archivii colà esistenti sono tesori inesausti, massime per la storia della Rinascenza, e anche di lì trassi materiali copiosissimi. Come sempre, vi trovai persone amiche, pronte a prestarsi per me; e così in Mantova il signor Zucchetti, sino a poco tempo fa direttore dell'Archivio dei Gonzaga, e il signor Stefano Davari, cancelliere del medesimo.
Ma la più ricca mèsse cavai dall'Archivio di Stato degli Este in Modena. Il signor Cesare Foucard n'è direttore. L'egregio uomo s'adoperò per l'intento mio con una liberalità veramente degna di un successore del Muratori in quell'ufficio. Egli mi agevolò il lavoro in ogni maniera possibile. Da un giovane impiegato dell'Archivio, il signor Ognibene, egli fece prima ordinare il gran numero di lettere e dispacci che potevano servirmi, e me ne consegnò quindi il catalogo, e mi provvide anche di molte copie. E per questo motivo se lo scritto presente [xi] ha qualche merito, una parte non piccola ne va dovuta alla bontà del Foucard.
Anche in altri luoghi, in Nepi, Pesaro e Ferrara, ebbi schiarimenti e trovai le più amichevoli cooperazioni. Devo al signor Cesare Guasti dell'Archivio di Stato di Firenze le lunghe e faticose copie delle importanti lettere di Lorenzo Pucci, da lui fatte fare per me.
Il materiale, del quale disponevo, non poteva, come è naturale, dirsi intero e compiuto; era pur sempre abbondevole e nuovo. Una piccola parte soltanto n'ho aggiunta al libro, come Appendice di documenti. E di questi non pubblico se non quelli che erano sin qui inediti. Per mezzo di essi il lettore ha in mano le prove di ciò che dico. Essi serviranno fors'anco di preservativo contro gli assalti di tali, che, a quanto preveggo, cercheranno anticipatamente in questo scritto una intenzione odiosa. Ad interpetrazioni cosiffatte non risguarderò più che tanto, avvegnachè il libro stesso mostri a sufficienza l'intenzione mia. Questa non fu altra che quella dello storico in generale. Io ho sostituito la storia ad un romanzo.
Ho dato nello scritto al periodo della vita di Lucrezia in Roma maggior peso che non a quello in Ferrara. Ciò è perchè quest'ultimo, se anche in modo insufficiente, pure è già stato trattato; mentre invece il primo è rimasto essenzialmente leggendario. Avendo composto il mio libro, fondandomi rigorosamente e sempre sopra documenti, mi fu dato, per quel ch'io penso, tentare un metodo di trattazione, mercè il quale venisse di per sè fuori un carattere proprio del tempo con la impronta della più concreta personalità.
[1]
[3]
La stirpe spagnuola dei Borja — o Borgia, come usano pronunziare gl'Italiani — fu ricca d'individui singolari. La natura le fu larga di qualità sontuose: bellezza di forme, forza, intelligenza e quella energia di volontà, che costringe la fortuna, e grazie alla quale Cortez e Pizarro e altri avventurieri spagnuoli divennero grandi.
Pari agli Aragona, anche i Borgia furono in Italia conquistatori. Quivi ottennero onori e potenza; ebbero efficacia profonda sui destini di tutto il paese; contribuirono a spagnoleggiarlo; e vi si propagarono copiosamente. Pretendevano discendere dagli antichi re d'Aragona. Pure delle origini dei Borgia si sa tanto poco, che la storia loro comincia appena col vero fondatore della casa, Alfonso, il cui padre talvolta è chiamato Juan, tal'altra Domenico, e della cui madre Francesca è ignoto il nome di famiglia.
Era nato nel 1378 a Xativa presso Valenza. Qual secretario intimo fu al servizio di re Alfonso d'Aragona, e divenne vescovo di Valenza. Con colui andò a Napoli, ove [4] quel principe geniale, si assise sul trono. Fu fatto cardinale nel 1444.
La Spagna, uscita appena dalle sue guerre di religione, cominciava a venir su in grandezza di nazione e ad acquistare significazione europea. Andava ora in cerca di quel che innanzi aveva negletto: porsi anch'essa come attrice in Italia, cuore del mondo latino e pur sempre centro di gravità della politica e della civiltà d'Europa. La Spagna s'impossessò del Papato e dell'Impero. Di là vennero prima i Borgia sulla Santa Sede; di là venne più tardi Carlo V ad assidersi sul trono imperiale. Dalla Spagna venne pure Ignazio Loyola, il fondatore della più potente di tutte le sètte di natura politico-ecclesiastica, che la storia abbia mai vista.
Alfonso Borgia, uno de' più fervidi avversarii del Concilio di Basilea e degli sforzi di riforma della Germania, divenne papa nel 1455 col nome di Callisto III. Numeroso il parentado suo; e già in parte venuto a Roma sin da quando egli stesso come cardinale vi s'era stabilito. Componevasi originariamente delle tre famiglie di Valenza, tra loro congiunte, i Borgia, i Mila — o Mella — e i Lanzol. Delle sorelle di Callisto, Caterina Borgia era moglie di Giovanni Mila, barone di Mazalanes, e madre del giovane Gianluigi; e Isabella aveva sposato Jofrè Lanzol, ricco gentiluomo di Xativa, ed era madre di Pierluigi e Rodrigo e di parecchie figliole. A questi due nipoti lo zio diede per adozione il proprio nome di famiglia. E di Lanzol divennero Borgia.
Callisto III sollevò due di casa Mila alla dignità cardinalizia; il vescovo Giovanni di Zamora, morto poscia il 1467 in Roma, ove, in Santa Maria del Monserrato, se ne vede tuttora il mausoleo; e quel più giovane Gianluigi. Nell'anno stesso 1456 anche Rodrigo Borgia ricevette la porpora. Altri membri di casa Mila si stabilirono in Roma, come Don Pedro, la cui figliola Adriana Mila incontreremo [5] nelle più intime relazioni con la famiglia dello zio suo, Rodrigo.
Delle sorelle dello stesso Rodrigo, Beatrice s'era sposata con Don Ximenes Perez de Arenos; Tecla con Don Vidal de Villanova; e Giovanna con Don Pedro Guillen Lanzol.[1] Tutte rimasero in Spagna. Di Beatrice abbiamo una lettera da Valenza al fratello, appena creato papa.[2]
Rodrigo Borgia aveva 25 anni, quando ricevette la dignità di cardinale. Alla quale un anno dopo accoppiò anche l'alto ufficio di Vicecancelliere della Chiesa Romana. Il fratello Don Pierluigi non lo superava in età che di un anno. Callisto elevò questo giovane valenzano ai massimi onori di nepote. Dopo d'allora comincia a mostrarsi il fenomeno di codesta creazione del Vaticano: un principe nepote, nel quale il Papa mira a concentrare ogni potere civile. Questo diviene il suo condottiero, il suo luogotenente, il custode del suo trono, e da ultimo l'erede de' beni suoi. A lui è permesso di farsi con la forza padrone di territorii nell'ambito dello Stato della Chiesa e di aggirarsi quale angelo sterminatore fra tiranni e repubbliche, per fondare una dinastia, nella quale il fugace momento del non ereditario Papato s'eterni.
Callisto fece Pierluigi capitan generale della Chiesa, prefetto della Città, duca di Spoleto e vicario di Terracina e Benevento. In questo primo nepote spagnuolo è anticipatamente abbozzata la carriera, che descriverà poi Cesare Borgia.
Gli Spagnoli, sinchè Callisto visse, furono in Roma onnipotenti. Soprattutto dal regno di Valenza ne venivan giù a torme a far fortuna alla Corte del Papa, come monsignori e scrittori, capitani e intendenti, o in altro modo pur che fosse. Ma Callisto III morì il 6 agosto 1458; e già la vigilia Don Pierluigi con pena e stento erasi fuggito da [6] Roma, ove la nobiltà sin allora oppressa, i Colonna e gli Orsini s'eran levati contro gli odiati stranieri. Poco dopo, nel dicembre di quell'anno, il giovane avventuriero fu colto da improvvisa morte a Civitavecchia. Niuno può dire, se Pierluigi Borgia fosse ammogliato o lasciasse discendenti.[3]
Il cardinal Rodrigo pianse la perdita del fratello, forse unico ed a lui molto caro. Ma ne raccolse l'eredità; e d'altra parte l'alto stato suo nella Curia, pel mutare del Papa, non fu scosso punto. Come Vicecancelliere abitava nel quartiere Ponte una casa, che fu già la Zecca. E ne fece uno de' più ragguardevoli palazzi di Roma. L'edifìzio con due corti, i cui portici primitivi al pianterreno sono ancora riconoscibili, era costrutto a forma di castello, come il palazzo di Venezia, a un dipresso dello stesso tempo. Ma nè per bellezza di disegno nè per spaziosità il palazzo Borgia reggeva al paragone con quello di Paolo II. Nel corso del tempo subì alquante modificazioni. Oggi, e già da gran pezza, appartiene agli Sforza Cesarini.
La vita privata di Rodrigo durante il Pontificato di quattro papi, successori di Callisto, Pio II, Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII, è piena d'oscurità. Memorie del tempo non ve ne sono, o ne abbiamo qualche frammento appena.
Codesto Borgia, uomo di bellezza e forza singolari, sin nella più tarda età sua fu dominato da inesauribile sensualità. Fu questo il demone della sua vita, dal quale non potè affrancarsi mai. Una volta coi suoi eccessi suscitò la collera di Pio II. Un monitorio di costui scritto da' bagni di Petriolo agl'11 giugno 1460 è il primo barlume sulla vita [7] privata di Rodrigo. Il Borgia aveva allora 29 anni. Trovavasi nella vezzosa e seducente Siena, ove anche il Piccolomini aveva trascorso la giovanezza, certo, non da santo. Colà un giorno dispose un baccanale, di cui la lettera del Papa ci porge appunto una descrizione.
«Amato figliolo. Quando, or sono quattro giorni, convennero negli orti di Giovanni de Bichis parecchie donne di Siena, dedite alla vanità mondana, la dignità tua, come abbiamo appreso, poco memore dell'ufficio che copri, s'intrattenne con esse loro dalle 7 sino alle 22 ore. Dei tuoi colleghi avesti a compagno tale, cui se non l'onore della Santa Sede, certo l'età avrebbe dovuto ricordare il dover suo. A quanto abbiam sentito, costì si ballò dissolutamente; costì non una delle attrattive d'amore fu risparmiata, e il contegno tuo non fu diverso da quello che se fossi stato della schiera dei giovani mondani. Ciò che costì occorse il pudore impone tacere; imperocchè è indegno del tuo grado non solo il fatto, ma insino il nome suo. I mariti, i genitori, i fratelli, i parenti delle giovani donne e delle donzelle intervenute non furono ammessi, perchè il piacer vostro potess'essere tanto più sfrenato. Voi soltanto, con pochi domestici, v'incaricaste di dirigere e animare quei cori. Dicesi, che oggi in Siena d'altro non si parli che della frivolezza tua, diventata la favola di tutti. Certo è che qui, in questi bagni, ove il concorso di ecclesiastici e secolari è grande, tu sei il discorso del giorno. Il nostro dispiacere è indicibile; poichè questo torna a disdoro dello stato e dell'ufficio sacerdotale. Di noi si dirà che ci si arricchisce e aggrandisce, non perchè meniamo vita illibata, ma perchè ci procuriamo i mezzi a sodisfare il piacer nostro. Di qui il disprezzo per noi dei Principi e delle Potenze, e il sarcasmo quotidiano dei laici. Di qui pure il rimprovero per la nostra propria maniera di vivere, allorchè ci facciamo a riprovare quella degli altri. [8] Anche il Vicario di Cristo è involto nel disprezzo medesimo, avvegnachè sembri ch'ei si contenti di tale stato di cose. Tu, amato figliolo, presiedi il Vescovado di Valenza, il primo della Spagna; tu sei anche Cancelliere della Chiesa; e, ciò che rende la condotta tua tanto più meritevole di biasimo, sei col Papa tra i cardinali, uno dei consiglieri della Santa Sede. Ce ne rimettiamo al tuo proprio giudicio, se sia conveniente per la dignità tua lusingar fanciulle, mandar frutta e vino a quella che tu ami, e l'intero giorno non ad altro pensare che ad ogni forma di voluttà. Per cagion tua noi riceviam censura; si vitupera la felice memoria di tuo zio Callisto, che, nel giudicio di molti, ebbe torto di coprirti di tanti onori. Se cerchi scusa nell'età, non sei più tanto giovane da non comprendere quali doveri la dignità tua t'imponga. Un cardinale deve essere irreprensibile, un modello di condotta morale agli occhi di tutti. E qual giusto motivo abbiamo poi d'irritarci, se i Principi della terra ci fregiano di titoli poco onorevoli, se ci contrastano il possesso dei nostri beni e ci costringono a sottometterci ai comandamenti loro? In verità codeste ferite ce le portiamo noi stessi, e da noi stessi ci apparecchiamo siffatti mali, scemando ogni giorno più con le azioni nostre l'autorità della Chiesa. Il nostro castigo in questo mondo è la vergogna; e nell'altro il patimento condegno. Possa adunque la prudenza tua porre argine a siffatte vanità, e tener in vista la dignità tua, e non volere che tra mogli e fanciulle ti si apponga il nome di galante. Imperocchè, ove fatti simili avessero a ripetersi, dovremmo costretti significare, che sono occorsi senza voler nostro e con nostro dolore; e la censura nostra non sarebbe senza tua ignominia. Noi ti abbiamo amato sempre; e ti tenemmo degno della protezione nostra, come uomo che rivelava natura seria e modesta. Opera dunque in guisa che ci sia dato mantenere cosiffatta opinione: e [9] nulla può meglio a ciò contribuire che l'usare un genere di vita ordinata. L'età tua, che promette ancora miglioramenti, ci consente di ammonirti paternamente. Petriolo, 11 giugno 1460.»[4]
Pochi anni più tardi, sotto il reggimento di Paolo II, lo storico Gasparre da Verona schizzava così il ritratto del cardinal Borgia: «È bello; ha sguardo grazioso e gaio, ed eloquio ornato e dolce. Ove appena vegga donne belle, le eccita in modo quasi meraviglioso all'amore, e a sè le attira piu che calamita il ferro.»
Temperamenti, come quello disegnato da Gasparre, non mancano: sono gli uomini della natura fisica e morale di un Casanova e di un Reggente di Orléans.
La bellezza di Rodrigo, anche essendo già papa, è decantata da molti dei contemporanei suoi. Nel 1493 Jeronimo Porzio diceva: «Alessandro è alto di statura; di colore medio; nero ha l'occhio e le labbra turgidette. La sua salute è rigogliosa; egli sopporta, più che si possa immaginare, fatiche d'ogni specie. È straordinariamente facondo; e ogni modo men che civile gli ripugna.»[5]
La potenza di questo felice temperamento consisteva, a quel che pare, nella proporzione di tutte le forze. Derivava da questa la gioconda serenità della natura sua. Nulla è di fatto più falso del modo in che d'ordinario siam soliti rappresentarci questo Borgia, come uomo tenebroso e mostruoso. Anche il celebre Giasone Maino di Milano lodava in lui «l'elegante aspetto, la fronte serena, lo sguardo regale, il viso esprimente insieme liberalità e maestà, la geniale ed eroica compostezza di tutta la persona.»
[10]
Una romana, Vannozza Catanei, verso l'anno 1466 o 67, fu vittima della potenza magnetica del cardinal Rodrigo. Sappiamo che era nata nel luglio 1442; ma nulla delle attenenze di famiglia. Autori del tempo le danno anche i nomi di Rosa e Caterina; ma essa stessa in documenti autentici si chiamò Vannozza Catanei. Abbenchè il Giovio tenga che il suo nome di famiglia fosse Vanotti, ed esistesse in effetto in Roma una famiglia popolana dei Vanotti; pure è asserzione erronea la sua. Vannozza era piuttosto l'abbreviazione in uso di Giovanna. E così ne' documenti di quel tempo s'incontra una Vannozza di Nardis, una Vannozza di Zanobeis, De Pontianis, e altre.
In Roma, come in Ferrara, Genova e altrove, v'era una famiglia Catanei. Questo nome così frequente venne dal titolo di Capitaneus. In un istrumento notarile dell'anno 1502 il nome dell'amante di Alessandro VI è scritto ancora nella sua forma antica: Vanotia de Captaneis.
Il Litta, al quale l'Italia deve la grande opera sulle sue famiglie storiche, — opera, malgrado degli errori e difetti, veramente ammirabile, — espresse l'opinione che Vannozza appartenesse alla casa dei Farnesi, e fosse una figlia di Ranuccio. Anche ciò è intieramente erroneo. Negli scritti del tempo questa donna vien chiamata: Madonna Vannozza de casa Catanei.
Niun contemporaneo ha notato le qualità, mercè le quali fu dato alla Vannozza di legare si fortemente il più lussurioso dei cardinali da divenir madre di parecchi dei figlioli da lui riconosciuti. Liberi noi di raffigurarcela come una di quelle possenti e voluttuose figure di donne, quali ancora se ne vedono a Roma. Nulla in loro delle grazie della donna [11] ideale propria alla pittura umbra. Hanno però qualcosa della grandiosità di Roma. Giunone e Venere sembrano in esse accoppiate insieme. S'accosterebbero agl'ideali di Tiziano e di Paolo Veronese, se la negra chioma e il colorito più bruno da quelli non le allontanassero. Capelli biondi e rubei sono stati sempre rari fra' Romani.
Senza dubbio, Vannozza fu piena di bellezza e di focosa sensualità; senza che non avrebbe cotanto acceso un Rodrigo Borgia. Similmente il suo spirito, comunque privo di coltura, doveva possedere energia non comune; altrimenti, non si comprende nemmeno come sia riuscita a mantenere la relazione sua con colui.
Il tempo indicato segna certamente il cominciare di questo legame, massime se dobbiamo aggiustar fede allo storico spagnuolo Mariana, il quale dice, che Vannozza fu madre di Don Pierluigi, il maggiore dei figli di Rodrigo. Ora in un istrumento notarile del 1482 codesto figliolo del cardinale vien chiamato giovanetto — adolescens, — il che fa supporre un'età di 14, se non forse 15 anni.[6]
Non sappiamo in quali condizioni Vannozza vivesse, quando conobbe il Borgia. Difficilmente poteva aver appartenuto alla classe in Roma numerosa, e tutt'altro che spregiata, delle cortigiane di alto stato, le quali, grazie al favore degli adoratori loro, menavano vita splendida e lussuriosa. In tal caso sarebbe stata al tempo suo famosa; e novellieri ed epigrammisti n'avrebbero detto alcunchè.
Il cronista Infessura, che dovette conoscere personalmente Vannozza, racconta che Alessandro VI, volendo crear cardinale il suo bastardo Cesare, fece affermare da falsi testimoni esser quegli legittimo figliolo di un tal Domenico d'Arignano; ed osserva su tal proposito, che il Papa aveva [12] maritata Vannozza appunto con quest'uomo. La testimonianza di un contemporaneo e romano ha qualche peso. Nulladimeno niun altro scrittore, eccetto il Mariana, che evidentemente si affida all'Infessura, fa menzione di Domenico; e presto vedremo, che per lo meno non si può parlare di un matrimonio legalmente riconosciuto di Vannozza con quest'uomo ignoto. Essa era già stata lungo tempo l'amante del cardinale, prima che questi le désse un marito officiale per coprire la sua propria relazione e agevolarla insieme. Questa difatti continuò, anche dopo che la Vannozza ebbe un marito legittimo.
E, come tale, primo ad apparire è nel 1480 un milanese, Giorgio de Croce, cui il cardinal Rodrigo aveva ottenuto da Sisto IV la carica di scrittore apostolico. Incerto rimane il tempo, in cui Vannozza s'unì col De Croce. Ammogliatasi, abitava una casa sulla piazza Pizzo di Merlo oggi chiamata Sforza Cesarini; lì vicino era appunto il palazzo del cardinal Borgia.
In quell'anno 1480 Vannozza era già madre di parecchi figlioli riconosciuti dal cardinale; Giovanni, Cesare e Lucrezia. Sulla origine di costoro non cade dubbio di sorta; mentre quella del maggiore, Pierluigi, dalla stessa madre è soltanto molto probabile. La data della nascita di questi bastardi Borgia è stata sin qui ignota, e ne furono assegnate diverse. Io scoprii in documenti incontrastabili quella di Cesare e di Lucrezia; e per tal mezzo molti errori rispetto alla genealogia e anche alla storia di questa casa sono tolti per sempre. Cesare nacque in un giorno del mese d'aprile nell'anno 1476, Lucrezia il 18 aprile 1480. Il padre, essendo papa, indicò l'età di entrambi, parlandone nell'ottobre 1501 con l'ambasciatore di Ferrara; e questi scrisse al duca Ercole: «Il Papa mi fece sapere che la nominata duchessa (Lucrezia) ha ventidue anni, i quali compirà nel prossimo aprile; e in quel tempo stesso [13] l'illustrissimo duca di Romagna (Cesare) fornirà ventisei anni.»[7]
Se l'esattezza delle indicazioni del padre sull'età dei propri figlioli lasciasse ancora a dubitare, ogni dubbio sarebbe tolto da altre notizie e documenti. Nei dispacci che l'ambasciatore di Ferrara molto innanzi, nel febbraio e marzo 1493, spediva da Roma allo stesso duca Ercole, dava a Cesare in quel tempo 16 a 17 anni; il che concorda coi dati del padre.[8] Il figliolo di Alessandro VI era più giovane di alcuni anni di quel che sin qui s'era creduto. Questo fatto è importante per la storia della sua breve quanto orribile vita. Onde s'ingannarono il Mariana e gli altri autori, che a lui tennero dietro, affermando Cesare essere il secondogenito di Rodrigo, e quindi maggiore del fratello Don Juan. Invece è questi, che realmente dev'essere stato di due anni maggiore. A Venezia, per informazioni avute da Roma nell'ottobre 1496, si chiama Don Juan un giovane di 22 anni; epperò era nato nel 1474.[9]
Quanto a Lucrezia, essa venne al mondo il 18 aprile [14] 1480. Questa data precisa si ricava da un documento valenzano.[11] Il padre aveva 49 anni, e la madre 38. Dalla costellazione celeste dominante gli astrologhi romani e spagnuoli poterono forse cavar l'oròscopo e rallegrarsi molto col cardinal Rodrigo e felicitarlo dello splendore, cui le stelle avevan destinata la figliola sua.
Erano appena trascorsi i giorni di Pasqua; feste sontuose erano state date in onore dell'elettore Ernesto di Sassonia, venuto a Roma ai 22 di marzo, accompagnato dal duca di Braunschweig e da Guglielmo di Henneberg. Questi signori erano entrati con un seguito di 200 cavalieri. Presero stanza in una casa nel quartiere Parione. Il papa, Sisto IV, gli onorò con profusione grande; ed una splendida caccia loro offerta da Girolamo Riario, l'onnipotente nepote, alla Malliana sul Tevere, levò molto rumore. Lasciarono Roma ai 14 di aprile.
In quel tempo il Papato andava divenendo tirannia politica; e il nepotismo assumeva quel carattere, che più tardi Cesare Borgia doveva svolgere in tutta la sua formidabile essenza. Sisto IV, uomo energico, e di tempra ancora più forte di Alessandro VI, era tuttora in guerra con Firenze, ove aveva ordito la congiura dei Pazzi per far trucidare i Medici ed elevare Girolamo Riario ad un gran principato in Romagna. Queste vie medesime doveva più tardi seguire Alessandro VI pel figlio Cesare.
Il tempo, in cui Lucrezia nacque, era orribile davvero. Il Papato spogliatosi di ogni santità sacerdotale; la religione materializzata del tutto; l'immoralità senza freni nè limiti. La più selvaggia lotta intestina infuriava nella città, massime ne' quartieri Ponte, Parione e Regola, ove quotidianamente stuoli di partigiani, eccitati dagli assassinii, scendevano in armi per le vie. E proprio nell'anno 1480 si [15] levarono in Roma le antiche fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Là i Savelli e i Colonna contro il Papa; qui gli Orsini per lui; mentre le famiglie dei Valle, dei Margana e dei Santa Croce, assetate di sangue e di vendetta, legavansi all'uno o all'altro partito.
Lucrezia passò, senza dubbio, i primi anni della fanciullezza presso la madre. La casa di costei, come dicevamo, era sulla piazza Pizzo di Merlo, a pochi passi dal palazzo del cardinale. Il quartiere Ponte, cui apparteneva, era dei più animati di Roma, come quello che menava a Ponte Sant'Angelo e al Vaticano. Vi stavano molti mercatanti e i banchieri di Firenze, Genova e Siena; v'abitavan pure parecchi impiegati papali; e le cortigiane di maggior grido. Invece il numero delle antiche famiglie nobili non v'era grande, forse perchè gli Orsini non ve le lasciavano venire. Da lungo tempo in effetto questi potenti baroni dimoravano nella regione Ponte nel loro gran palazzo a Monte Giordano. Non lungi di lì era il loro antico castello. Torre di Nona, che in origine faceva parte delle mura della città sul Tevere. Allora era invece carcere pei condannati politici ed altri infelici.
Noi possiamo chiaramente immaginarci qual fosse l'ordinamento della casa di Vannozza, perchè il carattere della casa romana sugl'inizii della Rinascenza non era gran fatto diverso da quel ch'è tuttora oggi. Nel complesso oggi ancora ha alcunchè di grave e di triste. Una massiccia scala di peperino conduceva alle stanze abitate; una sala con camere accessorie, da' nudi pavimenti di mattoni, dalle soffitte di travi e assi dipinte. Le pareti semplicemente imbiancate; solo nelle più ricche case ricoperte di tappeti [16] oprati, e questo, per altro, nelle sole ricorrenze solenni. L'uso dei grandi quadri paretali nel XV secolo era ancora raro; restringevasi a qualche ritratto di famiglia. E se Vannozza n'aveva nella sala sua, certo, tra essi, deve esservi stato quello del cardinal Rodrigo. Del resto mai non mancavano un reliquario, immagini di Santi e l'effigie della Madonna con lampade innanzi sempre accese.
Mobilia pesante; grandi, larghi letti, parati a sopraccielo; alte sedie di legno scuro, intagliato, con cuscini; massicci tavolini, con superficie di marmo o di legno variopinto, stavano intorno intorno alle pareti. Tra gli immensi forzieri uno veramente colossale sorgeva nella sala: era destinato a serbare la biancheria. In una di queste casse, il forziere della sorella, tenevasi nascosto l'infelice cavaliere Stefano Porcaro, quando il 5 gennaio 1453, fallito il suo tentativo d'insurrezione, cercò salvezza nella fuga. La sorella e un'altra donna, per maggior sicurezza del fuggiasco, s'erano assise su quella cassa; ma gli agenti della forza seppero cavarnelo fuori.
Se Vannozza aveva gusto per le cose antiche, il che non possiamo davvero supporre in lei se non in omaggio alla moda, nella sala sua doveva esservi pure di quelle. Le si raccoglievano allora con passione. Correva il tempo dei primi scavi. Il suolo di Roma ogni giorno metteva alla luce i suoi tesori. E da Ostia, da Tivoli e dalla Villa Adriana, da Porto d'Anzo e Palestrina le antichità affluivano innumerevoli nella città. Ma se Vannozza e il marito non partecipavano con gli altri Romani a codesta passione, non indarno si sarebbe cercato nella casa loro oggetti di valore, prodotti della moderna industria artistica, e coppe, e vasi di marmo e di porfido, e ornamenti d'oro dei gioiellieri. La parte essenziale di una casa romana tenuta con decenza e con cura era primieramente la credenza, grande armadio con vasellami e bicchieri d'oro e d'argento e di belle [17] maioliche. Nei conviti tutti questi utensili facevan mostra e spettacolo.
Si pena molto ad ammettere che l'amica di Rodrigo possedesse anche una biblioteca. Private biblioteche nelle case della borghesia erano allora in Roma una grande rarità. Ma a breve andare fu facile crearne pel buon mercato della stampa, che vi fu importata da tipografi tedeschi.
La casa di Vannozza dovette, senza dubbio, avere aria d'agiatezza, non di lusso. Alcuna volta v'ebbe forse ospite il cardinale, o potette ricevervi gli amici della famiglia, a preferenza, i più intimi confidenti del Borgia, Giovanni Lopez, Caranza e Marades, e, dei Romani, gli Orsini, Porcari, Cesarini e Barberini. Egli, il cardinale, era per sè uomo molto temperato, ma sfarzoso in tutto che si riferisse a rappresentanza della sua dignità. La precipua necessità per un cardinale di quel tempo era un'abitazione principesca, con una corte numerosa e splendida.
Rodrigo Borgia viveva nel suo palazzo come uno de' più ricchi principi della Chiesa, con splendore pari al suo grado. Il contemporaneo Jacopo da Volterra ci ha lasciato di lui nel 1486 questo ritratto: «Egli è uomo di uno spirito atto ad ogni cosa e di largo senno. Pronto al discorso, cui, malgrado della sua mediocre cultura letteraria, riesce benissimo a dare uno stile. Per natura accorto e fornito di arte meravigliosa nella trattazione degli affari. Egli è straordinariamente ricco; e la protezione di molti re e principi gli dà fama. Abita un bello e comodo palazzo, che s'è fabbricato tra Ponte Sant'Angelo e Campo di Fiore. Dalle sue cariche ecclesiastiche, da molte abbazie in Italia e Spagna e da tre vescovadi, Valenza, Porto e Cartagine, cava redditi smisurati; mentre il solo ufficio di Vicecancelliere gli rende, a quanto si dice, 8000 fiorini d'oro l'anno. La copia del suo vasellame d'argento, delle sue perle, delle sue coperte tessute d'oro e di seta e dei suoi [18] libri in ogni scienza è grandissima, e tutto ciò accoppiato ad una magnificenza splendida, quale sarebbe degna di un re o di un papa. E mi rimango poi dal dire degli innumerevoli ornamenti de' suoi letti e di quelli de' suoi cavalli e di altre simili decorazioni d'oro, d'argento e di seta, e della sua superba guardaroba, e della grande quantità d'oro coniato ch'ei possiede. Credesi, di fatto, ch'egli in oro e ricchezze d'ogni sorta vinca tutti i cardinali, eccettuato l'Estouteville.»
Il cardinal Rodrigo era dunque ricco abbastanza da dare ai figliuoli la più splendida educazione, in quella che venivan su crescendo nella modesta qualità di suoi nipoti. E non potè mostrarli alla chiara luce del giorno che quando fu giunto il tempo della vera grandezza sua.
Nell'anno 1482 egli non abitava la sua casa nella regione Ponte, forse perchè vi faceva fabbricare. Risiedeva invece in quel palazzo nel quartiere Parione, che Stefano Nardini aveva terminato nel 1475. Chiamasi oggi Palazzo del Governo Vecchio. Quivi troviamo Rodrigo nel gennaio 1482. Ce ne informa un istrumento del notar Beneimbene, un contratto nuziale tra Giannandrea Cesarini e Girolama Borgia, una figlia naturale dello stesso cardinal Rodrigo. Colà le tavole nuziali furon rogate in presenza del padre della sposa, de' cardinali Stefano Nardini e Giambattista Savelli e de' nobili romani Virginio Orsini, Giuliano Cesarini e Antonio Porcaro.[12]
Quest'atto è il primo documento autentico intorno alle intime relazioni di famiglia del cardinal Borgia.
Egli vi si dichiarò padre della nobile donzella Jeronyma, la quale vien indicata come sorella del nobile giovanetto Pietro Ludovico de Borgia e dell'infante Giovanni de Borgia. Poichè questi due, manifestamente nominati [19] qui come figliuoli maggiori, erano illegittimi, è naturale che non si facesse parola della madre. Anche di Cesare fu taciuto, perchè non aveva più di sei anni.
Girolama era ancora minore, ed aveva forse 13 anni; e anche lo sposo Giannandrea, figliuolo di Gabriele Cesarini e di Godina Colonna, aveva di poco oltrepassata la fanciullezza. La nobile casa de' Cesarini con questo matrimonio entrò in istretta parentela con i Borgia; e di qui trasse più tardi copiosi vantaggi. La vicendevole amicizia loro risaliva al tempo di Callisto; mentre era stato il protonotario Giorgio Cesarini, che alla morte di quel Papa aveva aiutato Don Pier Luigi, fratello di Rodrigo, a fuggir da Roma. Girolama Borgia moriva già nel 1483, contemporaneamente al suo giovane marito.
Era essa figlia della stessa madre, come Lucrezia e Cesare? Lo ignoriamo, nè a noi sembra verosimile. Non v'ha, per dirlo anticipatamente, che una sola testimonianza autentica, ove insieme coi figliuoli di Rodrigo sia nominata anche la madre. È l'iscrizione sepolcrale nella chiesa di Santa Maria del Popolo in Roma, ove Vannozza è chiamata madre di Cesare, Giovanni, Jofrè e Lucrezia. Del maggiore di questi figliuoli Don Pierluigi e di Girolama non si parla punto.
Del resto Rodrigo ebbe pure una terza figliuola, di nome Isabella; e di questa neanche può essere stata madre la Vannozza. Egli la maritò il primo aprile 1483 col nobile romano Piergiovanni Mattuzi della regione Parione.[13]
[20]
La relazione del cardinale con Vannozza continuò forse sino all'anno 1482, perchè questa, dopo Lucrezia, gli diede ancora un figliuolo, Jofrè, nato il 1481 o 1482.
Poscia la passione del Borgia per questa donna quasi quarantenne s'estinse. Nullameno riguardava in essa la madre dei figliuoli suoi, e la confidente di molti dei suoi misteri.
Vannozza, del resto, al marito suo Giorgio de Croce aveva partorito un figliuolo, a nome Ottaviano: per lo meno il bambino passò per figlio di colui. Essa, grazie agli aiuti del cardinale, crebbe di molto le sue entrate. In documenti legali ci si presenta qual locataria di alcune osterie in Roma; e presso Santa Lucia in Selce nel quartiere della Suburra acquistò una vigna e una casa di campagna, a quel che pare, da' Cesarini. Giorgio de Croce s'era fatto ricco; in Santa Maria del Popolo fondò una cappella per sè e per i suoi. Egli morì il 1486, e l'anno medesimo morì pure il figlio Ottaviano.[14]
La morte di lui addusse un mutamento nelle relazioni di Vannozza. Il cardinale incalzava, perchè la madre dei suoi figliuoli passasse a seconde nozze. Così avrebbe avuto chi potesse difenderla, ed assicurare alla casa una esistenza decente. Secondo marito fu un mantovano, Carlo Canale. Prima di venire a Roma, s'era già fatto conoscere per la sua cultura ne' circoli umanistici di Mantova. Abbiamo ancora la lettera di Angelo Poliziano, nella quale il giovane poeta raccomandava al Canale il suo Orfeo. Il manoscritto di questo primo tentativo drammatico, col quale s'iniziò la rinascenza del teatro italiano, era di fatto nelle mani del Canale. E questi, [21] riconoscendo il merito del lavoro, incoraggiava il poeta ancora pauroso e di sè incerto.[15] Poliziano aveva composta la poesia a richiesta del cardinale Francesco Gonzaga, grande favoreggiatore della bella letteratura, e distesala in due giorni soltanto: e Carlo Canale era cameriere del cardinale. L'Orfeo fu composto verso il 1472. Morto nel 1483 il Gonzaga, il Canale andò a Roma, e si pose al servizio del cardinale Sclafetano di Parma. Qual confidente e suddito dei Gonzaga si tenne sempre legato con questa casa principesca.[16] Nella sua nuova condizione appoggiò le pratiche di Ludovico Gonzaga, fratello di Francesco, quando nel 1484, fatto vescovo di Mantova, venne a Roma per ottener la porpora.[17]
Il Borgia aveva già conosciuto il Canale sin da quando era al servizio del Gonzaga; e lo incontrò dappoi in casa Sclafetano. Se lo destinò a marito della sua vedova amica, fu in grazia dell'ingegno e delle aderenze di lui che potevano essergli utili. Dall'altra parte il Canale non potè annuire alla proposta di farsi marito della Vannozza se non per avidità di guadagno; e l'aver accettato mostra che la condizione sin allora tenuta di cortigiano di cardinali non l'aveva arricchito.
Il nuovo contratto di nozze fu rogato l'8 giugno 1486 dal notaio di casa Borgia, Camillo Beneimbene. Furon testimoni Francesco Maffei, scrittore apostolico e canonico di San Pietro, Lorenzo Barberini de Catellinis, cittadino romano, Giuliano Gallo, un noto mercatante romano, i signori Burcardo Barberini, De Carnariis, e altri molti. Come dote la Vannozza portava allo sposo, oltre altri donativi, la somma di 1000 fiorini d'oro, e il diploma dato gratuitamente [22] al posto di sollecitatore delle Bolle papali. Nell'istrumento il matrimonio di Vannozza è espressamente indicato come il secondo. Ed è chiaro, si sarebbe invece parlato di terze o in generale di nuove nozze, ove quelle pretese prime con Domenico di Arignano avessero realmente avuto luogo.[18]
Nel contratto come abitazione di Vannozza, dove le nozze furono stipulate, è indicata la casa sua nel quartiere Regola, a Piazza de Branchis, nome che la piazza porta ancora da una estinta famiglia De Branca. Ciò mostra che dopo la morte del primo marito essa aveva dovuto abbandonar la casa a Pizzo di Merlo e passare in quest'altra a Piazza Branca. La quale doveva essere di proprietà di lei; mentre il secondo marito pare uomo sprovvisto di sostanze, che solo col matrimonio e con la protezione del potente cardinale sperava far fortuna.
Da una lettera del nominato Ludovico Gonzaga, del 19 febbraio 1488, risulta che il nuovo matrimonio di Vannozza non fu sterile. Il vescovo di Mantova incaricava il suo agente in Roma di fare in vece sua da padrino a Carlo Canale, che di tale onore avevalo richiesto. La lettera non aggiunge altro: pure ciò non può essere inteso che nel senso indicato.[19]
Non si sa in qual tempo Lucrezia abbandonasse la casa della madre e andasse per determinazione del cardinale in tutela ad una donna, che su lui e su tutta la famiglia Borgia esercitava grande influenza.
Questa era Adriana della casa dei Mila, figlia di Don Pietro, uno dei nipoti di Callisto III e cugino di Rodrigo. Quale stato costui tenesse in Roma, ignoriamo.
[23]
Egli sposò la figliuola Adriana con un membro della nobile casa degli Orsini, Ludovico, signore di Bassanello presso Civitacastellana. Essendosi Ursino Orsino, nato da questo matrimonio, ammogliato nell'anno 1489, è da tenere che la madre Adriana sia divenuta moglie almeno 16 anni prima. In quell'anno stesso 1489 il marito Ludovico Orsino era già morto.
Nello stato matrimoniale e poscia nella vedovanza Adriana abitò in Roma uno de' palazzi degli Orsini, probabilmente quello a Monte Giordano, di qua da Ponte Sant'Angelo. Di fatto più tardi nella eredità di suo figlio Ursino si nomina la parte, cui egli aveva diritto appunto su tal palazzo.
Il cardinale Rodrigo viveva in istrettissima relazione con Adriana. Essa era per lui più che congiunta: la confidente de' peccati suoi, de' suoi intrighi e de' suoi disegni, e tale la ebbe sino alla morte.
A lei affidò anche sin dalla tenera età la figliuola Lucrezia, perchè la educasse. Di questo fatto non si può dubitare. Si rileva da una lettera dell'ambasciatore di Ferrara in Roma, Giannandrea Boccaccio, vescovo di Modena, indirizzata al duca Ercole nell'anno 1493. A proposito di Madonna Adriana Ursina dice, che questa ha sempre tenuta ed educata Lucrezia in sua propria casa.[20]
Secondo il costume italiano, mantenutosi insino ad oggi, l'educazione delle figliuole era affidata a monache. D'ordinario le fanciulle, passati alquanti anni in un monastero, andavano poscia a marito ed entravano nel mondo. [24] Se non che, se è vera la descrizione che l'Infessura ci porge delle condizioni dei monasteri di donne, anche il cardinale dovette esitar molto prima di confidare la sua figliuola a quegli stinchi di sante. V'erano nulladimeno anche monasteri, ove tanta indisciplinatezza non era penetrata, come forse San Silvestro in Capite, nel quale i Colonna facevano educare alcune delle loro figlie, ovvero Santa Maria Nuova o San Sisto sulla via Appia. Essendo il Borgia papa, Lucrezia scelse appunto l'ultimo di questi chiostri per asilo, forse per la ragione che già bambina v'aveva per un pezzo ricevuta l'educazione religiosa.
Fondamento della educazione di una donna italiana fu in ogni tempo la devozione per la Chiesa. Quella non era già rivolta a formare il cuore e l'animo; ma una bella forma di contegno religioso, mercè la quale la fede potesse dare una certa ritenutezza alla morale. Il peccare in sè non rendeva brutta niuna donna; ma dalla peccatrice, fosse pure la più dissoluta, il costume esigeva che adempisse tutti gli obblighi della Chiesa, e si mostrasse all'apparenza una cristiana ben composta. Donne scettiche e di libero spirito, si può dir, non ve n'erano; in quelle condizioni di socievolezza sarebbero state impossibili. Quell'empio tiranno, che fu Gismondo Malatesta di Rimini, edificò una magnifica chiesa, e in essa una cappella in onore della sua amante Isotta. E Isotta sicuramente non fu a nessuna seconda quanto a praticar in chiesa. Vannozza fece costruire e ornare una cappella in Santa Maria del Popolo. Fu in voce di donna devota, e non mica dopo la morte di Alessandro VI. Suprema delle sue cure materne, come di Adriana, fu, senza dubbio, di dare alla figliuola quel decente contegno cristiano; e Lucrezia se l'era appropriato tanto per bene, che più tardi un ambasciatore di Ferrara potè lodarsi delle sue maniere rigorosamente cattoliche.
È erroneo credere che qui si tratti di una ipocrisia. [25] Questa implicherebbe un pensiero indipendente intorno ai problemi religiosi o un processo interiore e morale, ch'è estraneo affatto alle donne di quel tempo, e che in massima parte tal è tuttora alle donne italiane. La religione era ed è in Italia forma di educazione; e, per minimo che fosse il suo valore etico, era pur sempre una specie di bella formalità, nella quale la vita quotidiana era rinchiusa e assicurata come in una cornice.
Le figliuole di famiglie fornite di mezzi di fortuna non potevano nei chiostri attendere agli studii letterarii; ricevevano invece questa istruzione da maestri, dati forse loro in comune coi fratelli. Non ê un'esagerazione il dire, che le donne bennate nel XV e nel XVI secolo avevano una coltura più soda e più erudita di quella del tempo nostro. La ragione di ciò è da riporre non nella vastità, ma ben piuttosto nel carattere esclusivo e nella limitazione della coltura d'allora. Le mancava quel patrimonio immenso e veramente incalcolabile di materiali di civiltà, che lo svolgimento e il progresso dello spirito europeo nel corso di tre secoli ha generati. La coltura della donna nella Rinascenza si concentrava essenzialmente nell'antichità classica. Si lasciava da banda come di niun valore tutto quanto potesse allora meritare il nome di moderno. Per tanto era una coltura dotta. In quella vece la coltura odierna della donna non è più classica; ma trae esclusivamente alimento dal tesoro delle cognizioni moderne. Se non che appunto la varia e multiforme natura di queste le toglie oggi quel carattere posato e sicuro, facilmente ottenibile dalla donna della Rinascenza in una cerchia limitata di educazione. L'istruzione odierna delle donne, anche nella Germania, tanto lodata per le sue scuole, è suppergiù senza fondo e superficiale, anzi scientificamente nulla. Tutt'al più si riduce ad imparare un paio di lingue viventi e a suonare il pianoforte; e per questo si spende un tempo [26] sterminato. L'eccessiva lettura de' giornali, de' libri di amena letteratura e de' romanzi quasi non lascia più agio alle nostre donne di acquistare una cultura seria. Nella Rinascenza il pianoforte non si conosceva; ma ogni donna bene educata usava suonare il liuto. Il romanzo era appena su' primi albori. Ancora oggi l'Italia è il paese, ove si produca e legga il meno in quel genere letterario. Ebbe, dopo il Boccaccio, novelle; ma anche queste piuttosto con parsimonia. Le poesie furono numerosissime; ma per metà scritte in latino. Il commercio librario e la stampa erano bambini. Il teatro sorto appena; e solo una volta l'anno, nel carnevale, si davano rappresentazioni drammatiche, e non su pubbliche, ma su scene private. Ciò che noi oggi chiamiamo letteratura o coltura internazionale, consisteva allora nello studio de' classici, cui si attendeva con passione. Quel luogo che nella educazione delle nostre donne hanno preso le lingue straniere, era tenuto allora dalla conoscenza delle lingue latina e greca.
Agl'Italiani della Rinascenza non entrava in mente il pregiudizio, che la famigliarità con queste ultime lingue, che il sapere erudito rompa il fascino della natura femminile; e che le donne in genere debbano tenersi in una sfera inferiore di coltura. È un pregiudizio codesto, come alcuni altri penetrati nelle società nostre, d'origine germanica. Ideale della natura della donna ai Tedeschi parve sempre l'amoroso governo della madre nella cerchia della famiglia. Per lunga pezza le donne tedesche schivarono ogni esistenza pubblica per un sentimento di pudore e di moralità. Le attitudini loro restaron nascose, tranne il caso che peculiari condizioni, specialmente vivendo in Corte o per ragioni dinastiche, non le costringessero a mostrarle. Riandando, anche sino ai tempi moderni, la storia della coltura dei popoli germanici, non si trova un numero così grande di caratteri di donne pubblicamente famose, quali l'Italia, [27] la terra prediletta della personalità, ha possedute nella Rinascenza. L'influenza, esercitata da donne di alto intelletto sulla vita socievole italiana ne' secoli XV e XVI, e nel tempo posteriore in Francia sullo svolgimento spirituale e sociale, fu ignota in Inghilterra e in Germania.
Nulladimeno più tardi le condizioni della coltura femminile nei paesi germanici e nei latini si sono invertite. Si elevò in quelli, mentre in questi diè giù, massime in Italia. La donna italiana, che durante la Rinascenza si poneva a fianco dell'uomo, e gareggiava con lui per la palma della coltura, e prendeva amore ad ogni progresso spirituale, restò poscia indietro e in basso. Da due secoli in qua si tenne indifferente ed estranea del tutto alla più elevata sfera della vita nazionale. Divenne piuttosto, nelle mani del prete, istrumento di servitù spirituale. In cambio, alle donne germaniche la Riforma rese maggior libertà personale. E a cominciare soprattutto dagl'inizii del secolo XVIII anche la Germania e l'Inghilterra han potuto esporre la loro serie di donne largamente colte e anche erudite. Non è colpa della Chiesa, ma della moda, delle abitudini sociali, e un po' anche del manco di ricchezza nelle famiglie, se in Germania la coltura delle donne è in generale mediocre.
Ai nostri tempi in una scuola tedesca superiore, nella Svizzera, è stato fatto un primo tentativo di rinnovamento di quell'antica coltura erudita per le donne; quale fu intesa in Italia. L'impresa fallì, perchè si volle aggiungervi altri scopi, oltre quello della coltura, e perchè non fu tutta opera di donne germaniche. Ma per dubbioso e incerto che dovess'essere l'esito di tale tentativo scolastico, rispetto alle abitudini e disposizioni della donna, fu pur forse il segno di una incipiente riforma nella istruzione femminile.
Una donna dotta, per la quale oggi gli uomini sentono [28] d'ordinario più avversione che rispetto, noi Tedeschi la chiamiamo, massime se scrive libri, dottoressa.[21] Nella Rinascenza la si chiamava Virago, predicato ch'era titolo d'onore. Jacopo da Bergamo nello scritto Sulle donne celebri, composto nel 1496,[22] l'adopera sempre come segno di distinzione. Raramente quella parola trovasi in scrittori italiani usata per significare quel concetto che comunemente sveglia in noi Tedeschi. Chiamavasi a quel tempo Virago la donna, che per coraggio, intelligenza e coltura si levava al di sopra delle altre. Tanto era più festeggiata, se con simili doti accoppiava grazia e bellezza. Imperocchè l'erudizione e la classica coltura presso gl'Italiani non eran nemiche delle grazie femminili. Piuttosto quelle davano a queste nuova e maggior forza. Dell'una donna o dell'altra Jacopo mai non tralascia di notare, che, quantunque volte mostravansi in pubblico come poetesse od oratrici, ciò che affascinava l'uditorio era appunto l'incredibile pudore e la decenza loro. Loda così Cassandra Fedeli; e di Ginevra Sforza ammira l'eleganza della forma, la grazia straordinaria in ogni movimento della persona, la franca regal maniera e soprattutto la morale bellezza. Altrettanto dice di Ippolita Sforza, moglie d'Alfonso d'Aragona, che in sè riuniva coltura finissima, meravigliosa eloquenza, [29] bellezza rara e nobilissimo pudore femmineo. Ciò che allora chiamavasi pudore (pudor), altro non era che la colta grazia naturale di una donna altamente dotata: in una parola, la grazia svolta e perfezionata. Lucrezia Borgia ne era fornita a dovizia. Nella donna rispondeva a quel che nell'uomo era il decoro del perfetto cavaliere. Forse non senza maraviglia si leggerà, che alcuni contemporanei lodavano in Cesare, nell'uomo di sì trista fama, la modestia, come una delle qualità sue più spiccate. Ma anche ciò bisogna intendere sotto il rispetto della coltura della personalità, della quale era essenzial forma di educazione e di manifestazione la modestia nell'uomo, nella donna il pudore.
Certo nel secolo XV o nel XVI sui banchi delle scuole pubbliche in Bologna, Ferrara e Padova non sedettero donne emancipate, quali, non ha molto, se ne videro a Zurigo per attendere a studii pratici professionali. Ma le scienze stesse umanistiche, coltivate da giovani e da uomini, erano una necessità anche per l'alta coltura femminile. Come nel Medio Evo tènere fanciulle dedicavansi ai Santi del chiostro per divenir monache, così nella Rinascenza bambine straordinariamente dotate venivano offerte alle Muse. Jacopo da Bergamo, a proposito della Trivulzia di Milano, contemporanea di Lucrezia, che già a 14 anni suscitava per l'eloquenza sua incredibile ammirazione, dice: «Allorchè i genitori si accorsero delle straordinarie facoltà della bambina, la dedicarono quando aveva appena sette anni alle Muse, e la confidarono a loro, perchè la educassero.»
Gli studii scientifici delle donne comprendevano allora le lingue classiche e i tesori letterarii delle stesse, l'eloquenza, la poesia, l'arte cioè di versificare, e la musica. Il dilettantismo nelle arti del disegno nacque naturalmente di per sè. La grande copia di creazioni artistiche della Rinascenza [30] porgeva modo ad ogni donna colta italiana di acquistare senza fatica gusto e senso pel bello artistico.
Filosofia e teologia entravano esse pure nella coltura perfetta della donna. Dispute intorno a problemi relativi a tali discipline avevan luogo nelle corti e nelle sale delle Università tutti i giorni; e non mancavano donne aspiranti alla gloria di prendervi parte e illustrarvisi. La veneziana Cassandra Fedeli, un miracolo del tempo, sullo scorcio del secolo XV era tanto addentro nella filosofia e teologia quanto ogni dotto uomo. Essa disputava in pubblico con molta grazia, tra l'entusiasmo degli ascoltatori, in presenza del doge Agostino Barbarigo, e sovente nella pubblica scuola di Padova. La bella moglie di Alessandro Sforza di Pesaro, Costanza Varano, era versata nella poesia, eloquenza e filosofia. Scrisse molti dotti trattati. «Aveva quotidianamente tra mano gli scritti di Agostino, Ambrogio, Jeronimo e Gregorio, quelli di Seneca, Cicerone e Lattanzio.» Egualmente erudita la figliola, Battista Sforza, la nobile moglie di quel coltissimo uomo di Federico da Urbino. E della famosa Isotta Nugarola di Verona si racconta, che fu pienamente familiare coi libri dei Padri della Chiesa e dei filosofi. Nè erano poi sconosciuti ad Isabella Gonzaga ed Elisabetta di Urbino, per non dire di altre che subito dopo vennero del pari in celebrità, quali Vittoria Colonna e Veronica Gambara. I nomi di queste e di altre donne indicano il culmine della coltura femminile nella Rinascenza. E quando pure l'ingegno e l'istruzione loro fossero stati per ogni tempo eccezionali, è certo che quegli studii, che in sì alto grado si appropriarono, non entravan punto per eccezione nella sfera di coltura delle donne bennate. Eran coltivati invece per complemento della personalità e per render più adorna l'esistenza socievole. La frivolezza delle conversazioni nostre è veramente sconfinata: a siffatta vuotaggine si cerca rimedio [31] nel canto e nel suono del pianoforte. Certo nelle sale stesse della Rinascenza le cose non saranno sempre ite come nei simposii platonici; e quelle dispute nelle conversazioni sarebbero oggi per noi motivo di noia insopportabile. Non di meno i bisogni d'allora eran diversi. Un discorso bello e pieno di spirito tra gente di valore e finamente educata, dandogli una tinta e un carattere di classicismo, introducendovi pensieri tolti da antichi autori; ovvero svolgere e compiere dialogizzando un discorso sopra un dato tèma: era questo l'altissimo de' diletti per la socievolezza d'allora. Questa forma di conversazione propria alla Rinascenza, toccò più tardi in Francia la vera altezza dell'arte. Il Talleyrand la chiamava la più bella e più grande felicità dell'uomo. Il dialogo classico rifiorì, con questo progresso, che vi pigliavan parte anche donne altamente istruite. Come modelli di siffatta elegante e geniale socievolezza valgono il Cortegiano del Castiglione e Gli Asolani, che il Bembo dedicò a Lucrezia Borgia.
La figlia di Alessandro non ebbe grido fra le donne italiane classicamente colte; mentre sembra l'educazione di lei non essersi di molto levata oltre il livello comune. Ma pel tempo suo ricevette istruzione compiuta. Aveva imparato le lingue, la musica e le arti del disegno; e più tardi in Ferrara la sua abilità artistica nel fare bei ricami in seta e oro fu oggetto di ammirazione. «Parlava spagnuolo, greco, italiano e francese, un tantino anche e correttamente latino; e in tutte queste lingue scriveva e faceva versi:» così di lei il biografo del Bayard nel 1512. Sotto l'influenza del Bembo e dello Strozzi, Lucrezia potè più tardi, nel periodo più tranquillo della vita sua, perfezionare la sua educazione. Pure è certo che dovette averne gettate le basi in Roma. Essa era ad una volta spagnuola e italiana; e delle lingue de' due paesi fu interamente padrona. Delle lettere sue al Bembo due sono scritte in spagnuolo: [32] le molte altre — più di 100 — che ancora di lei rimangono, sono in italiano di quel tempo, semplici nell'espressione e spigliate nel concetto. Per contenuto non hanno importanza di sorta: v'appariscono l'animo e il sentimento, ma nessuna profondità spirituale. La calligrafia non è sempre uguale: talvolta ha tratti duri e forti, che ricordano la maniera di scrivere tutta piena di energia del padre; tal'altra è netta e fine come quella di Vittoria Colonna.
Nessuna delle lettere prova che Lucrezia comprendesse il latino; e il padre stesso ebbe una volta a dire com'ella non ne fosse padrona del tutto. Ad ogni modo doveva essere in grado d'intendere le scritture latine; altrimenti Alessandro non averebbe potuto più tardi farla sua rappresentante in Vaticano, con facoltà di aprire le lettere. Similmente gli studii di lei nel greco non devono essere stati molti serii; pure non è a dire che l'ignorasse affatto. Nella sua gioventù fiorivano ancora in Roma le scuole di letteratura greca, che vi andarono crescendo dopo il Crisolora e il Bessarione. Nella città dimoravano sempre molti Greci, parte esuli dalla Grecia, parte venuti con la regina Carlotta di Cipro. Questa principessa così vaga di avventure visse, sino alla morte, nel luglio 1487, in un palazzo del Borgo Vaticano, ove teneva corte e forse raccoglieva a sè d'intorno la gente dotta di Roma, come appunto usò molto più tardi la colta regina Cristina di Svezia. Nella casa di lei il cardinal Rodrigo doveva aver conosciuto, fra gli altri nobili Ciprioti, anche Ludovico Podocatharo, che fu poi suo secretario. Forse fu questi che insegnò il greco ai bambini Borgia.
Nel palazzo del cardinale viveva pure un umanista tedesco, Lorenzo Behaim di Nurenberga. A questo fu per 20 anni affidato il governo di casa Borgia; e poichè era latinista e membro dell'Accademia romana di Pomponio [33] Leto, è naturale che la presenza sua non fosse senza una certa influenza sulla educazione dei figliuoli del suo signore. Del resto, d'insegnanti nelle scienze umanistiche non era difetto in Roma. Eran quelle nel loro fiore. E l'Accademia come l'Università producevano grande copia di uomini d'ingegno. V'erano quindi molti maestri che tenevano scuola, e molti giovani eruditi, accademici attivi e operosi, che in parte cercavano far fortuna alla Corte de' cardinali, come uomini di compagnia e secretarii, o come insegnanti dei loro bastardi. Anche Lucrezia ebbe da tali maestri lezioni di letteratura classica. Quanto alla poesia italiana o alla virtuosità di far sonetti, allora universalmente comune anche alle donne, essa potette facilmente apprenderla da uno de' tanti poeti, che allora vivevano in Roma. Imparò senza dubbio a far versi; ma nulla dava diritto agli storici della letteratura Quadrio e Crescimbeni ad assegnarle un posto nella poesia italiana. Di fatto nè il Bembo nè Aldo nè lo Strozzi l'hanno giammai nominata come poetessa, nè di lei si conoscono poesie. Anche le canzoni spagnuole, che si trovano nelle sue lettere al Bembo, nemmeno è certo che siano composizioni sue.
È facile immaginare quanta commozione dovette cagionare in Lucrezia il primo sentore delle sue reali condizioni di famiglia. Il marito della madre non era suo padre. Insieme coi fratelli, ella si trovava figliuola di un cardinale. Lo spuntar di questa coscienza si accoppiava in lei con la comprensione di relazioni, che, condannate dalla Chiesa, volevano al cospetto del mondo rimaner coperte da un velo. Essa anzi fu sempre trattata come la nipote del cardinal Borgia. Nel padre suo onorava ad un tempo uno dei più eminenti [34] principi della Chiesa di Roma, che sentiva anche designare come papa futuro.
Per certo la conoscenza degl'eminenti vantaggi di tal condizione ebbe sulla fantasia di Lucrezia efficacia più energica del concetto dell'immoralità. Il mondo, nel quale viveva, non si tormentava davvero con scrupoli morali; e raramente vi fu tempo, in cui l'abito di sfruttare in ogni modo e al massimo grado possibile le relazioni di fatto esistenti fosse altrettanto diffuso e radicato. Ben presto apprese come legami di quella natura fossero in Roma comuni e universali. Sentì che la più parte dei cardinali vivevano con amiche, e largamente provvedevano ai loro figliuoli. Le fu raccontato di quelli del cardinal Giuliano Della Rovere o Piccolomini. Vide coi proprii occhi i figli e le figlie di Estouteville; e sentì parlare dei feudi che il ricco padre aveva per loro acquistati sui monti Albani. Vide anche i figliuoli di papa Innocenzo salire in grande onore; le fu mostrato il figlio di lui Franceschetto Cibo con l'illustrissima moglie Maddalena Medici. Seppe che nel Vaticano vivevano altri figli e nipoti del Papa; e vedeva continuamente uscirne ed entrarvi la figlia, Madonna Teodorina, la moglie del genovese Uso di Mare. Aveva 8 anni, quando la figlia di costoro, Donna Peretta, fu sposata in Vaticano col marchese Alfonso del Carretto con tanta pompa e feste, che tutta Roma ne parlò.
Il primo concetto della sorte non comune, che a lei ed ai fratelli suoi per ragion della nascita poteva spettare, erasi già formato in Lucrezia al veder duca spagnuolo il maggiore di essi, Pierluigi. Non sappiamo con precisione in qual tempo il giovane Borgia lo divenisse: nel 1482 non era ancora. I legami potenti, che suo padre manteneva con la Corte spagnuola, avevano a costui reso possibile di far nominare il figlio Duca di Gandia nel regno di Valenza. E, come il Mariana osserva, il Ducato egli lo comprò.
[35]
Don Pierluigi moriva in Spagna ancora giovanissimo. Di fatto in un documento del 1491 si parla di lui come morto, e si fa menzione di un legato nel suo testamento a favore della sorella Lucrezia.[23] Il ducato di Gandia passò al secondogenito di Rodrigo, Don Juan, che si affrettò ad andare a Valenza per prenderne possesso.
E frattanto le inclinazioni del cardinale s'erano rivolte ad altre donne. Nel maggio 1489, quando Lucrezia aveva 9 anni, vediamo la prima volta apparire Giulia Farnese, giovane di maravigliosa bellezza, dal cui fascino fu preso con passione e ardore giovanile il già maturo cardinale e più tardi papa Borgia.
Si deve a questo adultero amore di lui per la Giulia, se la casa dei Farnese entrò prima nella storia di Roma e poscia in quella del mondo. Rodrigo Borgia fu di fatto il creatore della grandezza di questa famiglia, nominando cardinale Alessandro, fratello della Giulia. Così pose la base al papato di Paolo III, stipite dei Farnesi di Parma; schiatta famosa, che non s'estinse che nel 1758 sul trono di Spagna con la regina Elisabetta.
In Roma, dove due de' più belli edifizii della Rinascenza han reso immortale il nome dei Farnesi, non avevan costoro, sino al tempo del Borgia, importanza alcuna. Non abitavano nemmeno la città, ma l'Etruria romana. Possedevano ivi alcuni luoghi, come Farneto, donde devono aver tratto il nome, Ischia, Caprarola e Capodimonte. Più tardi, non si sa quando, vennero anche momentaneamente in possesso d'Isola Farnese, castello antichissimo sulle rovine di Veja, che già dal secolo XIV era stato degli Orsini. L'origine dei Farnesi è oscura, ma la tradizione, che gli fa derivare dai Longobardi o dai Franchi, ha per sè ogni verosimiglianza. Essa trova sostegno nel nome [36] Ranuccio così frequente in quella casa, forma italianizzata di Rainer (Raniero).
I Farnesi s'agitavano in Etruria come piccola dinastia di feudatarii rapaci, senza però giungere alla potenza dei loro vicini, degli Orsini di Anguillara e Bracciano e di quei famosi Conti di Vico, tedeschi d'origine, che dominarono da prefetti nell'Etruria per secoli, sino a che non caddero sotto Eugenio IV. Mentre questi prefetti erano i più ardenti ghibellini e più feroci nemici dei papi, i Farnesi invece, al pari degli Este, furon sempre del partito guelfo. Dall'XI secolo in poi andarono Consoli e Podestà in Orvieto, quindi qua e là capitani della Chiesa in quelle molte guerricciole con città e baroni, specie nell'Umbria e nel Patrimonio di San Pietro. Ranuccio, avo di Giulia, fu tra' più valenti generali di Eugenio IV, e compagno del Vitelleschi, il terribile domatore di tiranni. Mercè sua la casa dei Farnesi era salita in maggior reputazione. Il figlio Pierluigi si sposò con Donna Giovannella della stirpe dei Gaetani di Sermoneta. Figliuoli di costui furono Alessandro, Bartolomeo e Angiolo, Girolama e Giulia.
Alessandro Farnese, nato il 28 febbraio 1468, era giovane di spirito e di mente colta, ma di cattiva fama per le sfrenate passioni. Nel 1487 aveva, dietro malvage imputazioni, messo in prigione la propria madre, per la qual cosa fu a volta sua da Innocenzo VIII fatto rinchiudere in Castel Sant'Angelo. Ma seppe evaderne, senza che ciò avesse per lui ulteriori conseguenze. Egli era Protonotario della Chiesa. La sorella maggiore Girolama si sposò con Puccio Pucci, uno dei più ragguardevoli uomini politici di Firenze, membro di numerosa famiglia molto intimamente legata coi Medici.
Il 20 maggio 1489 nella Camera Stellata del palazzo Borgia comparve la giovane Giulia Farnese con Ursino Orsini, giovane egualmente, per stipulare il loro contratto nuziale. [37] Prima di tutto fa maraviglia che ciò avesse luogo nella casa del cardinal Rodrigo. Il nome suo sta nel contratto il primo di tutti i testimoni, come quello di persona che ha preso gli sposi sotto la sua protezione e concluso il matrimonio. Le nozze, del resto, erano già state innanzi fissate dai genitori — non più viventi nel 1489 — degli sposi, essendo questi ancora minori, cioè dire, da Ludovico Orsini, signore di Bassanello e da Pierluigi Farnese. Usava allora fidanzar legalmente bambini; e, come già nell'antica Roma, i promessi sposi contraevano poscia il matrimonio in età ancora minore, spesso a 13 anni appena. Il 20 maggio 1489 Giulia poteva aver solo 15 anni; era sotto la tutela dei fratelli e degli zii della casa dei Gaetani. Il giovane Orsini stava sotto la tutela della madre Adriana, che era l'Adriana de Mila, la parente del cardinal Rodrigo e l'educatrice di Lucrezia. Ciò rende a sufficienza ragione della parte officiale e personale che colui prendeva al matrimonio della Giulia.
Al contratto nuziale stipulato dal notaro Beneimbene furono, oltre il cardinale, testimoni il vescovo Martini di Segovia, i canonici spagnuoli Garcetto e Caranza e il nobile romano Giovanni Astalli. Assistenti della sposa dovevano essere i fratelli, ma venne solo il più giovane, Angiolo: Alessandro s'astenne. Il non essere apparso nel palazzo Borgia, in occasione così solenne per la famiglia, è notevole: nondimeno può essere stato per circostanze accidentali. Il protonotario Jacopo e suo fratello Don Nicola Gaetani, zii della sposa, eran presenti. La somma di 3000 fiorini d'oro fu la dote di Giulia, che per quel tempo era molto ragguardevole.[24]
Il giorno dopo, il 21 maggio, fu festeggiato lo sposalizio della giovane coppia nello stesso palazzo Borgia. Molti [38] grandi signori vi presero parte, de' quali sono specialmente nominati i parenti dello sposo, il cardinal Gianbattista Orsini e Rainaldo Orsini, arcivescovo di Firenze. La bella stagione potè permettere agli sposi di andarsene al castello di Bassanello; ovvero, se così non fecero, essi presero stanza nel palazzo Orsini a Monte Giordano.
In questo palazzo, presso Madonna Adriana, madre del giovane Orsini, il cardinal Rodrigo aveva dovuto già prima del matrimonio conoscere e spesse volte vedere la Giulia Farnese. Colà pure la Lucrezia, più giovane di parecchi anni, dovette fare la conoscenza della stessa. Giulia era bella tanto, che si ebbe per soprannome la bella. Al pari di Lucrezia, aveva bionda la chioma come oro. Nella casa di Adriana questa dolce e vaga fanciulla diè nella rete del libertino Rodrigo. Cedette alle arti seduttrici di lui o già prima di sposarsi col giovane Orsini o subito dopo. Probabilmente accese la sensualità del cardinale, uomo già di 58 anni, allorchè gli si presentò nel palazzo in abito da sposa, in tutto lo splendore della sua gioventù affascinante. Comunque, il certo è, che già dopo due anni dal matrimonio la Giulia era l'amante dichiarata del cardinale. Quando Madonna Adriana ebbe scoperta la relazione, chiuse gli occhi e si rese complice delle turpitudini della nuora. Per tal guisa divenne la persona più potente e influente nella casa Borgia.
Dei tre figlioli del cardinale, Juan e Cesare eran frattanto venuti crescendo. Entrambi nel 1490 non erano a Roma. L'uno trovavasi in Spagna; l'altro agli studii nell'Università di Perugia, donde passò poi in quella di Pisa. Già nel 1488 Cesare deve aver frequentato una di quelle scuole superiori, e probabilmente la prima. In quell'anno di fatto Paolo Pompilio gli dedicò la sua Syllabica, uno scritto sulle regole per ben comporre in versi. Egli vi lodava il genio ascendente di Cesare, speranza e [39] decoro di casa Borgia, i progressi di lui nelle scienze, la maturità dello spirito in età così giovanile, e ne predicava la gloria a venire.[25]
Il padre l'aveva destinato alla carriera ecclesiastica, abbenchè Cesare non sentisse per essa che repugnanza. Da Innocenzo VIII aveva colui ottenuto, che il figlio suo fosse fatto Protonotario della Chiesa e di più preconizzato vescovo di Pampelona. Come Protonotario apparisce in un documento del febbraio 1491. E in quel tempo stesso il più giovane dei figlioli di Rodrigo, Don Jofrè, fanciullo di circa 9 anni, è nominato Canonico e Arcidiacono di Valenza.[26]
Cesare dovette andare a Pisa nel 1491. Quell'Università accoglieva molti giovani di cospicue famiglie italiane, soprattutto per la rinomanza grande del Rettore degli studii, il milanese Filippo Decio. Il giovane Cesare v'andò con due condiscepoli spagnuoli, favoriti del padre, Francesco Romolini da Ilerda e Giovanni Vera da Arcilla nel regno di Valenza. L'ultimo gli venne dato come aio, così qualificandolo Cesare stesso in una lettera dell'ottobre 1492, ove lo chiama il più fido dei famigliari suoi.[27] Nel 1491 Francesco Romolini aveva già più di 30 anni; studiò con fervore Diritto, del quale acquistò ampia cognizione. Egli è il Romolino stesso, che più tardi in Firenze condusse il processo contro Savonarola. Nel 1503 Alessandro lo fece cardinale; e cardinale era pur divenuto Vera sin dal 1500. I mezzi di fortuna del padre permettevano al [40] giovane Cesare di vivere in Pisa con sontuosità principesca; e lo stato di colui lo pose anche in grado di entrare in amichevoli relazioni coi Medici.
Il cardinal Borgia continuava allora a cercare nella Spagna la fortuna dei figliuoli suoi. Anche per la figlia Lucrezia non sapeva immaginare avvenire più splendido di un matrimonio spagnuolo. E, senza dubbio, dovette avere a segnalata fortuna, che il figliolo di una di quelle antiche e nobili case di Spagna acconsentisse a diventare il marito della bastarda di un cardinale. Questi fu Don Cherubin Juan de Centelles, signore di Val d'Ayora nel regno di Valenza, fratello del Conte di Oliva.
Nel 26 febbraio e 16 giugno 1491 in Roma furono firmate le tavole nuziali e distese in lingua valenzana. Il giovane sposo trovavasi a Valenza e la sposa a Roma; e a questa il padre aveva dato per procuratore il nobile romano Antonio Porcaro. Nel contratto fu per Lucrezia sborsata la somma di 300,000 timbres o soldi di moneta valenzana, ch'essa portava in dote al marito Don Cherubin, parte in moneta contante, parte in gioielli e altri oggetti di corredo. Fu espressamente notato, 11,000 timbres provenire dal testamento del fu Don Pierluigi de Borgia, duca di Gandia, che gli aveva assegnati in dote alla sorella sua, ed altri 8000 donarsi alla stessa pel medesimo titolo dagli altri suoi fratelli Don Cesare e Don Jofrè, similmente, com'è da presumersi, sulla eredità di costoro. Fu stabilito che Donna Lucrezia sarebbe condotta a Valenza a spese del cardinale entro l'anno dal contratto, e che il matrimonio sarebbe ecclesiasticamente solennizzato entro i sei mesi dall'arrivo di lei in Spagna.[28]
Così Lucrezia, bambina ancora di 11 anni, vide una volontà a lei estranea disporre della sua mano e della [41] felicità sua, e da quel momento non fu più padrona del suo destino. Tale, del resto, era la sorte di tutte le figliole di alta e anche di bassa condizione. Poco innanzi che il padre divenisse papa, sembrò proprio deciso ch'ella dovesse trascorrere la vita sua in Spagna. E facilmente sarebbe sparita dalla storia del Papato e d'Italia, se quelle nozze si fossero in effetto avverate. Ma ciò non accadde. Impedimenti, che non conosciamo, ovvero mutamenti nei disegni del padre valsero a fare sciogliere quella promessa di matrimonio con Don Cherubin. Sin dal momento che tale promessa, mercè procura, veniva legalmente stipulata, il padre pensava già per la figlia ad altro matrimonio. Il marito predestinatole era Don Gasparo, anche lui giovane spagnuolo, figlio del cavaliere Don Juan Francesco di Procida, conte d'Aversa. Questa famiglia doveva essere andata a Napoli con la casa Aragonese. Madre di Don Juan Francesco vien chiamata Donna Leonora di Procida e Castelleta, contessa d'Aversa. Il padre di Gasparo viveva in Aversa; ma quest'ultimo trovavasi il 1491 in Valenza, dove forse attese alla sua educazione presso i parenti, essendo egli ancora fanciullo sotto i 15 anni. In un istrumento del notaro Beneimbene, del 9 novembre 1492, è espressamente detto, che nel 30 aprile dell'anno antecedente 1491, con tutte le formalità e mercè regolare procura, era stata conclusa promessa di matrimonio tra Lucrezia e Gasparo, e che il cardinal Rodrigo si era obbligato a mandare a spese sue la figlia a Valenza, ove il matrimonio sarebbesi solennizzato innanzi alla Chiesa. Ma un'identica promessa col giovane Centelles era stata legalmente stipulata solo il 26 febbraio dello stesso anno 1491, e ratificata ancora nel giugno 1491. Epperò vi sarebbe luogo a dubitare della esattezza della data. Se non che non solo l'istrumento nel protocollo del Beneimbene, ma anche una copia dello stesso nell'Archivio dell'Ospedale [42] di Roma alla Sancta Sanctorum porta la data dell'ultimo d'aprile 1491, come giorno in cui ebbero luogo i capitoli matrimoniali tra Lucrezia e Don Gasparo. In questo atto fu procuratore di lei non più Antonio Porcaro, ma Don Jofrè Borgia, barone di Villa Longa insieme col canonico Jacopo Serra di Valenza e col valenzano Vicario generale Matteo Cucia.[29] Onde è innegabile questo fatto strano, che Lucrezia al tempo stesso fu promessa sposa di due giovani spagnuoli.
Malgrado della mancata promessa verso il primo degli sposi, sembra che la famiglia dei Centelles sia rimasta in buoni termini coi Borgia. Più tardi di fatto, quando Rodrigo era papa, tra i camerieri a lui più intimi troviamo un Guglielmo de Centelles, e un Raimondo della stessa casa qual Protonotario e Tesoriere di Perugia.
Il 25 luglio 1492 accadde ciò che i Borgia da tempo e con tanto ardore avevano sospirato e atteso, la morte di Innocenzo VIII. Quattro cardinali erano allora, a preferenza di tutti, candidati al Papato, Raffaele Riario e Giuliano Della Rovere, i due potenti nepoti di Sisto IV; quindi Ascanio Sforza e Rodrigo Borgia.
Per la famiglia di quest'ultimo, sino a che la nuova elezione non fu decisa, trascorsero giorni di ansietà febbrile. Dei figliuoli di lui erano in Roma soltanto Lucrezia e Jofrè, ambedue in casa Madonna Adriana. Vannozza viveva nella propria col marito Canale, che da un pezzo copriva la carica di Scrittore della Penitenzeria. Essa aveva allora 50 anni, e null'altro le restava a desiderare [43] in vita che di veder effettuato il supremo e più fervido voto dell'animo suo, di veder salire il padre dei suoi figliuoli sul trono papale. Santi del Cielo! Con quante preci e con quali promesse solenni non saranno stati assaliti, perchè esaudissero quel voto! E con quante e quali non gli avranno pur tempestati Madonna Adriana, Lucrezia e Giulia Farnese!
L'11 agosto, di buon mattino, anelanti messi potettero a quelle donne recare dal Vaticano la nuova, che Rodrigo Borgia era uscito vincitore dal difficile agone. A lui, maggiore offerente, il Papato era stato venduto. Nella elezione il cardinale Ascanio aveva dato il tratto alla bilancia; e in guiderdone ebbe la città di Nepi, il posto di Vicecancelliere e il palazzo Borgia. Ancora oggi questo porta il nome di Sforza Cesarini.
Quando, la mattina dopo l'avventuroso giorno, Alessandro VI dalla sala del Conclave fu portato giù in San Pietro per ricevervi i primi omaggi, lo sguardo suo, raggiante di gioia, dovette fra la stipata moltitudine cercar le persone a lui care. Dovettero invero queste esser forse le prime a venire per festeggiare sì gran trionfo. Da lungo tempo Roma non aveva più visto un nuovo Papa dalla figura così piena di maestà e bellezza. Il suo modo di vita era generalmente noto a tutti. Pure niuno in quel momento lo conosceva tanto intimamente quanto quella donna, Vannozza Catanei. Essa se ne stava certamente ginocchioni in San Pietro, mentre fra i sacri cantici della Messa le immagini di un peccaminoso passato le agitavan l'animo.
Non tutte le Potenze accolsero sospettose l'elezione del Borgia. In Milano Ludovico il Moro dispose pubbliche feste; credeva, mercè l'influenza del fratello Ascanio, diventare egli stesso un mezzo Papa. Molto s'aspettavano da Alessandro i Medici; meno gli Aragonesi di Napoli. Incollerita [44] si mostrò Venezia. L'ambasciatore della Repubblica, già nell'agosto, dichiarava apertamente che la Santa Sede era stata venduta con simonìa e molte ribalderie, e che la Signoria di Venezia era convinta che Francia e Spagna negherebbero obbedienza al Papa, non prima fossero venute in sentore di tali empietà.[30]
Frattanto con omaggi infiniti Alessandro VI riceveva il riconoscimento di tutti gli Stati italiani. La festa della sua esaltazione, il 26 agosto, fu solennizzata con pompa straordinaria. L'arme dei Borgia, un bove che pascola, fu vista in sì varii emblemi e figure e con tanti epigrammi salutata, che un satirico avrebbe potuto dire, festeggiarsi in Roma il ritrovamento del divino Api. Più tardi il bove dei Borgia è stato bene spesso bersaglio alla più avvelenata satira; ma sugl'inizii del reggimento di Alessandro era molto ingenuamente il portatore simbolico della magnificenza papale. Simbolismo di tal fatta oggi muoverebbe al riso e al sarcasmo; ma il senso plastico degl'Italiani d'allora lo trovava naturale.
Allorchè Alessandro, nella processione solenne al Laterano, passò innanzi al palazzo dei suoi fanatici partigiani, i Porcari, un fanciullo della casa con molta espressione e passione declamò alcuni distici, la cui chiusa suonava così:
Vive diu bos, vive diu celebrande per annos.
Inter Pontificum gloria prima choros.[31]
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Bisogna leggere le relazioni di Michele Ferno e di Jeronimo Porcio sulla festa dell'incoronazione e su' discorsi di obbedienza degli ambasciatori italiani per formarsi una idea sin dove giungesse allora l'adulazione. Certamente oggi noi possiamo con difficoltà immaginare quell'imponente spettacolo, in cui un Papa dalla natura largamente favorito si presentava sul teatro di Roma, in un tempo che il Papato vi toccava appunto la più superba altezza. È vero che a siffatto culmine lo aveva sospinto, non il bene della Chiesa, non la religione da lungo profanata, ma il lusso del tempo e la politica moderna. Nulladimeno dal Medio Evo in poi un certo fondo interiore tradizionale s'era pur sempre mantenuto, che costringeva i credenti alla venerazione.
Il Ferno in un luogo osservò, che tutta la storia della terra non offriva nulla da esser comparato con l'elevatezza del Papato e con questo culto reso ad una persona. E l'autore non era già un papista bigotto, ma sì un zelante discepolo di Pomponio Leto. Egli era però, come tutti quei romantici del classicismo, di una impressionabilità estrema per ogni effetto teatrale. E così non trova abbastanza parole per descrivere una processione di Alessandro a Santa Maria del Popolo: quella moltitudine di uomini riccamente adorni, che festosa si muove ed agita; e i 700 preti e cardinali coi loro famigliari; e quegli splendidi corteggi di cavalieri e grandi di Roma, e gli arcieri e cavalieri turchi; e quella guardia palatina dalle lunghe alabarde e dagli scudi rilucenti; e i dodici cavalli bianchi dagli aurei freni, condotti a mano, e le innumerevoli altre decorazioni della sfarzosa comparsa. Processione simile, pari a corteo trionfale, che oggi non potrebbe avere luogo che dopo lunga e molta preparazione, il Papa può improvvisarla ad ogni [46] istante, perchè attori e guardaroba son sempre lì, bell'e pronti. Pel Papa è occasione di mostrarsi una volta ai Romani; sicchè Sua Santità si porge al popolo oggetto di divertimento e di festa.
Il Ferno poi dipinge il Borgia stesso come un vero semidio, sceso dal cielo. «Egli cavalca sopra cavallo bianco come neve con serena fronte, con dignità istantaneamente maestosa; così si presenta al popolo; così benedice tutti; così è la mira di tutti gli sguardi; così pure lo sguardo suo penetra per tutto; così tutto rallegra; così l'apparizione sua è per tutti segno di buon augurio. Quanto maraviglioso quel dolce abbandono della sua fisionomia; la schietta nobiltà del suo volto, e la liberalità del suo sguardo. Questo rigoglio e contegno di disinvolta bellezza e la fresca e piena sanità del corpo come non accrescono la venerazione ch'egli ispira!» Così e non altrimenti deve, a parere del Ferno, essersi mostrato un tempo Alessandro il Grande. Era un'idolatria, insomma, della quale si continuava a circondare il Papato, senza che mai alcuno prendesse la pena di domandarsi qual fosse l'intima e personale essenza dell'idolo fastoso.
Il giorno della incoronazione Alessandro nominò il figlio Cesare, giovanetto di 16 anni, vescovo di Valenza. Lo nominò, senza esser sicuro dell'assentimento di Ferdinando il Cattolico. E in realtà questo monarca resistette a lungo pria di concederlo, avvegnachè per tal guisa i Borgia facessero del primo Vescovado di Spagna un loro possedimento ereditario. Cesare intanto non era a Roma alla festa d'incoronazione del padre. Il 22 agosto, undici giorni dopo l'elezione di Alessandro, l'ambasciatore ferrarese Manfredi in Firenze informava la duchessa Eleonora d'Este «il figlio del Papa, vescovo di Pampelona, che era all'Università di Pisa, essersi il mattino avanti di colà partito per comando del padre e andato nella cittadella di Spoleto.»
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Quivi trovavasi ancora Cesare il 5 ottobre, avendo in quel giorno da Spoleto mandato lettera a Piero de' Medici. Questo scritto al figlio di Lorenzo, fratello del cardinale Giovanni, è concepito in termini, che implicano confidenza molta tra lui e Cesare. Questi vi dice, che per la improvvisa partenza da Pisa non aveva più potuto abboccarsi con lui, ma che il precettore suo, Giovanni Vera, n'avrebbe fatto le parti. Raccomanda anche il suo fido famigliare Francesco Romolini pel posto di professore di Diritto canonico in Pisa, preferendo questo dotto uomo la carriera dell'insegnamento alla ecclesiastica. La lettera è firmata: «Come fratello Vostro Cesare de Borja, eletto di Valenza.»[32]
Se Alessandro non fece immediatamente venire il figliuolo a Roma, fu, senza dubbio, per confermare ciò che solennemente aveva dichiarato, di tenersi puro dal nepotismo. Probabilmente vi fu un momento, in cui la ricordanza dello spettacolo dato da Callisto, da Sisto e da Innocenzo lo indusse a riflettere e far proponimento di temperare l'amore suo pei congiunti. Nondimeno la nomina di suo figlio a vescovo il giorno stesso della incoronazione già mostrava che il proposito non era serio. Nell'ottobre Cesare era già in Vaticano, ove ora i Borgia si posero al posto dei miserabili Cibo.
Il primo settembre il Papa fece cardinale Giovanni Borgia, seniore, vescovo di Monreale. Era questi figliuolo di sua sorella Giovanna. Il Vaticano s'andava popolando di Spagnuoli, parenti o amici della casa ora onnipotente. Vi accorrevano avidi di fortuna e di onori. «Nemmeno dieci papati basterebbero a sbramare tutto questo parentado;» così, già nel novembre 1492, Giannandrea Boccaccio al duca di Ferrara. Fra i più prossimi amici di Alessandro, [48] Giovanni Lopez fu suo Datario, Pietro Garanza e Giovanni Marades furono suoi camerieri secreti. Rodrigo Borgia, un pronipote del Papa, divenne capitano della guardia palatina, comandata prima di lui da un Doria.
Ben presto Alessandro pensò a provvedere in modo più splendido a sua figlia. Volle che non si parlasse più degli sponsali con un gentiluomo spagnuolo. Solo un principe poteva ottenerne la mano. Ludovico ed Ascanio gli proposero il loro parente, Giovanni Sforza; ed egli lo accettò per genero. Comunque colui non fosse che Conte di Cotognola e Vicario della Chiesa per Pesaro, pure nel suo dominio era indipendente e apparteneva alla illustre casa Sforza. E nei primi tempi Alessandro s'era legato con gli Sforza tanto strettamente, che il cardinale Ascanio era in Roma onnipotente. Giovanni Sforza, un bastardo di Costanzo di Pesaro, e successore di lui in quel dominio solo per grazia di Sisto IV e d'Innocenzo VIII, era uomo di 26 anni, di bello aspetto e largamente colto, come, a un dipresso, tutti i piccoli tiranni italiani. Nel 1489 erasi sposato con Maddalena, la bella sorella di Elisabetta Gonzaga, il giorno stesso in che quest'ultima si unì in matrimonio col duca Guidobaldo di Urbino. Ma dagli 8 d'agosto 1490, morta la moglie di cattivo parto, era rimasto vedovo.
Lo Sforza fu prontissimo ad accettare la mano della giovane Lucrezia, prima che altro dei molti pretendenti gliela togliesse via. Da Pesaro si condusse primieramente a Nepi, città data da Alessandro VI al cardinale Ascanio. Vi si trattenne pochi giorni, e quindi il 31 ottobre 1492 mosse secretamente per Roma. Quivi prese stanza nel palazzo del cardinale di San Clemente, che Domenico Della Rovere aveva edificato in Borgo, e che esiste ancora ben conservato rimpetto all'altro Giraud-Torlonia. L'ambasciatore ferrarese informò il suo signore dell'arrivo dello Sforza, osservando [49] che colui sarebbe uomo grande sino a che regnerebbe quel Papa. E dava poi ragione del mistero, in cui lo Sforza tenevasi, notando come in quel tempo si trovasse in Roma anche secretamente quegli, che era già legalmente promesso sposo di Lucrezia.[33]
Il giovane conte Gasparo era di fatto venuto col padre a Roma, per dare effetto a' diritti suoi su Lucrezia, che ora appunto promettevano vantaggi così smisurati. Vi trovò invece un rivale nascoso, ma pubblicamente riconosciuto per tale; e andò sulle furie, quando il Papa si fece a richiederlo di una formale rinunzia. Per tal modo Lucrezia, fanciulla appena di 12 anni e mezzo, era involontario soggetto di litigi tra due pretendenti, ed insieme la prima volta motivo di pubblico scandalo. Il 5 novembre l'ambasciatore di Ferrara scriveva al suo signore: «Qui si fa un gran parlare di questo matrimonio di Pesaro; il primo sposo è ancora qui, e da vero Catalano fa molte bravate, protestando che leverà rimostranze presso tutti i principi e potentati della Cristianità; pure, il voglia o no, bisognerà pigliarsela con pazienza.» E lo stesso scriveva il 9 novembre: «Faccia il Cielo che il matrimonio di Pesaro non porti sciagura. Sembra il Re (di Napoli) aver espresso al proposito il suo dispiacere, stando almeno a ciò che Giacomo, il nipote del Pontano, ha detto l'altr'ieri al Papa. L'affare pende ancora sospeso; ad ambo le parti si dànno buone parole, voglio dire, al primo come al secondo sposo. Entrambi son qui. Pure si crede che a Pesaro sia serbata la vittoria, soprattutto perchè la causa sua è difesa dal cardinale Ascanio, che a parole come a fatti è potente davvero.»
Frattanto agli 8 novembre il contratto di matrimonio [50] tra Don Gasparo e Lucrezia fu giuridicamente risoluto. Lo sposo e il padre di lui espressero soltanto la speranza, che l'unione potesse non per tanto avverarsi a circostanze più propizie. E all'uopo Gasparo prese impegno di non maritarsi con altra, prima che un anno fosse decorso.[34] Eppure non fu per questo Giovanni Sforza sicuro del trionfo. Ancora il 9 dicembre l'agente mantovano Fioravante Brognolo scriveva al marchese Gonzaga: «L'affare dell'illustre signore Giovanni di Pesaro è tuttora indeciso; sembrami che quel gentiluomo spagnuolo, cui la nipote di Sua Santità era promessa, non voglia rinunziarvi; egli ha anche molto séguito in Spagna; cosicchè è intenzione del Papa di lasciar maturare questa faccenda prima di risolverla.»[35]
E insino nel febbraio 1493 si parlò pure di un matrimonio di Lucrezia con lo spagnuolo Conte de Prada, nè si sposò con Giovanni Sforza che quando quel disegno fu sfumato.[36]
Quest'ultimo era frattanto tornato a Pesaro, donde mandò a Roma Niccolò de Savano suo procuratore per concludere i capitoli matrimoniali. Il conte d'Aversa cedette alla forza, e si tirò indietro, facendosi pagare il silenzio con 3000 ducati. Allora, il 2 febbraio 1493, le nozze dello Sforza con Lucrezia furono con formale istrumento stipulate in Vaticano; e, oltre l'ambasciatore di Milano, vi presero di nuovo parte come testimoni i più intimi amici e familiari di Alessandro, Giovanni Lopez, Giovanni Casanova, Pietro Caranza e Giovanni Marades. La figliuola del Papa ebbe 31,000 ducati in dote: entro l'anno doveva esser condotta dallo sposo nel paese di lui.[37]
[51]
Quando la nuova della cosa giunse a Pesaro, il fortunato Sforza diede una festa nel suo palazzo. Si ballò nella grande sala, e, condotte da monsignor Scaltes, ambasciatore del Papa, le coppie uscirono dal castello danzando. Per modo che si continuò così per le strade della città fra gli applausi del popolo.[38]
Alessandro aveva fatto disporre per Lucrezia un'abitazione vicinissima al Vaticano. Era una casa fatta edificare dal cardinale Battista Zeno nel 1483. Da lui o dal titolo della sua Chiesa ebbe nome di palazzo di Santa Maria in Portico. Era posto sulla sinistra della scala di San Pietro, quasi dirimpetto al palazzo dell'Inquisizione. La costruzione del Colonnato del Bernini ha reso quei luoghi quasi irriconoscibili del tutto.
Nel suo palazzo la giovane Lucrezia teneva già propria corte, cui presiedeva come dama d'onore, che quasi teneva il luogo di madre, Adriana Ursina, la sua educatrice. Alessandro aveva forse indotto questa sua parente a lasciare, in compagnia di Lucrezia, il palazzo Orsini e ad abitare l'altro di Santa Maria in Portico. E ivi la vedremo presto apparire, e con essa anche un'altra donna che stava pur troppo a cuore al Papa.
Vannozza restò nella propria casa alla Regola. Il marito fu fatto Soldano o Capitano di Torre di Nona, per la quale di lì a poco occorreva ad Alessandro VI un prevosto a lui devoto. Ed anche il Canale per parte sua accettava con compiacimento grande il ragguardevole e lucroso ufficio. Da questo tempo in poi tra Vannozza e i figliuoli si fece un [52] più grande distacco, che non divenne però mai totale separazione. Le relazioni fra loro non furono spezzate. Pure quella non poteva che solo indirettamente partecipare alla felicità e grandezza di questi. Vannozza non si permise mai, ovvero Alessandro giammai non le consentì influenza di sorta in Vaticano. Molto di rado soltanto apparisce il nome di lei nelle notizie del tempo.
Oramai nel suo palazzo Lucrezia faceva le pratiche da principessa esordiente. Ivi riceveva le visite de' numerosi parenti di casa sua, come degli amici e adulatori de' Borgia, ora dominanti. È notevole che nello stesso tempo, in che si trattava del matrimonio con lo Sforza, in opposizione ancora con le pretensioni di Don Gasparo, apparve in casa di lei anche colui che, dopo tempeste spaventevoli, doveva alla fine menarla a salvamento in tranquillo porto.
Tra i principi italiani, che allora mandarono ambasciatori o vennero di persona ad offrire omaggio al nuovo Papa, vi fu anche il principe ereditario di Ferrara. Nessuna casa d'Italia splendeva così chiara come quella di Ercole d'Este e di sua moglie Eleonora d'Aragona, figliuola di re Ferdinando di Napoli, morta poco dopo, l'11 ottobre 1493. Dei loro figliuoli Beatrice, nel dicembre 1490, erasi sposata con Ludovico il Moro, l'avveduto quanto spietato reggente dello Stato di Milano in luogo del nipote Giangaleazzo. L'altra figlia Isabella, una delle più avvenenti e più ragguardevoli donne del tempo suo, era nel febbraio 1490, di 16 anni, divenuta moglie del marchese Francesco Gonzaga di Mantova. Alfonso era principe erede: a 15 anni, il 12 febbraio 1491, erasi sposato con Anna Sforza, sorella del nominato Giangaleazzo.
Suo padre nel novembre 1492 lo mandò a Roma per raccomandare gli Stati suoi al Papa. Questi accolse con grande onoranza il giovane parente di casa Sforza, nella quale la propria figlia doveva entrare. Don Alfonso fu ospitato [53] in Vaticano. Durante la sua dimora di parecchie settimane ebbe non solo occasione, ma si fece un dovere di visitare donna Lucrezia. Così, tutto pieno di curiosità, potè la prima volta vedere la bella fanciulla dagli aurei capelli, da' grandi occhi espressivi. E nulla fu più estraneo alla mente sua quanto il presentimento, che la promessa sposa dello Sforza sarebbe dopo nove anni entrata nel castello degli Este a Ferrara come sua propria moglie.
Con quanta speciale premura Alessandro trattasse il principe erede si ricava dalla lettera di ringraziamento speditagli dal padre di costui. Il duca scrivevagli:
«Santissimo Padre e Signore, Signor mio venerabilissimo. Bacio prima di tutto i piedi della Santità Vostra e umilmente me le raccomando. Quanto Vostra Santità fosse da esaltare con le lodi più sublimi, già da tempo sapevo; ma ora me lo dicono anche le lettere del vescovo di Modena, mio ambasciatore presso Vostra Santità, e del mio amato primogenito Alfonso non solo, ma di tutti coloro che lo accompagnarono. Essi m'informano della singolare benignità, liberalità, grazia, umanità ed ineffabile carità della Santità Vostra per tutti, ma soprattutto per me e pe' miei, all'arrivo del mio figliuolo e durante tutto il soggiorno di lui in Roma. Per questo, come già da lungo tempo lo era di tutto quanto potessi, mi dichiaro ora debitore della Beatitudine Vostra anche di più di quello che sia in poter mio. Mando pure a Vostra Santità grazie imperiture, e quanto la terra tutta può concepirne, qual servo devotissimo e prontissimo a qualunque cosa possa esserle utile ed accetta. E voglio e desidero con ogni possibile umiltà esserle raccomandato io e tutti i miei. Ferrara, 3 gennaio 1493. — Della Santità Vostra figlio e servitore Ercole, duca di Ferrara.»[39]
[54]
La lettera fa vedere con quanto studio il duca cercasse tenersi bene col Papa. Egli era feudatario della Chiesa di Roma per Ferrara; e la Chiesa tendeva a trasformarsi in monarchia. Principi e repubbliche italiani, prossimi alla sfera di dominio della Santa Sede o legati ad essa con vincoli feudali, guardavan naturalmente sospettosi e timorosi ogni nuovo papa, e l'attitudine che sotto l'influenza di lui il nepotismo andava assumendo. Quanto facile non era che Alessandro VI tornasse daccapo ai disegni di casa Borgia, ripigliandoli al punto, in cui la morte dello zio Callisto gli aveva interrotti, e seguisse le tracce di Sisto IV?
Erano scorsi 10 anni appena da che quest'ultimo Papa, collegato con Venezia, aveva fatto guerra contro Ferrara.
Ercole aveva mantenuto amichevoli relazioni con Alessandro VI, durante il cardinalato. Insino al battesimo di suo figlio Alfonso, Rodrigo Borgia era stato padrino. Per l'altro figlio Ippolito il duca ambiva la porpora cardinalizia. A tale scopo l'ambasciatore suo a Roma, Giannandrea Boccaccio, si dava gran moto. Questi si rivolse ai confidenti di Alessandro più ricchi d'influenza, ad Ascanio Sforza, al cameriere segreto Marades e a madonna Adriana. Il Papa inoltre voleva far cardinale suo figlio Cesare; e il Boccaccio sperava che il giovane Ippolito gli sarebbe stato compagno di fortuna. L'ambasciatore dava a intendere al Marades che i due giovani, de' quali l'uno arcivescovo di Valenza, l'altro di Gran, stavan tra loro in perfetta convenienza. «L'età di ambedue differisce di poco; io credo che Valenza non abbia oltrepassato i 16 anni, mentre il nostro Strigonia (Gran) vi s'accosta.» Il Marades rispose questo conto non tornar giusto del tutto, perchè Ippolito non aveva ancora 14 anni compiuti, mentre l'arcivescovo di Valenza trovavasi nel diciottesimo.[40]
[55]
Le tendenze del giovane Cesare erano altre che alle dignità ecclesiastiche. Solo per comando del padre portava l'abito sacerdotale a lui esoso. Ma tuttochè arcivescovo, non aveva ancora che la prima tonsura. E viveva del resto in modo affatto mondano. Si diceva pure che il re di Napoli volesse dargli in moglie una sua figliuola naturale, e che per questo sarebbe tornato allo stato di laico. L'ambasciatore di Ferrara fu a fargli visita il 17 marzo 1493 nella casa di lui in Trastevere, volendo forse significare il Borgo. La dipintura, che in tale occasione il Boccaccio fece al duca Ercole della natura di questo giovane di 17 anni, è veramente importante e notevole, ed è forse il primo ritratto di Cesare Borgia:
«L'altr'ieri trovai Cesare a casa in Trastevere; andava appunto a caccia in abito affatto mondano, cioè dire, vestito di seta e armato, solo con piccola cherca da semplice tonsurato. Insieme cavalcando c'intrattenemmo un pezzo. Io sono tra suoi conoscenti molto familiare con lui. Egli è persona d'ingegno grande ed eccellente e d'indole squisita; i modi son di figlio di un gran principe; particolarmente l'umore ha sereno e gaio, e tutto festa. Fornito di modestia grande, il suo contegno è di molto maggiore e preferibile effetto, che non quello del fratello, il duca di Gandia. Anche questi non manca di buone doti. L'arcivescovo non ebbe mai inclinazione alcuna pel sacerdozio. Ma il benefizio gli rende più di 16,000 ducati. Se il disegno di matrimonio si avvera, le sue prebende andranno a un altro de' fratelli, che ha 13 anni appena.»[41]
[56]
L'altro fratello era Jofrè, la cui età è esattamente indicata dal Boccaccio. Si osserverà che l'ambasciatore mette specialmente in rilievo la serenità della natura di Cesare. Questo era pure il tratto fondamentale di quella di Alessandro; e da lui Cesare e Lucrezia l'avevano ereditata. Anche, di fatto, in quest'ultima viene più tardi lodata l'apparenza serena e gaia sempre, come la qualità più spiccata. Quanto alla modestia, la virtù medesima esaltava in Cesare, sei anni dopo, niente meno che Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio II.
Il duca di Gandia trovavasi in quel tempo in Roma, ma doveva tornarsene dalla moglie in Spagna, solennizzato il matrimonio dello Sforza con Lucrezia. Era stato questo fissato pel giorno di San Giorgio, ma fu poi differito, non avendo potuto lo sposo arrivare a tempo. Alessandro con gioia da non si dire provvedeva al corredo della figlia. La felicità o, ciò che per lui era lo stesso, l'elevata condizione di quella gli stava moltissimo a cuore. Egli l'amava passionatamente, in superlativo grado, come l'ambasciatore ferrarese scriveva al suo signore.[42] E per esortazione dello stesso, il duca di Ferrara mandò un presente di nozze, due grandi bacini con coppe analoghe, d'argento del più squisito lavoro. Per l'abitazione della giovane coppia si pensò a uno de' due palazzi, quello di Santa Maria in Portico o l'altro del cardinale Domenico Porta d'Aleria, morto il 4 febbraio 1493, presso Castel Sant'Angelo. Ma fu scelto il primo, nel quale Lucrezia già abitava.
Arrivò finalmente lo Sforza. Fece il suo ingresso il 9 giugno per Porta del Popolo, accolto da tutta la Curia, [57] da' suoi cognati e dagli ambasciatori delle potenze. Lucrezia con molte dame d'onore aveva preso posto su un terrazzino del suo palazzo per vedere il corteo dello sposo diretto al Vaticano. Lo Sforza a cavallo, passando, le fece un saluto con molta galanteria, e la sposa corrispose. Il suocero lo ricevette molto graziosamente.
Lo Sforza era uomo di piacevole aspetto. Di che veramente non possiamo giudicare che da una medaglia fatta imprimere 10 anni più tardi. V'è rappresentato con lunghi ondeggianti capelli e con barba intera; la bocca ha sottile, il labbro inferiore un po' compresso, alquanto ricurvo il naso, e libera e prominente la fronte. I tratti del volto son nobili, ma non certo significanti.
Tre giorni dopo il suo arrivo, il 12 giugno, fu festeggiato il matrimonio in Vaticano con clamorosa solennità.
Alessandro vi aveva invitato la nobiltà, i magistrati di Roma e gli ambasciatori stranieri. Vi fu banchetto, e furono pure rappresentate commedie di carattere affatto mondano e lascivo, come l'Infessura ha descritto.[43]
Per apprezzare l'esattezza della breve relazione di questo Romano e compierla insieme, mettiamole qui allato le parti più essenziali di un dispaccio dell'ambasciatore ferrarese. Il 13 giugno il Boccaccio scriveva al suo signore:
«Ieri, 12 del corrente, fu festeggiato lo sposalizio nel Palazzo, pubblicamente, con grandissima pompa ed apparato. V'erano invitate tutte le matrone romane. V'assistettero anche i cittadini più ragguardevoli e molti cardinali, dodici in numero; ed il Papa sedeva nel bel mezzo, sul trono della maestà. Palazzo e camere eran per tutto zeppi di gente, maravigliata di tanta magnificenza. Il signor [58] di Pesaro si sposò con le debite solennità con sua moglie, e subito dopo il vescovo di Concordia tenne una degnissima orazione. Degli ambasciatori, per altro, non eran presenti che quel di Venezia, di Milano e io, e in fine uno di quelli del re di Francia.
»Il cardinale Ascanio era d'opinione che io rimettessi il donativo durante la cerimonia. Ma ne feci interrogare il Papa, osservando, a me non parer conveniente, e reputar meglio la minor dimostrazione possibile. Non dispiacque a Sua Santità e ad Ascanio stesso. Pure fra loro con alcuni cardinali vollero di poi consultar meglio la cosa. Tutti convennero meco; tanto che il Papa, chiamatomi, mi disse: «Sembrami quel che tu hai detto esser bene.» E così fu disposto, che la sera sul tardi mi troverei in Palazzo col donativo. Sua Santità diede una cena di famiglia in onore dello sposo e della sposa. Vi presero parte i cardinali Ascanio, Sant'Anastasia e Colonna; poi la sposa e quindi lo sposo; dopo il conte di Pitigliano, capitano della Chiesa, il signor Giulio Orsini; e poscia madonna Giulia Farnese, della quale si fa sì gran parlare — de qua est tantus sermo, — madonna Teodorina con la figlia, la marchesana di Gerazo; una figlia del nominato capitano, moglie del signor Angelo Farnese, fratello della detta madonna Giulia. Seguivano un giovane fratello del cardinale Colonna e madonna Adriana Ursina. Questa è la suocera della indicata madonna Giulia. È quella che, essendo nipote del Papa, ha sempre tenuto in sua casa la sposa in educazione. Era di fatto figlia del cugino carnale di colui, del fu signor Pietro de Milla, noto a Vostra Eccellenza.
»Finita la tavola, che fu tra le tre e le quattro di notte, fu rimesso alla sposa il regalo del nobile duca di Milano: 5 pezzi staccati di broccato in oro e due anella, un diamante e un rubino. Il tutto fu stimato su 1000 ducati. [59] Dopo presentai io il regalo di Vostra Eccellenza con acconce parole, esprimenti voti di felicità e letizia per l'avvenuto matrimonio e la profferta di servizii. Il regalo piacque molto al Papa. Insieme con la sposa e lo sposo, egli manifestò la sua infinita gratitudine. Quindi Ascanio offrì il regalo suo, consistente in un compiuto apparecchio di credenza in argento dorato, quasi del valore di 1000 ducati. Il cardinale Monreale offri due anelli, un zaffiro e un diamante, belli assai e del valore di circa 3000 ducati; il protonotario Cesarini un bacile con boccale del prezzo di 800 ducati; il duca di Gandia una coppa, ammontante a un 70 ducati; il protonotario Lunate un'altra, in forma di diaspro, di argento dorato, che poteva valere da' 70 agli 80 ducati. Non vi furono altri regali. Alle feste per le nozze si supplirà dagli altri, cioè cardinali, ambasciatori e via di seguito: e anch'io mi sforzerò fare il simile. Credesi avran luogo domenica prossima; ma non si sa di certo.
»Di poi le donne ballarono, e per intermezzo fu rappresentata una buona commedia con molti canti e suoni. Il Papa e tutti noi altri eravamo presenti. Che cosa mi resta a dire ancora? sarebbe un lungo scrivere. Così spendemmo tutta la notte; se bene o male lascio giudicarlo all'Eccellenza Vostra.»[44]
Il matrimonio di Lucrezia con Giovanni Sforza valse a suggellare l'alleanza politica stretta tra Alessandro VI e Ludovico il Moro. Il reggente di Milano voleva chiamare Carlo VIII dalla Francia in Italia, perchè andasse a portar [60] guerra al re Ferdinando di Napoli, ed egli stesso, Ludovico, potesse impadronirsi del Ducato di Milano. Egli di fatto era tutto divorato dall'ambizione e dall'impazienza di deporre dal trono il suo malaticcio nipote Giangaleazzo. Ma questi era marito d'Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso di Calabria e nipote del re Ferdinando.
Il 25 aprile la lega fra Venezia, Ludovico, il Papa e alcuni altri signori italiani era già stata pubblicamente annunziata in Roma. Niun dubbio che la era rivolta contro Napoli; epperò è naturale che quella Corte ne fosse terribilmente agitata.
Malgrado di ciò, re Ferdinando mandò i suoi augurii felici al signore di Pesaro per l'avvenuto matrimonio. Egli lo risguardava come suo congiunto, e Giovanni Sforza era anche stato ammesso nella famiglia degli Aragonesi. Il re gli scrisse da Capua il 15 giugno 1493:
«Illustrissimo Cugino e Amico nostro amatissimo. — Abbiamo ricevuto la vostra lettera del 22 del passato, per la quale ne avete significato il matrimonio contratto con la illustre donna Lucrezia, nipote di Sua Santità Signor Nostro. Di che abbiamo preso singolarissimo piacere e contentezza, sì per l'amore che sempre abbiamo portato e portiamo a voi e a tutta la casa vostra, e sì perchè crediamo che tale matrimonio non potrebbe essere più al proposito vostro di quel ch'è. Epperò ce ne congratuliamo sommamente, pregando con voi Nostro Signore Dio che esso sia con felicità della persona e dello Stato, e con aumento di autorità e reputazione.»[45]
Otto giorni innanzi, lo stesso re aveva mandato lettera al suo ambasciatore in Spagna, invocando la protezione di Ferdinando e d'Isabella contro gl'intrighi del Papa, la cui vita egli chiamava detestabile affatto. E non [61] intendeva già della condotta diplomatica, ma della personalità stessa di Alessandro. Giulia Farnese, che fra gl'invitati allo sposalizio in Vaticano è dall'Infessura designata addirittura come concubina del Papa, faceva allora parlare tutto il mondo di sè e di costui. Questa donna giovane si dava ad un vecchio di 62 anni, nel quale ad un tempo doveva venerare il sacerdote supremo della Chiesa. Dell'adulterio suo durato per anni non è a dubitare. Ma i motivi della sua passione sono un mistero. Perchè, per potente che fosse stata la natura demoniaca di Alessandro, pure aveva dovuto già perder molto della sua forza magnetica. Forse, poichè ebbe ceduto alla seduzione e fatto tacere ogni senso di vergogna, quella giovane e vana creatura dovette sentirsi forte attrarre dall'idea di veder languire a' piedi suoi, a' piedi d'una debole fanciulla, il dominatore spirituale del mondo, colui innanzi al quale tutto si prosternava nella polvere.
Certamente, il sospetto che gl'ingordi Farnesi si facessero lenoni di tanta ignominia, è molto naturale. In vero la prima ricompensa del peccato di Giulia non fu meno della porpora cardinalizia, guadagnata dal fratello suo Alessandro. Il Papa lo aveva già preconizzato con altri; ma la nomina incontrava ancora l'opposizione del Sacro Collegio, a capo della quale stava Giuliano Della Rovere. Anche il re Ferdinando appoggiava l'opposizione. Egli pose agli ordini de' cardinali, che la componevano, l'esercito suo in quei giorni appunto, in cui Lucrezia festeggiava il suo matrimonio con Pesaro.
Per un momento il marito Sforza fu un uomo d'importanza in Roma e intimo con tutti i Borgia. Il 16 giugno fu visto a cavallo col duca di Gandia andare all'incontro dell'ambasciatore spagnuolo, vestiti entrambi di abiti costosi, splendenti di pietre preziose, come se fossero due re. Gandia ritardò la sua partenza per la Spagna. Egli [62] s'era colà sposato con donna Maria Enriquez, nobile valenzana, poco tempo innanzi l'ascensione al trono di suo padre. Di fatto un Breve di Alessandro, fin dal 6 ottobre 1492, permetteva a questo figlio e alla moglie di prendere l'assoluzione da qualunque confessore a scelta loro. L'alta origine di donna Maria mostra in quali splendide relazioni il bastardo Juan Borgia entrasse come Grande di Spagna. La moglie di fatto era figlia di Don Enrigo Enriquez, visconte di Leon e di donna Maria de Luna, prossima parente con la Casa reale d'Aragona. Don Juan lasciò Roma il 4 agosto 1493 per imbarcarsi sulle galee spagnuole in Civitavecchia. Stando alla relazione dell'agente ferrarese, tolse seco gran copia di oggetti preziosi, alla lavorazione de' quali gli orafi di Roma erano stati da mesi occupati.
De' figli quindi di Alessandro rimanevano in Roma Cesare, che doveva divenire cardinale, e Jofrè, che doveva andare a vivere principescamente in Napoli. Perchè, grazie agli sforzi di Spagna, la rottura tra il Papa e il re Ferdinando era cessata. La Spagna riuscì a far ritrarre il Papa dalla Francia e dalla lega con Ludovico il Moro. Questa repentina mutazione fu suggellata con lo sposalizio di Don Jofrè, bambino di 13 anni appena, con donna Sancia, figliuola naturale del duca Alfonso di Calabria. Lo sposalizio fu concluso il 16 agosto 1493 in Vaticano mercè procura, ed il matrimonio doveva essere solennizzato più tardi in Napoli.
Ora anche Cesare divenne cardinale, il 20 settembre 1493. I cardinali Pallavicini e Orsini, incaricati di esaminarne lo stato di legittimità, avevan fatto felicemente sparire la macchia della sua origine. A proposito di tale legittimazione Giannandrea Boccaccio in tono ironico scriveva a Ferrara, il 25 febbraio 1493: «Il vizio suo di figliuolo naturale sarà tolto via, e con ragione; e si giudicherà esser legittimo, essendo stato generato in casa, [63] quando il marito della madre viveva; su ciò non cade dubbio: colui era allora in vita e presente, talvolta in città, tal'altra per ragion d'ufficio nelle terre della Chiesa, qua e là viaggiando.» Pure il nome di quest'uomo, che il solo Infessura chiama Domenico d'Arignano, non è nominato dall'ambasciatore.
In quel giorno medesimo furono anche elevati alla dignità di cardinali Ippolito d'Este e Alessandro Farnese. Questo giovane libertino doveva il suo alto stato nella Chiesa all'adulterio della sorella. Ciò era tanto saputo, che l'arguzia popolare de' Romani avevagli dato nome di Cardinale della Gonnella. I congiunti gaudenti non vedevano nella Giulia che l'istrumento della loro fortuna. Girolama Farnese, il 21 ottobre 1493, scriveva da Casignano al marito Puccio: «Voi avrete ricevuto lettere da Firenze anche prima di questa mia, e sentito quali beneficii Lorenzo abbia ottenuti, e tutti per opera della Giulia; e ciò vi farà molto piacere.»[46]
Anche il Governo di Firenze cercava sfruttare la relazione della Giulia con Alessandro, nominando Puccio, cognato di lei, ambasciatore a Roma. I Fiorentini avevano, appena dopo l'assunzione al trono di Alessandro, mandato colà questo insigne giurista per fare atto di obbedienza. Fu poscia per un anno lor commissario a Faenza, ove resse il Governo pel minorenne Astorre Manfredi. Andò poi sul cominciar dell'anno 1494 ambasciatore a Roma; e vi morì non più tardi dell'agosto.[47]
Suo fratello Lorenzo Pucci fu molto favorito nella sua carriera ecclesiastica. Più tardi, sotto Leon X, fu cardinale potente.
I Farnesi e la loro numerosa parentela erano ora nella [64] migliore grazia del Papa come di tutti i Borgia. Nell'ottobre 1493 invitarono Alessandro e Cesare ad una riunione di famiglia nel castello Capodimonte, ove madonna Giovannella, madre della Giulia, preparò una festa. Non si sa se questa abbia in effetto avuto luogo; pure è da crederlo, poichè gli ultimi di quel mese Alessandro trovavasi a Viterbo.
La Giulia nel 1492 aveva partorito una figliuola, che ebbe nome Laura. Officialmente la bambina passava per figlia del marito Orsini; ma di fatto padre suo era il Papa. I Farnesi e i Pucci conoscevano benissimo il secreto, e senza il minimo sentimento di pudore cercavano trarne ogni possibile profitto. La Giulia si curava sì poco del giudizio del mondo, che se ne stava nel palazzo di Santa Maria in Portico, quasi fosse parente carnale di Lucrezia. Alessandro stesso ve l'aveva messa a dimorare, come dama di compagnia di sua figlia. Il marito Orsini aveva preferito, o forse dovuto preferire, di vivere, invece che a Roma, testimone importuno della vergogna sua, nel suo castello di Bassanello o di scegliersi a soggiorno una delle tenute che il Papa aveva regalate a lui, marito di madonna Giulia, della Sposa di Cristo, come la satira la chiamava.
Una lettera singolare di Lorenzo Pucci al fratello Giannozzo, del 23 al 24 dicembre 1493 da Roma, chiarisce questi ed altri secreti di famiglia. Egli ci fa assistere a scene intime nel palazzo di Lucrezia. Lorenzo era stato richiesto dal cardinal Farnese d'accompagnarlo a Roma pel Natale. E con costui era ito da Viterbo a Rignano, ove con gran festa furono ricevuti da' baroni di casa Savelli, parenti del cardinale. Quindi a cavallo continuarono il viaggio per Roma. Ora Lorenzo comunicava innanzi tutto al fratello i discorsi confidenziali, avuti, via facendo, col cardinale. Trattavasi di fidanzare la piccola figliuola di [65] Giulia con qualcuno, che potesse poscia diventarle marito. Su ciò il cardinale apriva a Lorenzo l'animo suo. Al giovane Astorre Manfredi di Faenza Piero de' Medici voleva dare una sua figliuola: invece desiderio del Farnese era che Astorre impegnasse la sua mano con la nipote, la figlia della Giulia. Egli sperava persuadere Pietro de' Medici che tal matrimonio sarebbe utile a lui e alla Repubblica di Firenze, e che varrebbe a raffermare le relazioni di lui con la Santa Sede. Simile disegno occorreva svolgere in guisa che apparisse affatto come risultato dell'accordo del Papa e di Piero. Il cardinale contava sul consenso di Alessandro e di Giuliano e sull'influenza di madonna Adriana. A siffatte espansioni confidenziali Lorenzo Pucci rispose: «Monsignore, io credo sicuramente che il Signor Nostro (il Papa) darà una figliuola a questo signore (Astorre), perchè, intendiamoci bene, tengo che quella bambina sia figlia del Papa, come madonna Lucrezia, e nipote di Vostra Eminenza.»[48] Lorenzo nella lettera non dice che il cardinale abbia replicato motto a questa osservazione spinta sino all'impudenza, e che avrebbe fatto arrossire ogni uomo d'onore. In quella vece a noi sembra scorgere sulle labbra di Alessandro Farnese un sorriso di approvazione. Il temerario Pucci insisteva, del resto, ripetendo subito il pensier suo: «Essa (dic'egli nella lettera stessa) è figlia del Papa, nipote del cardinale, e figlia putativa del signor Orsini, al quale il Signor Nostro darà ancora altri tre o quattro castelli presso Bassanello. Oltracciò il cardinale pretende, che caso mai il signor Angelo (suo fratello) avesse a rimanere senza figli, i loro beni proprii non andranno ad altri che a quella bambina, avendola egli molto cara; e già pensare a ciò. Per tanto l'illustre Piero potrà disporre del suffragio del cardinale e averselo obbligato [66] per sempre.» Fra tutti questi disegni Lorenzo non dimenticava se stesso. Esprimeva apertamente la speranza, che il fratello suo Puccio venisse a Roma, come in effetto venne, quale ambasciatore della Repubblica, e che anche per sè, grazie alla cooperazione di madonna Adriana e della Giulia, vi fosse da guadagnare qualche pingue beneficio.
Il 24 dicembre Lorenzo Pucci continuava la sua lettera, descrivendo una scena domestica nel palazzo di Lucrezia. Col suo racconto ci presenta quelle donne, specie la Giulia, in tutta la loro viva realtà.
«Giannozzo mio, vi scrissi iersera quel che più su; oggi poi, vigilia della Pasqua, sono andato a cavallo con monsignor Farnese in Palazzo al vespro papale. Prima però che il Signor Nostro entrasse nella cappella, sono stato nella casa di Santa Maria in Portico per vedere madonna Giulia. La incontrai giusto al punto, in cui s'era lavato il capo e, con madonna Lucrezia, la figliuola del Signor Nostro, e madonna Adriana ne stava accanto al fuoco. E l'una e le altre mi videro tanto volentieri quanto è possibile dire. Madonna Giulia volle che le sedessi vicino, ringraziandomi d'aver io condotto a casa Jeronima, e dicendomi che, a volerla contentare, era necessario che la conducessi ancora qua. Madonna Adriana aggiunse: «È egli vero che essa non abbia licenza di venir qua più che di andare a Capodimonte e Marta?» Risposi non m'esser noto, e quanto a me bastare di aver contentato madonna Giulia, conducendo colei a casa, della qual cosa avevami per lettere richiesto; che ora lasciavo a madonna Giulia, che nelle cose sue non mancava d'ingegno, la cura dei mezzi per trovarsi con quella; e che anche Jeronima non desiderava meno vedere Sua Signoria che questa desiderasse veder lei. Di che madonna Giulia mi ringraziò assai, dicendomi tenersi soddisfatta di me. Poscia le ricordai gli obblighi [67] che con Sua Signoria aveva per tutto ciò che aveva operato per me; e che per questo non aveva saputo mostrarle meglio l'animo mio grato che accompagnando madonna Jeronima a casa. Ella mi rispose non valer la pena di ringraziarla per sì poca cosa; sperare potermi ancora compiacere in cose di maggior momento, ed all'occorrenza n'avrei fatta esperienza. Madonna Adriana replicò ch'io fossi certo di questo, che non pel cancelliere messer Antonio o per ambasciate sue, ma solo per favore di madonna Giulia avevo io ottenuto quei benefizii.
»Io mostrai crederlo per non contraddire, e ringraziai ancora una volta Sua Signoria. Quindi madonna Giulia mi domandò con molta premura di messer Puccio, e mi disse: «Noi lo faremo un dì venir qua; e se, quando ci fu, malgrado di tutti gli sforzi nostri non ci fu possibile ottenerlo, oggi invece riusciremo senza difficoltà.» M'accertò anche averle il cardinale iersera parlato di quel che per la via avevamo insieme conferito, e mi pregò di scrivere. Reputava però che, ove le cose si trattassero con l'intermezzo vostro, il magnifico Piero le udrebbe volentieri. Sicchè vedete ove le cose sono già ite. Volle anche che vedessi la fanciulla, la quale è già grandicella, e, a quanto mi sembra, somiglia al Papa adeo ut vero ex eius semine orta dici possit. Madonna Giulia si è ingrassata e fatta una cosa bellissima. In mia presenza si sciolse i capelli e se gli fece acconciare; le andavano sin giù a' piedi; nulla di simile vidi mai. Ha la più bella capigliatura che possa immaginarsi. Portava al capo un cuffione di rensa, con sopra una reticella leggiera come fumo con certi profili di oro: pareva davvero un sole. Gran cosa avrei pagato, perchè foste potuto esser presente per chiarirvi di quello più volte avete desiderato. Aveva un fodero indosso alla napoletana, e così anche madonna Lucrezia, che dopo poco andò via a cavarselo. Tornò di poi in veste foderata, pressochè tutta [68] di raso pavonazzo. Le lasciai quando il vespro fu finito e i cardinali partivano.»[49]
Le relazioni intime con la Giulia, gl'illeciti legami del padre con colei, de' quali la Lucrezia era ogni giorno testimone, se non le furono proprio scuola del vizio, la fecero stare con questo in continuo contatto. In tale atmosfera poteva mai una fanciulla di soli 14 anni mantenersi pura? Non doveva l'elemento della immoralità, nel cui mezzo era costretta a vivere, avvelenare i sentimenti suoi, attutire o falsare in lei ogni idea di morale e di virtù, e quindi penetrare anche tutta la natura sua?
Sul finire dell'anno 1493 Alessandro VI aveva largamente provvisto all'avvenire de' figli suoi. Cesare era cardinale; Juan duca in Spagna; Jofrè fu presto principe a Napoli. Questo più giovane figliuolo del Papa si sposò con donna Sancia in Napoli il 7 maggio 1494, il giorno stesso in cui suo suocero Alfonso, qual successore di re Ferdinando, salì al trono e fu incoronato dal cardinale legato Giovanni Borgia. Don Jofrè restò a Napoli: egli divenne principe di Squillace. Anche Don Juan ricevette grandi feudi in quel reame, e portava per questo i titoli di duca di Sessa e principe di Teano.
Il marito di Lucrezia dimorò ancora un pezzo a Roma, ove il Papa avevalo preso al suo soldo, conforme al preesistente trattato d'alleanza con Ludovico il Moro. Del resto, lo Sforza era al tempo stesso anche uno de' condottieri di quest'ultimo. Ma già la condizione di lui alla Corte d'Alessandro cominciava a farsi ambigua. Gli zii suoi [69] l'avevano sposato con Lucrezia, per fare del Papa un partigiano e complice della loro politica, che mirava ad una rivoluzione in Napoli. Ed ora invece Alessandro si legava strettamente con la dinastia Aragonese; dava al re Alfonso l'investitura del regno; e dichiaravasi contrario alla vagheggiata spedizione di Carlo VIII.
L'imbroglio per lo Sforza non era quindi piccolo. Sui primi d'aprile 1494 informava lo zio Ludovico della sua disperata condizione.
«Vedendo (così scriveagli) queste bandiere contro ogni debito dirizzarsi ad un cammino, che non mi piace, nè mai avrei creduto, tutto perplesso, come colui che non vorrei maculare la fede mia, nè contravvenire alle obbligazioni, che ho per capitoli col Pontefice e con l'Eccellenza Vostra, non avendo altro rifugio, non altro signore nè padrone qui che il Reverendissimo Cardinale Vicecancelliere (Ascanio Sforza), il quale mi fermò a' comuni stipendii, mi rivolsi a lui e lo supplicai che nel caso presente si degnasse consigliarmi e drizzarmi a quel cammino che più salutifero per me gli paresse e pel quale io venissi a conservare la fede mia, che mentre vivrò intendo mi sia una dote di ricchezza. E il cardinale mi rispose che ne parlassi al Pontefice, e facessi che Sua Beatitudine ne parlasse a lei; chè ella vedrebbe di assettare i fatti miei; e così feci. E ieri, dicendomi Sua Santità al cospetto di esso cardinale: «Ben ecco qua messer Gio. Sforza, che vuo' tu mo dire?» Gli risposi: «Padre Santo, per tutta Roma si tiene che la Santità Vostra sia d'accordo col Re (di Napoli), il quale è inimico dello Stato di Milano. Quando così sia, io mi trovo a un mal partito. Perchè, essendo ai comuni stipendii di Vostra Santità e di tale Stato, quando le cose andassero innanzi di questo passo, non vedo poter servire ad uno che non disserva all'altro. E spezzare la compagnia io nol vorrei fare. Supplico Vostra Beatitudine [70] si degni ordinare la condizione mia in modo che non resti inimico al sangue mio, nè debba contravvenire alle obbligazioni che ho per capitoli.» Mi rispose, ch'io volevo intender troppo de' fatti suoi, e che togliessi la prestanza dall'uno e dall'altro, e non cercassi dai coppi in su. E così commise al detto cardinale ne scrivesse all'Eccellenza Vostra, come più diffusamente ella intenderà dalle lettere dello stesso, alle quali mi rimetto. — Signor mio, se avessi creduto venire a termini tali, avanti di essermi legato per questa via, sarìa stato a mangiarmi la paglia sotto. Io mi getto nelle braccia vostre. Prego l'Eccellenza Vostra non mi voglia abbandonare, ma considerare lo stato in che io mi ritrovo, e non mi mancare dell'affetto suo ed aiutarmi, favorirmi e consigliarmi, perchè io resti buon servitore dell'Eccellenza Vostra; e mi conservi il credito e quel poco di mio, che grazie allo Stato di Milano mi hanno lasciato i miei progenitori; e il quale, insieme con la propria persona e genti d'armi, io manterrò sempre agli ordini dell'Eccellenza Vostra.
»Roma.... aprile 1494.
»Giovanni Sforza.»[50]
La lettera rivela anche altri più profondi e più ascosi timori circa la durata del dominio su Pesaro. Sin d'allora i propositi del Papa di far sparire dallo Stato della Chiesa tutti quei tirannelli e vicarii eran già in qualche modo trapelati.
Poco tempo dopo, il 23 aprile, il cardinal Della Rovere fuggì da Ostia e andò in Francia per spingere Carlo VIII alla spedizione in Italia, non tanto per rovesciare l'ordine [71] di cose esistenti in Napoli, quanto per trascinare quel Papa simoniaco innanzi a un Concilio e deporlo.
Ne' primi di luglio lasciò similmente la città Ascanio Sforza, oramai compiutamente rotto con Alessandro. Andò dai Colonna, a Genazzano, i quali erano al soldo di Francia. Carlo VIII si disponeva già a muovere per l'Italia. Intanto il 14 luglio il Papa e re Alfonso ebbero un convegno a Vicovaro presso Tivoli.
Erano in questo frattempo occorsi mutamenti importanti nel palazzo di Lucrezia. Il marito s'affrettò ad allontanarsi da Roma, il che dovette fare come condottiero della Chiesa. In tal qualità doveva unirsi all'esercito napoletano, che, sotto gli ordini del duca Ferrante di Calabria, s'andava concentrando in Romagna. Gli articoli del contratto matrimoniale gli davano facoltà di condur seco la moglie in Pesaro. Andarono con essa anche la madre Vannozza, Giulia Farnese e madonna Adriana. Alessandro stesso volle che partissero, temendo della peste, che cominciava a manifestarsi. Di ciò l'ambasciatore di Mantova in Roma informava sin dal 6 maggio il marchese Gonzaga; e il 15 scriveva allo stesso: «L'illustre signor Giovanni partirà immancabilmente lunedì o martedì in compagnia di tutte e tre le dame, che, per ordine del Papa, restano a Pesaro sino all'agosto: poscia faranno insieme ritorno.»[51]
Lo Sforza deve esser partito su' primi del giugno, essendo l'11 di questo mese giunta lettera di Ascanio al fratello a Milano, con la quale informavalo essere il signore di Pesaro con la moglie, con madonna Giulia, l'amante del Papa, e la madre del duca di Gandia e di Jofrè, partito da Roma e andato a Pesaro; e Sua Santità aver pregato madonna Giulia di ritornare al più presto.[52]
[72]
Il 18 luglio Alessandro fu di ritorno da Vicovaro a Roma; ed ecco la lettera che il 24 scrisse a sua figlia in Pesaro:
«Alessandro Papa VI, manu propria.
»Donna Lucrezia, figlia carissima. Da parecchi giorni non abbiamo tue lettere. A noi reca grandissima maraviglia che tu trascuri scriverci più spesso e darci nuove della salute tua e di quella del signor Giovanni, nostro carissimo figliuolo. Fa per l'avvenire di essere più accurata e diligente. Madonna Adriana e Giulia sono giunte a Capodimonte, ove trovarono morto il fratello. Della qual perdita han preso tanta alterazione e afflizione il cardinale e la Giulia, che entrambi sono stati colti da febbre. Noi abbiamo mandato Pietro Caranza a visitarli e provveduto a medici e al necessario. Speriamo in Dio e nella Nostra Donna gloriosa, che in breve staranno bene. Veramente in questa faccenda della partenza di madonna Adriana e di Giulia, il signor Giovanni e tu avete avuto poco rispetto e considerazione verso di noi. Le lasciaste partire senza espressa licenza nostra; mentre avreste, com'era debito vostro, dovuto pensare che un repentino allontanamento, senza nostra saputa, non ci poteva che sommamente dispiacere. Che se dici aver loro così voluto, perchè il cardinal Farnese così voleva e comandava; voi altri avreste dovuto considerare, se ciò fosse di gradimento al Papa. Oramai è fatto. Altra volta saremo più accorti, e penseremo molto bene in mano di chi mettiamo le cose nostre. Grazie a Dio e alla gloriosa Nostra Donna, noi stiamo benissimo di salute. Abbiamo avuto un convegno col Serenissimo re Alfonso. Egli s'è portato con noi con tanto amore ed osservanza ed obbedienza, come se fosse nostro proprio [73] figlio. Non ti potremmo dire nè esprimere quanto siam partiti contenti e soddisfatti l'uno dell'altro. E sii certa che Sua Maestà metterà per lo Stato e in servizio nostro la propria persona e quanto al mondo possiede.
»Noi speriamo che ogni suspicione e tutte le differenze con questi Colonnesi in tre o quattro dì saran tolte. Per ora non resta che esortarti ad attendere a star sana e ad esser devota della gloriosa Nostra Donna. — Data a Roma da San Pietro, il 24 luglio 1494.»[53]
Questa lettera, la prima delle poche che ancora restano di Alessandro alla figlia, fa vedere che Giulia Farnese era, è vero, andata con madonna Lucrezia a Pesaro; ma che presto erane, all'insaputa e senza permesso di Alessandro, ripartita per rendersi alle terre della casa sua in Etruria. Stando ai dispacci di quell'ambasciatore mantovano, ella vi sarebbe accorsa per la malattia del fratello Angelo, che in effetto, poco dopo, nell'agosto, morì. Invece secondo una lettera veneziana in Marin Sanuto, la Giulia avrebbe abbandonato Roma per assistere ad un matrimonio presso i suoi congiunti, e in questa occasione lo scrittore la chiama: «la favorita del Papa, giovane sposa di grande bellezza, intelligente, savia e di dolce carattere.»
La lettera del Papa ci fa conoscere che le relazioni di lui con l'amante, tuttochè allontanatasi da Roma, rimanevan le stesse.
Le tempeste, che vennero allora a scatenarsi sul capo di Alessandro, non toccarono Lucrezia, che col marito entrava [74] in Pesaro l'8 giugno 1494. Sotto una pioggia torrenziale, che turbò la festa del ricevimento, essa prese possesso del palazzo degli Sforza, che ora doveva essere la sua residenza.
Ecco in brevissimi cenni la storia di Pesaro sino a quel tempo:
L'antica Pisaurum si dice edificata dai Siculi, e aver preso nome dal fiume, che non lungi dalla città va a sboccare nel mare, chiamato oggi Foglia. Nell'anno 570 di Roma la città divenne colonia Romana. Cominciando da Augusto fece parte della quarta Regione dell'Italia: da Costantino poi della provincia Flaminia. Caduto l'Impero Romano, Pesaro corse la sorte di tutte le altre città italiane, specialmente nella grande guerra de' Goti con l'imperatore greco: Vitige la distrusse; Belisario la riedificò.
Caduti i Goti, Pesaro fu incorporata all'Esarcato, componendo con le altre quattro città sull'Adriatico, Ancona, Fano, Sinigaglia e Rimini, la Pentapoli. Allorchè Ravenna venne in potere di Astolfo, re de' Longobardi, anche Pesaro diventò longobarda. Ma poscia per effetto della donazione di Pipino e di Carlo passò in possesso del Papa.
La storia ulteriore della città s'intreccia con quella dell'Impero, della Chiesa e del Marchesato d'Ancona. Per lunga pezza residettero colà Conti imperiali. Innocenzo III ne investì Azzo d'Este, signore di quella Marca. Più tardi, durante la lotta degli Hohenstaufen col Papato, fu talvolta dell'Impero, tal'altra della Chiesa, sino a che al finire del XIII secolo i Malatesta, dapprima suoi Podestà, se ne fecero poscia signori. Questa famosa stirpe Guelfa, proveniente da Castel Verrucchio, posto fra Rimini e San Marino, acquistò nel territorio di Pesaro prima la cittadella Gradara e via via estese il suo dominio sino ad Ancona. Nel 1285 Gianciotto Malatesta divenne signore di [75] Pesaro. Alla morte sua nel 1504 ereditò il potere il fratello Pandolfo.
Poscia i Malatesta, signori nella prossima Rimini, dominarono non solo su Pesaro, ma su una gran parte della Marca, della quale s'impadronirono, mentre i papi sedevano in Avignone. Si assicurarono il possesso di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone mercè un trattato al tempo del celebre Gil d'Albornoz, che gli confirmò colà quali Vicarii della Chiesa. Un ramo secondario della casa ebbe sede in Pesaro sino a Galeazzo Malatesta. Minacciato questi dal parente suo Gismondo, il tiranno di Rimini, e inetto a proteggere Pesaro contro gli assalti di lui, nel 1445 vendette la città per 20,000 fiorini d'oro al conte Francesco Sforza; il quale ne investì per contratto suo fratello Alessandro, marito di una nipote di Galeazzo. Lo Sforza fu quel gran condottiero, che, estinti i Visconti, salì sul trono di Milano, come primo Duca della casa sua. Mentre egli fondava colà la linea de' duchi Sforza, il fratello suo Alessandro si faceva fondatore della casa de' signori di Pesaro.
Questo valoroso capitano prese possesso di Pesaro nel marzo 1445; due anni dopo ricevette l'investitura papale. Egli era maritato con Costanza Varano, una di quelle donne più esimie per bellezza e per spirito, che fiorirono in Italia nei primi tempi della Rinascenza.
Costei gli partorì Costanzo e una figliuola, Battista, la quale benanche, come moglie di Federico d'Urbino, sfolgorò più tardi per le virtù sue e pel suo genio. Le vicine corti di Pesaro e d'Urbino s'imparentarono e gareggiarono a vicenda nel culto delle arti belle e delle scienze. Un'altra figliuola non legittima di Alessandro fu Ginevra Sforza, donna a tempo suo non meno ammirata, famosa come moglie di Sante prima, poi di Giovanni Bentivoglio, signori di Bologna.
[76]
Dopo la morte della moglie, Alessandro Sforza passò a seconde nozze con Sveva Montefeltro, figlia di Guidantonio d'Urbino. Il 3 d'aprile 1473, dopo un regno felice, lasciò il suo bel paese al figlio.
Costanzo Sforza l'anno appresso si sposò con Camilla Marzana d'Aragona, principessa bella e di larga mente della Casa reale di Napoli. Egli pure era uomo illustre e liberale. Morì nel 1483 a 36 anni appena, senza eredi legittimi, Giovanni e Galeazzo essendo suoi figliuoli naturali. Il governo di Pesaro fu quindi retto dalla vedova Camilla per sè e pel figliastro Giovanni, sino a che questi nel novembre 1489 non la costrinse a lasciargli intero il reggimento.
Tale la storia della famiglia Sforza di Pesaro, nella quale ora Lucrezia Borgia era entrata come moglie appunto di Giovanni.
Il dominio comprendeva allora la città di Pesaro ed un novero di piccole comunità, chiamate castelli o ville: cioè Sant'Angelo in Lizzola, Candelara, Montebaroccio, Tomba di Pesaro, Montelabbate, Gradara, Monte Santa Maria, Novilara, Fiorenzuola, Castel di Mezzo, Ginestreto, Gabicce, Monteciccardo e Monte Gaudio. Di più anche Fossombrone da' Malatesta era passato agli Sforza.
Il Principato, come s'è detto, apparteneva da tempo antichissimo alla Chiesa, dalla quale prima i Malatesta e poi gli Sforza ne erano stati come Vicarii investiti, a titolo feudale, contro l'annuo canone di 750 fiorini d'oro. La figlia quindi di un papa per un tiranno di Pesaro doveva essere la più conveniente delle mogli, che potesse augurarsi nelle condizioni d'allora, quando i papi sforzavansi a far scomparire dallo Stato della Chiesa quelle illegittime dominazioni. Se Lucrezia guardava l'estensione e l'importanza del suo piccolo regno, certo doveva a se stessa confessare, che rimaneva indietro rispetto alle altre [77] donne residenti a Urbino, Ferrara e Mantova, o in Milano e Bologna. Pure, sotto il supremo dominio del Papa, del proprio padre, ella era sempre diventata principessa indipendente. E comecchè i possedimenti suoi non abbracciassero che poche miglia quadrate, eran pur sempre uno de' più preziosi giardini d'Italia.
Pesaro giace libera e piana in spaziosa valle. Una catena di verdeggianti colline le fa corona d'intorno, quasi a forma d'anfiteatro, che va a terminarsi nel mare. E su questo, all'estremità del semicerchio, due erti promontorii si spiccano, l'Accio e l'Ardizio. Il Foglia serpeggia attraverso la valle. La graziosa città siede sulla destra sponda, e con le sue torri, e le mura e il castello si stende sulla piaggia biancastra. A settentrione, verso Rimini, i monti si serrano al mare; a mezzogiorno invece la riva è più larga. E di quivi attraverso i tenui vapori marini veggonsi spuntare le torri di Fano. E più in là si mostra il Capo d'Ancona.
Quelle deliziose colline e quella valle ridente, e quel cilestre cielo che le copre, e il mare raggiante formano insieme un quadro, ove spira un soffio di amenità che rapisce. Gli è il più soave idillio sulla spiaggia adriatica. Le aure dalla terra e dal mare sembrano colà comporre una lirica melodia, che slarga il cuore e fa vibrare nell'anima immagini belle e felici. Pesaro è la culla del Rossini e di Terenzio Mamiani, dell'esimio poeta ed uomo di Stato, che oggi ancora sa consacrare le più nobili facoltà sue al risorgimento d'Italia.
Le passioni de' tiranni di questa città non furono così spaventevoli come di altri dinasti del loro tempo, forse anche perchè il bel paese era troppo piccolo per feroci ambiziose geste. Dico forse, perchè lo spirito umano non sempre si forma secondo le influenze della natura. Uno de' più empii scellerati fu Gismondo Malatesta nella mite [78] e bella città di Rimini. Gli Sforza però, quando si paragonino co' loro cugini di Milano, sembrano signori buoni e felici. Una serie di nobili dame fu ornamento della loro piccola corte. Ed ora Lucrezia doveva sentirsi chiamata a modellarsi su quelle.
Poichè fu entrata a Pesaro, se in età così giovane l'anima sua non era per anco resa incapace di una felicità modesta, dovette la prima volta provare l'inebbriante sentimento della libertà. Colà Roma severa col sinistro Vaticano, con i suoi delitti e le sue passioni, potette apparirle quasi carcere, dal quale erasi sottratta. Certamente, tutto quello che in Pesaro la circondava, era piccino in confronto della grandezza di ogni cosa a Roma. Pure colà non era più soggetta all'influenza immediata e al volere del padre e del fratello, da' quali oramai la dividevano l'Appennino e una distanza per quel tempo grande.
La città di Pesaro, che oggi conta più di 10,000 abitanti e col suo territorio n'ha quasi 20,000, allora ne conteneva forse la metà. Aveva strade e piazze regolari, con architettura essenzialmente gotica, però già interrotta da edifizii in stile della Rinascenza. Alcuni chiostri e chiese, che ancora oggi serbano le antiche facciate, come San Domenico, San Francesco, Sant'Agostino e San Giovanni, davano alla città aspetto degno e onorevole, tuttochè non straordinariamente bello.
I più grandi edifizii monumentali di Pesaro erano quelli dei tiranni regnanti; il castello sul mare, e il palazzo sulla piazza della città. Quello fu costrutto da Costanzo Sforza nel 1474, e poi interamente rifatto dal figlio Giovanni. Ancora oggi se ne vede il nome su una lapide di marmo alla porta d'ingresso. Con quattro torri rotonde e tozze, e bastioni, in rasa pianura, circondato da una fossa, esso è posto all'angolo delle mura della città verso il mare; e solo la prossimità di questo poteva dargli certa saldezza. [79] Malgrado di ciò, ha apparenza di sì poco rilievo, che v'è da maravigliarsi come, anche in quel tempo, per imperfettissima che fosse ancora l'artiglieria, potesse esser tenuto atto a resistere.
Il palazzo degli Sforza sta ancora sulla leggiadra piazza della città, della quale occupa un lato. Costruzione a due grandi cortili, di bell'aspetto, ma non maestoso. I Rovere, successori degli Sforza, l'abbellirono nel secolo XVI. N'edificarono pure la sontuosa facciata che posa su portico a sei archi rotondi. Le armi degli Sforza nel palazzo sono sparite. Sulle facciate e sotto le vôlte sono invece frequenti le iscrizioni Guidobaldus II Dux, e l'arme de' Rovere. V'era già al tempo di Lucrezia la magnifica sala per le feste, il più bel fregio del palazzo; grande e vasta da farla degna del più potente de' monarchi. Ma la mancanza di decorazione alle pareti, o di porte guernite di marmi finissimi, quali si ammirano nel Castello di Urbino, mostra anch'essa le modeste condizioni della dinastia di Pesaro. La ricca vôlta della sala in legno dorato e dipinto risale al tempo del duca Guidobaldo.
Ogni memoria del tempo, in cui quel palazzo fu abitato da Lucrezia Borgia, è morta. Non vivono che i ricordi di un tempo posteriore; della vita della corte de' Rovere, ove il Bembo, il Castiglione e il Tasso furono più volte ospiti. La corte ufficiale, che Lucrezia aveva seco menata, non bastava a popolare quegli ampii spazii. Anche la madre, madonna Adriana e Giulia Farnese non si trattennero con lei che breve tempo. Essa maritò in Pesaro una giovane spagnuola del suo seguito, donna Lucrezia Lopez, nipote del Datario, e poscia cardinale Giovanni Lopez, con Gianfrancesco Ardizio, il medico e il confidente di Giovanni Sforza.
Nel palazzo non trovò altri parenti del marito che il più giovane fratello Galeazzo. Questa dinastia non fu feconda, [80] e già tendeva all'estinguimento. Anche Camilla d'Aragona, la madrigna di Giovanni, non era della compagnia di lei, avendo sin dal 1489 abbandonato Pesaro per sempre, ed essendosi ritirata in un castello presso Parma.
L'estate, l'attraente paese potette procacciare alla giovane principessa qualche svago. Potè visitare la vicina corte di Urbino, ove vivevano Guidobaldo di Montefeltro e la moglie Elisabetta nel superbo castello, del quale l'intelligente Federico aveva fatto un centro di coltura. Viveva allora in Urbino Raffaello, fanciullo di 11 anni, discepolo assiduo e zelante nello studio del padre suo Sanzio.
Lucrezia andò nella state in una delle belle ville sulle colline de' pressi. Soggiorno preferito dal marito era Gradara, castello in luogo elevato sulla strada di Rimini, che ancora oggi con le sue mura rosse e con le sue torri si mantiene intatto. Ma il più magnifico dei castelli era la Villa Imperiale. Rimane a mezz'ora da Pesaro; sul Monte Accio; e si gode di là una estesa vista sul mare e sul continente. Sontuoso palazzo d'estate per gran signori e per gente felice, nata ai più eletti comodi e ai godimenti più belli. Questa villa deve aver somigliato a un giardino di Armida. Alessandro Sforza l'edificò il 1464; l'imperatore Federico III, tornando dal suo viaggio in Roma per l'incoronazione, ne pose la prima pietra; indi il nome di Villa Imperiale. Più tardi fu compiuta da Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria Della Rovere, erede di Urbino e successore di Giovanni Sforza nel dominio di Pesaro. Artisti celebri l'ornarono di pitture allegoriche e storiche; il Bembo e Bernardo Tasso la cantarono in versi; e Torquato vi lesse alla corte dei Rovere la sua favola boschereccia, l'Aminta. Oggi è anch'essa in uno stato di deplorevole rovina.
Pesaro, del resto, non poteva offrire grande divertimento [81] ad una giovane signora abituata alla rumorosa vita di Roma. La piccola città non aveva nobili d'importanza. Le case dei Brizi, degli Ondedei, dei Giontini, Magistri, Lana, Ardizii ed altri con le loro maniere e costumanze patriarcali non potevano per Lucrezia supplire alle relazioni tanto cospicue e importanti con i grandi di Roma. Del movimento umanistico della coltura italiana qualche soffio era pur penetrato in Pesaro. Colà, come nelle città limitrofe sull'Adriatico e sin nell'Umbria, era in fiore quella leggiadra arte industriale, la dipintura delle maioliche, che, portata alla sua perfezione, degnamente successe all'arte vasaria della Magna Grecia e dell'Etruria. Aveva già preso largo incremento al tempo degli Sforza. Una delle più antiche maioliche nel Museo Correr a Venezia, rappresentante Salomone in adorazione innanzi a un idolo, porta la data del 1482. E sin dal secolo XIV era quell'arte coltivata anche in Pesaro, e v'aveva preso poderoso slancio sotto il reggimento di Camilla d'Aragona. Ancora oggi nella Casa Comunale si conservano alcuni avanzi della ricchezza delle antiche fabbriche cittadine.
Anche per altre vie si muoveva colà la vita dello spirito, che v'era stata suscitata dagli Sforza o dalle donne loro, gareggiando con Urbino e Rimini. In quest'ultima città Gismondo Malatesta raccoglieva intorno a sè poeti ed eruditi, ai quali dava stipendii in vita, e, morti, faceva erigere sarcofaghi sul muro esterno del Duomo. Specialmente Camilla ebbe molto a cuore il culto delle scienze. Nel 1489 chiamò a Pesaro un greco, Giorgio Diplovatazio di Corfù, uomo di merito, parente di Laskari e Vatazes, che, fuggito da' Turchi, era venuto in Italia. E in quel tempo stesso già vivevano nella ospitale Pesaro altri esuli Greci delle stirpi degli Angeli, de' Komneni e de' Paleologhi. Il Diplovatazio aveva studiato a Padova; a Pesaro Giovanni Sforza lo fece nel 1492 Avvocato del fisco. Dopo d'allora e [82] sino alla morte, nell'anno 1541, sfolgorò colà come giurisperito.[54]
Lucrezia adunque trovò in Pesaro quest'uomo illustre. Con lui e con altri Greci avrebbe potuto continuare i suoi studii, ove la maturità degli anni o la natia inclinazione ve l'avesse spinta. Una biblioteca, raccolta dagli Sforza, gliene offriva i mezzi. Mancava colà un altro uomo allora non meno celebre, Pandolfo Collenuccio, poeta, retore e filologo, divenuto conosciutissimo per la sua storia di Napoli. Aveva servito la casa Sforza come segretario e diplomatico; e alla sua eloquenza il marito della Lucrezia doveva, se a lui, bastardo di Costanzo, fu concessa l'investitura di Pesaro da Sisto IV e da Innocenzo VIII. Ma il Collenuccio cadde poscia in disgrazia; Giovanni Sforza nel 1488 prima lo mise in prigione, e poi lo esiliò. Andò a Ferrara a prestare i suoi servizii a quella corte. Accompagnò il cardinale Ippolito a Roma; e vi si trovava nel 1494, proprio al tempo, in cui Lucrezia andò a prender possesso di Pesaro. Probabilmente in Roma ella ebbe occasione di conoscerlo.[55]
Ai tempi di Lucrezia non era neanche in Pesaro il giovane poeta Guido Postumo Silvestro, allora sempre a Padova agli studii. Ben dovette forse a Lucrezia rincrescere di non aver potuto accogliere alla sua corte questo poeta pieno di spirito quanto irrequieto. La sua grazia affascinante gli avrebbe probabilmente ispirato altri versi, diversi da quelli ch'ei più tardi indirizzò ai Borgia.
La sposa dello Sforza fu accolta in Pesaro con amore; e ben presto v'ebbe amici molti. Era in sul primo schiudersi della florida giovanezza sua. Niuno di quegli eventi, [83] che più tardi la resero oggetto di diffidenza o di pietà, ne turbava ancora l'esistenza. Se nel suo matrimonio con lo Sforza godette mai realmente la felicità della vita, furono, certo, i giorni passati in Pesaro quelli che poterono farla vivere come invidiabile regina di un idillio pastorale. Ma tale non era la sorte a lei destinata. L'ombra sinistra del Vaticano si spandeva sin sulla Villa Imperiale del Monte Accio. Un dispaccio del padre poteva ogni giorno richiamarla a Roma. Forse anche cominciò ella stessa a trovare il soggiorno di Pesaro troppo monotono e vuoto, soprattutto per questo, che di frequente il marito era costretto ad allontanarsi dalla corte di lei per i doveri di condottiero presso l'esercito del Papa e de' Veneziani.
Gli avvenimenti, che in quel mentre avevan messo l'Italia a soqquadro, ridussero Lucrezia di nuovo a Roma, dopo un anno di pace goduto in Pesaro.
Su' primi di settembre 1494 Carlo VIII entrava in Piemonte; e d'un tratto le condizioni d'Italia mutavan tutte. Il Papa, il suo alleato Alfonso e Piero de' Medici, in breve tempo, si videro quasi inetti a difendersi. Già a' 17 novembre faceva quel re ingresso a Firenze. Alessandro avrebbe voluto mettergli contro le truppe sue e le napolitane a Viterbo, ove trovavasi come Legato il cardinal Farnese. Ma i Francesi, senza ostacolo, penetrarono e si sparsero nel Patrimonio. E insino l'amante del Papa, la sorella Girolama, e madonna Adriana, quelle donne ch'erano il cuore e gli occhi di Alessandro, caddero in mano di una colonna francese.
L'agente mantovano Brognolo ne informava il suo signore con dispaccio del 29 novembre 1494: «È occorso [84] un caso, ch'è oltraggio grande pel Papa. L'altr'ieri madonna Adriana e madonna Giulia con la sua sorella uscivano dal loro castello di Capodimonte per recarsi a Viterbo presso il loro fratello, il cardinale. A qualche miglio di colà s'imbatterono in una schiera di cavalleria francese, e furon prese e menate a Montefiascone insieme con tutto il seguito loro, 25 a 30 persone a cavallo.»
Il capitano francese, che fece sì preziosa presa, fu monsignor d'Allegre, forse quell'Ivo, che più tardi entrò al servizio di Cesare. «Allorchè seppe chi fosse quella bella dama, le impose per riscatto la somma di 3000 ducati; e informò per lettera il re Carlo della persona che aveva fatta prigioniera; ma colui non volle vederla. Madonna Giulia scrisse quindi a Roma, che la era trattata benissimo, e le si mandasse la somma pel riscatto.»[56]
La nuova dell'accaduto gettò Alessandro nella massima costernazione. Immediatamente mandò un cameriere a Marino, ov'era allora al quartier generale de' Colonna il cardinale Ascanio, il quale, da lui vivamente pregato, era tornato il 2 novembre e messosi a negoziare col re Carlo. Col cardinale si dolse dell'affronto arrecatogli, e impetrava che s'impegnasse per la liberazione de' prigionieri. Scrisse puranco a Galeazzo di Sanseverino, che accompagnava il re a Siena. E, compiacente verso codesti signori, Carlo VIII ordinò che quelle donne fossero mandate libere. Sotto la scorta di 400 Francesi furono condotte sino alle porte di Roma, e ivi ricevute, il primo dicembre, da Giovanni Marades, cameriere del Papa.[57]
[85]
Il romantico avvenimento fece parlar di sè per tutta Italia. Fu un rallegrarsi dello scandalo, di cui il Papa era stato vittima, e un ridere alle spalle sue. Una lettera del Trotti, ambasciatore ferrarese presso la corte di Milano al duca Ercole, ci mostra come Ludovico il Moro, l'usurpatore del trono di suo nipote, fatto da lui avvelenare, giudicasse il Papa in tal circostanza: «Egli biasimava fortemente monsignor Ascanio e il cardinal Sanseverino per la restituzione di madonna Giulia, di madonna Adriana e di Girolama a Sua Santità, perchè, essendo tali donne il cuore e gli occhi del Papa, sarebbero state il miglior flagello per costringere costui a tutto quello che si desiderava; mentre Sua Santità non sapeva vivere senza di esse. I Francesi, che le presero, non avevano avuto per riscatto che 3000 ducati; invece, solo per riaverle, il Papa ne avrebbe pagati più di 50,000. Secondo notizie arrivate al nominato signor duca da Roma e anche da Firenze da Angelo, che era colà, quando le donne entrarono, Sua Santità andò loro incontro, in giubba nera, con liste di broccato in oro, con una bella ciarpa alla spagnuola e col pugnale e la spada. Portava stivali spagnuoli e berretto di velluto molto galante. Il duca, ridendo, mi domandò cosa ne pensassi; e io, senza indugiare, gli risposi, che se fossi, come lui, duca di Milano, vorrei tentare, mercè il re di Francia o per qualunque altra via, sotto pretesto di accordo, di aggirare e vincere in astuzia Sua Santità, e con belle parole, il che egli stesso ha fatto, prender lui e i cardinali prigionieri; cosa del resto agevole di molto! Chi ha in mano il servo — almeno così suona da noi il proverbio — tiene anche il carro co' bovi insieme; e mi ricordai [86] bensì di quel verso di Catullo: tu quoque fac simile, simile ars deluditur arte.»[58]
Ludovico, il degno contemporaneo de' Borgia, amicissimo una volta di Alessandro VI, ora l'odiava, dopo che questi erasi alienato da lui e da Francia. Soprattutto l'imprigionamento traditoresco del fratello Ascanio era valso ad irritarlo oltre ogni misura. Lo stesso ambasciatore scriveva ad Ercole il 28 dicembre: «Il duca Ludovico mi disse parergli d'ora in ora vedere arrivare messer Bartolomeo de Calcho con una staffetta per informarlo che il Papa fosse stato preso, e tagliatagli la testa.»[59] Libero il lettore di ritenere o no, che per questo odio appunto Ludovico si permettesse rispetto al Papa un linguaggio così maledico, o anche di esagerare nel suo dialogo col Trotti, ovvero di affermare in pubblico Consiglio di Stato, il Papa essersi fatto venire per suo uso tre donne: l'una, monaca di Valenza; l'altra, una castigliana; la terza, una fanciulla di Venezia, bella come un'immagine, tra i 15 e 16 anni. «Qui in Milano — così il Trotti — si pronunziano in pubblico tali ingiurie contro questo Papa, quali forse in Ferrara non si ammetterebbe contro il Torta.»[60]
Come Carlo VIII vittorioso, senza riportar vittorie, si spingesse sino a Roma e a Napoli, è raccontato in altre storie. La sua spedizione conquistatrice attraverso l'Italia è forse la più umiliante delle invasioni che quel paese abbia avuto a subire. Ma essa insegna, che, quando Stati e popoli son divenuti maturi per la decadenza, basta anche la forza di un fanciullo di fiacca mente per mandarli in perdizione. Il Papa seppe giuocare d'astuzia col monarca [87] di Francia e superarlo. Questi, anzi che farlo deporre mercè un Concilio, lo riconobbe qual Vicario di Cristo e concluse con lui un trattato.
Egli irruppe quindi nel Napoletano. E dopo breve tempo il paese venne in poter suo. Ma poichè l'Italia riprese coraggio e gli si strinse in lega alle spalle, Carlo VIII fu costretto a tornare indietro. Alessandro lo schivò, andandosene prima ad Orvieto, poi a Perugia. Quivi fece venire Giovanni Sforza, che v'andò con la moglie il 16 giugno 1495; e, restatovi quattro giorni, se ne tornò poi di nuovo a Pesaro.[61] Il re di Francia si aprì felicemente sul Taro un varco attraverso l'esercito della Lega; e così con onore si sottrasse alla morte o alla prigionia.
Tornato a Roma, Alessandro VI si trovò tanto più raffermato sulla Santa Sede, intorno alla quale raccolse i suoi ambiziosi bastardi. E questi Borgia si levarono con tanta maggiore audacia, in quanto, scosso per l'invasione tutto l'ordine di cose esistenti in Italia, riusciva assai più facile dar seguito ai propositi loro.
Lucrezia restò ancora un po' di tempo a Pesaro col marito, che per la Lega era stato preso al soldo dai Veneziani. Pure nè alla battaglia sul Taro, nè all'assedio di Novara Giovanni Sforza erasi lasciato vedere. Conclusa poi nell'ottobre 1495 la pace tra Carlo VIII e il duca di Milano, mercè la quale cessava la guerra nell'Alta Italia, lo Sforza potette ricondurre la moglie a Roma. Marin Sanudo c'informa della presenza di lei nella città sul finire dell'ottobre, e il Burkard di quella per la festa di Natale.
In servizio della Lega lo Sforza comandava 300 fantaccini e 100 uomini d'arme. Con questo corpo doveva nella primavera dell'anno seguente muovere per Napoli, ove [88] l'esercito alleato sosteneva vigorosamente il giovane re Ferrante II in guerra coi Francesi, ch'erano sotto gli ordini del Montpensier. Colà s'indirizzava benanche il capitano generale di Venezia, il marchese di Mantova. Questi entrò in Roma il 26 marzo 1496. Il 15 aprile vi giunse anche lo Sforza con i suoi mercenarii, e ne partì il 28 aprile, lasciandovi la moglie. Il 4 maggio arrivò a Fondi.[62]
I due figli di Alessandro, Don Juan e Don Jofrè, continuavano allora a rimaner lontani. L'uno, il duca di Gandia, fu preso similmente al soldo da Venezia. Era atteso dalla Spagna per porsi alla testa di 400 uomini, che il suo luogotenente Alovisio Bacheto raccoglieva per lui. L'altro, Don Jofrè, come s'è visto, era ito nel 1494 a Napoli, ove erasi sposato con donna Sancia e stato nominato principe di Squillace. Come membro della casa Aragonese, corse anch'egli i pericoli della declinante dinastia; e ciò doveva spingere il Papa ad impedire di questa l'estrema e totale rovina. Accompagnò il re Ferrante nella fuga, e seguì anche le insegne di lui, allorchè, dopo la ritirata di Carlo VIII, quegli per gli aiuti di Spagna, di Venezia e del Papa, tornava di nuovo a impadronirsi del reame e rientrava in Napoli nell'estate 1495.
Don Jofrè con la moglie non vennero a Roma che l'anno appresso. Entrambi fecero il loro ingresso solenne il 20 maggio 1496 con pompa veramente regale. Ambasciatori, cardinali, magistrati della città, molti baroni andarono loro incontro avanti a Porta Lateranense. V'andò anche Lucrezia accompagnata dalla sua corte officiale. Con tutto questo seguito la giovane coppia fu condotta al Vaticano. Il Papa ricevette il figlio e la nuora sul trono, circondato da undici cardinali. Fece sedere a terra, sopra [89] cuscini, Lucrezia alla sua destra e Sancia alla sinistra. Era il tempo pasquale. Alle solenni funzioni si vedevano le due principesse e le loro dame di corte sfacciatamente sedute sugli stalli de' canonici; e per tal modo, come il Burkard nota, erano pel popolo motivo di pubblico scandalo.
Tre mesi più tardi, il 10 agosto 1496, anche il maggior figlio di Alessandro, Don Juan, duca di Gandia, entrò con grandissima solennità in Roma, per fermarvisi, avendo il padre deciso far di lui un gran principe.[63] Non è mai detto ch'egli abbia condotto seco la moglie donna Maria.
Così per la prima volta Alessandro VI vedeva intorno a sè tutti i suoi figli. Nel Borgo Vaticano non v'erano allora meno di tre corti di nepoti. Juan aveva stanza nel Vaticano; Lucrezia nel palazzo Santa Maria in Portico; Jofrè nella casa del cardinale d'Aleria presso Castel Sant'Angelo; e Cesare nel Borgo stesso.
Tutti codesti individui eran venuti su dal nulla, avidi d'onori, di potenza e di godimenti; giovani tutti e belli, e pressochè anche tutti gente di vita rotta, ma graziosamente eloquenti e rivestiti, pari alla gioventù depravata dell'antica Roma, delle forme più amabili e più leggiadre della socievolezza. Solo, in verità, un angusto modo di giudicare, che non vede in quegli uomini se non le crudezze, può indursi a raffigurare i Borgia qual branco di bestie per natura feroci. Essi erano, nè più nè meno, come parecchi principi e signori del tempo loro. Spietati e scellerati adoperavan veleno e pugnale; spazzavano via tutto quanto si parasse contro la passione loro; e ridevano, [90] quando l'azione diabolica era consumata. Ciò che pone i Borgia particolarmente in rilievo fra la schiera de' privilegiati malfattori di quel tempo, è il fondamento della Chiesa e del Cristianesimo, sul quale s'appoggiano. Di qui appariscono come la caricatura infernale del concetto del santo; e Alessandro stesso è stato designato come anticristo.
Se potessimo penetrare ne' misteri della vita, che quei dissoluti bastardi traevano intorno al Vaticano, ove il padre loro nella coscienza della sicurezza e potenza sua era oramai despota assoluto, scopriremmo senza dubbio cose da sbalordire. Era davvero spettacolo non mai visto quello che si svolgeva in quel sacro recinto di San Pietro. Due donne giovani e belle vi tenevano splendida corte, e ogni dì si vedevano aggirarsi colà nugoli di dame e cavalieri spagnuoli e italiani; e la gente elegante di Roma e nobili e monsignori affollarsi e pigiarsi per fare omaggio a quelle donne. Delle due, Lucrezia aveva appena 16 anni, Sancia poco più di 17.
È facile immaginare quanti intrighi amorosi in quei palazzi fossero allora orditi, e che ridda infernale vi menassero gelosia e ambizione. Niuno in vero crederà che quelle principesse piene di giovanili ardori e di vanità vivessero, all'ombra di San Pietro, come monache o sante. Invece i loro palazzi risuonavan sempre di canti e di suoni, di banchetti e festini. Si vedevano quelle donne andar con cavalcate sontuose per Roma, ed entrare in Vaticano. Si vedeva il Papa sempre in contatto con loro, sia che andasse di persona a visitarle e prender parte alle loro feste, sia che le ricevesse, talvolta in privato, tal'altra in forma solenne, come principesse della casa sua. Alessandro per se stesso, per quanto affogato nella sensualità, non amava l'orgia sregolata. L'ambasciatore ferrarese, il Boccaccio, scriveva di lui nel 1495 al suo signore: «Il Papa non si ciba [91] che di una vivanda sola, abbenchè questa debba essere abbondante. È quindi una pena desinar con lui. Ascanio ed altri, specialmente il cardinal Monreale, che solevano essere commensali di Sua Santità, e così anche Valenza, non andando loro a genio tanta parsimonia, hanno rinunziato a quella compagnia e la schivano quando e come è possibile.»[64]
La vita del Vaticano doveva porger motivo a ciarle moltissime, e in Roma la sete di scandalo era da tempo antichissimo più che ardente. Già nell'ottobre 1496 si raccontava a Venezia, il duca di Gandia aver seco condotto una spagnuola pel padre, con la quale questi viveva; e si parlava di un empio fatto, che par quasi incredibile, ma che vien narrato dall'ambasciatore veneziano e da altri.[65]
Ben presto donna Sancia fece discorrer molto di sè. Era bella e leggiera; si sentiva figlia di re. Dalla più corrotta delle corti era passata in Roma demoralizzata, qual moglie di un fanciullo immaturo. Dicevasi, che i suoi cognati il Gandia e Cesare disputavansi il possesso di lei, e che lo acquistarono alternativamente; e che giovani baroni e giovani cardinali, come Ippolito d'Este, potevano vantarsi de' suoi favori.
Ebbe ben donde il Savonarola se prese di mira anche [92] questa corte di nepoti, allorchè dal pulpito di San Marco di Firenze con accesa indignazione tuonava contro la Sodoma di Roma.
Quando anche la voce del gran predicatore, la cui fama risuonava allora per tutta Italia, non fosse giunta sino a lei, pure Lucrezia, per propria esperienza, poteva già sapere che abominevole mondo fosse quello, nel quale viveva. A sè d'intorno vedeva vizii mostrarsi nudi e impudenti o tutt'al più coperti di certa dignitosa vernice; cupidigia di onori e di danaro, che non rifuggiva da qualunque delitto; una religione fatta più pagana dello stesso Paganesimo; un culto ecclesiastico, nel quale preti, cardinali, il fratello Cesare, il padre, tutti quei santi personaggi, la cui maniera di vivere era a lei nota perfettamente e nel più intimo fondo suo, avevano a compiere con pompa e decoro i misteri della Divinità. Tutto ciò vedeva Lucrezia. Sbagliano però quei che credono, ch'essa o altri a lei simili, lo vedessero e giudicassero così come facciamo noi oggi o forse fecero alcuni pochi, animati allora da sentimento più puro. Imperocchè in ogni tempo l'educazione e l'abitudine attutiscono nella comune degli uomini il senso necessario al riconoscimento del vero. S'aggiunga per di più, che in quel tempo i concetti della religione, della decenza e della moralità non erano gli stessi che oggi prevalgono.
Quando nella Rinascenza lo spirito ebbe compiuto la sua prima separazione dal Medio Evo e dall'ascetismo della Chiesa, le passioni ruppero ogni freno e si scatenarono oltre ogni limite. Tutto ciò che era stato tenuto santo fu deriso. I liberi spiriti italiani crearono una letteratura, il cui crudo cinismo non ha uguale. Dall'Ermafrodito del Beccadelli a venire giù giù sino al Berni e a Pietro Aretino, la letteratura in novelle, epigrammi e commedie divenne una immensa palude, alla cui vista il serio Dante si [93] sarebbe ritratto pieno di terrore, come innanzi ad una bolgia infernale.
Anche nelle novelle meno lascive, delle quali il Piccolomini cominciò la serie con l'Eurialo, e nelle commedie meno oscene, motivo dominante sono pur sempre l'adulterio e la derisione del matrimonio. La cortigiana fu la musa della bella letteratura della Rinascenza. Prese sfacciatamente posto allato alla santa della Chiesa a contenderle la palma della gloria. Una raccolta manoscritta di poesie del tempo di Alessandro VI contiene una lunga serie di epigrammi, i quali esaltano prima la Vergine Maria e molte sante, e poi con la stessa intonazione, senza pausa nè osservazione di sorta, magnificano le cortigiane del tempo. E all'epigramma su Santa Paula si vede immediatamente tener dietro quello sulla meretrice Nichine, una delle celebri cortigiane di Siena; e così via, tutta una serie. Le sante del Cielo e le sacerdotesse di Venere vengono senza altro mescolate insieme, come donne famose.[66]
Non una donna, che si rispetta, assisterebbe oggi ad una di quelle commedie della Rinascenza. E sovente furono papi e principi che le fecero mettere in scena in onore di gentildonne; e la censura di ogni paese non le farebbe rappresentare sopra qualunque teatro, si componesse pure il pubblico di uomini soltanto.
Quella certa franca maniera, che le donne del Mezzogiorno usano in cose, che nel Settentrione si vogliono coperte d'un velo, spesso ancora oggi fa maraviglia. Pure ciò che nella Rinascenza era ammesso, per gusto o per costume, è incredibile davvero. Certamente non è da dimenticare che quella oscena letteratura non era allora diffusa come [94] la romantica odierna. Di più la stessa abitudine meridionale per la nuda naturalezza s'invertiva per la donna in mezzo di difesa. Molto rimaneva alcunchè di puramente estrinseco ed era come tale considerato, e non esercitava quindi efficacia alcuna sulla fantasia. E in mezzo poi a sì dissoluta socievolezza cittadina non mancavano donne di natura eletta, che sapevano serbarsi pure.
Quanto alla moralità de' grandi, soprattutto delle corti di quel tempo, bisogna leggere le storie de' Visconti e degli Sforza, de' Malatesta di Rimini, de' Baglioni di Perugia e de' Borgia di Roma per formarsene un'idea. Non eran certo più depravate delle corti del tempo di Luigi XIV e XV e di Augusto di Sassonia; ma più abominevoli per gli orribili delitti di sangue. Il valore della vita umana era sceso bassissimo; e d'altra parte l'egoismo criminoso era apertamente fregiato del predicato di grandezza d'animo — magnanimitas, — senza guardare più che tanto alle vittime dell'ambizione e dell'ingordigia. L'egoismo e il servirsi freddamente di ogni relazione e di ogni uomo in niun luogo furono così di regola come nella patria del Machiavelli. E gl'italiani, volendo esser sinceri, dovrebbero dimandarsi, se anche oggi simili difetti non vengano di tratto in tratto alla superficie della vita loro. Liberi dai pedanteschi pregiudizii de' Tedeschi e dalla venerazione per le classi, le condizioni e la nobiltà di nascita, che a partire dal Medio Evo è divenuta per questi ultimi abitudine, gl'Italiani in quella vece hanno immediatamente accettata qualunque potenza della personalità, fosse pur bastarda e illegittima quanto si voglia. Ma di qui appunto l'essere stati così facilmente schiavi del successo. Il Machiavelli afferma, che la colpa del decadimento morale d'Italia fu della Chiesa e de' preti. Se non che e preti e Chiesa non furon forse prodotti dell'Italia? Egli avrebbe dovuto dire, che alcuni elementi vitali, che presso i Germani [95] diventano interiori, presso gl'Italiani invece rimangono esteriori. Fra gl'Italiani non poteva nascere Lutero. Ove ancora alcuno ne dubiti, si domandi chi e che cosa vi sia nata dopo l'ultimo Concilio dell'anno 1870.
Se i modi nostri di vedere su Alessandro VI e su Cesare sono essenzialmente dominati dalla morale, non la pensava così il Guicciardini, e per lo meno il Machiavelli. Essi giudicavano non l'uomo morale, ma il politico; non i suoi motivi, ma l'azione sua. L'enormezza non incuteva orrore, pur di apparire come il fatto di un volere audace. E il delitto non recava infamia, ove, come un'opera d'arte, riuscisse ad esigere ammirazione. L'orribile condotta di Ferdinando di Napoli nella congiura de' Baroni del regno suo rese il despota non abominevole, ma grande. E l'astuzia, con la quale più tardi Cesare Borgia seppe trarre nella rete a Sinigaglia i suoi condottieri infedeli, il Machiavelli la descrisse come un capolavoro, mentre il vescovo Paolo Giovio la chiamava il bellissimo inganno. In quel mondo dell'egoismo, ove non era un tribunale della pubblica opinione, l'uomo poteva esistere e conservarsi, solo cercando di predominare con la violenza e di soperchiare altrui in iscaltrimento. Se nulla fece mai e fa ai Francesi più paura del ridicolo, per l'Italiano niun predicato fu ed è più esoso di quello di semplicione.
In un luogo de' suoi Discorsi (I, 27) con una sincerità, che mette i brividi, il Machiavelli rivela gl'intimi pensieri dell'animo suo. E ciò ch'ei dice illumina di luce sinistra tutta la morale di un'epoca. Racconta che Giulio II ebbe il coraggio d'entrare in Perugia, abbenchè Giampaolo Baglione, che intimidito da lui gli aveva resa la città, vi tenesse raccolta molta milizia. Ed osserva in proposito: «Fu notato dagli uomini prudenti, che col Papa erano la temerità del Papa e la viltà di Giovanpagolo; nè potevan stimare donde si venisse, che quello non avesse con [96] sua perpetua fama oppresso ad un tratto il nimico suo, e sè arricchito di preda, sendo con il Papa tutti li cardinali con tutte le loro delizie. Nè si poteva credere che si fosse astenuto o per bontà o per coscienza che lo ritenesse; perchè in un petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto; ma si conchiuse, che gli uomini non sanno essere onorevolmente tristi o perfettamente buoni, e come una tristizia ha in sè grandezza o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno entrare. Così Giovanpagolo, il quale non stimava essere incesto e pubblico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendo giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sè lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro ai prelati quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro, ed avesse fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo che da quella potesse dipendere.»
Qual maraviglia se con morale così ridotta ai concetti del guadagno, della gloria e della magnificenza, quale il Machiavelli l'ha esposta ne' Discorsi e nel Principe, uomini come i Borgia trovassero campo amplissimo ai loro audaci delitti? Essi sapevan bene, che la grandezza della scelleraggine ne copriva la vergogna. Lo Strozzi, il festeggiato poeta di Ferrara, pose Cesare Borgia, poichè fu caduto, fra gli eroi dell'Olimpo. E il celebre Bembo, uno de' primi uomini di quel tempo, confortava Lucrezia per la morte del piccolo e miserabile Alessandro VI, non chiamandolo altrimenti che il grande padre vostro.
Niun uomo d'alto animo e conscio dell'importanza sua vorrebbe oggi entrare al servizio di un principe, che si fosse macchiato de' delitti de' Borgia, posto che a simile principe sia oggi dato mantenersi nella sua condizione; [97] cosa, per vero, impossibile. In quella vece i migliori e più geniali uomini sopportavano allora o cercavano addirittura il contatto e il favore de' Borgia. Il Pinturicchio e il Perugino dipingevano per Alessandro VI. E il più meraviglioso genio dell'epoca, il gran Leonardo da Vinci, senza scrupolo alcuno si pose al servizio di Cesare Borgia come ingegnere per la costruzione di fortezze in quella Romagna da colui con mezzi sì diabolici conquistata.
Gli uomini della Rinascenza ebbero natura in estremo grado fattiva e creatrice. Trasformarono il mondo con energia rivoluzionaria ed attività febbrile, rispetto alle quali il processo della civiltà moderna deve parer affetto da lentezza. Ebbero tendenze più selvagge e violente, e nervi più forti della schiatta odierna. Sarà sempre fenomeno maraviglioso, che i più leggiadri fiori dell'arte, le creazioni più ideali della pittura fossero state fecondate in un ambiente socievole, del quale la corruzione morale e l'intima brutalità sarebbero per noi, che viviamo oggi, insopportabili. Se un uomo educato alla civiltà nostra potesse trasportarsi in quel mezzo, senza dubbio la barbarie, che vi dominava e che pe' contemporanei passava inosservata, metterebbe in iscompiglio il suo sistema nervoso, e forse gli farebbe smarrir la ragione.
Tale l'atmosfera di Roma, nella quale Lucrezia Borgia viveva, senza essere essa stessa migliore nè peggiore delle donne del tempo suo. Ebbe spirito gaio e leggiero. Non sappiamo se abbia mai avuto a sostener lotte morali; se siasi mai trovata in uno stato di contradizione interiore con le azioni della sua vita o con coloro che l'attorniavano. Teneva una corte, che il padre avrà trattata con larghezza e profusione; ed era in frequentissime relazioni con le corti de' fratelli suoi. Essa era la compagna e l'ornamento delle loro feste; essa la confidente degl'intrighi nel Vaticano, rivolti a crescere la grandezza de' Borgia. E in [98] tale scopo dovevasi ben presto concentrar tutto quanto potesse più vivamente starle a cuore.
In verità, non mai, neanche nel tempo posteriore, si mostra donna di genio straordinario. In lei non una delle qualità atte a farne una Virago, come Caterina Sforza o Ginevra Bentivoglio. E non possedeva neppure quello spirito dell'intrigo proprio di una Isotta da Rimini, ovvero la potenza intellettuale di una Isabella Gonzaga. Non fosse stata figliuola di Alessandro VI e sorella di Cesare, difficilmente sarebbe stata notata nella storia del tempo suo, ovvero sarebbe ita perduta nella moltitudine, come donna seducente e assai corteggiata. Pure nelle mani di suo padre e di suo fratello diventò istrumento e vittima altresì di calcoli politici, a' quali ella non ebbe forza alcuna di oppor resistenza.
Giovanni Sforza dovett'essere di ritorno da Napoli nell'autunno del 1496, dopochè gli avanzi dell'esercito francese ebbero capitolato. Senza dubbio egli era venuto a Roma per quindi, in compagnia di Lucrezia, tornarsene ne' suoi dominii. E di fatti vi si trovò sul finire di quell'anno, e vi passò l'inverno. Se non che gli annalisti di Pesaro raccontano, che il 15 gennaio 1497 abbandonò travestito la città e di lì a pochi giorni lo seguì anche Lucrezia. Certamente si condussero a Roma,[67] ove gl'incontriamo per le feste di Pasqua.
Lo Sforza, del resto, era già un arnese usato, che Alessandro pensava a gettar via. Il matrimonio, in vero, della [99] figlia col tiranno di Pesaro non procacciava più a costui alcun vantaggio in un tempo, in cui gli Sforza avevan perduta l'importanza loro. E poi alla casa Borgia s'offrivano legami di più alta importanza. Dovette già parer singolare che il Papa non desse alcun comando al genero suo nella guerra contro gli Orsini, intrapresa appena tornato il figlio Don Juan di Spagna, allo scopo di arricchirlo co' beni di quei potenti baroni. Alessandro chiamò al suo soldo il duca Guidobaldo d'Urbino, stato similmente a servire a Napoli nell'esercito della Lega, e ceduto poi a lui da' Veneziani per divenire comandante supremo delle truppe papali.
Questo nobile uomo era l'ultimo della casa de' Montefeltro. Ed i Borgia avevan già messo l'occhio sulla eredità sua. La sorella Giovanna era stata maritata nel 1478 col prefetto della città, Giovanni Della Rovere, fratello del cardinale Giuliano, e nel 1490 aveva dato alla luce Francesco Maria, bambino che passava per l'erede della casa d'Urbino. Guidobaldo, pari in ciò a tutti gli altri dinasti, non si peritava di servire, come condottiere a soldo e per onore. Oltracciò egli era feudatario della Chiesa. La paura lo costringeva a cercare, anche odiandoli, l'amicizia dei Borgia.
Nella guerra, insieme con Guidobaldo, ebbe il comando supremo anche il giovane duca di Gandia, che il Papa nominò Gonfaloniere della Chiesa e rettore di Viterbo e di tutto il Patrimonio; del quale ultimo ufficio egli spogliò Alessandro Farnese, che prima lo teneva. Il fatto indica che l'umore del Papa verso il fratello della Giulia era cambiato. Il 17 settembre 1496 l'agente mantovano Giovanni Carolo scriveva da Roma alla marchesa Gonzaga: «Il cardinal Farnese è stato depennato dalla sua legazione nel Patrimonio, e la perderà, se non viene a salvarlo un sollecito ritorno della Giulia.»
[100]
L'agente medesimo informava la sua signora delle seguenti cose: «Poichè si vuole evitare che questi figliuoli del Papa divampino per gelosia tra loro, la vita del cardinale di San Giorgio (Raffaele Riario) è in pericolo; se questi muore, Cesare avrà il posto di Camerlengo e il palazzo del morto cardinale di Mantova, il più bello di Roma, e insieme anche i migliori benefizii di colui. Vostra Eccellenza può da ciò arguire quale piega prenda la fortuna di questi marrani.»[68]
La guerra, del resto, contro gli Orsini finì con la più ignominiosa sconfitta de' Papalini presso Soriano il 23 gennaio 1497. Don Juan ferito fuggì a Roma, e Guidobaldo fu fatto prigioniero. I vincitori imposero una pace per loro molto profittevole.
Il marito di Lucrezia dovette ritornare di nuovo a Roma, cessata appena la guerra. Ivi lo vediamo di fatti apparire per l'ultima volta la Pasqua del 1497. Come genero di Alessandro, assistette alle solennità ecclesiastiche dal suo posto officiale in San Pietro, e con Cesare e il Gandia ricevette la palma dalle mani del Papa. Pure la condizione sua nel Vaticano era fatta insostenibile. Alessandro voleva sciogliere il matrimonio di lui con Lucrezia. Si domandò allo Sforza che vi rinunciasse di spontanea volontà; e, poichè negò, fu minacciato nella vita.
Solo una pronta fuga lo salvò dai pugnali e dal veleno dei cognati. Secondo le notizie de' cronisti di Pesaro, Lucrezia stessa lo soccorse; e gli diè così un segno di premura. «Una sera (narrano essi) che Giacomino, il cameriere del signor Giovanni, trovavasi nella stanza di madonna, vi venne il fratello Cesare; e Giacomino, per ordine di quella, si nascose dietro ad una spalliera. Cesare parlò liberamente con la sorella, e disse, tra l'altre, essersi [101] dato ordine di ammazzare Giovanni Sforza. Andato lui via, Lucrezia disse a Giacomino: — Hai sentito? va e faglielo sapere. — Il cameriere ubbidì all'istante, e Giovanni Sforza gettatosi su un cavallo turco a briglia sciolta venne in 24 ore a Pesaro, ove il cavallo cadde morto.»[69]
Secondo lettere dell'ambasciatore veneziano in Roma lo Sforza fuggì in marzo nella settimana santa. Sotto pretesto di passeggiare, andò verso la chiesa di Sant'Onofrio, e vi trovò il cavallo apparecchiato.[70]
Il desiderio di sciogliere il matrimonio difficilmente era nato in Lucrezia, ma sì nel padre e nei fratelli, i quali volevano renderla libera per un matrimonio conforme alle mire loro. Quel che accadesse in Vaticano è ignoto. E non sappiamo nemmeno di opposizione da parte di Lucrezia, la quale, ad ogni modo, sarà stata di corta durata. Ai Borgia, del resto, non andò a' versi che lo Sforza si fosse messo in salvo. Eglino avrebbero preferito ridurlo in eterno al silenzio. Ora che erasi fuggito e levava proteste, occorreva per lo scioglimento del matrimonio un processo, che avrebbe suscitato molto rumore.
Poco dopo la fuga dello Sforza nella casa de' Borgia accadde l'orribile tragedia del misterioso assassinio del duca di Gandia. Andato a vuoto il disegno di arricchire questo amato figliuolo con le terre degli Orsini, Alessandro cercò per altra via compensarlo. Lo nominò Duca di Benevento, e nudrì così speranza di aprirgli la via al trono di Napoli. Di lì a pochi giorni, il 14 giugno, Vannozza invitò colui e Cesare, con altri parenti, ad una cena nella sua vigna presso San Pietro ad Vincula. Tornando la notte a casa da quella festa di famiglia, Don Juan scomparve, [102] senza lasciar di sè traccia alcuna. Solo tre giorni dopo il cadavere dell'ucciso fu tratto dal Tevere.[71]
Stando all'opinione universale di quel tempo, e tenendo conto di tutte le ragioni di probabilità, Cesare fu l'assassino di suo fratello. Dal momento che Alessandro VI, consumato quel misfatto, se ne accollò i motivi e le conseguenze, e perdonò all'assassino, divenne complice morale del fatto e cadde egli stesso sotto il dominio del suo spaventevole figlio. Da quel momento ogni azione di lui fu in servizio della infernale ambizione di quest'ultimo.
Nessuna notizia del tempo fa menzione della presenza della moglie di Don Juan in Roma, allorchè il fatto avvenne. È quindi da credere che non fosse colà quando il marito fu ucciso; e che piuttosto non avesse abbandonata la Spagna, e vivesse co' suoi due piccoli bambini in Gandia o in Valenza. Ivi le giunse l'orribile nuova per lettera di Alessandro, indirizzata alla sorella donna Beatrice Borgia y Arenos. Così è detto in un documento valenzano. Di fatto donna Maria Enriquez si presentò il 27 settembre 1497 innanzi al Tribunale del Governatore del regno di Valenza, Don Luigi de Cabaincles, domandando che il maggiore dei figliuoli di Don Juan, bambino di tre anni, fosse ammesso a succedere ne' beni di quest'ultimo, vale a dire, nel Ducato di Gandia e ne' feudi napoletani di Sessa, Teano, Carinola e Montefoscolo. La morte del duca fu comprovata con testimonianze legali; fra l'altre, con la lettera di Alessandro. In conseguenza il Tribunale riconobbe il figliuolo di Gandia qual erede del maggiorasco.[72]
Donna Maria richiese anche la mobilia lasciata dal marito nella casa di Roma. La quale del valore di 30,000 [103] ducati era stata consegnata da Alessandro, appena dopo la morte di Don Juan, al parricida Cesare per amministrarla nell'interesse dei nipoti, siccome apparisce da un atto del notaro Beneimbene del 19 dicembre 1498.[73]
In questo frattempo Lucrezia non era più nel suo palazzo presso il Vaticano; ma già dal 4 giugno andata nel monastero di San Sisto sulla Via Appia. Ciò aveva fatto in Roma vivissima sensazione. Senza alcun dubbio, l'allontanamento suo si connetteva col forzato scioglimento del matrimonio. Se non la rinchiuse in San Sisto il padre stesso, è molto probabile, che, spintavi dalla fuga dello Sforza e dalle conseguenze di essa, e forse rottasi col primo, avesse ella medesima cercato quel ritiro. E alla rottura col Papa allude una lettera di Donato Aretino da Roma del 19 giugno al cardinale Ippolito d'Este: «Donna Lucrezia se n'è ita dal palazzo insalutato hospite, ed è entrata in un monastero, chiamato San Sisto. Oggi ella si trova colà. Alcuni dicono che vuol farsi monaca; altri poi affermano molte altre cose, che non è lecito confidare ad una lettera.»[74]
Niuno può dire quali lamenti e quali confessioni avesse Lucrezia a fare innanzi a' sacri altari. Pure da anni ella non aveva forse avuto mai un momento per rientrare più seriamente in se stessa. Seppe in quel chiostro l'orribile morte di uno de' fratelli, e dovette raccapricciare per la malvagità dell'altro. Perchè, al pari del padre e di tutta la famiglia, ella non potette dubitare che Cesare fosse stato il nuovo Caino. Conosceva a fondo i moventi della sua criminosa ambizione; sapeva della sua intenzione di gettar via la porpora cardinalizia e diventar principe della terra; doveva anche sapere, che nel Vaticano si ruminava [104] il disegno di far cardinale Don Jofrè in luogo di Cesare, e di sposar quest'ultimo con la moglie del primo, donna Sancia, con la quale aveva già relazioni amorose pubblicamente note.
Alessandro ordinò a Don Jofrè e alla giovane sposa di lasciar Roma e andarsene presto a Squillace, sede del Principato. E Don Jofrè muoveva in effetto per colà il 7 di agosto. Il Papa, così dicevasi, non voleva più, d'allora in poi, aver presso di sè figliuoli nè nipoti. Ed anche la figlia Lucrezia voleva mandare a Valenza.[75]
Intanto Cesare, ancora come cardinal Legato, era andato nel luglio a Capua per incoronarvi re di Napoli l'ultimo degli Aragonesi Don Federico. A' 4 di settembre era a Roma di ritorno.
Quivi Alessandro aveva nominata una Commissione, presieduta da due cardinali, con l'incarico di sciogliere Lucrezia da' suoi legami con Giovanni Sforza. I giudici dimostrarono che lo Sforza non aveva mai consumato il matrimonio, e che la moglie era quindi sempre nello stato di vergine. Di che rise tutta Italia — osserva così il contemporaneo Matarazzo da Perugia. Lucrezia stessa dichiarò voler ciò affermare con giuramento.
Il marito intanto era a Pesaro. Nel giugno era andato travestito a Milano, ad implorare la protezione del duca Ludovico, facendo istanze che questi, mercè l'influenza sua, gli facesse rendere la moglie ingiustamente ritenuta. Protestava contro le deposizioni de' compri testimoni in Roma. E Ludovico il Moro gli fece l'ingenua proposta di sottoporsi in Milano, innanzi a testimoni degni di fede e alla presenza del legato papale, ad un esperimento formale della sua virilità; ma egli vi si rifiutò.[76] Ludovico e suo [105] fratello Ascanio lo costrinsero finalmente a cedere, e l'impaurito Sforza dichiarò per iscritto non aver giammai consumato il matrimonio con Lucrezia.[77]
Il 20 dicembre 1497 fu dunque legalmente pronunziato lo scioglimento, e lo Sforza restituiva in conseguenza la dote di 31,000 ducati, portatagli dalla moglie.
Anche tenendo che Alessandro abbia costretto la figlia a questo scioglimento, il giudizio nostro sulla condotta della Lucrezia in questa miserabile faccenda può esser di poco mitigato. È un fatto ch'essa stessa si mostrò priva di volontà e di carattere; e, non meno degli altri, si rese menzognera. La pena non si fece aspettare: per effetto del processo divenne soggetto di scandalo pubblico. E da questo punto ignominiose voci cominciarono a serpeggiare sulle sue relazioni private. Nacquero o si diffusero proprio al tempo, in cui il Gandia fu ammazzato e il matrimonio con lo Sforza doveva essere sciolto. Le cagioni dell'un fatto come dell'altro furono cercate in tali enormezze, che il sentimento morale ripugna ad esprimere. Ma, secondo una testimonianza del tempo, che non ammette dubbio, fu Giovanni Sforza stesso, profondamente offeso e irritato, primo a manifestare apertamente al duca di Milano quel sospetto, del quale forse già secretamente si vociferava in Roma.[78]
[106]
Alessandro aveva sciolto il matrimonio della figlia per motivi politici. Sua intenzione era d'imparentare Lucrezia e Cesare con la Casa reale di Napoli. La dinastia Aragonese s'era colà, cacciati i Francesi, ristabilita. Pure la scossa ricevuta era stata sì profonda, che, oscillando, inclinava all'ultima rovina. E per questo appunto germogliò quasi spontaneo nella mente del Papa il pensiero di porre Cesare sul trono di Napoli. Il più terribile de' Borgia prese oramai il posto lasciato vuoto dal Gandia, al quale quegli aveva sì a lungo mirato. Solo per certa convenienza il parricida s'acconciò ancora un poco a pazienza, prima di smettere pubblicamente l'abito cardinalizio. Nondimeno da questo momento stesso, in cui ancora lo portava, il Papa trattava del matrimonio di lui.
Richiese per lui dal re Federico la mano della figlia Carlotta, che, discendente di una principessa di Savoia, era in educazione alla Corte di Francia. Il re, uomo di nobili sensi, rifiutò fermamente, ed anche la principessa respinse con orrore le offensive proposte del Papa.
Il timido Federico non si lasciò commovere che ad un sacrifizio soltanto pel Moloch del Vaticano. Acconsentì all'unione di Don Alfonso, giovane fratello di donna Sancia e figliuolo naturale di Alfonso II, con Lucrezia. Alessandro non desiderò questo matrimonio per altra ragione, se non per indurre per tal mezzo il re ad acconsentire alla fine anche al matrimonio della figlia con Cesare.
Prima ancora che la nuova unione di Lucrezia fosse certa, corse voce in Roma che Don Gasparo, l'antico promesso sposo, mettesse innanzi daccapo pretensioni; chè anzi avesse in animo di darvi seguito. Ma così non accadde. Se non che il Papa ora riconosceva, che la promessa di Lucrezia con quel giovane spagnuolo era stata illegittimamente sciolta.
In un Breve del 10 giugno 1498 egli mostrò questo [107] scioglimento come un atto illegale, al quale la figlia con inconsulta leggerezza e senza sufficiente dispensa erasi lasciata andare per quindi, indotta per errore, unirsi in matrimonio con Giovanni di Pesaro. Come è detto nel Breve stesso, Gasparo di Procida, conte di Almenara, erasi, è vero, dappoi sposato e aveva generato figliuoli. Nulladimeno Lucrezia aveva domandato che l'impegno con lui preso fosse ora, nell'anno 1498, dichiarato legalmente nullo. Egli quindi l'assolveva dallo spergiuro, in cui era incorsa, sposando, malgrado dell'impegno con Don Gasparo, Giovanni Sforza. E, mentre solo ora dichiarava sciolta la promessa formale di matrimonio col conte di Procida, le rendeva al tempo stesso la libertà di sposarsi con qualunque altro a scelta di lei.[79] Così un Papa prendevasi empiamente giuoco di uno de' più santi sacramenti della Chiesa.
Quando Lucrezia ebbe per tal guisa libera la mano da ogni pretendente, la sua nuova unione potette esser conclusa. Il che ebbe luogo in Vaticano il 20 giugno 1498. Se a noi fosse tuttora ignoto il carattere della pubblica moralità d'allora, molto avremmo a maravigliarci di trovare ivi, qual rappresentante del re Federico, non altri che il cardinale Ascanio Sforza, il medesimo che aveva prima concluso il matrimonio tra suo nipote e Lucrezia, e poi, qual procuratore dello Sforza, prestato il consenso al vergognoso scioglimento. Tanta importanza egli e suo fratello Ludovico annettevano al serbarsi a qualunque prezzo amici i Borgia.
Lucrezia ebbe in dote 40,000 ducati. E il re di Napoli si obbligò di dare a titolo di Ducato al nipote suo Alfonso le città di Quadrata e di Biselli.[80]
[108]
Nel luglio il giovane Alfonso venne a Roma per unirsi con una donna, che doveva, per lo meno, tenere come punto scrupolosa e leggiera in alto grado. Senza dubbio, egli dovette riguardarsi qual vittima, che suo padre mandava ad immolare in Roma. Triste e melanconico, senza solennità di sorta, quasi furtivamente l'infelice giovane entrò in Roma. E immediatamente si condusse dalla sposa nel palazzo di Santa Maria in Portico.
Il 21 luglio le nozze vennero ecclesiasticamente benedette in Vaticano. Furon testimoni, tra gli altri, i cardinali Ascanio, Giovanni Lopez e Giovanni Borgia. Secondo un antico rito, una spada nuda fu tenuta sospesa sugli sposi da un cavaliere. E questi fu Giovanni Cervillon, capitano delle guardie del Papa.
Dal luglio 1498 Lucrezia, ora duchessa di Bisceglie, viveva col nuovo marito, giovane appena di 17 anni; mentre essa aveva compiuto il diciottesimo. Non andarono a Napoli, ma restarono a Roma; perchè, come l'agente mantovano informava il suo signore, erasi espressamente pattuito, che Don Alfonso dovesse soggiornare un anno a Roma, e Lucrezia, durante la vita del padre, non potess'essere obbligata ad andare nel regno di Napoli.[81]
Alfonso era giovane amabile e bello; il più bel giovane che siasi mai visto in Roma, così lo chiama il Talini, cronista romano di quel tempo. Lucrezia concepì per lui un vero trasporto; ciò avvertiva l'agente di Mantova sin dall'agosto. Ma la rapida vicenda delle cose non le consentì [109] di goder tranquillamente di una felicità domestica, se pur di felicità in genere fosse il caso di discorrere.
Forza motrice nel Vaticano era la sconfinata ambizione di Cesare, impazientissimo di diventar principe potente. Il 13 agosto 1498 egli depose la dignità cardinalizia; e apprestavasi al viaggio in Francia, ove Luigi XII, succeduto dall'aprile a Carlo VIII, avevagli promesso il titolo di Duca di Valenza (Valence — nel Delfinato) e la mano di una principessa francese. E agli apprestamenti del viaggio Alessandro provvide con profusione regale.
Accadde un giorno che una carovana di muli, carichi di sete e broccati d'oro per Cesare, fosse svaligiata dalla gente del cardinal Farnese e del cugino Pier Paolo nel bosco di Bolsena. Il Papa spiccò Brevi violentissimi al cardinale, su' cui beni, come ei lagnavasi, la preda era stata messa in salvo.[82]
Al servizio de' Farnesi eran molti Côrsi, parte mercenarii e bravi, parte lavoratori de' campi, e furon forse codesti uomini, universalmente paventati, che commisero la ruberia. Non è di fatto naturale pensare, che il cardinale Alessandro l'abbia lasciata commettere per proprio conto suo. Nondimeno sembra che allora esistesse certa tensione tra i Farnesi e i Borgia. Il cardinale passava il più del tempo su' beni di casa sua. E della sorella Giulia in quel periodo non se ne sente parlare. Non sappiamo se abitasse Roma e se le relazioni sue col Papa continuassero; benchè per indizii posteriori la cosa sembri probabile. Noi non rivediamo il cardinale e la sorella in Roma che il 2 aprile 1499, quando nel Palazzo Farnese furono stipulati gli sponsali tra Laura Orsini, figliuola di Giulia di soli sette anni, e Federico Farnese di 12 anni, figlio del defunto condottiero Raimondo Farnese, e nipote di Pier Paolo. A [110] quest'atto fu presente Ursino Orsini, il padre putativo di Laura.[83]
Forse dovettero essere Adriana e Giulia, che cercarono riconciliare la casa degli Orsini con i Borgia. Poichè quei baroni furono usciti vincitori dalla guerra col Papa, altra ed asprissima ne intrapresero nella primavera 1498 con i Colonna, gli eterni nemici loro, la quale peraltro finì, toccando a loro la peggio. E le due case s'erano in conseguenza nel luglio riconciliate. Di che non è a dire quanta téma concepisse Alessandro. In verità nella nimicizia delle due potenti famiglie di Roma i papi videro sempre una condizione pel loro dominio temporale sulla città; e, nella unione invece di quelle, sempre il più grande de' pericoli per questo. Cercò quindi Alessandro di rompere di nuovo la lega; e gli riuscì pure tirar dalla sua gli Orsini, di che per altro quei signori dovevano ben presto pentirsi. Guadagnò tanto sull'animo loro da farli accondiscendere ad imparentarsi co' Borgia. Paolo Orsini, fratello del cardinale Giambattista, sposò l'8 settembre 1498 suo figlio Fabio con Jeronima Borgia, sorella del cardinale Giovanni Borgia iuniore. Davanti a splendida adunanza il matrimonio fu solennizzato in Vaticano, presente il Papa. Vi comparve anche come testimone officiale Don Alfonso di Bisceglie, il quale per di più tenne la spada sulla giovane coppia.[84]
Poco dopo, il primo ottobre, Cesare Borgia s'imbarcò per la Francia. Quivi divenne Duca di Valenza; e nel maggio 1499 si sposò con Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra. Incontrò in quella corte due uomini, che più tardi dovevano ne' destini suoi aver parte decisiva; Giorgio d'Amboise, arcivescovo di Rouen, al quale egli aveva portato il cappello cardinalizio, e Giuliano Della Rovere. [111] Questi, sin allora nemico giurato di Alessandro, erasi lasciato vincere dal re di Francia in favore dei Borgia; si fece anzi strumento della grandezza di Cesare.
E anche questa riconciliazione doveva esser suggellata con la parentela delle due famiglie. E difatti il 2 settembre 1500 il Prefetto della città, Giovanni Della Rovere, fratello di Giuliano, sposava il figlio di otto anni, Francesco Maria, con Angela Borgia.
Il padre di Angela, Jofrè, era un figlio di Giovanna, sorella di Alessandro VI, e di Guglielmo Lançol. Fratelli di lui erano Giovanni Borgia iuniore, il cardinale Ludovico, e Rodrigo, il capitano della guardia papale. La sorella sua, Jeronima, come s'è detto, s'era maritata con Fabio Orsini. Gli sponsali di Angela ebbero luogo in Vaticano, alla presenza degli ambasciatori di Francia.[85]
Luigi XII erasi collegato con Venezia allo scopo di scacciare Ludovico il Moro da Milano. Ed il Papa vi si unì a condizione che la Francia aiutasse il figlio Cesare alla conquista della Romagna.
Ascanio, cui non era dato stornare la rovina di Milano, e vedevasi in Roma minacciato nella vita, fuggì il 13 luglio 1499 a Genazzano, e di lì a Genova.
Se non che l'esempio di lui fu seguito anche dal giovane sposo di Lucrezia. Non sappiamo quali eventi nel Vaticano abbiano determinato Don Alfonso ad allontanarsi di nascosto da Roma, dopo un anno di vita con Lucrezia. Però può dirsi in generale, che la decisione sua fu il risultato della piega che la politica del Papa aveva presa. La spedizione di Luigi XII non mirava solo alla caduta dello Sforza in Milano, ma altresì alla conquista di Napoli. Essa doveva essere la continuazione dell'impresa di Carlo VIII, fallita innanzi alla opposizione della grande [112] Lega. Pel giovane principe non erano un mistero le intenzioni del Papa di rovinare lo zio Federico, il quale, ricusando la mano di Carlotta pel figlio Cesare, aveva recato a colui atroce offesa. Dopo ciò naturalmente anche le relazioni del marito di Lucrezia, rispetto al Papa, dovevano essere mutate affatto.
Ascanio era quasi l'unico amico che l'infelice principe avesse in Roma. Ed è molto probabile che colui lo avesse consigliato a schivare, con la fuga, una morte immancabile, come già aveva altra volta fatto il predecessore di lui nel matrimonio con Lucrezia. Alfonso fuggì il 2 agosto 1499. Il Papa gli mandò dietro gente a cavallo; ma nol raggiunsero. È incerto se Lucrezia fosse a parte della fuga. Una lettera veneziana da Roma del 4 agosto dice soltanto: «Il duca di Biseglia, il marito di madonna Lucrezia, se n'è fuggito alla macchia e ito presso i Colonna a Genazzano; ha lasciato la moglie incinta di sei mesi, la quale non fa che piangere.»[86]
Questa restava in potere del padre, il quale era su tutte le furie per la fuga del principe. Ora egli esiliò a Napoli anche la sorella di Don Alfonso, donna Sancia.
In tali circostanze lo stato di Lucrezia divenne penoso assai. Le sue lagrime mostrarono che aveva un cuore. Il padre dovette forse coprirla di rimproveri, tenendola complice del marito. Alfonso la sollecitava premurosamente da Genazzano a seguirla. La lettera venne nelle mani del Papa. Egli la obbligò a scrivergli per esortarlo a tornare. Furono senza dubbio i lamenti della figlia che indussero Alessandro ad allontanare anche lei da Roma. L'8 d'agosto la nominò reggente di Spoleto. Sino allora codesta città e il territorio erano stati governati da Legati papali, la più [113] parte cardinali. Ora invece il Papa affidava quell'ufficio ad una giovane di 19 anni; e questa donna era sua propria figlia! Colà mandò Lucrezia.
Le consegnò pe' Priori di Spoleto un Breve in questi termini:
«Amati figliuoli, salute e benedizione apostolica. — Noi abbiamo affidato l'incarico della conservazione del castello come del governo delle nostre città di Spoleto e Fuligno e della loro Contea e Distretto, all'amata figliuola in Cristo, la gentildonna Lucrezia di Borgia, duchessa di Biseglia, per la prosperità e pel pacifico reggimento di codesti luoghi. Fiduciosi nella singolare prudenza ed eminente fedeltà e onestà della stessa, come abbiamo più ampiamente chiarito in altri nostri Brevi, e facendo anche assegnamento sulla vostra abituale ubbidienza verso di noi e verso questa Santa Sede, noi speriamo che voi, come di dovere, accoglierete con ogni dimostrazione d'onore la duchessa Lucrezia qual vostra Reggente, e in ogni cosa la ubbidirete. Ma, mentre noi desideriamo che la stessa sia con particolare onoranza e riverenza da voi accolta e ricevuta, vi comandiamo col presente, per quanto tenete cara la grazia nostra e volete schivare la nostra disgrazia, di obbedire alla duchessa Lucrezia, vostra Reggente, in tutte e singole cose, che si riferiscono per ragion di diritto o di consuetudine all'indicato governo, e in tutto ciò che essa crederà bene di ordinarvi, come alla nostra persona stessa; e di eseguire con ogni fervore e diligenza i comandamenti di lei, affinchè possiate guadagnarvi la meritata approvazione per la officiosità vostra. Dato a Roma presso San Pietro sotto l'anello del Pescatore, gli 8 agosto 1499. — Adriano (Secretario).»[87]
Lucrezia lasciò Roma il giorno stesso per recarsi al [114] suo nuovo destino. Tolse seco numeroso seguito e la sua corte; ebbe pure la scorta di suo fratello Don Jofrè e di Fabio Orsini, ora, qual marito della Jeronima Borgia, suo parente, i quali conducevano una compagnia d'arcieri. Uscendo dal Vaticano a cavallo, l'accompagnarono, per farle onore, il governatore della città, l'ambasciatore di Napoli e molti altri signori. Il padre se ne stava invece ad un terrazzino sulla porta del Palazzo Vaticano per vedere la partenza della figlia e della cavalcata.
Era la prima volta ch'egli trovavasi in Roma solo, senz'alcuno de' figli suoi.
Lucrezia continuò il viaggio parte a cavallo, parte in lettiga. Non vi vollero meno di sei giorni per percorrere la distanza tra Roma e Spoleto. A Porcaria, nell'Umbria, una deputazione di Spoletini fu a salutarla. E accompagnarono poscia sino alla residenza la Reggente della loro città, celebre sino da' tempi d'Annibale, e ove in passato dominarono potenti duchi longobardi. Il castello di Spoleto è d'antica origine; e la sua primitiva costruzione si deve, di certo, a uno di quei duchi, Faroaldo o Grimoaldo. Nel XIV secolo fu riedificato dal grande Gil d'Albornoz, il contemporaneo di Cola di Rienzo, e compiuto poi da Niccolò V. È un superbo edifizio della Rinascenza, di stile elegante, posto al di sopra dell'antica città su profondo burrone, che lo separa dal Monte Luco. Dalle sue alte finestre si domina la valle del Clitumno e quella del Tevere, la fertile pianura umbra e la maestosa catena degli Appennini spoletini.
Colà Lucrezia il 15 agosto accolse i Priori della città, a' quali consegnò la nomina papale. E quelli a loro volta le fecero omaggio; e la Comunità per onorarla diede un banchetto.
La dimora di Lucrezia a Spoleto fu di breve durata. La sua reggenza non ebbe altro significato che di prendere [115] possesso di fatto di quel territorio, che il padre Alessandro voleva costituirle in dote.
Intanto il marito Alfonso erasi pur deciso, per sciagura sua, ad ubbidire al comando del Papa e recarsi di nuovo dalla moglie, forse perchè egli effettivamente l'amava. Il Papa gli ordinò d'andare a Spoleto per Foligno, e di condursi poscia con la moglie a Nepi, ove anch'egli si sarebbe trovato. Scopo dell'incontro era d'investire la figlia come signora anche di quel luogo.
Nepi non era stata mai feudo baronale, abbenchè i Prefetti di Vico e gli Orsini se ne fossero temporaneamente impadroniti. La Chiesa amministrava la città e il territorio per mezzo di rettori. Alessandro stesso, come cardinale, n'era stato governatore, nominatovi dallo zio Callisto, ed era stato tale sino alla sua assunzione al trono papale. La diede quindi in feudo al cardinale Ascanio Sforza. Nell'Archivio della città si conservano ancora le nitide pergamene, contenenti gli statuti comunali, che Ascanio sanzionava il primo gennaio 1495. Ma sugl'inizii del 1499 Alessandro s'impadroniva di nuovo di Nepi, e costringeva il castellano, comandante dell'arce a nome del fuggiasco Ascanio, a consegnarla a lui. E della città, del castello e territorio di Nepi investiva la figlia.[88] Il 4 settembre 1499 Francesco Borgia, tesoriere del Papa e vescovo di Teano, ne prendeva possesso in nome di quella.
Alessandro andò colà il 25 settembre, accompagnato da quattro cardinali. Nel castello, fatto tempo innanzi da lui stesso edificare, ebbe luogo il convegno con Lucrezia, che aveva seco il marito e il fratello Jofrè. Il primo d'ottobre era già di ritorno al Vaticano. Di qui indirizzò il 10 un Breve alla città di Nepi, col quale comandava di obbedire, [116] qual signora, a donna Lucrezia, duchessa di Biseglia. Il 12 mandò pure lettera alla figlia, con la quale le permetteva di sgravare i Nepesini di alcuni balzelli.[89]
Per tal guisa Lucrezia era divenuta signora di due grandi terre. Il che mostra quanto stésse nella grazia del padre. Pure ella non tornò più a Spoleto, il cui governo affidò ad un luogotenente. Tuttocchè Alessandro su' primi d'ottobre avesse nominato il cardinale Gurk legato per Perugia e Todi, escluse nullameno dalla legazione Spoleto, per far cosa grata alla figliuola. Più tardi, il 10 agosto 1500, nominò governatore colà Ludovico Borgia, arcivescovo di Valenza, senza per questo ledere i diritti della figlia, consistenti nelle ragguardevoli entrate di quel territorio.
Il 14 ottobre Lucrezia già tornava di nuovo a Roma. Il primo novembre 1499 diede alla luce un bambino. Gli fu posto il nome del Papa, Rodrigo. Il battesimo di questo primo figlio venne solennizzato con gran pompa nella Cappella Sistina, che non era allora quella d'oggi, ma una cappella che Sisto IV aveva fatta edificare in San Pietro. Il neonato fu portato da Giovanni Cervillon; accanto a lui andavano il governatore di Roma e l'ambasciatore dell'imperatore Massimiliano. Assistettero alla cerimonia tutti i cardinali e gli ambasciatori d'Inghilterra, di Napoli, di Savoia, della Repubblica di Venezia e di Siena. Il bambino fu tenuto al fonte battesimale dal governatore della città. Furono padrini Podocatharo, vescovo di Caputaqua, e il vescovo Ferrari di Modena. Il corteo lasciò la cappella fra i suoni delle trombette.
In quel mentre Luigi XII, il 6 ottobre, erasi impossessato di Milano; e Ludovico Sforza, all'avvicinarsi delle armi francesi, aveva riparato presso l'imperatore Massimiliano. In conformità del trattato con Alessandro il re fornì [117] truppe a Cesare Borgia per la conquista di Romagna. Ed i vassalli e vicarii della Chiesa colà, i Malatesta di Rimini, gli Sforza di Pesaro, i Riario d'Imola e Forlì, i Varano di Camerino, i Manfredi di Faenza furono a un tratto dichiarati dal Papa decaduti dalle loro investiture.
Cesare venne a Roma il 18 novembre 1499. Non si fermò in Vaticano che tre giorni, e poscia fece ritorno all'esercito, che assediava Imola. Egli voleva prender prima questa città, e poi assalir Forlì, nel cui castello la signora di quelle due terre s'apparecchiava alle difese.
Mentr'egli guerreggiava in Romagna, il padre tentò di togliere ai baroni romani i loro beni aviti. Prima di tutto pose la mano su' Gaetani. Questa celebre stirpe era sin dalla fine del XIII secolo divenuta padrona di esteso territorio in Campagna e Marittima. Erasi divisa in parecchi rami, uno de' quali viveva nel Napoletano. Colà difatti i Gaetani erano duchi di Traetto, conti di Fondi e Caserta, e quindi feudatarii e grandi dignitarii della corona di Napoli.
Centro delle terre de' Gaetani nella Campagna romana era Sermoneta, antico paese con castello baronale sulle prime pendici de' Volsci. Di lato, verso il di sopra, stanno gli avanzi della città ciclopica Norma; e verso il basso le incantevoli rovine di Ninfa. Giù, a' piedi, gli si distende, insino al mare, la palude pontina. La più gran parte di quel territorio, attraversato dalla via Appia, e che includeva anche il Capo Circèo, era, ed è ancora oggidì, proprietà di quella famiglia.
Al tempo di cui parliamo v'erano signori i figli di Onorato II, uomo eminente, che aveva risollevato la casa sua all'altezza, donde era caduta. Egli morì l'anno 1490, lasciando la vedova Caterina Orsini, e i figliuoli Niccola, il protonotario Giacomo e Guglielmo. Sua figlia Giovannella era moglie di Pierluigi Farnese e madre di Giulia. Niccola erasi sposato con Eleonora Orsini, e morì nell'anno 1494; [118] cosicchè, oltre il protonotario Giacomo, Guglielmo Gaetani era il capo della casa di Sermoneta.
Alessandro adescò il protonotario a venire a Roma. Ivi, come ribelle, lo fece rinchiudere in Castel Sant'Angelo, e iniziare un processo contro di lui. A Guglielmo riuscì fuggire a Mantova. Ma Bernardino, figliuolino di Niccola, fu sgozzato da' mercenarii de' Borgia. Questi presero Sermoneta con la forza; mentre la popolazione non si arrese senza resistenza.
Il 9 marzo 1499 Alessandro aveva già dato facoltà alla Camera Apostolica di vendere alla figlia i beni de' Gaetani pel prezzo di 80,000 ducati. In questo atto, sottoscritto da 18 cardinali, diceva che le gravose spese dovute fare poco innanzi per la Chiesa, lo obbligavano ad alienare alcuni beni della Santa Sede. A tale scopo si offrivano Sermoneta, Bassiano, Ninfa e Norma, Tivera, Cisterna, San Felice (il Capo di Circe) e San Donato, confiscati ai Gaetani per motivo di ribellione. La vendita fu stipulata in febbraio 1500; e Lucrezia, ch'era già signora di Spoleto e Nepi, divenne anche signora di Sermoneta.[90] Indarno l'infelice Jacopo Gaetani dal suo carcere levò proteste. Egli morì di veleno il 5 luglio 1500.[91] La madre e la sorella lo seppellirono in San Bartolomeo all'Isola Tiberina, ove da lungo tempo i Gaetani possedevano un palazzo.
A Giulia Farnese adunque non era riuscito salvare i proprii zii. Si ricorderà che Giacomo e Niccola nel 1489 erano stati presenti agli sponsali di lei col giovane Orsini nel palazzo Borgia. Non sappiamo neppure se ora la Giulia vivesse in Roma. Solo qualche volta la troviamo nominata in epigrammi. Così il suo nome apparisce in una satira: Dialogo della morte e del Papa ammalato di febbre. Il Papa chiama [119] in aiuto la Giulia; ma la morte accenna che la sua amante gli ha partorito tre o quattro figliuoli. La satira è dell'estate 1500, quando Alessandro era in effetto malato di febbre. Ed è quindi da tenere, che in quel tempo la sua relazione con Giulia durasse ancora.[92]
Cesare, che il primo dicembre 1499 aveva conquistato Imola, vide con molto mal animo la sorella sua arricchirsi delle molte terre de' Gaetani, i redditi delle quali avrebbero potuto meglio servire a lui. Non meno a contraggenio vedeva la crescente influenza di colei in Vaticano, ove voleva dominare solo sulla volontà del padre. Egli concepì propositi tenebrosi, e presto doveva arrivare il tempo di metterli in atto.
Lucrezia non poteva che rallegrarsi della prolungata assenza del fratello. Nel Vaticano s'era fatta un po' di quiete; e, oltre di lei, solo Don Jofrè teneva corte con donna Sancia, alla quale era stato concesso di tornare.
Noi potremmo approfittare di questa pausa tranquilla per farci un'idea della vita privata di Lucrezia, dell'ordinamento della sua corte, e delle persone che l'accerchiavano. Pure la cosa è difficile. Non un contemporaneo ne discorre. Il Burkard stesso ci presenta Lucrezia solo di rado, e sempre in connessione con gli avvenimenti in Vaticano. Una volta soltanto ci conduce alla sfuggita nel palazzo di lei, il 27 febbraio 1496, quando i cardinali nuovamente eletti, Martino di Segovia, Giovanni Lopez, Giovanni Borgia e Giovanni De Castro, andarono a farle visita.
Nemmeno i diplomatici stranieri, per quanto i dispacci [120] loro ci son noti, diedero in quel tempo informazioni sulla vita privata di Lucrezia. Di questo periodo romano non abbiamo nè lettera di lei o a lei indirizzata, nè poesia che parli di lei, non foss'altro uno di quei sanguinosi epigrammi del Sannazzaro o del Pontano, che l'hanno stigmatizzata come la più sfacciata delle cortigiane. Nulladimeno se vi fu mai giovane donna capace d'infiammare la fantasia di poeti, fu, per certo, Lucrezia, nel fiore della gioventù e bellezza sua. Le relazioni sue col Vaticano, il mistero che la circondava, i destini cui incontrò, facevan di lei la più attraente delle donne che in Roma fosse a quel tempo. In qualche biblioteca giaceranno forse ancora sepolti i versi che un tempo i poeti di Roma dovettero dedicarle. E numerosi saranno stati coloro che s'affollavano alla corte della figlia del Papa per fare omaggio alla sua bellezza e averne protezione.
Appunto in Roma Lucrezia potè vivere in contatto con molti uomini di alto ingegno, chè anche sotto la dominazione de' Borgia le muse non furon bandite dal Vaticano nè, per lo meno, da Roma. Certamente nelle corti mondane d'Italia, più che in quella di un Papa, donne d'origine principesca potevano dedicarsi con maggior fervore ai bisogni della coltura. Ed è vero che anche Lucrezia potette solo più tardi, in Ferrara, seguire l'esempio delle principesse di Mantova e di Urbino. Nel periodo romano s'aggiungeva, ch'essa era troppo giovane, e la sua vita domestica troppo legata e inceppata; onde difficilmente le fu dato spiegare influenza sui circoli letterarii e artistici di Roma. Nulladimeno per lo stato suo dovette, senza dubbio, essere in relazione con quelli.
Suo padre non era insensibile ai diletti dello spirito. Ebbe egli pure i suoi cantori e i suoi poeti di corte. Il festeggiato Aurelio Brandolini improvvisava ad alta voce ai banchetti in Vaticano, nè v'è da dubitare che si facesse [121] sentire anche nel palazzo di Lucrezia. Egli morì nell'anno 1497. Lo stesso onore cercò il favorito di Cesare, Serafino d'Aquila, il Petrarca del tempo; morto ancora giovane a Roma nel 1500.
Cesare stesso amava la poesia e le arti, sia come qualunque uomo bene educato nella Rinascenza, sia come ogni grande signore e tiranno. Francesco Sperulo era suo poeta di corte. Serviva sotto le bandiere di lui; e fu il cantore della guerra in Romagna e Camerino.[93] Alcuni poeti romani divenuti dappoi celebri avranno recitato i loro versi innanzi a Lucrezia; così Emilio Boccabella ed Evangelista Fausto Maddaleni. Splendevano già come poeti e retori i tre fratelli Mario, Girolamo e Celso Mellini. Similmente non meno reputati erano i fratelli di casa Porcaro, Camillo, Valerio e Antonio. C'imbattemmo già in Antonio Porcaro, qual testimone agli sponsali di Girolama Borgia nell'anno 1482, e poscia qual procuratore di Lucrezia nella promessa di matrimonio di lei col Centelles nell'anno 1491. Ciò mostra come intimi fossero e si serbassero i legami de' Porcari con i Borgia.
Questa famiglia romana, per la sorte toccata a Stefano, imitatore di Cola di Rienzo, era divenuta celebre nella storia della città. I Porcari pretendevano discendere dai Catoni, e per questo si chiamavano Porcius. Stretti in amicizia con i Borgia, affermavano pure essere parenti di costoro. Perchè Isabella, madre di Alessandro VI, doveva esser derivata dai romani Porcari, che d'un qualche modo erano iti nella Spagna. La somiglianza di suono dei due nomi latinizzati Borgius e Porcius fu certo occasione al bisticcio.
Oltre Antonio, anche Jeronimo Porcius era uno dei più ardenti partigiani de' Borgia. Assunto appena alla sede [122] papale, Alessandro lo fece Auditore di Rota. Egli scrisse un lavoro, pubblicato in Roma nel settembre 1493, col titolo Commentarius Porcius, che dedicò ai Reali di Spagna. Descrive l'elezione e incoronazione di Alessandro VI, e raccoglie, liberamente compendiandoli, i discorsi di obbedienza rivolti al Papa dagli oratori italiani. È impossibile spingere l'adulazione cortigiana più in là di quel che abbia fatto lui, Jeronimo, affettato pedante, vanitoso chiacchierone e papista fanatico. Alessandro lo fece vescovo di Andria e governatore di Romagna. E quivi, a Cesena, egli compose nel 1497 un dialogo, che ha per soggetto Savonarola e gli errori di lui intorno al potere del Papa. Sostanza intima del tutto è il principio fondamentale degl'infallibilisti, che è cristiano solo chi al Papa obbedisce ciecamente.[94]
Porcius volle provarsi anche nella poesia. Ne' versi al Bove Borgia magnificò il Papa e il cardinal Cesare, che chiamava massimo benefattore suo.[95] Fu puranco lui che probabilmente scrisse l'elegia in morte del duca di Gandia, che s'è conservata sino a noi.[96]
Mediante i Porcari, anche il giovane Fedro Inghirami dovette entrare in relazione con Lucrezia. Questi è quel ciceroniano ammirato da Erasmo, e che Raffaello, ritraendolo, ha reso immortale. Sin d'allora aveva richiamata su di sè l'attenzione di Roma. Ai funerali, che l'ambasciatore di Spagna fece solennizzare il 16 gennaio 1498 in San Giacomo a Piazza Navona per la morte dell'infante Don Giovanni, Inghirami pronunziò un'ammirabile orazione. Egli distinguevasi anche come attore sul teatro del cardinale Raffaele Riario.
[123]
Il dramma cominciava allora a spiccare il primo volo, non solo alla corte dei Gonzaga e degli Este, ma anche in Roma. Alessandro stesso n'era tenero, non fosse che per l'inclinazione sua alla sensualità. In ogni festa di famiglia al Vaticano faceva dare commedie e balli. Attori probabilmente dovevano essere giovani accademici della scuola di Pomponio Leto, e nulla c'impedisce di ammettere che l'Inghirami, i Mellini, i Porcari si mostrassero sulla scena in Vaticano ogni volta che di farlo se ne porgesse l'occasione. A tali rappresentazioni potè anche cooperare Carlo Canale, il marito di Vannozza, che sin da Mantova aveva pratica col teatro. E non meno di lui lo potè pure Pandolfo Collenuccio, che più volte fu a Roma come agente di Ferrara, e v'entrò in personali relazioni co' Borgia.
Il celebre Pomponio, al quale Roma andava debitrice della rinascenza del teatro, visse gl'ultimi anni suoi sotto il governo di Alessandro, circondato da grande reputazione. Forse questi era pure stato discepolo suo, come indubbiamente lo fu il cardinal Farnese. Pomponio morì il 6 giugno 1498; e il Papa medesimo, che allora appunto aveva fatto ardere vivo il Savonarola, mandò la sua Corte nella chiesa d'Aracoeli all'esequie di quel maestro dell'antico paganesimo. Questa estrema dimostrazione d'onore basterebbe a provare, che Pomponio era conosciuto personalmente da' Borgia. Oltreacciò uno dei discepoli più fervorosi di lui, Michele Ferno, era già da lunga pezza partigiano entusiasta di Alessandro. Ancorchè questo Papa avesse nel 1501 emanato il primo editto di censura, pure ei non fu nemico della coltura scientifica. Favoreggiava l'Università Romana, ove al tempo suo insegnavano uomini di gran valore, quali Pietro Sabino e Giovanni Argyropulos. Similmente uno dei più grandi genii, che diede all'umanità intera onore e lume, fu per un anno l'ornamento di quella Università e del regno di quel Papa. Nell'anno [124] del Giubileo 1500, dalla terra lontana di Prussia Copernico venne a Roma e vi tenne pubbliche lezioni di matematica ed astronomia.
Fra i cortigiani di Alessandro erano uomini notabili, che Lucrezia dovette necessariamente avere in pratica. Il maestro di cerimonie, Burkard, in ogni solennità, nella quale la figlia del Papa doveva intervenire in Vaticano, regolava la forma prescritta. Frequenti quindi le visite che quegli dovette farle. Ed essa, di certo, non ebbe mai presentimento alcuno, che, dopo secoli, le note di codesto Alsaziano sarebbero state quale specchio, che innanzi alla posterità avrebbe riflettuto le figure de' Borgia. Nondimeno il Diario di lui non getta nemmeno uno spiraglio di luce sulla vita privata di Lucrezia. E, per verità, dar contezza di questa non entrava nell'ufficio suo.
Giammai scrittore di diario non fu, al pari di lui, rapido e conciso altrettanto, tranquillo ed impassibile nel descrivere gli avvenimenti a lui presenti, capaci di offrire materia ad un Tacito. Che il Burkard non fosse amico dei Borgia, lo mostra il modo in che ha compilato le sue notizie; le quali, del resto, sono tutt'altro che falsificazioni. Pure quest'uomo sapeva nascondere i sentimenti suoi, se pure non erano già da tempo come pietrificati sotto quella farragine tutta formalistica inerente al suo ufficio. Quotidianamente era sempre in moto nel Vaticano, quasi macchina del cerimoniale, il quale incarico vi tenne sotto il regno di cinque papi. Ai Borgia dev'esser sembrato un pedante al tutto inoffensivo; altrimenti non gli avrebbero permesso di osservare, di scrivere, e nemmeno di vivere. Anche quel poco che aveva registrato nel suo Diario sarebbe bastato a farlo morire, se Alessandro o Cesare ne avessero avuto sentore. Ma sembra che i diarii dei maestri di cerimonie non soggiacessero ad alcuna ispezione officiale. Senza ciò Cesare, di certo, non l'avrebbe risparmiato, egli, [125] che pugnalò Pedro Calderon Perotto, benchè favorito di suo padre, e fece anche trucidare quel cavalier Cervillon, che alle feste in Vaticano incontrammo già più volte incaricato delle più cospicue funzioni.
Egli non rispettò nemmanco lo scrittore secreto Francesco Troche, del quale Alessandro VI s'era spesso servito in faccende diplomatiche. Il Troche, che una notizia veneziana dice spagnuolo, era un colto umanista come Canale, e, al pari di questo, in amichevoli relazioni co' Gonzaga. Leggiamo ancora lettere di lui alla marchesa Isabella, con le quali la richiedeva di certi sonetti.[97] E quella si rivolgeva a lui nelle sue faccende domestiche. Lo incaricò una volta di far per lei ricerca in Roma di un Cupido antico. Senza dubbio, egli fu nel novero de' più intimi conoscenti di Lucrezia. Nel giugno 1503 Cesare fece anche scannare quest'altro favorito del padre.
Pari al Burkard e a Lorenzo Behaim un terzo tedesco fu anche ben addentro nelle faccende familiari de' Borgia, Gorizio di Lussemburgo, festeggiato più tardi, sotto Giulio II e Leon X, come il prediletto di tutti gli Accademici. Ma sin dal tempo di Alessandro raccoglieva nella casa sua, al Foro Traiano, il mondo dotto ad accademici trattenimenti. Tutti i Tedeschi erano in cerca di lui. In casa sua ricevette indubbiamente il Reuchlin, venuto a Roma nel 1498; poi Copernico; quindi Erasmo e Ulrico di Hutten, che con grato animo se ne sovviene. E sotto quel tetto ospitale deve aver visto anche Lutero. Gorizio era referendario per le suppliche. Come tale conosceva Lucrezia personalmente, perchè molti rivolgevano le domande loro alla influentissima figlia del Papa. Anch'egli ebbe frequenti occasioni di studio e di osservazioni nel Vaticano. Ma de' fatti osservati non prese nota alcuna; ovvero i suoi diarii sparvero [126] col sacco di Roma nel 1527, nel quale Gorizio perdette ogni cosa.
V'era pure un altro uomo conosciutissimo personalmente da Lucrezia, il quale, forse meglio di chiunque altro, avrebbe potuto scrivere le memorie de' Borgia. Era questi il Nestore de' notai romani, il vecchio Camillo Beneimbene, la persona di fiducia per i negozii legali di Alessandro e di quasi tutti i cardinali e nobili di Roma. Egli era a notizia degli affari privati e pubblici de' Borgia. Aveva conosciuto Lucrezia ancora bambina. Tutti i contratti nuziali di costei furono da lui ricevuti. Teneva studio sulla Piazza de' Lombardi, oggi San Luigi de' Francesi. Durò colà nell'ufficio suo sino al 1505, mentre solo con quest'anno finiscono i contratti da lui rogati.[98] Un uomo che da sì lungo tempo era testimone d'ufficio e assistente legale de' Borgia nelle più importanti faccende familiari, e che perciò stesso doveva essere intimamente informato dei secreti loro, prese sicuramente nella casa, e soprattutto rispetto a Lucrezia, il posto di un amico pieno di paterno affetto. Il Beneimbene non c'ha lasciato scritto nulla delle sue osservazioni. Ma nell'Archivio de' notai al Campidoglio si conserva ancora il suo protocollo, ch'è davvero della più alta importanza.
Molto intimo co' Borgia era un dottissimo umanista, Adriano Castelli di Corneto, scrittore secreto di Alessandro, il quale più tardi lo fece cardinale. Come secretario del Papa è naturale che fosse anche in relazione con Lucrezia. Nel novero de' più prossimi conoscenti di quelli sono, senza dubbio, da porre anche i celebri latinisti Cortesi, il giovane Sadoleto, familiare del cardinale Cibo, il giovane [127] Aldo Manuzio, i fratelli Raffaele e Mario Maffei da Volterra, insigni pel loro spirito, ed Egidio da Viterbo. Questi, che fu più tardi predicatore famoso e cardinale, ebbe sempre intimità con Lucrezia, anche divenuta duchessa di Ferrara. Esercitò anzi efficacia grande sulle tendenze alla pietà, cui ella cedette in quel secondo periodo di sua vita.
E non c'inganneremo neppure pensando la giovane duchessa di Bisceglie in frequenti relazioni co' cardinali più notevoli, raffinati nella coltura o nella galanteria, quali il Medici, il Riario, Orsini, Cesarini e Farnese, per non dire de' Borgia e di tutti gli Spagnuoli. Noi potremmo anche cercarla alle feste ne' palazzi de' signori romani, come dei Massimi e degli Orsini, de' Santa Croce, Altieri e Valle; ovvero nelle case de' ricchi banchieri, come degli Altoviti e Spanocchi e di Mariano Chigi, i cui figli Lorenzo e Agostino, quest'ultimo di lì a poco famoso, erano intimi confidenti de' Borgia.
Amore vivo e speciale potette prendere Lucrezia alle creazioni delle belle arti in Roma. Anche Alessandro teneva occupati grandi maestri nel Vaticano, ove il Perugino dipingeva per lui. Suo pittore di Corte fu il Pinturicchio. Nel Palazzo del Vaticano — così il Vasari — questi ritrasse, sopra la porta di una camera, la signora Giulia Farnese nel volto d'una Nostra Donna; e nel medesimo quadro la testa di esso papa Alessandro che l'adora. E in Castel Sant'Angelo fece il ritratto di molti membri della famiglia Borgia.
«In Castel Sant'Angelo — aggiunge il Vasari stesso — egli dipinse infinite stanze a grottesche; ma nel torrione da basso nel giardino fece istorie di papa Alessandro; e vi ritrasse Isabella regina cattolica, Niccolò Orsino conte di Pitigliano, Giangiacomo Trivulzi con molti altri parenti ed amici di detto Papa, ed in particolare Cesare Borgia, il [128] fratello e le sorelle, e molti virtuosi di que' tempi.» Lorenzo Behaim ha copiato gli epigrammi che si leggevano sotto sei di tali quadri, in Castel Sant'Angelo, giù nel giardino papale. Tutti rappresentavano gli avvenimenti di quell'epoca critica dell'invasione di Carlo VIII, e tutti esaltavano Alessandro come trionfatore di costui. Si vedeva dipinto il re in atto d'inginocchiarsi innanzi al Papa nel giardino stesso di Castel Sant'Angelo; in altro quadro Carlo prestando obbedienza nel Concistoro; in un terzo Filippo di Sens e Guglielmo di San Malò in atto di ricevere la dignità cardinalizia; poi la Messa in San Pietro, alla quale Carlo faceva da ministro; quindi la processione a San Paolo, ove il re teneva la staffa al Papa; da ultimo la partenza di Carlo per Napoli, il quale conduceva seco Cesare Borgia e il sultano Djem.[99]
Le pitture, e con esse anche i ritratti della famiglia Borgia, andaron tutte perdute. Più volte lo stesso Pinturicchio deve aver ritratto la bella Lucrezia. Alcune figure nei quadri di questo maestro riproducevano forse, senza ch'il sappiamo, le immagini de' Borgia. E così pure in qualche bottega di antiquario o tra i molti ritratti antichi, che nei palazzi di Roma e ne' castelli della campagna pendono in fila dalle pareti polverose, ancora oggi forse, senza che il curioso visitatore nemmanco lo sospetti, si troveranno ritratti di Lucrezia, di Cesare e de' fratelli.
Degli artisti allora celebri Lucrezia dovette anche conoscere Antonio di Sangallo, l'architetto di suo padre. Conobbe similmente Antonio del Pollaiolo, il più reputato scultore della Scuola fiorentina in Roma, negl'ultimi decennii del XV secolo. Ed ivi egli morì nell'anno 1498.
Pure la più notevole figura artistica di quel tempo in Roma era Michelangelo. Egli v'andò la prima volta nel 1496, [129] nella giovane età di 23 anni, quando sforzavasi a pigliare il suo primo volo. La città di Roma era allora un mondo incantevole e magico per ogni geniale natura artistica. Quella solenne concentrazione nel suo grande passato, che da' monumenti dell'antichità e del Cristianesimo parlava un sì potente linguaggio; quella sua maestà e quella solenne quiete, interrotta a un tratto dall'esplodere di passioni furiose: tutto quel mondo oggidì noi non siamo più in grado di rappresentarcelo vivamente. Non sappiamo rappresentarci quello, come non possiamo nemmeno rappresentarci l'aura spirituale della Rinascenza, che aleggiava su quelle rovine, nè la terribile natura profana del Papato, nè la totalità delle disposizioni interiori e morali di una generazione dotata di forza creatrice e distruggitrice, che spesso portò in sè l'impronta della grandezza. In vero, quella tendenza medesima, che produceva titanici delitti, generò le opere non meno titaniche della Rinascenza. Sotto forme e caratteri grandiosi si manifestarono allora il bene e il male insieme. Proprio al pari di Nerone, sfacciato e audace, si mostrò un Alessandro VI innanzi al mondo, disprezzandone il giudizio.
La Rinascenza resterà eternamente uno de' più ardui problemi psicologici della civiltà: causa le profonde contradizioni che nel seno suo accoglie, parte con spontaneità affatto ingenua, parte con piena consapevolezza della incompatibilità loro; e causa pure quel certo elemento demoniaco, onde le individualità sono in quel periodo invasate.
Tutte le forze, tutte le virtù e i vizii furono allora messi in moto dal desìo febbrile di goder della potenza, della gloria e dello spirito. La Rinascenza è stata paragonata ad un baccanale della civiltà. Si penetri addentro nelle figure di quei baccanti, e si vedranno in se stesse scontorcersi, come quelle degli amanti in Omero, che hanno il presentimento della ruina loro. Quella società, [130] quella Chiesa, quelle città e quegli Stati, tutta quella civiltà umanistica, ebbri di piacere, barcollano sull'abisso, che irreparabilmente gl'ingoierà.
Fa meraviglia il pensare come in questa Roma insieme, e in un solo e stesso momento, vivessero e si muovessero uomini come Copernico, Michelangiolo e Bramante, Alessandro VI e Cesare Borgia.
Vide Lucrezia il giovane artista, più tardi amico della insigne Vittoria Colonna, di quella che doveva essere la più bella antitesi di lei? Lo ignoriamo; ma non ne dubitiamo. Con la curiosità dell'artista e dell'uomo, Michelangiolo avrà cercato veder la più avvenente donna di Roma. Tuttochè esordiente, egli era già noto per ingegno eminente. E, quando ricevette le prime commissioni dal romano Dal Gallo e dal cardinale La Grolaye, forse a sua volta anch'egli suscitò la curiosità di Lucrezia.
Sotto l'impressione delle tragedie di casa Borgia e dell'assassinio di Gandia, accaduto essendo egli a Roma, Michelangiolo lavorava a quell'opera speciosa, la prima che richiamò su di lui l'attenzione della città. Lavorava al gruppo della Pietà, statogli commesso dal nominato cardinale. Vi diè l'ultima mano nel 1499, quando il gran Bramante anch'egli venne a Roma. Codesto gruppo bisogna considerarlo nel bel mezzo del tempo borgiano, come sul suo vero fondo. Allora la Pietà spicca in tutta la sua significazione ideale. In quelle tenebre morali apparisce qual purissima fiamma di sacrifizio, accesa da un grande e serio spirito nel profanato santuario della Chiesa. Anche Lucrezia si trovò innanzi alla Pietà. Quest'opera d'arte potette svegliare nell'animo dell'infelice figlia d'un peccaminoso Papa più profondi sentimenti che non fossero in grado di comunicarle i discorsi di un confessore o i suggerimenti della badessa di San Sisto.
[131]
L'anno del Giubileo 1500 fu anno avventuroso per Cesare; ma sciagurato per Lucrezia. Essa lo cominciò andando il primo giorno dell'anno con solenne corteggio al Laterano. Andò a cavallo per pregare e compiere il prescritto pellegrinaggio per le chiese di Roma. Il corteggio si componeva di 200 cavalieri, gentiluomini e dame. Lucrezia cavalcava una chinea riccamente adorna. A fianco suo, a sinistra, il marito Don Alfonso; a destra una dama della sua corte; dietro il capitano della guardia palatina, Rodrigo Borgia. Passando pel Ponte Sant'Angelo, il padre si fece trovare ad un terrazzino del Castello, per godersi lo spettacolo dell'amata figliuola.
Il nuovo anno non fu nunzio ad Alessandro che di prospere novelle, se una ne togli, la morte del cardinal legato, Giovanni Borgia, vescovo di Melfi e arcivescovo di Capua, che, per distinguerlo da un altro cardinale dello stesso nome, era chiamato Iuniore. Morì in Urbino l'8 gennaio 1500, rapito, a quel che pare, da un accesso di febbre. Così informava Elisabetta, la moglie di Guidobaldo, suo fratello Gonzaga in una lettera del giorno istesso da Fossombrone.[100]
Cesare trovavasi appunto in Forlì, quando il mattino medesimo del 12 gennaio, in cui la cittadella gli si era arresa, gli giunse la nuova della morte del cardinale. La comunicò immediatamente al duca di Ferrara con una lettera, nella quale diceva Giovanni Borgia, chiamato dal Papa a Roma, e partitosi da Forlì per colà, esser poi morto di catarro in Urbino. Il fatto che quegli fosse stato [132] al campo di Cesare, e che, come dalla lettera di Elisabetta risulta, fosse arrivato ad Urbino già malato, diede verosimiglianza al sospetto di un avvelenamento da parte di Cesare.
È singolare che, nella lettera al duca, Cesare chiamasse il morto fratello suo.[101] Ercole mandò lettera di condoglianza il 18 gennaio, e anch'egli chiamò il cardinale fratello di Cesare. Se ne dovrà forse indurre, che Giovanni Borgia iuniore fosse stato anch'egli figlio di Alessandro VI? V'ha di più: il cronista ferrarese Zambotto, là ove nota la morte del cardinale, lo chiama esplicitamente figliuolo di papa Alessandro.[102] Se così fosse, il numero de' figli di costui ne sarebbe di molto accresciuto, perchè allora anche Ludovico Borgia era figlio suo. E quest'ultimo Borgia fu di fatto l'erede speciale de' beneficii di Giovanni. Divenne anche arcivescovo di Valenza e poscia cardinale. Egli annunziò la sua promozione al marchese di Mantova con lettera, nella quale, proprio come Cesare, chiamava fratello suo il defunto.[103]
Nulladimeno tutto ciò non basta a porre in dubbio la discendenza sin qui ammessa di Giovanni Borgia iuniore. Lo Zambotto, di certo, s'ingannò. La parola fratre usata in quelle lettere non altro vuol significare che fratello cugino.[104]
Il 14 gennaio giunse in Vaticano la nuova che Cesare aveva espugnato il castello di Forlì. Dopo valorosa difesa [133] Caterina Sforza-Riario con due suoi fratelli era stata costretta ad arrendersi. Questa nipote del grande Francesco Sforza di Milano, figliuola naturale di Galeazzo Maria e sorella illegittima di Bianca, moglie dell'imperatore Massimiliano, poteva ben valere come l'ideale di quelle donne eroiche italiane, che non vissero solo ne' poemi romantici del Boiardo e dell'Ariosto, ma ebbero esistenza vera anche nel campo della realtà. L'essenza loro trascende i limiti della natura femminea, e rasenta perciò la caricatura. Per comprendere l'esistenza di tali caratteri di donne, ne' quali bellezza e coltura, coraggio e intelligenza, voluttà e ferocia si disposavano, creando una strana apparizione, fa uopo conoscere le condizioni dei tempi, nel mezzo delle quali si produssero. E i destini, cui successivamente andò incontro la Caterina Sforza, non potevano non far di lei un'Amazzone.
Giovane ancora, ella erasi sposata col ruvido nipote di Sisto IV, con Girolamo Riario, conte di Forlì. Poco dopo il suo feroce padre era stato sgozzato in Milano per mano di nemici della tirannia. Poi il marito cadde sotto il pugnale di congiurati, che ne precipitarono il cadavere nudo giù dalle finestre del castello di Forlì. Ma Caterina con audace coraggio seppe mantenere pe' figliuoli la rôcca, e vendicò il marito con orrenda crudeltà. D'allora in poi ella divenne, come Marin Sanuto la chiama, donna di grande animo, e quasi crudelissima virago.[105] Sei anni più tardi vide la morte del fratello Giangaleazzo, avvelenato da Ludovico il Moro. Innanzi agli occhi suoi fu pure ammazzato in Forlì, anche per mano di congiurati, il secondo suo marito, benchè non officiale, Giacomo Feo di Savona. Saltò immediatamente a cavallo; e, con dietro le sue guardie, [134] andò nel quartiere degli assassini, e ogni essere vivente senza distinzione, donne e bambini persino, fece mettere a pezzi. Nel 1427 mandò al sepolcro un terzo amante, Giovanni Medici.
Codesta Amazzone aveva retto con sagacia ed energia il suo piccolo paese, sinchè da ultimo cadde nelle mani di Cesare. Pochi forse ebbero a rimpiangere la sua sorte. Arrivata a Milano la nuova, trovarsi ella in potere di Cesare e quindi anche di papa Alessandro, il famoso generale Giangiacomo Trivulzio sorridendo disse parola insolente, che a sufficienza mostrò con quanto gradimento quella notizia fosse accolta.[106] Cesare la condusse a Roma qual nuova Regina di Palmira, in catene d'oro, così corse la favola. Egli fece il suo ingresso solenne il 26 febbraio. Il Papa destinò Belvedere per abitazione alla prigioniera.
La città allora rigurgitava di pellegrini, che anche da un papa Borgia venivano per ottenere l'indulgenza del Giubileo. V'era tra gli altri venuta Elisabetta Gonzaga, moglie di Guidobaldo da Urbino. Il pellegrinaggio della celebre donna fu impresa molto arrischiata, avendo il Papa già posto secretamente Urbino nella lista di proscrizione de' feudatarii della Chiesa; e Cesare già da parte sua riguardava quel paese come suo bottino. Il pensiero d'incontrarsi in Roma con quest'ultimo non doveva esser per lei poco tormentoso. Con quanta facilità non avrebbero potuto coloro accampare un pretesto, pur che fosse, per tenerla captiva anche lei? Il fratello Francesco Gonzaga la sconsigliò dal suo proposito. Nulladimeno ella gli scrisse, già in viaggio per Roma, una lettera così amorevole e tanto attraente, che ci piace qui riprodurla per intero.
«Illustrissimo Principe e Signore; fratello [135] onorandissimo: — A questi giorni mi son partita da Urbino e messami in cammino per andare a Roma a fin di conseguire il Giubileo. Di questa gita, del resto, io feci già da alcuni giorni avvisata l'Eccellenza Vostra. Oggi, trovandomi ad Assisi, ho ricevuto una sua, dalla quale rilevo ch'ella vuole persuadermi e indurmi a desistere dall'andare, pensando forse, che non mi fossi ancor messa in cammino. Di che ho provato grandissima dispiacenza ed immenso affanno. Perchè da un canto avrei voluto sì in questa come in qualunque cosa altra cedere ed essere obbedientissima ad ogni volere di Vostra Signoria Illustrissima, che ho sempre avuta in luogo di padre nè ho altrimenti, e giammai non è stato in me animo nè pensiero, se non di concorrere ad ogni sua voglia. Dall'altro canto, dopo che già mi trovo, come ho detto, in viaggio e fuori dello Stato; dopo aver per mezzo del signor Fabrizio e di madonna Agnesina, mia onorevole cognata e sorella, fatto provvedere in Roma alla casa e ad ogni altra cosa necessaria, e assicurati costoro di dovermi ritrovare a Marino fra quattro giorni, talchè il signor Fabrizio m'è venuto incontro per farmi compagnia; dopo, per di più, esser corsa voce della mia partenza e della mia gita; non saprei davvero veder modo come oramai ritrarmi con onore di mio marito e mio. La cosa è andata tanto avanti, e tanto maggiormente, in quanto v'ho proceduto con la piena intelligenza e buona volontà dello stesso mio marito, dopo aver bene considerata ogni cosa. Del rimanente, la Signoria Vostra non deve per questa mia andata concepir nell'animo affanno o sospetto di sorta. Affinchè ella sia bene informata di tutto, sappia che io prima me ne vo' a Marino, e quindi di lì, in compagnia della detta madonna Agnesina, me ne vo' incognita a Roma per far la debita visitazione delle chiese ordinate a conseguire il santo Giubileo. Io non avrò a mostrarmi e neppure a parlare con persona alcuna; mentre, [136] pel tempo che starò a Roma, andrò ad alloggiare in casa del fu cardinal Savello: abitazione codesta buona e convenientissima al desiderio mio, in mezzo a' partigiani de' Colonnesi; abbenchè intenzione mia sarebbe di tornare per la maggior parte del tempo a stare a Marino. Sicchè Vostra Signoria deve senza alcun dubbio contentarsi di questa mia andata, e non pigliarne dispiacere alcuno. E quantunque tutte le addotte ragioni siano efficacissime a indurmi non solo a continuare il mio viaggio, ma bensì a farmelo intraprendere ove non fussi ancora partita; tuttavolta, quando per avventura mi ritrovassi di non essere partita, non mica per dubbio veruno o disturbo che io conosca potesse nascermene, ma solo per desiderio di soddisfare la Signoria Vostra, in questa come in ogni cosa, avrei abbandonato quel progetto. Se non che, al punto ove ne sono, e quando Vostra Eccellenza avrà letto questa mia lettera, son certa che dell'andar mio sarà contenta. Ed io ne la prego e supplico. E perchè possa con più contentezza e soddisfazione d'animo pigliare questo Giubileo; voglia significarmi con una sua diretta a Roma esser proprio così, ch'ella, cioè, se ne contenti. Altrimenti io ne starò in continua agonia e affanno. Mi raccomando alla buona grazia di Vostra Eccellenza. — Assisi, 21 marzo 1500.»[107]
Agnesina da Montefeltro, della quale parla la lettera, sorella di Guidobaldo, donna piena di spirito e d'intelligenza, erasi sposata con Fabrizio Colonna, che più tardi divenne un gran capitano italiano. Essa aveva allora 28 anni. Viveva col marito nel castello di Marino su' Monti Albani; e quivi nel 1490 aveva dato alla luce Vittoria Colonna, futuro ornamento di casa sua. Elisabetta trovò questa bella fanciulla già promessa a Ferrante d'Avalos, figlio del marchese Alfonso di Pescara. Ferdinando II di [137] Napoli sin dall'anno 1495 aveva cooperato agli sponsali de' due fanciulli, per far cosa grata ai Colonna, partigiani di Aragona.
Sotto la protezione degl'illustri parenti la duchessa d'Urbino visitò effettivamente Roma, ove si tenne in stretto incognito, e vi restò sino al sabato dopo Pasqua. Nelle gite a San Pietro forse rivolse spesso un mesto sguardo verso Belvedere, là ove giaceva prigioniera la più coraggiosa donna d'Italia, alla quale probabilmente la legava amicizia. Che Caterina Sforza, dall'ingresso di Cesare, il 26 febbraio, si trovasse a Belvedere, lo attesta una lettera di quel giorno dell'ambasciatore veneziano in Roma alla Signoria. E i pensieri di Elisabetta dovevan farsi tanto più cupi e penosi, in quanto il marito ed il fratello Gonzaga, entrambi al servizio di Francia, avean dovuto abbandonare quella principessa all'estrema rovina.
Aveva costei lasciato appena Roma, quando a Caterina Sforza fu recata la nuova, che anche i due zii di lei Ludovico e Ascanio erano in potere del re di Francia. Dopo avere nel febbraio 1500 riconquistato Milano con truppe svizzere, furon poscia, il 10 d'aprile, vilmente traditi presso Novara dagli stessi mercenarii. Ludovico fu tradotto in Francia, ove, dopo 10 anni, morì miseramente nella torre di Loches. E anche il cardinale Ascanio, un tempo così potente, dovette andare in Francia come prigioniero. Immensa tragedia fu quella che si svolse nella casa Sforza. Quale commozione non dovette provare la Caterina nella prigione, in vedere tutta la stirpe sua soggiacere così alle atrocità del destino! Chi sappia collocarsi in quel mezzo, sente l'aria oppressiva del fato inesorabile della storia, della quale lo Shakspeare ha circondato le sue tragiche figure.
Carcerieri di Caterina erano i più spaventevoli uomini del tempo, il Papa e suo figlio. Il pensiero solo [138] della vicinanza loro doveva riempirla tutta di terrore. Essa era là, sull'alto Belvedere, sempre temendo il veleno di Cesare. Ed era davvero un miracolo che la si lasciasse vivere. Tentò fuggire, ma non riuscì. E per questo Alessandro la fece rinchiudere in Castel Sant'Angelo. Ma i signori francesi, al servizio di chi l'aveva perduta, specialmente Ivo d'Allegre, la salvarono, cavallerescamente protestando presso il Papa. Dopo una prigionia di 18 mesi questi le permise sceglier Firenze per asilo. Egli stesso la raccomandò alla Signoria con questa lettera:
«Diletti figliuoli, salute e benedizione apostolica. — Viene costì l'amata figlia in Cristo, la gentildonna Caterina Sforza. Dopo averla, come v'è noto, tenuta un pezzo prigioniera per ragionevoli motivi, l'abbiamo graziosamente lasciata libera. E poichè, giusta l'abitudine nostra e il nostro pastorale ufficio, non abbiamo usato soltanto grazia verso la stessa, ma, per quanto Iddio cel concede, desideriamo anche provvedere con paterna bontà al suo meglio; così abbiamo stimato bene scrivervi per raccomandarla vivamente alla devozione vostra. Essa viene pienamente fiduciosa nella nostra benevolenza a star tra voi, come in sua propria patria; epperò non abbia a rimaner delusa nella sua speranza con le raccomandazioni nostre. Ci sarà quindi cosa gratissima apprendere, che, in grazia dell'omaggio da lei reso alla città vostra, ed anche per riguardo verso di noi, sia stata da voi bene accolta e ben trattata. Data a Roma presso San Pietro sotto l'anello del Pescatore, il 13 luglio 1501. Nell'anno nono del nostro Pontificato. — Adriano.»[108]
Caterina Sforza morì in un monastero di Firenze nell'anno 1509. Alla patria lasciò un figlio della stessa tempra sua, Giovanni Medici, l'ultimo gran condottiere italiano, [139] divenuto famoso nella storia della guerra come capitano delle bande nere. Una figura marmorea di questo capitano dalla forza erculea e dalla nuca di Centauro sta ancora assisa all'angolo della Piazza di San Lorenzo in Firenze.
Caduti i Riarii d'Imola e Forlì, tutti i tiranni dello Stato della Chiesa tremarono di Cesare. Anche principi più potenti, come Este e Gonzaga, che non eran punto, o solo in parte, feudatarii della Chiesa, s'arrovellavano per aver l'amicizia del Papa e del suo formidabile figliuolo. Cesare, come alleato di Francia, erasi assicurati i servigi di quei due principi; e, a cominciare dall'anno 1499, ne aveva ricevuto aiuto nelle sue imprese in Romagna. Mantenne viva corrispondenza con Ercole d'Este, che egli, uomo giovane e immaturo, trattava da suo pari, come fratello ed amico. Comunicò a colui i suoi successi, e n'ebbe in risposta congratulazioni con parole piene egualmente di confidenza, ognuna delle quali era una menzogna diplomatica dettata dalla paura. La corrispondenza tra Cesare ed Ercole si conserva ancora nell'Archivio Este a Modena: contiene molte lettere e comincia dal 30 agosto 1498, quando Cesare era ancora cardinale. In quella prima lettera, scritta in latino, Cesare informava il duca della sua prossima partenza per la Francia e pregavalo per un cavallo da sella.
Una corrispondenza non meno intima ebbe Cesare con Francesco Gonzaga. Con questo strinse forte relazione, che durò sino alla fine di lui. Nell'Archivio di casa Gonzaga a Mantova esistono ancora 41 lettere di Cesare al marchese e alla moglie Isabella. La prima porta la data del 31 ottobre 1498 da Avignone; la seconda del 12 gennaio 1500 [140] da Forlì; la terza da Roma del 24 maggio 1500 è del tenore seguente:
«Illustrissimo Signore, onorando come fratello. — Dalle lettere di Vostra Eccellenza abbiamo appreso la desiderata e felice natività del suo illustrissimo figlio con non minore esultanza che per la nascita di un nostro proprio figliuolo. Poichè noi per intima e fraterna benevolenza siamo desiderosissimi di ogni sua prosperità e felice successo, così volentieri accettiamo esser padrino. E a tal effetto costituiamo nostro speciale procuratore quello tra i consiglieri suoi, che a Vostra Eccellenza piacerà scegliere. In nostro luogo e parte intervenga egli a levare il bambino dal sacro fonte. Noi preghiamo nostro Signore Iddio, perchè lo voglia conservare a seconda de' nostri desiderii comuni.
»Non rincresca a Vostra Eccellenza di presentare anche per noi le nostre congratulazioni alla eccellentissima sua consorte. Con questo figliuolo, speriamolo, essa avrà dato principio a numerosa prole e a perpetua posterità di parenti così chiarissimi e generosi. Roma nel Palazzo Apostolico il 24 maggio 1500. — Cesare Borgia di Francia, duca di Valenza e gonfaloniere e capitan generale della Santa Chiesa Romana.»[109]
Il figlio del marchese di Mantova nato il 17 maggio 1500 era Federico, principe erede. Due anni dopo, quando Cesare era all'apogeo della potenza, gli stessi Gonzaga sollecitarono l'onore di impegnare la mano del loro figliuolo con Luisa, piccola figlia di colui.
Cesare passò in Roma parecchi mesi per procacciarsi danaro per le sue imprese in Romagna. Un accidente minacciò di mandare in aria in un sol momento tutti i suoi disegni. Il 27 giugno 1500 il padre corse pericolo di rimaner schiacciato sotto un camino caduto in Vaticano; ma [141] fu tolto da' rottami leggermente ferito. Egli non volle esser medicato che da sua figlia. Quando l'ambasciatore veneziano andò il 3 luglio a visitarlo, trovò presso di lui madonna Lucrezia, Sancia e il marito Jofrè e una damigella della corte di Lucrezia, ch'era la favorita del Papa. E questo Papa aveva 70 anni. Attribuì la sua salvezza alla Vergine Maria, proprio come Pio IX a' dì nostri, uscito sano dal precipizio di una casa presso Sant'Agnese, attribuì la sua alla Santa stessa. E in onore della Vergine Alessandro fece cantare il 5 luglio messa solenne. Più tardi, ristabilitosi, si fece portare in processione a Santa Maria del Popolo, ed offrì alla Vergine del Cielo un calice pieno di 300 ducati. Il cardinale Piccolomini sparse con ostentazione l'oro sull'altare in presenza del popolo.
I Santi del Cielo s'erano interposti tra un muro che cadeva nel Vaticano e un gran peccatore; ma lasciarono che tranquillamente si compisse un gran misfatto contro un innocente, 18 giorni soltanto dopo quella caduta. Invano e i presentimenti proprii e i consigli di amici avevano un anno prima spinto il giovane Alfonso di Bisceglie a mettersi in salvo con la fuga. Come vittima espiatoria, egli aveva seguito la moglie in Roma per ivi cadere sotto il pugnale di sicarii, dal quale colei non potè salvarlo. Cesare lo odiava, come odiava tutta la casa d'Aragona. Di più, il matrimonio della sorella con un principe di Napoli aveva ora perduto ogni importanza, come già un tempo era accaduto di quello con lo Sforza di Pesaro. Era anzi diventato ostacolo ai disegni di Cesare, il quale aveva già in mente per Lucrezia altro matrimonio per lui stesso più vantaggioso. Ma il matrimonio col duca di Bisceglie non era rimasto infecondo, e per conseguenza non poteva essere sciolto. Onde Cesare decise uno scioglimento radicale e violento.
Il 15 luglio 1500 Alfonso andava dal suo palazzo al [142] Vaticano, ov'era la moglie. Potevano essere le undici di notte. Sulla scala di San Pietro uomini mascherati, armati di pugnali, gli furono addosso. Ferito gravemente al capo, al braccio, alla coscia potette il principe trascinarsi sino all'appartamento del Papa. Alla vista del marito tutto grondante sangue Lucrezia cadde svenuta.
Alfonso fu portato in una sala del Vaticano. Un cardinale gli diè l'assoluzione. Nondimeno la gioventù la vinse: egli guariva. Lucrezia, che per lo spavento era stata colta dalla febbre, e Sancia lo medicavano. Esse stesse gli preparavano il cibo, e il Papa pose persone che lo vegliassero. Dell'assassinio e degli esecutori si parlava in Roma in vario senso. L'ambasciatore veneziano scriveva il 19 luglio alla Signoria: «Non si sa chi abbia ferito il duca; ma dicesi sia stata la persona medesima che ammazzò il duca di Gandia, e lo gettò in Tevere. Monsignor di Valenza ha emesso editto, che niuno da Castel Sant'Angelo a San Pietro possa lasciarsi vedere armato, pena la morte.»
Con diabolica ironia Cesare diceva all'ambasciatore stesso: «Io non ho ferito il duca; ma l'avessi fatto, ei l'avrebbe ben meritato.» — L'odio suo contro il cognato deve aver avuto anche motivi affatto personali, che a noi sono restati oscuri. Cesare non si peritò nemmeno di far visita all'ammalato; e, andando via, disse: «Quel che non è accaduto a mezzodì, può bene accader la sera.»
Passarono così giorni angosciosi, sino a che l'assassino perdette la pazienza. Il 18 agosto verso le 9 di sera andò di nuovo. Cacciò via dalla camera del cognato Lucrezia e Sancia; chiamò il suo capitano Micheletto, e da costui Alfonso fu strozzato. Senza suoni nè nenie, con un silenzio che metteva orrore, quasi apparizione fantasmagorica, il morto principe fu trasportato in San Pietro.
[143]
La cosa non fu più un mistero. Cesare stesso pubblicamente dichiarava aver egli ucciso il duca, perchè questi tendeva insidie alla vita sua; e, passeggiando lui nel giardino del Vaticano, Alfonso avevagli fatto tirare alle spalle da' suoi arcieri.
Nulla più di questo fatto, e del modo in che il Papa lo accolse, vale a mostrare tutto il formidabile potere che Cesare aveva acquistato sull'animo del suo immoralissimo padre. Da notizie dell'ambasciatore veneziano risulta che quello era avvenuto contro il volere di Alessandro, il quale aveva insin cercato salvare l'infelice principe. Ma consumato appena il fatto, non stette a pensarci su più che tanto. Egli, che aveva perdonato a Cesare l'uccisione del fratello, non poteva ora osare di chiamarlo a render conto. Dall'altro canto le conseguenze del misfatto non erano da lui stesso che troppo desiderate. Si sarà quindi risparmiata ogni inutile rampogna al figliuolo. Al sentimentalismo suo, se pure un Borgia avesse potuto esserne capace, Cesare avrebbe risposto col riso.
Giammai delitto di sangue non cadde così presto in dimenticanza. Della uccisione di un principe della Casa reale di Napoli non si fece più caso che della morte di vilissimo palafreniere del Vaticano. Niun uomo quindi schivò la vista o la compagnia di Cesare. Non un prete gli vietò l'ingresso nella chiesa, nè un solo cardinale cessò dall'accostarlo con riverenza profonda. I prelati eran solleciti a ricevere dalla mano dell'onnipotente omicida il cappello rosso, mentre egli a caro prezzo dispensava a' maggiori offerenti la dignità cardinalizia. Aveva bisogno di danaro per continuare le sue conquiste in Romagna. In quei giorni dell'agosto erano con lui i suoi condottieri, Paolo Orsini, Giulio Orsini, Vitellozzo Vitelli ed Ercole Bentivoglio. Il Papa aveva messo in ordine per lui 700 uomini d'arme; e il 18 agosto l'ambasciatore [144] veneziano informava la Signoria di essere stato incaricato dal Papa, di pregare il doge di voler desistere dal proteggere i signori di Rimini e di Faenza. Fervevano i negoziati con Francia per procacciare a Cesare un appoggio serio e pratico. Il 24 agosto entrò in Roma l'inviato francese, Luigi De Villeneuve, e presso San Spirito gli venne incontro una maschera e l'abbracciò. Era Cesare. Quanto apertamente commetteva i suoi delitti, altrettanto amava andar per Roma mascherato.
Il giovane Alfonso di Aragona è fra le vittime de' Borgia la più tragica figura; e il destino suo commuove più di quello di Astorre Manfredi. Se Lucrezia, come v'è ogni ragion di credere, amava davvero suo marito, certo la fine di lui dovette immergerla in una desolazione disperata. E non avesse anche per lui nudrito passione alcuna, ogni sentimento suo doveva irrompere contro l'assassino, della cui infernale ambizione ella era la vittima. E doveva eziandio insorgere contro il padre, che per quel misfatto aveva mostrata tanta indifferenza.
Le scarse notizie, che abbiamo di quei giorni, non ci dipingono lo stato suo appena occorso il fatto, nè ciò che accadde in Vaticano tra i componenti di casa Borgia. Lucrezia, è vero, fu malata di febbre; ma nè morì di dolore, nè si levò vindice contro l'assassino di suo marito, nè fuggì via da quell'orrido Vaticano.
Ella si trovò nella stessa condizione di sua cognata donna Maria Enriquez alla morte di Gandia. Ma, mentre questa era col figlio sicura in Spagna, per Lucrezia invece non v'era alcun asilo, ove ridursi a vivere senza il volere del padre e del fratello.
Sarebbe stoltezza condannare la sventurata, se nel più spaventevole momento di sua vita non siasi fatta l'eroina di una tragedia. La verità è che in quel tragico ambiente ella apparisce troppo debole e piccola. Ma diritto [145] di pretendere da Lucrezia Borgia le passioni di una grande anima, se non n'era capace, non ve n'ha alcuno. Noi non cerchiamo di comprenderla che qual fu realmente. E, se il giudizio non ci falla, essa fu donna, che non la potenza, ma solo la grazia della sua natura fece uscire dalla volgare schiera. Questa giovane donna, che alla fantasia romantica della posterità è apparsa qual Medea e qual face amorosa sempre ardente, forse non ha in realtà provato mai una passione profonda. Nel periodo della sua vita in Roma fu sempre dipendente dalla volontà di altri, e le sorti sue furon sempre decise dal padre prima, poi dal fratello. E non sappiamo sino a che punto, rimpetto a tali condizioni di reale soggezione, la sua resistenza morale fosse in grado di affermare, contro di quelle, la dignità della donna. Ma se mai Lucrezia sentì una volta in sè il coraggio di far valere i sentimenti e i diritti suoi contro coloro che la condannavano al sacrificio, questa dev'essere stata dopo l'uccisione del marito. Ed è molto probabile che siasi allora rivolta con accuse contro il fratello omicida, e con lagrime al padre. Cesare per tanto volle che l'importuna fosse allontanata dal Vaticano. Ed Alessandro la mandò per qualche tempo in esilio, probabilmente perchè essa stessa ardentemente lo desiderava. L'ambasciatore veneziano Polo Capello fa cenno di una rottura insorta tra lei e il padre. Egli avea lasciato Roma il 16 settembre 1500, e di ritorno a Venezia fece una relazione al suo Governo sulle condizioni di quella città, nella quale diceva: «Madonna Lucrezia, la quale è savia e liberale, stava prima in grazia del Papa, ma ora questi non l'ama più.»
Il 30 agosto Lucrezia con un seguito di 600 cavalieri lasciò Roma per rendersi a Nepi, ov'era signora. Quivi voleva, come il Burkard dice, sollevarsi dalle profonde commozioni d'animo, che la morte del duca di Bisceglie le aveva cagionate.
[146]
In quel tempo, come oggi, s'andava da Roma a Nepi per la via Cassia, passando per Isola Farnese, Baccano e Monterosi. La strada allora era in parte sempre l'antica, ma in cattivissimo stato. Presso Monterosi si pigliava la via Amerina, il cui antico selciato anch'oggi a lunghi tratti si è conservato sin sotto le mura di Nepi.
Anche Nepi — o Nepe o Nepete, — come tutte le città etrusche, è posta su piano elevato, i cui erti margini scendono a picco in profonde fenditure vulcaniche del suolo. Fiumicelli, chiamati rii, scorrono nel fondo gorgogliando fra i rocciosi rottami. Le nude e ripide pareti di tufo servivano di fortificazione naturale; e, dove fossero meno alte, si suppliva con mura.
Il lato meridionale della città di Nepi, ove il Rio Falisco, prima di precipitarsi nel grande burrone, scorre in una valle meno profonda, era già stato nell'antichità munito di alte mura. Eran massi di tufo oblunghi, posti gli uni sugli altri senza cemento, come le mura della vicina Falerii. Rimangono ancora notevoli avanzi di queste mura presso Porta Romana; tutto l'altro materiale venne adibito alla costruzione del castello e dell'acquidotto farnesiano.
Il castello proteggeva il lato più debole di Nepi, e in quel luogo stesso doveva essere l'antica rôcca. Nell'VIII secolo fu sede di un duca potente, Toto, divenuto celebre anche nella storia della città di Roma. Il cardinale Rodrigo Borgia gli diè la forma, che oggi tuttavia conserva, avendolo fatto ricostruire di pianta. Egli vi fece pure elevare le due forti torri interne, l'una, la più grande, rotonda, l'altra quadrata. Più tardi venne restaurato e munito di bastioni esteriori da Paolo III e da suo figlio Pierluigi Farnese, primo duca di Castro e Nepi.[110]
[147]
Nel 1500 il castello non era meno saldo di quello di Civitacastellana, fatto similmente edificare da Alessandro VI. Oggi invece è miseramente rovinato. L'edera fronzuta e rigogliosa avvolge le rovine del palazzo, e ne ricopre all'esterno le pareti. Solo quei due colossi di torri hanno sfidato l'edacità del tempo.
S'entra nel diroccato castello dal lato della città per una porta, sulla quale con bei caratteri della Rinascenza sta scritto: Ysu. Unicus Custos. Procul hinc timores. Ysu. Si arriva in una corte quadrata, circondata da portici murati e tutti in rovina, e ridotta oggi ad orto. Di fronte sta la cadente facciata del castello, edifizio a due piani nello stile della Rinascenza, con finestre guernite di peperino. Sulla cornice della porta d'ingresso l'iscrizione P. Loisivs Far. Dux Primus Castri, indica anche qui una restaurazione farnesiana.
L'interno non presenta che una maceria. Le stanze son tutte cadute. Niuno cercò impedire il disfacimento di questo importante monumento del passato; eppure l'ultima sala non rovinò che 50 anni fa. Delle camere superiori rimane una soltanto, alla quale non si può accedere che arrampicandosi per una scala. Vi si vede ancora il posto del camino; e rimane pure, qual era, il soffitto primitivo in assi di legno, come usava ne' primi anni della Rinascenza. Le travi si terminano con mensole graziosamente intagliate. Tutto il soffitto è di color bruno carico; e qui e là alle pareti pendono scudi di legno, su' quali è dipinta l'arme de' Borgia.
L'arme stessa in pietra si vede pure sulle pareti interne del castello ed esteriormente sulle torri. Due di esse, finamente scolpite ed incastrate oggi sotto il portico della Casa comunale di Nepi, furon tolte di là, ove forse Lucrezia [148] le aveva fatte affiggere. Sotto corona ducale portano insieme l'arme de' Borgia e quella di casa Aragona venuta a Lucrezia come duchessa di Bisceglie.
La solitaria Nepi, che oggi non conta che 2500 abitanti, nell'anno 1500 era appena più popolosa. Piccolo paese della Campagna con strade di architettura gotica; con qualche antico palazzo e torre di nobili famiglie, delle quali quella de' Celsi era la più ragguardevole; con la sua piccola piazza, altra volta il fòro, ov'era la Casa comunale; col suo vecchio duomo, originariamente edificato sulle rovine del tempio di Giove, e che nel 1500 serbava ancora la sua forma di basilica; con altre poche antiche chiese e monasteri, come San Vito e Sant'Eleuterio; e con alcuni avanzi di antichità che oggi sono scomparsi. Di questi soltanto due statue, in onore di cittadini nepetini, la cui memoria è ormai perduta, stanno ancora innanzi alla facciata del Palazzo comunale, grazioso edifizio dell'ultimo tempo della Rinascenza.
I pressi di Nepi, come la più parte delle contrade etrusche, hanno un carattere cupo e melanconico, generato insieme dalla natura vulcanica del terreno e dall'estinzione di ogni attività storica; l'una e l'altra proprie e comuni a tutta l'Etruria. Quelle profonde e tenebrose squarciature del suolo, co' loro massi rocciosi, con le rupi tagliate a picco, di tufo parte nero, parte rossastro oscuro, e quei torrenti che vanno rumoreggiando nel fondo, fanno un'impressione grandiosa, ma piena d'immensa tristezza. E non meno rendono l'animo serio e triste quelle alte pianure ampie e silenziose, e quelle greggi pascolanti con pace idillica, rotta soltanto di tratto in tratto da lamentevoli belati e dal flebile suono del piffero pastorale.
Qua e là selve di querce. Quattro secoli or sono, ve n'erano intorno a Nepi di più folte e più lussureggianti. Oggi invece, verso Sutri e Civitacastellana, sono state [149] molto diradate; ma formano pur sempre magnifiche boscaglie. Dalla piattaforma del castello si dispiega alla vista un gran panorama, più esteso di quello che si gode dal castello di Spoleto. Qui spicca sull'orizzonte la tetra catena de' Vulcani di Bracciano col monte di Rocca Romana; colà la foresta del Monte Cimino innanzi Viterbo, sui cui estesi declivii è chiaramente visibile il castello de' Farnesi, Caprarola. Dirimpetto s'eleva come isola il Soratte. A settentrione l'altipiano va leggermente digradando verso la valle del Tevere, e in lontananza, e attraverso un velo leggiero, si disegnano le cilestrine montagne della Sabina, tutte popolate sulle pendici di villaggi e castelli.
La giovane vedova di Alfonso entrò il 31 agosto nel castello di Nepi, i cui muti spazii furono ora animati dalla sua corte. Pure tutte quelle dame e cavalieri, altra volta sì facili alla gioia e al piacere, eran mesti ed afflitti per dolore vero od officiale. Nel solitario castello potè Lucrezia abbandonarsi liberamente al pianto per la persona cara, che le era stata per due anni marito, e in compagnia della quale ella, l'anno innanzi, aveva abitato quel luogo stesso. Nulla veniva colà a turbare i suoi tetri pensieri: invece castello, città, campagna, tutto armonizzava con essi.
Ignoriamo quanto durasse il melanconico soggiorno. Ne' calori estivi le evaporazioni di quelle voragini sogliono addurre febbri micidiali, e ancora oggi rendono malsana l'aria di Nepi e di Civitacastellana. Il padre probabilmente, nel settembre o nell'ottobre, la richiamò a Roma, e presto dovette darle di nuovo la grazia sua, tanto più che il fratello lasciò la città. Ed era scorso appena qualche mese che già l'anima di Lucrezia era tutta piena di altre splendide immagini dell'avvenire, dietro le quali lo spettro dell'infelice Alfonso si dileguò. Essa cessò così presto dal pianto, che dopo un anno soltanto in questa donna, giovane e sorridente, niuno avrebbe saputo sospettare [150] la vedova di un marito assassinato. Lucrezia aveva ereditato dal padre, se non la indistruttibile forza della vita, certo quella leggerezza di sentimento che i contemporanei non han mancato di notare espressamente nell'uno come nell'altra, sotto il nome di naturale sempre gaio e sereno.
Alla fine del settembre 1500 Cesare mosse per la Romagna con 700 uomini d'arme, 200 cavalleggieri e 6000 fantaccini. Egli volse prima i passi verso Pesaro per scacciar di là il suo antico cognato. Giovanni Sforza, all'udire la nuova della tremenda fine del suo successore con Lucrezia, aveva potuto riputarsi felice di esser egli scampato a sorte sì dura. Un odio ardente contro tutti questi Borgia lo rodeva. Ma, in luogo di poter vendicare le patite offese, ora quasi senza via a difendersi si vedeva esposto a subirne altra più grave. Dagli agenti suoi in Roma e dall'ambasciatore di Spagna, che gli era amico, era stato avvertito degli apprestamenti del suo capital nemico, come risulta dalle lettere sue a Francesco Gonzaga, fratello della sua prima moglie Maddalena.[111]
Il primo settembre 1500 egli informò il marchese Francesco della intenzione di Cesare di metter la mano su Pesaro, e lo pregò di raccomandare l'affare suo all'imperatore Massimiliano. Il 26 scrisse, domandando premurosamente soccorso. Il marchese non glielo negò; ma non gli mandò che 100 uomini con un capitano albanese. Allora fu visto, come queste illegittime signorie italiane ad ogni colpo di vento non stavan più ferme. Solo in Faenza [151] il popolo amava il suo signore, il giovane e bello Astorre Manfredi, e gli restò fedele. Ma in tutte le altre città di Romagna il reggimento de' tiranni era esecrato. Anche lo Sforza doveva essere prepotente e crudele; e, certo, la scuola che aveva avuto a Roma da' Borgia non era rimasta per lui sterile.
Giammai un trono non fu sì presto rovesciato come il suo, o, per dir meglio, sì presto abbandonato prima ancora che fosse abbattuto. Cesare non s'era avvicinato a Pesaro, che già un moto popolare nella città si era manifestato in favor suo. Si formò un partito ostile allo Sforza; mentre la totalità de' cittadini, paventando le conseguenze, ove la città avesse dovuto essere espugnata dallo spietato nemico, desiderava un accomodamento con costui. Indarno il poeta Giulio Postumo, tornato poco innanzi da Padova in patria, chiamava con canti guerrieri i concittadini suoi alla resistenza.[112] Il popolo insurse la domenica, 11 ottobre, prima ancora che Cesare fosse apparso avanti alla città. Quello che accadesse poi, lo racconta la lettera dello Sforza al Gonzaga:
«Illustrissimo Signore e Cognato onorandissimo: — L'Eccellenza Vostra avrà sentito come domenica mattina il popolo di Pesaro, per subornazione di quattro vagabondi, si levò in armi; e fummi forza ridurmi, il meglio che potessi, con pochi de' miei nella rôcca. Sapendo poi che i nemici s'avvicinavano e che messer Ercole Bentivoglio, il quale era a Rimini, si faceva innanzi, per non rimaner chiuso dentro lasciai di notte la rôcca, grazie al consiglio, all'opera ed al favore di Jacomo Albanese. E dopo una malissima via e pessimi passi eccomi qui giunto a salvamento. Di che io ho obbligo prima all'Eccellenza Vostra, che mi mandò il detto Jacomo, e poi a costui, che [152] seppe sì ben condurmi. Non ho per anco deliberato cosa mi voglia fare. Ma, ove fra quattro dì non venga dall'Eccellenza Vostra, le manderò Jacomo, il quale le dirà tutto il successo e anche la mente mia. Ho voluto frattanto che ella sapesse di essere io giunto a salvamento, e raccomandarmele. — Bologna, 17 ottobre 1500. Di Vostra Eccellenza cognato e servitore, Giovanni Sforza di Aragona, conte di Cotignola e Pesaro.»[113]
Il 19 ottobre poi scrisse da Bologna che voleva andare a Ravenna e di là tornare a Pesaro, ove il castello valorosamente resisteva; e pregava il marchese di mandargli un aiuto di 300 uomini. Ma tre giorni dopo da Ravenna annunziò che il castello si era reso.
La città di Pesaro aveva accolto Cesare non solo senza resistenza, ma volenterosa. Ed egli entrò con pubbliche dimostrazioni d'onore nel palazzo degli Sforza, in quel palazzo, ove la sorella, quattro anni innanzi, aveva abitato quale signora. Visitò pure il castello il 28 ottobre. Fece chiamare un pittore, e gli ordinò di fargliene un disegno su carta, che voleva mandare al Papa. Da' merli del castello degli Sforza 12 trombetti fecero risuonare all'intorno le note della vittoria, ed araldi gridarono Cesare Signore di Pesaro. Il 29 ottobre s'indirizzò al Castello Gradara.[114]
Pandolfo Collenuccio fu testimone dell'ingresso di Cesare in Pesaro. Quest'uomo bandito da Pesaro dallo Sforza e ricoverato a Ferrara fu dal duca Ercole mandato a Cesare alla nuova della caduta della città, per presentargli le congratulazioni sue. Lo spinse a ciò non solo il timore, ma anche un importante negozio intavolato tra lui e il Papa, e del quale avremo presto a parlare. Il Collenuccio riferì al duca della sua missione il 29 ottobre con questa importante lettera:
[153]
«Illustrissimo Signor mio: — Poichè partii da Vostra Signoria, fui in Pesaro in due giorni e mezzo. Vi giunsi di fatto martedì circa le 24. E in quell'ora appunto il duca Valentino faceva la sua entrata. Tutto il popolo era alla porta. Fu ricevuto sotto una gran piova e gli vennero presentate le chiavi della Terra. Il Duca andò ad alloggiare in Corte, nella camera che era stata del signor Giovanni. L'entrata, a quanto mi riferiscono i miei che v'erano, fu solenne, con grande ordine e numeroso di cavalli e di fanti della guardia sua. La sera medesima io gli feci sapere della mia venuta, e che aspettavo udienza, quando a Sua Signoria ne facesse comodo. Verso due ore di notte mandò il signor Ramiro e il maggiordomo a farmi visitare e domandarmi con parole molto onorevoli, se fossi bene alloggiato e se in tanta folla non mancassi per avventura d'alcuna cosa. Mi fece pur dire che riposassi, e che mi darebbe udienza il dì seguente. Mercoldì mattino di buon'ora mi mandò un presente di un gran sacco d'orzo, una soma di vino, un castrone, otto paia di capponi e galline, due grandi torce, due mazzi di candelette e due scatole di confetti, con parole molto cortesi. Non mi dètte però udienza, tuttochè mandasse le sue scuse, e a dirmi di non volermene meravigliare. Cagione di ciò fu che si levò di letto a 20 ore, e appena levatosi desinò. Andò poi al castello e lì stette sino a notte, e ne tornò stracco per un tincone ch'egli ha.
»Oggi, com'ebbe desinato, ch'eran circa le 22 ore, mi fece introdurre per mezzo del signor Ramiro, e con molta dimestichezza e ottima cera cominciò Sua Signoria per la prima a scusarsi di non aver potuto darmi udienza ieri, essendo occupato nel castello e anche indisposto per quel suo tincone. Dopo questi primi ragionamenti, avendo io espresso lo scopo proprio della mia ambasceria, che era di visitare, congratularmi, ringraziare, presentare [154] omaggi e offrir servigii, il Duca, il quale veramente sa comporre molto bene i discorsi suoi, mi rispose parte per parte con grandissima tranquillità. In sostanza disse che, conosciuta la prudenza e bontà di Vostra Signoria, egli ha sempre amato e desiderato di aver con lei pratica. Che quando fu a Milano ebbe voglia di conoscerla; ma i tempi e le faccende, che allora correvano, nol permisero. E ora, venuto in queste parti, seguitando quel suo desiderio e volendo dar prova dell'animo suo e dimostrarle il suo filiale affetto, s'era messo a scrivere questa lettera intorno a' progressi da lui fatti nella certezza che la Signoria Sua n'avesse ad aver piacere. E per l'avvenire farebbe il simile, perchè desiderava aver con lei più intrinseca amicizia. E offrivale ogni facoltà sua e quanto era in suo potere; di che in ogni occorrenza la Signoria Vostra ne vedrebbe le prove. E mi disse di raccomandarlo assai, perchè egli avrebbe lei come fratello. Ringraziò anche Vostra Signoria per la risposta mandatagli per lettera e per aver spedito a posta persona, dicendo che veramente non bisognava; che anche senza questo teneva per certissimo, che la Signoria Sua avrebbe gran piacere d'ogni suo bene. In breve nè migliori nè più acconce parole avrebbe potuto usare; e sempre nominò lei fratello e sè figliuolo suo.
»Ed io, per mia parte, raccogliendo la cosa e il senso di tutte le sue parole, comprendo che gli sarebbe caro aver qualche pratica e buona amicizia con Vostra Signoria. Credo certamente a' propositi suoi; tuttavia non so desumere altro che bene. — Questo aver inviato la Signoria Vostra persona sua qui, è stata cosa immensamente accetta; e sono informato che il Duca n'ha scritto al Papa, e n'ha parlato qui co' suoi in modo da mostrare di averne fatto gran caso e di estimarla assai. — Dopo alcune brevi risposte e repliche dall'una parte e dall'altra, per [155] le quali io gli dicevo di non sapere, se non commendare la prudenza del Duca nel tenere siffatta via con Vostra Eccellenza, rispetto alle condizioni nostre e al nostro Stato, le quali cose non potevano essere che a vantaggio di lui stesso; egli confermò il mio dire con grande efficacia. Dimostrò in effetti d'intenderlo molto bene. E così, d'uno in un altro ragionamento, entrammo a parlare di Faenza. Il Duca disse: — Io non so quello che vorrà fare Faenza; se vorrà darci poca fatica, come queste altre città, o se vorrà far prova di resistere. — Gli dissi che credevo farebbe come le altre. Pure, ove nol facesse, non era che ad onore di lui, chè avrebbegli, nell'espugnarla, porta occasione di mostrare là propria virtù e valore. Rispose avere ciò a caro, e che pensava combatterla aspramente. Di Bologna non accadde ragionare. Gli furon grate le ambasciate di raccomandazioni che gli feci per parte de' vostri, del signor Don Alfonso e del cardinale; e soprattutto di quest'ultimo, del quale disse tanto bene e mostrò amarlo tanto, che non poteva saziarsi mai di dirne.
»Stati così insieme una buona mezz'ora, tolsi licenza, e il Duca montò a cavallo e partì di qui. Questa sera sarà a Gradara: domani andrà a Rimini; e quindi seguiterà il suo viaggio. Egli ha con sè tutta la gente di artiglieria. E per altro non va così lento — la qual cosa mi disse egli stesso, — se non perchè non vuol dividersi dall'artiglieria.
»In questa Terra sono alloggiate 2000 persone o più: non han fatto alcun danno notevole. Il contado è stato tutto pieno di soldati; ancora non sappiamo, se abbiano arrecato gran danno. Alla Terra non è concesso privilegio nè esenzioni di sorta. Il Duca vi lascia per luogotenente un dottor Forlivese. Dalla rôcca ha tolto 70 pezzi d'artiglieria; nè la guardia, che v'ha lasciata, è gran fatto numerosa.
[156]
»Dirò a Vostra Signoria una cosa, della quale ho più riscontri; ma mi è stata espressamente detta da un cavalier portoghese, soldato del duca Valentino, ch'è alloggiato qui, ove son io, in casa di mio genero, con 15 cavalli, ed è uomo molto dabbene ed amico del signor duca Ferrando nostro, perchè stette col re Carlo. Si dice adunque che questa Terra il Papa l'assegna in dote a madonna Lucrezia; alla quale dà per marito un Italiano, che sarà sempre amico di Valenza. Se ciò sia vero non so: si ritiene così.
»Quanto a Fano, il Duca non l'ha avuta. V'è stato dentro cinque giorni; ma nè lui l'ha domandata, nè i cittadini gliel'han resa. Sua è, e sua sarà, se lo vorrà. Loro dicono che il Papa gli ordinasse di non impacciarsi di Fano, se i cittadini proprii non lo dimandassero; e così sono rimasti nello stato ch'erano.
»Omissis.
»La vita del Duca è questa: va a letto a 8, 9 e 10 ore di notte. Il giorno appresso poi a 18 ore è l'alba, a 19 sorge il sole, e a 20 è giorno fatto. Levatosi, subito va a tavola, e lì sbriga dappoi le faccende. Lo si tiene animoso e gagliardo e liberale, e si pensa che faccia buon conto degli uomini dabbene. Aspro nelle vendette: così dicono le informazioni di molti. Animo vasto e cupido di grandezza e fama, par che curi più lo acquistar di Stati che stabilirli e ordinarli. — Pesaro, giovedì 29 ottobre, ora 6ª della notte, 1500. Di Vostra Illustrissima Eccellenza Ducale servo Pandulphus.
»Seguito del Duca: — Bartolomeo di Capranica, maestro del Campo. — Piero Santa Croce. — Giulio Alberino. — Mario Don Marian de Stephano. — Un suo fratello. — Menico Sanguigni. — Giovan Battista Mancini. — Dorio Savello. (Tutti gentiluomini romani.)
»In casa del Duca uomini di conto: — Vescovo di [157] Elna. — Vescovo di Santa Sista. (Spagnuoli.) — Vescovo di Trani, italiano. — Un Abate napoletano. — Il signor Ramiro dell'Orca, governatore: questo fa tutto. — Don Hieronymo, portoghese. — Messer Agabito da Amelia, segretario. — Messer Alessandro Spannocchia, tesoriere, il quale ha detto che il Duca, poichè partì da Roma, ha sin qui di spesa ordinaria 1800 ducati il giorno.»[115]
Nella sua lettera il Collenuccio non fece menzione di questo, che egli stesso rivolse a Cesare, al nuovo padrone di Pesaro, un richiamo contro il suo antico signore, Giovanni Sforza, e che fu da colui rimesso in possesso di tutti i suoi beni confiscati. Pochi anni appresso egli ebbe a pentirsi amaramente del passo fatto. Guido Postumo invece, i cui beni furono tolti da Cesare, erasi rifugiato presso i Rangoni a Modena. Lo Sforza era il 2 novembre a Venezia, ove, stando all'asserzione del Malipiero, voleva vendere alla Repubblica il suo paese; ma le sue proposte furon respinte. Di là andò a Mantova. Le due città erano allora l'asilo de' tiranni detronizzati. Specialmente il bel castello de' Gonzaga in Mantova, protetta dalle gore che attorno vi forma il Mincio, dava, e diede ancora per lungo tempo dappoi, ospitalità a quella specie di fuggiaschi.
Caduta Pesaro, anche Rimini scacciò i suoi odiati tiranni, i fratelli Pandolfo e Carlo Malatesta. Quindi Cesare andò ad assediar Faenza. Il giovane signore, Astorre, s'arrese finalmente all'avversario il 25 aprile 1501, dietro solenne promessa di libertà. Malgrado di ciò Cesare mandò l'infelice a Roma, ove col fratello Ottaviano e con altre vittime fu cacciato prigione in Castel Sant'Angelo. Era questi Astorre, che un tempo il cardinale Alessandro Farnese avrebbe voluto sposare con la figliuola della sorella Giulia. Ed ora forse lo sventurato dovette deplorare che l'unione non si fosse effettuata.
[158]
In quel mentre Lucrezia col suo bambino Rodrigo era nel palazzo presso San Pietro. Se pure avesse voluto ancora rimpiangere la perdita del marito, il padre non le lasciò tempo di abbandonarsi a tali sentimenti. Egli seppe solleticarne la leggerezza e la vanità. Il morto Alfonso doveva esser sostituito da un altro Alfonso di maggior valore. Era stato appena messo da parte il duca di Bisceglie, e già s'era pensato a un nuovo matrimonio. Nel novembre del 1500 si cominciò già a dire che Lucrezia dovesse unirsi col principe erede di Ferrara, rimasto sin dal 1497 vedovo senza figliuoli, all'età di 24 anni appena. Del disegno fu primo a darne notizia Marin Gorzi, nuovo ambasciatore di Venezia a Roma, alla sua Signoria, il 26 di quel mese. Ma già molto prima, anzi indubbiamente sin da quando il marito di colei ancora viveva, s'era pensato in Vaticano al nuovo legame. È fuori di dubbio che nel Natale del 1500 si parlò pure di un matrimonio col duca di Gravina. Quest'Orsini era così poco spaventato della sorte toccata a' due mariti di Lucrezia, che nel dicembre venne a Roma per impegnarsi con lei. Probabilmente non si mirò che ad adescarlo con tale prospettiva per tenersi sicuri de' servizii degli Orsini.
Il disegno di maritar Lucrezia con Alfonso di Ferrara era stato immaginato da Alessandro. Egli desiderava questo matrimonio così pel meglio della sua diletta figliuola, come pel vantaggio di Cesare. Così assicurava a costui non solo il possesso della Romagna, che la Repubblica di Venezia poteva strappargli, ma gli slargava anche maggior campo per dar séguito alle sue mire su Bologna e Firenze. Era inoltre un mezzo per far entrare nelle vedute de' Borgia anche le dinastie di Mantova e di Urbino, imparentate con [159] quella di Ferrara. Poteva altresì diventare punto di partenza per una più grande lega tra la Francia, il Papa, gli Stati di Cesare, Ferrara, Mantova e Urbino. E questi alleati eran forti abbastanza da assicurare Alessandro e la casa sua contro ogni nemico.
Prima di tutto il re di Francia aveva bisogno del Papa, se voleva raffermare lo stato suo in Italia. Possedeva quivi Milano, e poteva conquistare la metà del reame di Napoli, e quindi tenerlo come feudatario della Chiesa. Difatto Spagna e Francia avevano già concluso quello scellerato trattato di spartizione di quel reame, cui Alessandro VI poteva ancora prestare o rifiutare consentimento.
Per guadagnare il duca di Ferrara alla sua audace proposta, Alessandro si servì primieramente di un modenese, che gli era molto devoto, Giambattista Ferrari, antichissimo servitore di Ercole, e che egli aveva creato datario prima, poi cardinale. Il Ferrari non si peritò di fare al duca la proposta di matrimonio, in vista — così scrisse — de' grandi vantaggi che dovevano derivarne per lo Stato del duca.[116] L'imbarazzo di Ercole non fu minore di quello, in congiuntura simile, provato dal re di Napoli, Federigo. Il suo orgoglio ne fu irritato. La figlia, la nobile marchesa Isabella di Mantova, e la cognata di costei, Elisabetta di Urbino, ne furono fuori di sè. Il giovane Alfonso da parte sua manifestò la più profonda ripugnanza. V'era pure che s'aveva in animo di sposare il principe erede con una principessa della Casa reale di Francia, con Luisa, la vedova del duca di Angouleme.[117] Ercole rispose con un deciso rifiuto.
Alessandro aveva previsto la resistenza, ma non disperò di abbatterla. Con più viva insistenza fece ancora rappresentare [160] al duca i vantaggi di quella unione e i danni del rifiuto: da una parte la sicurtà degli Stati di Ferrara e l'accrescimento loro; dall'altra la nimicizia del Papa e di Cesare, e forse anche di Francia.[118] Tanto era certo della vittoria, che non faceva mistero alcuno del divisato matrimonio, e ne parlò insino in Concistoro con soddisfazione come di cosa fatta.[119] Importava aver favorevole la Corte francese. E ciò non fu difficile, mentre appunto in quel tempo Luigi XII voleva che l'esercito suo, attraverso lo Stato della Chiesa, andasse di Toscana a Napoli, la qual cosa non era possibile, senza essere col Papa ne' termini della migliore intelligenza. Ma questi poteva soprattutto far assegnamento sull'appoggio del cardinale d'Amboise, quello, cui Cesare Borgia aveva un tempo portato in Francia il cappello rosso, e i pensieri ambiziosi del quale si levavano sino al trono papale. E a questo egli sperava poter giungere dopo la morte di Alessandro, mediante appunto l'influenza dell'amico suo Cesare e de' cardinali spagnuoli.
Ciò non di meno è un fatto che sul principio Luigi XII era risolutamente avverso al matrimonio. Cercò pure sventarlo. Da parte sua per niun conto voleva aggrandita la potenza di Cesare e del Papa. Desiderava in quella vece consolidare durevolmente l'influenza sua su Ferrara, mediante l'unione di Alfonso con una principessa francese. Alessandro aveva nel maggio spedito in Francia un segretario per indurre il re a rendersi mediatore del matrimonio; ma questi si mostrò alieno dal farlo.[120] Egli aveva bensì messo ostacolo alla invasione di Cesare nell'Italia centrale; cosicchè i tentativi di costui su Bologna e Firenze andarono a vuoto.
[161]
Il disegno quindi di matrimonio si sarebbe risoluto in nulla, se proprio in quel tempo non fosse capitata la spedizione francese per Napoli. A noi è lecito tenere, che l'aver il Papa permessa quella dipendesse, oltre gli altri motivi, anche dall'assenso dato dal re a quel matrimonio.
Il 13 giugno 1501 Cesare in persona, nominato già dal padre Duca di Romagna, venne secretamente a Roma, ove si fermò tre settimane. E anch'egli, per quanto era in lui, pose in moto ogni arte per l'effettuazione del disegno. Poscia con i suoi soldati seguì il maresciallo francese Aubigny. Il quale, muovendo con l'esercito da' pressi di Roma, irruppe nel Napoletano per portarvi la più empia delle guerre di conquista, fra i cui orrori la casa Aragonese doveva in brevissimo tempo trovare la sua rovina.
Sin dal giugno la Corte francese cedette al desiderio del Papa, e cominciò a far valere per lui la propria influenza in Ferrara. Ciò risulta da un dispaccio dell'inviato ferrarese in Francia del 22 giugno. Egli informava Ercole di aver rappresentato al re, come il Papa minacciasse togliere al duca lo Stato, ove questi non acconsentisse al matrimonio; e il re aver risposto che Ferrara stava sotto la sua protezione, e solo insieme con la Francia poteva cadere. L'inviato esprimeva il timore che il Papa si servirebbe dell'investitura di Napoli, alla quale il re aspirava, per ottener presso costui favore al disegno. Da ultimo scriveva al duca che monsignor De Trans, il più influente uomo che fosse alla Corte del re, lo consigliava ad accettare il matrimonio a condizione del pagamento di 200,000 ducati, della remissione dell'annuo canone per Ferrara, e di certi benefizii per i membri della casa d'Este.[121]
L'Amboise mandò l'arcivescovo di Narbona e altri agenti a Ferrara, perchè persuadessero il duca. Il re stesso [162] gli scrisse. Lo sollecitava a dare il suo assenso, e negava ora per Don Alfonso la mano di una principessa francese. Contemporaneamente con i messi di Francia, facevan ressa intorno al duca gl'inviati del Papa e gli agenti di Cesare. Egli fu avviluppato in una rete d'intrighi; e finalmente la paura lo indusse a chinare il capo.
L'8 di luglio faceva già dichiarare a Luigi XII di esser pronto ad acconciarsi al voler suo, purchè gli riuscisse d'accordarsi col Papa sulle condizioni.[122] Egli intendeva essersi inchinato solo a' comandamenti del re; ma il re a sua volta non aveva consigliato il matrimonio per altro, se non perchè aveva bisogno del Papa. Nell'atto stesso che faceva premura presso Ercole perchè acconsentisse, lo consigliava di non affrettarsi a mandare il figliuolo Don Ferrante a Roma per condurre a fine la cosa; ma di protrarla in lungo quanto più potesse, sinchè egli stesso, il re, non fosse nel settembre venuto in Lombardia. Fece bensì assicurare Ercole ch'egli stava fermo alla fitta promessa della mano di madonna d'Angouleme per Don Alfonso; e apertamente esternava il suo dispiacere per quel matrimonio.[123] Diceva all'inviato ferrarese che reputerebbe il duca uomo inetto, se volesse sposare il proprio figlio con la figlia del Papa; perchè, il giorno che il Papa fosse morto, egli non più saprebbe con chi aveva stretto questo parentado; e in modo ancora più cieco opererebbe Alfonso, accettando.[124]
E infatti anche il duca non si diede fretta punto. È vero che mandò a Roma il suo segretario Ettore Bellingeri, ma solo per dichiarare al Papa ch'egli voleva ottemperare a' desiderii di Francia, posto però che anche le domande sue fossero soddisfatte. Il Papa invece e Cesare [163] esigevano la pronta conclusione de' patti matrimoniali, e incalzavano presso il cardinale Della Rovere, ch'era allora a Milano, per ottenere da Ercole che mandasse a lui il figlio Alfonso, affinchè, sotto gli occhi del cardinale stesso, l'affare fosse terminato. Ciò il duca negò. Innanzi a ogni altra cosa egli voleva che il Papa accettasse le condizioni poste al suo consentimento.[125]
Mentre queste pratiche umilianti per Lucrezia procedevano lentamente, Cesare era in Napoli strumento e spettatore della rapida caduta di quella casa d'Aragona, da lui tanto odiata, e sul cui trono non gli fu concesso elevarsi. Ma Alessandro approfittò dell'occasione per impadronirsi de' beni de' baroni del Lazio, specialmente di quelli de' Colonna, de' Savelli e degli Estouteville, i quali tutti la guerra di Napoli aveva privati d'ogni difesa. La confiscazione di quei beni, come presto vedremo, si collegava col disegno di matrimonio. Egli aveva fatto occupare parecchie città di quei signori già nel giugno 1501, valendosi della pressione dell'esercito francese accampato presso Roma. Il 27 luglio andò egli stesso a Sermoneta con cavalieri e fantaccini.
Fu allora, che, prima di mettersi in viaggio, pose la figlia luogotenente suo in Vaticano. Ecco le parole del Burkard: «Prima che Sua Santità, Signor Nostro, lasciasse la città, affidò tutto il palazzo e gli affari in corso a donna Lucrezia Borgia, sua figlia, e le diede facoltà di aprire le lettere indirizzate a Sua Santità; nei casi di maggior rilievo essa doveva prender consiglio dal signor cardinale di Lisbona.
»Ora occorse non so qual caso; e dicesi Lucrezia essersi rivolta al detto cardinale, esponendogli l'incarico del Papa e l'affare. E quegli le disse: ogni volta che il [164] Papa fa delle proposte in Concistoro, il Vicecancelliere o un altro cardinale per esso suole sottoscriverle, e prendere nota delle opinioni dei votanti; così anche ora fa d'uopo che alcuno sottoscriva ciò che è stato detto. Al che Lucrezia replicò di saper benissimo scrivere. — Ov'è la vostra penna? — domandò il cardinale; Lucrezia capì lo scherzo, e sorrise; e così terminarono in modo conveniente la conferenza.»
I negozii dal Papa alla figlia affidati si riferivano realmente solo alle cose temporali, non alle ecclesiastiche. Pure procedimento così impudente non s'era visto mai. Codesta distinzione, la maggior prova di favore che il padre potesse darle, muoveva senza dubbio anche da altre ragioni. Proprio in quei giorni Alessandro era stato assicurato dell'assenso di Alfonso d'Este al matrimonio, e pel contento provatone fece Lucrezia reggente in Vaticano. Questo volle quasi significare da parte sua il riconoscimento di una persona politica nella futura duchessa di Ferrara. E imitava così l'esempio di Ercole e di molti altri principi, che, dovendo assentarsi dagli Stati loro, solevano affidarne i negozii alle mogli.
Non era stato facile al duca di vincere l'avversione del figliuolo. Perchè niente poteva tanto profondamente offendere il giovane principe, quanto il domandargli che facesse di Lucrezia Borgia la moglie sua. Non lo sgomentava già l'origine illegittima. Questa macchia non aveva gran peso in quel tempo in cui i bastardi fiorivano, ed erano per tutto in auge ne' paesi latini. Molte dinastie italiane n'erano intinte, gli Sforza, i Malatesta, i Bentivoglio, anche gli Aragonesi di Napoli. Anzi lo stesso magnifico Borso, primo duca di Ferrara, era stato fratello illegittimo di Ercole, suo successore. Se non che Lucrezia era la figlia di un Papa; era nata da un sacerdote. E in ciò, pel sentimento degli Este, stava il lato ignominoso della sua [165] origine, forse anco uno scrupolo religioso. Nè la vita licenziosa del padre, nè i delitti di Cesare potevano far calare la bilancia della morale della corte di Ferrara. Nondimeno niuna casa principesca fu giammai così corrotta da non curarsi punto della fama di una donna, che fosse destinata a divenire uno de' suoi membri più importanti.
Alfonso doveva essere il marito di una giovane, che, ancora in età di 21 anno, aveva già corso tante vicende. Due volte promessa legalmente sposa, due volte maritata, due volte per vie criminose rimasta vedova. La riputazione di Lucrezia ispirava veramente ripugnanza. E non era possibile che Alfonso, tuttochè uomo galante e mondano, credesse alla virtù sua, anche negando fede a' più turpi rumori che sul conto di lei correvano. La cronaca scandalosa di ciò che accadeva in una corte si diffondeva allora rapida, come oggidì, di corte in corte. Mercè gli agenti suoi il duca, e con lui il figlio, erano appuntino informati di quanto realmente succedeva nella famiglia Borgia, e anche di ciò che s'inventava sul conto della stessa. Gli abominevoli motivi, che l'oltraggiato Sforza aveva attribuiti al padre di Lucrezia per lo scioglimento del suo matrimonio, erano stati immediatamente riferiti al duca a Ferrara. Un anno dopo l'agente di costui in Venezia gli aveva partecipato, accertarsi da Roma che la figlia del Papa aveva partorito un bambino illegittimo.[126] Oltracciò tutte quelle satire, con le quali i nemici de' Borgia non risparmiavano nemmeno Lucrezia, erano ben note alla corte di Ferrara, e sicuramente v'erano state gustate con maligno riso. Converrà egli ora credere che gli Este reputassero quei rumori e quelle satire come appieno fondate, e che, malgrado di ciò, passando sopra all'onor loro, si fossero contentati d'introdursi in casa una Taide, invece di seguire, con pericoli [166] di gran lunga minori, l'esempio di Federigo di Napoli, che costantemente ricusò la mano di sua figlia a Cesare Borgia?
Qui è il caso di sottoporre le imputazioni di Lucrezia ad un esame, il quale per avventura sarà breve, dopo quel che con tanto successo n'è stato già detto dal Roscoe e da altri. La serie de' suoi accusatori tra i contemporanei non è piccola. Per non citare che i più notevoli, d'incesto l'hanno accusata in modo esplicito o per allusione i poeti Sannazzaro e Pontano; gli storici e politici Matarazzo, Marco Attilio Alessio, Pietro Martire, Priuli, Machiavelli e Guicciardini. Da costoro presero in prestito il giudizio loro i posteri, a venire giù giù sino al tempo nostro. Dall'altro canto stanno i lodatori di Lucrezia, contemporanei e loro successori sino al presente.
Fissiamo bene primieramente questo punto. Gli accusatori e le accuse contro Lucrezia non possono riferirsi che al periodo di sua vita in Roma; e gli ammiratori non si mostrano che nel secondo periodo, quando essa era duchessa di Ferrara. Tra questi ultimi non sono uomini meno celebri che tra gli accusatori: Tito ed Ercole Strozzi, il Bembo, Aldo Manuzio, il Tebaldeo, l'Ariosto, tutti i cronisti di Ferrara e il biografo francese del Bayard. Essi fan tutti testimonianza dell'onoratezza di quella durante il periodo di Ferrara, ma non del suo passato in Roma. Epperò il difensore di Lucrezia non può attingere da loro che prove negative. A lui convien dire che personaggi nobili, come l'Aldo, il Bembo, l'Ariosto, malgrado della loro tendenza all'adulazione cortigiana, non potevano esser mai tanto impudenti da magnificare una donna come l'ideale delle donne del tempo loro, dove l'avessero stimata colpevole o anche capace soltanto di quelle turpitudini, nelle quali poco innanzi era incorsa. In tal caso l'Ariosto stesso diventerebbe per noi un uomo abominevole.
[167]
Che se ora interroghiamo gli accusatori di Lucrezia, solo i testimoni di Roma possono avere un valore reale. Il più accanito de' nemici di quella, il Guicciardini, non appartiene al novero di costoro. Ciò ch'egli riferisce sul conto di lei non ha altrimenti determinato il giudizio dei posteri, se non perchè egli era uomo di Stato e storico famoso. Egli stesso attinse la sua opinione o alle voci che correvano o alle satire del Pontano e del Sannazzaro. E ambo questi poeti vivevano a Napoli, non a Roma. I loro epigrammi non provano che l'odio ben fondato contro Alessandro e Cesare, istrumenti della caduta degli Aragonesi, e mostrano di quanta atrocità uomini perversi come quelli potessero esser tenuti capaci.
Di molto maggior peso dovrebb'essere la parola del Burkard, osservatore quotidiano degli avvenimenti in Vaticano. Contro di lui s'è particolarmente rivolto il furore dei papisti, pe' quali egli è ancora oggi la fonte velenosa, cui i nemici del Papato, soprattutto i protestanti, avrebbero attinto le loro calunnie sul conto di Alessandro VI. Il furore si spiega. Il Diario del Burkard, oltre il giornale dell'Infessura, che già sino dagl'inizii del 1494 rimane interrotto, è l'unico scritto composto in Roma intorno alla Corte di Alessandro, ed ha al tempo stesso un carattere officiale. Ma quei, che sono usi a palliare ogni azione papale, avrebbero frenato il loro odio contro il Burkard, dove avessero conosciuto le relazioni degli ambasciatori veneti e i dispacci di tanti altri inviati, di cui qui s'è fatto tesoro.
Il Burkard è così poco malevolo da tacere tutte le relazioni intime di Alessandro. Egli nota soltanto fatti, non voci vaghe; ed anche quelli attenua o diplomaticamente vi stende sopra un velo. Non egli, ma l'ambasciatore veneto, Polo Capello, informa come Cesare Borgia pugnalasse il cameriere Perotto, che s'era rifugiato sotto il manto del [168] Pontefice. Che Cesare avesse ammazzato il fratello Gandia, lo dice apertamente lo stesso ambasciatore, e lo dice pure un agente ferrarese: il Burkard non ne fa motto.[127] Egli non parla neppure del fatto di aver Cesare spedito all'altro mondo il cognato Alfonso. Le relazioni de' membri della famiglia Borgia tra loro o con persone estranee, come i Farnesi, i Pucci e gli Orsini; tutta quella immensa rete d'intrighi nella Corte del Papa; la lunga serie di delitti commessi; le estorsioni di danaro; il mercato di cappelli cardinalizii; e tante altre cose, delle quali i dispacci degl'inviati son pieni; tutto ciò non lo apprendiamo dal Burkard. Vannozza stessa egli non nomina che una volta sola, e nemmeno sotto il suo nome esatto. Nulla di meno due luoghi soltanto di quel Diario hanno principalmente suscitata la massima irritazione: la notizia dell'orgia delle 50 cortigiane in Vaticano, e l'accusa contro i Borgia nella lettera anonima a Silvio Savelli. Questi due luoghi si trovano riprodotti in tutte le copie conosciute, e, senza dubbio, derivano dall'originale del Diario. Che la lettera a Silvio non sia invenzione del Burkard nè di protestanti male intenzionati, lo mostra il fatto, che anche Marin Sanuto l'ha inserita nel suo Diario. Che similmente nè il Burkard nè altri venuti più tardi abbiano escogitata la favola del baccanale in Vaticano, lo mostra appunto quella lettera, il cui autore vi si riferisce come a fatto conosciuto. E lo prova anche il Matarazzo da Perugia. Perchè anch'egli lo racconta, non dietro le parole del Burkard, il cui manoscritto difficilmente potè mai vedere; ma dietro notizie da lui direttamente attinte. Egli osserva di più, che a queste dava piena fede, perchè l'accaduto — dic'egli — è stato conosciuto [169] per ogni dove, e io n'ho scritto, perchè le persone che me lo hanno assicurato non sono soltanto il popolo romano, ma l'italiano.
Questa osservazione fa chiaramente scoprire la fonte dello scandaloso racconto: la tradizione popolare. Forse dovette formarsi in occasione di qualche festa data realmente da Cesare nell'abitazione sua in Vaticano. Colà un'orgia di quella natura o qualcosa di simile può bene aver avuto luogo. Pure chi oserà credere che Lucrezia stessa, già legalmente moglie di Alfonso d'Este, e in procinto di partirsi per Ferrara, abbia potuto assistervi come spettatrice col sorriso sulle labbra?
Del rimanente, quello è l'unico luogo nel Diario del Burkard, ove Lucrezia apparisca sotto luce sì brutta. In niun altro ha detto di lei nulla di disonorevole. Non si può dunque in quello cercar la conferma delle accuse dei Napoletani e del Guicciardini. E come non nel Diario, così la non si trova neppure altrove; quando non si attribuisca al Matarazzo un'autorità, cui non può pretendere. Egli racconta che Giovanni Sforza scoprisse le criminose relazioni di sua moglie con Cesare e con Don Juan; e a questa scoperta si aggiungesse un sospetto anche più orrendo; ond'egli, lo Sforza, avrebbe perciò ammazzato il Gandia e sarebbe quindi fuggito da Roma; ed in conseguenza Alessandro avrebbe fatto sciogliere il matrimonio di lui. Anche a prescindere da sì mostruosa opinione, stando alla quale la stessa donna nel tempo medesimo si sarebbe resa colpevole di un triplice incesto, il racconto del Matarazzo contiene un'inesattezza storica, perchè lo Sforza aveva abbandonato Roma già due mesi innanzi la morte del Gandia.
Il dispaccio autentico dell'inviato ferrarese in Milano, del 23 giugno 1497, ha chiarito in modo incontrastabile che l'autore vero di quelle voci su Lucrezia fu il marito ignominiosamente ripudiato. Di certo, niuno meglio di colui [170] poteva allora conoscere il carattere e la maniera di vivere di Lucrezia. Nondimeno avanti a qualunque tribunale, in ogni tempo, lo Sforza sarebbe l'ultimo de' testimoni, il deposto del quale meritasse fede. Acceso d'odio e di vendetta, attribuì all'indegno Papa quei turpissimi motivi allo scioglimento del matrimonio. E il sospetto da lui manifestato si diffuse e prese le proporzioni di una voce; e di voce in voce divenne opinione. Ma è pur singolare che Guido Postumo, il fedele partigiano dello Sforza, che vendicava l'oltraggio del suo signore con epigrammi contro Alessandro, nè abbia espresso quel sospetto, nè in generale fatto mai menzione di Lucrezia.[128]
Sospetto simile non trasparisce da alcuno de' molti dispacci contemporanei. Solo in una lettera privata presso il Malipiero da Roma del 17 giugno 1497 e nella Relazione di Polo Capello si accenna alle voci dell'oscena relazione della sorella col fratello Don Juan.[129] Sarebbero forse stati solo codesti rumori cagione, che niuno abbia giammai riferito di relazioni amorose di Lucrezia con altra persona conosciuta non fosse che di nome; tuttochè in Roma tanti cortigiani, tanti giovani baroni e cardinali licenziosi fossero quotidianamente in contatto con lei? Difatto sul conto di questa bella e giovane donna non è dato scoprire una traccia sola di un vero intrigo amoroso. Anche la voce di quell'ambasciatore, che non da Roma, ma da Venezia mandava a Ferrara la nuova, aver Lucrezia partorito un bambino, non è che una voce solitaria, che non trova riscontro di sorta. Lucrezia era allora separata già da un anno dal marito Giovanni Sforza. [171] Si ammetta pure che la voce fosse fondata, e che Lucrezia si fosse stretta in relazione d'amore con qualcuno in Roma, la cui persona ci è rimasta sconosciuta. Ma, e che forse relazioni e passi falsi di tal natura non sono frequenti abbastanza nella società di ogni tempo? Anche oggi siam facili a perdonarli soprattutto nelle classi elevate.
Niuno può indursi a credere che Lucrezia Borgia, in mezzo alla corruzione romana e in quella cerchia di persone cui apparteneva, potesse mantenersi immacolata. Ma dall'altra parte niun uomo spregiudicato avrà animo di affermare che siasi resa colpevole di quelle turpitudini senza nome. Se si suppone possibile nella natura di una giovane l'inconcepibile forza, di cui l'uomo più dissoluto e più rotto al vizio appena è capace, di saper, cioè, nascondere l'intimo disfacimento morale, che in tutto l'essere spirituale il più infame dei delitti non può non generare, di nasconderlo, dico, sotto la maschera di una grazia sorridente; bisognerebbe allora dire che Lucrezia Borgia nel magistero della ipocrisia abbia posseduto potenza trascendente ogni limite dell'umano. Ma nulla entusiasmava tanto i Ferraresi quanto la grazia sempre serena e gioviale della sposa di Alfonso. Ogni donna sensibile può giudicare se fosse Lucrezia in grado di manifestarsi in tal guisa, posto che covasse nell'animo tanta colpa; e se il viso della moglie di Alfonso d'Este, nell'effigie del 1502, potesse esser quello della inumana furia nell'epigramma del Sannazzaro.
Lotte durissime ebbe a sostenere il principe erede di Ferrara prima di cedere alle insistenze del padre. E questi insisteva pel matrimonio con tanta fermezza da dichiarargli, che dovrebbe risolversi ad unirsi egli stesso con [172] la Lucrezia ove il figlio s'ostinasse nel diniego. E quando il figlio ebbe consentito, quando l'orgoglio del duca fu ridotto al silenzio, Ercole riguardò il matrimonio puramente come un vantaggioso affare di Stato. Egli vendette l'onore della casa sua al più alto prezzo possibile. Gli agenti papali in Ferrara, spaventati dalle sue esigenze, mandarono Raimondo Romolini per darne a Roma contezza. E Alessandro impetrò la mediazione del re di Francia per ottenere condizioni più miti. Una lettera dell'ambasciatore di Ferrara in Francia è il mezzo migliore per chiarirci su questo punto:
«Illustrissimo Signor mio.
»Ieri l'ambasciatore del Papa mi disse, avergli Sua Santità scritto come Vostra Eccellenza abbia mandato un messo in Roma, domandando 200,000 ducati, l'affrancamento dall'annuo canone, la concessione del giuspatronato pel Vescovado di Ferrara mercè decisione concistoriale, e molte cose altre. Aggiunse aver il Papa offerto 100,000 ducati. Quanto al rimanente, dover Vostra Eccellenza fidare in lui, che col tempo le concederà quel che vuole e solleverà tanto alta la casa degli Este, che ciascuno dovrà riconoscere l'amor suo per la stessa. Mi disse inoltre essere stato incaricato di pregare Sua Maestà Cristianissima, perchè scriva all'Illustrissimo Cardinale, e voglia questi esortare l'Eccellenza Vostra a contentarsi di tali offerte. Qual fedel servitore di Vostra Eccellenza ricordo all'uopo, benchè sia superfluo, che dove tal matrimonio abbia a farsi, ella lo concluda in guisa tale e con tanta sicurezza, che la lunga promessa con l'attender corto non abbia poscia a farnela pentire. In altra lettera ho partecipato a Vostra Eccellenza, come il Re Cristianissimo m'abbia detto, che in questo affare egli null'altro vuole che il volere di Vostra Eccellenza. Onde, se la cosa deve farsi, ella cerchi cavarne il maggior profitto possibile; ma se [173] non può farsi, Sua Maestà è sempre pronto a dare a Don Alfonso quella dama, la cui mano l'Eccellenza Vostra voglia per lui richiedere in Francia. — Di Vostra Ducale Eccellenza servitore Bartolomeo Cavaleri. Lione, 7 agosto 1501.»
Alessandro non voleva mandar la figlia a Ferrara a mani vuote. Ma la dote, che Ercole esigeva, era troppo; era più grossa ancora di quella che Bianca Sforza aveva portata all'imperatore Massimiliano, e ledeva troppo vivamente le leggi canoniche. Perchè, oltre l'ingente somma di danaro, il duca domandava l'esonerazione dall'annuo tributo verso la Chiesa pel feudo di Ferrara; la cessione di Cento e di Pieve, città appartenenti all'Arcivescovado di Bologna; la cessione pure di Porto Cesenatico; e gran numero di benefizii in favore della famiglia Este. Le negoziazioni fervevano; pure tanto forte era il desiderio del Papa di assicurare alla figliuola il trono del Ducato di Ferrara, che si dichiarò pronto ad annuire in massima alle esigenze di Ercole. Alla qual cosa lo indusse anche l'avviso di Cesare.[130] Lucrezia stessa non faceva meno pressa intorno al padre, perchè cedesse. Da quel tempo in poi essa fu il miglior avvocato del duca in Roma. Ed Ercole riconosceva, che principalmente alla sagacia di lei si doveva se era riuscito nelle pretensioni sue.
Le negoziazioni presero sì prospero avviamento alla fine del luglio o sui primi d'agosto. E di questo tempo sono le prime lettere del duca a Lucrezia e al Papa, conservate nell'Archivio di Stato di casa d'Este.
Il 6 agosto Ercole scrisse alla futura nuora, che le raccomandava Agostino Huet — un segretario di Cesare — come [174] agente, che nel condurre le negoziazioni aveva mostrato il più premuroso fervore.
Il 10 agosto espose al Papa sin dove fossero procedute le pratiche, e pregavalo di non trovar eccessive le sue domande. Ripetè lo stesso in altra lettera del 21, dove, con un fare da mercatante, le metteva in risalto, mostrandole di piccolo e quasi di niun momento.
Frattanto la notizia del divisato matrimonio s'era sparsa pel mondo e divenuta motivo a riflessioni diplomatiche. Imperocchè nè alle potenze d'Italia nè alle straniere poteva far comodo che il Papato s'aggrandisse tanto. Firenze e Bologna, alla cui conquista Cesare mirava, vivevano in sospetto. La Repubblica di Venezia, in continua tensione con lo Stato di Ferrara ed agognante alle coste della Romagna, non dissimulava il suo malumore, anzi attribuiva tutto il disegno all'ambizione di Cesare.[131] Il re di Francia mostravasi contento della cosa, solo perchè non poteva stornarla; altrettanto faceva la Spagna. Ma Massimiliano ne fu così irritato, che cercò impedire il matrimonio. Ferrara cominciava appunto a toccare quell'importanza politica, che aveva avuta Firenze al tempo di Lorenzo dei Medici. E da qualsiasi parte si schierasse, era quindi cosa di troppo peso; ed all'imperatore germanico non poteva essere indifferente la stretta unione di tale Stato col Papato e con la Francia. Oltracciò moglie di Massimiliano era Bianca Sforza; e altri membri e partigiani della caduta casa, nemici accaniti de' Borgia, vivevano alla Corte tedesca.
L'imperatore mandò nell'agosto lettere a Ferrara, con le quali sconsigliava Ercole dall'imparentarsi col Papa. Questa manifestazione di Massimiliano non poteva che giungere desiderata ad Ercole. Mercè quella, poteva esercitar pressione sul Papa. E difatto ne diede a costui comunicazione, [175] assicurandolo però di essere irremovibile nella presa determinazione. Quindi incaricò il suo consigliere Gianluca Pozzi di rispondere all'imperatore.[132] La lettera di Ercole al suo cancelliere porta la data del 25 agosto; ma, prima ancora che il contenuto di essa fosse noto a Roma, il Papa s'era affrettato ad accettare le condizioni del duca e a concludere il contratto matrimoniale. Il che ebbe luogo con atto legale stipulato in Vaticano il 26 agosto 1501.[133]
Senza ritardo il Papa lo trasmise ad Ercole per mezzo del cardinal Ferrari. Don Ramiro Romolini con altri procuratori andaron subito a Ferrara.[134] Ivi, nel Castello di Belfiore, fu il primo settembre 1501 concluso ad verba il matrimonio.
Il giorno stesso il duca scrisse a Lucrezia, che se insino allora l'aveva amata per le virtù sue e anche per riguardo al Papa e al fratello Cesare, ora invece l'amava più che figlia. In termini altrettanto espansivi scrisse pure ad Alessandro. Gli comunicò la conclusione del matrimonio, e lo ringraziò pel conferimento della dignità di Arciprete di San Pietro al cardinale Ippolito suo figlio.[135]
Meno diplomatico fu il linguaggio di Ercole nella lettera, con la quale dava partecipazione del fatto al marchese Gonzaga. Vi faceva chiaramente trasparire la sua freddezza; e scusavasi insieme di essere stato costretto a quel passo.
«Illustre Signore e fratello nostro amatissimo.
[176]
»Significammo a Vostra Eccellenza la risoluzione presa a' dì passati di acconsentire ad attendere alle pratiche pel parentado con Sua Santità, togliendo la illustrissima Donna Lucrezia Borgia, sorella dell'illustrissimo Duca di Romagna e Valenza, per moglie del nostro primogenito Don Alfonso. A ciò ci spinsero principalmente le esortazioni di Sua Maestà Cristianissima; sempre che però fossimo d'accordo con Sua Santità su tutte le particolarità spettanti al matrimonio stesso. Ora, essendosi tale affare trattato, Sua Santità e Noi siamo restati concordi; e il Re Cristianissimo ha continuato a farci istanza che si venga alla conclusione del matrimonio, per mezzo degli ambasciatori francesi e procuratori di Sua Beatitudine. E questa mattina si è fatta la pubblicazione. Di che m'è parso dare incontanente avviso all'Eccellenza Vostra, perchè l'intima unione e l'amore reciproco fa che ella prenda interesse e partecipi a tutto ciò che ci riguarda. E così al beneplacito suo ci offriamo sempre pronti.
»Ferrara, 2 settembre 1501.»[136]
Il 4 settembre un corriere portò la nuova che il contratto di matrimonio era stato sottoscritto a Ferrara. Alessandro fece immediatamente tirare colpi di cannone da Castel Sant'Angelo e illuminare il Vaticano. Tutta Roma risuonò delle grida di gioia de' partigiani di casa Borgia.
Questo momento fu il punto culminante nella vita di Lucrezia. Se ambizione e brama di mondana grandezza albergavano nell'anima sua, oramai aveva la certezza di salire su uno de' più antichi troni principeschi d'Italia. Che se invece rimorso e avversione per tutto ciò che in Roma la circondava, ed aspirazione ad uno stato migliore erano in lei più forti di quei vanitosi sentimenti, oramai un tranquillo porto le s'apriva d'innanzi. Essa diventava moglie [177] di un principe, che non aveva fama di uomo geniale e finamente colto, ma di pratico e amante della pace. Lo aveva visto nella sua prima gioventù, quando quegli venne a Roma ed ella era la promessa dello Sforza. Nessun sacrifizio forse le sarebbe parso troppo duro, pur di cancellare le rimembranze di quei nove anni nell'intervallo trascorsi. La vittoria ch'ella ora, grazie all'assentimento di casa d'Este, aveva riportata, andava congiunta con una profonda umiliazione. A lei non era ignoto che Alfonso, solo dopo lunga resistenza e costretto, s'era lasciato andare ad accettarne la mano. Una donna audace e di spirito intrigante sarebbe passata sopra a siffatta umiliazione, forte nella coscienza del suo genio e delle arti sue. Altra, anche meno forte, ma bella e dotata di grazia, avrebbe potuto provare grande attrattiva all'idea di disarmare un uomo ricalcitrante, mercè il fascino della sua persona. Ma la questione, se fosse dell'onor suo maritarsi con un uomo, che non l'aveva voluta per libera elezione, ovvero, se l'orgoglio di una donna nobile non dovesse respingere un matrimonio in condizioni simili; codesta questione, una donna vana come Lucrezia, forse non se la pose mai; o se lo fece, certo, nè Cesare nè il padre le consentirono di esternare un dubbio così poco diplomatico. Noi non scopriamo in lei alcuna traccia d'orgoglio morale. Vediamo soltanto i segni di una gioia fanciullescamente ingenua per la fortuna che le era toccata.
Il 5 settembre fu vista per Roma con 300 cavalieri e quattro vescovi. Andò a render grazie in Santa Maria del Popolo. E, secondo il curioso costume del tempo, quando, come ne' drammi del Calderon e dello Shakspeare, col serio s'innestava sempre il comico, Lucrezia regalò il prezioso vestito, col quale era stata a pregare, al suo giullàre di corte. Ed il buffone, giubilando per le vie di Roma, gridava: «Viva la illustrissima duchessa di Ferrara! Viva [178] il papa Alessandro!» Il grande avvenimento fu festeggiato da' Borgia e da' partigiani loro con clamorose dimostrazioni.
Alessandro raccolse un Concistoro, quasi questa faccenda di famiglia fosse un importante affare della Chiesa. Lodò con ostentazione infantile il duca Ercole, chiamandolo il più grande e il più savio principe d'Italia; lodò anche Don Alfonso, uomo più bello e più possente di suo figlio Cesare, e che per prima moglie aveva avuto la sorella dell'imperatore. Disse Ferrara essere uno Stato prospero, e la casa d'Este antica. Disse anche verrebbe ben presto a Roma un corteo nuziale di signori a prendere la sposa, e che questa sarebbe accompagnata dalla duchessa di Urbino.[137]
Cesare Borgia il 14 settembre ritornò da Napoli, dove Federigo, ultimo re di quel paese della casa d'Aragona, aveva dovuto arrendersi alla Francia. Con soddisfazione rivide la Lucrezia già qual futura duchessa di Ferrara. Il 15 giunsero gl'inviati di Ercole, Saraceni e Bellingeri. Essi dovevano adoperarsi, perchè gli obblighi dal Papa assunti fossero adempiuti il più presto possibile. Il duca non si fidava di lui: egli era uomo pratico. Non intendeva mandare il corteo per la sposa prima di aver nelle mani le Bolle. Lucrezia appoggiava gl'inviati con tanto calore, che il Saraceni scriveva al suo signore, quella parergli già essere ottima ferrarese.[138] Ella assisteva alle negoziazioni in Vaticano, nelle quali Alessandro, a dimostrare la sua abilità linguistica, a volte si serviva senza intoppo del latino. Un giorno, per riguardo alla figlia, comandò di adoperare l'italiano. Il che prova che Lucrezia nel latino non era forte abbastanza.
[179]
Da' dispacci degl'inviati risulta che in Vaticano si era di molto buon umore. Colà canti, suoni e balli ogni sera. Uno de' più grandi diletti per Alessandro era assistere alla danza di belle donne. E quando Lucrezia e le dame di corte ballavano, ei soleva introdurre gl'inviati di Ferrara perchè ammirassero la bellezza di sua figlia. Sorridendo, diceva loro una sera, che voleva avessero visto la duchessa non essere zoppa.[139]
Fu instancabile nel passare così le notti; mentre insino Cesare, giovane e rigoglioso, ne fu stanco. Quando questi si degnò concedere udienza agl'inviati, grazia che, come scrivevano a Ferrara, appena i cardinali potevano ottenere, gli ricevette vestito, ma stando a letto. E al proposito il Saraceni notava nel suo dispaccio: «Temevo ch'ei fosse malato, avendo iersera ballato senza smetter mai; e anche oggi farà altrettanto dal Papa, presso il quale l'illustrissima Duchessa va a cena.»[140] Fu per Lucrezia un sollievo, che il Papa per alcuni giorni andasse a Civitacastellana e Nepi. Il 25 settembre gl'inviati scrivevano a Ferrara: «Questa illustrissima Madonna continua ad essere un po' indisposta e a sentirsi molto debole. Malgrado di ciò, non prende medicine, nè tralascia la trattazione degli affari, e dà udienza come di solito. Noi crediamo che l'indisposizione non avrà altra conseguenza, perchè sua Eccellenza si riguarda. Anche la quiete in questi giorni, in cui Sua Santità sarà assente, le farà bene; perchè sin qui, ogni volta che Sua Eccellenza andò dal Papa, si fece musica e ballo sin verso le 2 o le 3 della notte, e questo le ha fatto molto danno.»[141]
Un affare penoso, di cui il Papa ebbe allora ad occuparsi [180] con gl'inviati, riguardava Giovanni Sforza, l'espulso e divorziato marito di Lucrezia. Che cosa si temesse da lui, lo dice questo dispaccio ad Ercole:
«Illustrissimo Principe ed eccellentissimo Signor nostro. — Poichè Sua Santità il Papa prende in debita considerazione le cose che potrebbero cagionare dispiacere all'animo non solo di Vostra Eccellenza e dell'illustrissimo Don Alfonso, ma altresì della signora Duchessa e anche al suo proprio, così ci ha incaricati di scrivere a Vostra Eccellenza e avvertirla a fare in guisa, che il signor Giovanni di Pesaro, che, come all'Eccellenza Vostra è stato riferito, è in Mantova, non abbia a ritrovarsi in Ferrara al tempo delle nozze. Imperocchè, comunque la separazione di lui dalla nominata signora Duchessa sia assolutamente legittima e compiuta conforme alla pura verità, come pubblicamente consta non solo pel processo fatto in questa causa, ma anche per la libera confessione di esso Don Giovanni; nulladimeno un residuo di mal animo potrebbe pur forse essergli sempre addentro rimasto. Per il che, trovandosi in luogo, ove la detta Signora potesse essere da lui veduta, Sua Eccellenza sarebbe perciò costretta a sequestrarsi in qualche camera, onde le cose passate non abbiano a tornarle in mente. Egli quindi esorta Vostra Eccellenza a voler provvedere a ciò con la solita sua prudenza. Poscia Sua Santità entrò a parlare degli affari del signor marchese di Mantova, rimproverando acremente a Sua Eccellenza che soltanto essa désse asilo e spettacolo di gente fallita e bandita non solo dal Papa, ma anche dal Re Cristianissimo. Per verità, noi ci sforzammo di scusare il signor Marchese, dicendo che, liberalissimo com'egli è, si sarebbe vergognato di negare adito nelle terre sue a quei che vi riparavano, massime a signori. E per corroborare la nostra tèsi ci servimmo di tutte le parole più accomodate al caso. Nulladimeno Sua [181] Santità non parve restar ben soddisfatta delle nostre scuse. Per conseguenza l'Eccellenza Vostra intenda il tutto, e nella prudenza sua impartisca gli ordini che stimerà espedienti e al proposito. E così umilmente ci raccomandiamo alla grazia di Vostra Eccellenza.
»Roma, 23 settembre 1501.»[142]
Dietro le premure di Ercole il 17 settembre fu portata innanzi al Concistoro la quistione circa la diminuzione del canone di Ferrara da 400 ducati a 100 fiorini. Si temeva una vigorosa opposizione. Alessandro espose tutto quello che Ercole aveva fatto per Ferrara: la fondazione di chiese e monasteri, e soprattutto l'aver fortificato la città; cosicchè quella era diventata un baluardo dello Stato della Chiesa. I cardinali erano stati favorevolmente predisposti dal cardinale di Cosenza, creatura di Lucrezia, e da messer Troche, il confidente di Cesare. Consentirono alla diminuzione; e il Papa gli ringraziò, lodando specialmente i più anziani, mentre i più giovani, sue proprie creature, si eran pure mostrati più renitenti.[143]
Il giorno stesso fu presa una decisione intorno a' possedimenti strappati ai baroni da lui proscritti il 20 agosto. Questi beni, che comprendevano una gran parte della Campagna Romana, furono divisi in due territorii. L'uno ebbe per centro Nepi; l'altro Sermoneta: luoghi, a' quali Lucrezia, che n'era signora, quindi innanzi rinunziava. Alessandro investì de' due ducati i due bambini Giovanni Borgia e Rodrigo. Del primo di questi egli aveva innanzi attribuito la paternità al figlio Cesare; ma poi apertamente dichiarò esserne padre egli stesso.
Quasi non si presterebbe fede a tanta impudenza senza esempio. Pure i documenti stan lì: due Bolle indirizzate [182] all'amato figliuolo, il Nobile Giovanni De Borgia e Infante romano: entrambi sotto la data del primo settembre 1501. Nel primo Alessandro dichiarava Giovanni, bambino di tre anni, esser figlio illegittimo di Cesare Borgia, di uomo celibe (e celibe difatti era ancora alla nascita di quello) e di donna celibe del pari. Per potestà apostolica lo legittimava e investiva di tutti i diritti de' suoi parenti. Nel secondo poi, riferendosi alla legittimazione concessa al bambino qual figliuolo di Cesare, diceva esplicitamente: «Poichè tu porti questa mancanza (di origine legittima) non dal detto duca (Cesare), ma da noi e dalla indicata donna celibe, ciò che noi per buone ragioni non abbiamo voluto esprimere nello scritto precedente, così volendo che giammai quello scritto non sia notato di difetto d'intenzione e di vizio di nullità, volendo provvedere che nel corso del tempo tu non abbia ad esser molestato, e volendo anche mostrarti speciale favore; non per istanza che tu n'abbia fatta, ma per nostra spontanea risoluzione e liberalità, e nella coscienza della piena potestà ed autorità nostra, confermiamo e ratifichiamo mercè il presente tutto quanto in quell'altro scritto è contenuto.» Rinnovava quindi la legittimazione, dichiarando che ove il bambino suo, legittimato come figliuolo di Cesare, fosse in avvenire in scritture o atti di qualunque natura nominato anche e designato come tale, e si servisse altresì dell'arme di Cesare, non avrebbe da ciò a venirgli pregiudizio d'alcuna sorta; che invece tutti simili atti dovrebbero avere la stessa forza giuridica come se il bambino fosse designato nella scritta di legittimazione qual proprio figlio suo e non di Cesare.[144]
Sembrerà strano che i due documenti siano stati emanati [183] lo stesso giorno. Ma si spiega. Le leggi canoniche proibivano al Papa di riconoscere un suo proprio figlio. Alessandro quindi cercò cavarsi d'imbarazzo, asserendo una menzogna nella prima Bolla. Per tal mezzo rendevasi possibile la legittimazione del bambino, ovvero l'investirlo di diritti legittimi. Data poi una volta alla bugia la forza di documento, potè il Papa, senza ulteriore riserva, per riguardo al figliuolo, dire la verità e sostituirla in luogo di quella.
Cesare il primo settembre 1501 non era in Roma. Anche forse un uomo par suo avrebbe arrossito di suo padre, che faceva del figlio un rivale nel diritto di proprietà su un bastardo. Il piccolo Giovanni Borgia passò difatto più tardi, dopo la morte di Alessandro, per figliuolo di Cesare; ma anche il Papa lo designò come tale in alcuni Brevi.[145]
È ignoto chi fosse la madre del misterioso bambino. Il Burkard dice solo: una certa romana. Se Alessandro, che la chiamava donna celibe, dicesse la verità, il pensiero di Giulia Farnese sarebbe escluso. Ma potrebbe anch'essere che la seconda asserzione del Papa fosse similmente una menzogna, e che il romano Infante non fosse figlio di lui, ma fosse un bambino illegittimo di Lucrezia. Si ricorderà che nel marzo 1498 un inviato ferrarese informava il duca Ercole, assicurarsi in Roma che la figliuola del Papa aveva partorito un bambino. Questa data concorda pienamente con l'età dell'infante Giovanni nel settembre 1501. I due documenti relativi alla legittimazione di lui, serbati oggi nell'Archivio d'Este, provenivano dalla Cancelleria di Lucrezia, o perchè la stessa gli portò seco da Roma a Ferrara, o [184] perchè più tardi se ne impossessò. L'Infante infine noi lo incontreremo alla corte di quella in Ferrara, però come suo fratello. Tutti questi fatti potrebbero indurre a pensare, che il misterioso Giovanni Borgia sia stato un figlio di Lucrezia. Pure questa opinione non ha che la forza di una mera ipotesi.
Codesto fanciullo adunque ricevette la città di Nepi come ducato, con altri 36 paesi.
L'altro territorio, col Ducato di Sermoneta e con 28 castella, fu assegnato al piccolo Rodrigo, unico figlio di Lucrezia con Alfonso d'Aragona. L'esistenza di questo bambino in mezzo alle nuove condizioni era per lei, la madre, un manifesto imbarazzo, non volendo o non potendo condurre a Ferrara un figliastro. Ad onor suo ci piace credere ch'ella fosse costretta ad affidare in mani estranee il suo legittimo figliuolo. Pare però che l'obbligo non le sia stato imposto da Ferrara. Difatto l'inviato Gerardi, dando notizia il 28 settembre al suo signore di una visita a madonna Lucrezia, scriveva: «Poichè il figliuolo di lei era presente, colsi abilmente l'occasione per domandarle che cosa n'avrebbe fatto; ed ella mi rispose: resterà a Roma, e avrà la sua rendita di 15,000 ducati.»[146] E in realtà si provvide al piccolo Rodrigo largamente. Fu messo sotto la tutela di due cardinali, del patriarca di Alessandria e di Francesco Borgia, arcivescovo di Cosenza. Venivano a lui le entrate di Sermoneta, e anche quelle di Bisceglie, eredità del suo infelice padre. Perchè il 7 gennaio 1502 il re Ferdinando e la regina Isabella di Castiglia diedero facoltà al loro ambasciatore in Roma, Francesco de Roxas, di confermare in persona di Rodrigo il possesso del Ducato di Bisceglie e della città di Quadrata. E, secondo questo atto, i titoli suoi erano: Don Rodrigo Borgia di [185] Aragona, duca di Biselli e Sermoneta e signore di Quadrata.[147]
Lucrezia era impaziente di lasciar Roma, che, come diceva agl'inviati di Ferrara, le sembrava una prigione. Il duca a volta sua non era meno di vedere terminato questo negozio. Ma la spedizione della nuova Bolla d'investitura si faceva aspettare. E la cessione di Cento e di Pieve non poteva aver luogo senza il consentimento del cardinale Giuliano Della Rovere, che viveva in Francia ed era arcivescovo di Bologna. Ercole quindi tratteneva l'invio del corteo nuziale, abbenchè la stagione, che si avanzava nell'inverno, divenisse sempre meno prospera per un viaggio così difficoltoso. Tutte le volte che Lucrezia vedeva gl'inviati di Ferrara, gl'interrogava quando verrebbe il corteo per condurla via. Ella faceva ogni sforzo per togliere le difficoltà. È vero che i cardinali tremavano innanzi al Papa e a Cesare; pure temporeggiavano prima di sottoscrivere quella Bolla, mercè la quale la Chiesa perdeva il canone di Ferrara. E per lo meno non volevano estendere l'esenzione a tutta la discendenza di Alfonso e di Lucrezia, ma concederla tutt'al più sino alla terza generazione. Il duca scrisse premurosamente al cardinale di Modena e a Lucrezia, la quale finalmente nell'ottobre venne a capo della cosa, e se n'ebbe altissime lodi dal suocero. Appunto della prima metà di ottobre vi sono molte lettere sue al duca e di questo a lei. Esse mostrano la crescente fiducia che si stabiliva fra i due. Evidentemente Ercole cominciava a riconciliarsi con questo matrimonio, [186] causa una volta per lui di tanto disgusto. Nella nuora egli scopriva più intendimento di quello che aveva supposto. Essa gli scrisse pure una lettera piena di adulazione, soprattutto quando sentì che il duca era indisposto. Ed Ercole la ringraziò di avergli scritto di propria mano, nel che vedeva una particolar prova di affezione.[148]
Ad Ercole stesso gl'inviati riferirono: «Quando abbiamo annunziato alla illustrissima duchessa la malattia di Vostra Eccellenza, Sua Altezza mostrò il più grande dolore; impallidì e restò un pezzo sopra pensiero. Le rincresceva molto di non trovarsi a Ferrara per curare con le proprie mani la Eccellenza Vostra, quando ella lo avesse gradito. Così pure, allorchè cadde la sala nel Vaticano, curò essa per 14 giorni Sua Santità, e non trovò in quel tempo mai pace, non volendo il Papa esser trattato che per mano di lei.»[149]
Era naturale che la malattia del suocero spaventasse Lucrezia. La morte di lui avrebbe, se non fatta svanire, sicuramente differita l'unione sua con Alfonso. E di più essa non aveva alcuna prova che l'avversione del futuro marito fosse cessata. In tutto questo periodo non troviamo alcuna lettera d'Alfonso a lei, nè di lei ad Alfonso. Un silenzio sì intero è per lo meno singolare. In maggiore apprensione ancora doveva cader Lucrezia al pensiero che il padre potrebbe morire. Questa morte sarebbe, senza alcun dubbio, stata la risoluzione del matrimonio con Alfonso. Alessandro ammalò in effetto poco dopo la malattia d'Ercole. Si tirò addosso un'infreddagione, e ne perdette un dente. Per impedire che giungessero a Ferrara voci esagerate, fece chiamare l'inviato del duca e gli ordinò di scrivere al suo signore che l'indisposizione sua era di lieve conto. «Se il duca fosse qui,» disse il Papa, «vorrei, [187] con tutta la mia faccia fasciata, invitarlo a venir meco a cacciare un cignale.» E l'inviato osservava nel dispaccio che il Papa, per riguardo alla salute sua, meglio farebbe di non lasciare il palazzo prima del far del giorno per non rientrarvi poi che verso notte. Perchè appunto codeste erano le sue cattive abitudini; e s'era anche cercato con amorevoli modi di farglielo intendere.[150]
D'ogni banda giungevano felicitazioni ad Ercole e al Papa. Cardinali e ambasciatori magnificavano nelle lettere la bellezza e la sagacia di Lucrezia. L'ambasciatore spagnuolo la lodava con espressioni infinite; ed Ercole lo ringraziava per questa testimonianza resa alla nuora delle virtù di lei.[151] Anche il re di Francia esternava il suo estremo contento per un avvenimento, che, come ora riconosceva, avrebbe arrecato il massimo giovamento allo Stato di Ferrara. Nel Concistoro il Papa, tutto raggiante di gioia, diè lettura delle felicitazioni mandategli da quel monarca e dalla moglie. Luigi XII era sceso insino a mandar lettera a madonna Lucrezia, in piedi della quale aveva messo due parole autografe. Alessandro ne fu tanto entusiasmato, che mandò a Ferrara copia dello scritto. Solo dalla Corte di Massimiliano nulla di tutto ciò. L'imperatore, invece, se ne mostrava tanto stizzito, che Ercole ebbe a concepirne inquietudine, come ce lo fa sapere questa lettera a' due suoi ambasciatori in Roma:
«Il Duca di Ferrara, ec. Amatissimi nostri. — Noi non abbiamo più nulla significato a Sua Santità, Signor Nostro, circa l'attitudine dell'eccellentissimo Re de' Romani verso di lui, dappoi che messer Michele Remolines si partì di qua, perchè non sapemmo intorno a ciò nulla di certo. Ma ora da persona degna di fede, con la quale il detto re avrebbe discorso, ci si dice, che Sua Maestà è molto incollerita, [188] e s'esprime contro Sua Santità in tono di vivissimo biasimo; e riprova anche il parentado che noi con la stessa abbiam concluso; il che per altro aveva già fatto con lettere a noi dirette, prima della conclusione del matrimonio, sconsigliandoci da quella unione, siccome vedrete dalle copie di tali lettere. Noi ve le mandiamo qui alligate. Esse furono mostrate e date a leggere agli ambasciatori di Sua Santità che sono qui. Ora, tuttochè noi, per quel che ci riguarda, non diamo gran peso alla opinione di Sua Maestà, poichè siamo stati mossi da ragionevoli motivi, e ogni di più ce ne sentiamo soddisfatti; nulladimeno ci pare conveniente, per rispetto al nostro parentado con Sua Santità, e affinchè la stessa secondo la saggezza sua si formi un giudizio sulla indicata dimostrazione, di esternarle su ciò l'opinione nostra. Noi siamo convinti che Sua Santità nella sua saviezza saprà bene esaminare e discernere fino a qual punto il malumore di Sua Maestà debba essere preso in considerazione.
»Voi quindi comunicherete tutto a quella e le farete anche vedere le copie, se ciò vi sembra conveniente. Ma in nome nostro dovete pregarla di non chiamar noi in colpa di ciò, anche nel caso, in cui per gravi motivi facessimo giungere le dette copie in altre mani. — Ferrara, 23 ottobre 1501.»
Il duca non istette più ad oscillare. Già sui primi di ottobre aveva scelto i componenti del corteo, la cui partenza però da Ferrara fece ancora dipendere dal seguito delle negoziazioni sue col Papa. Fissare all'uopo le persone sì ferraresi come romane fu questione d'altissima importanza, sulla quale ci porge schiarimenti un dispaccio di Gerardo del 6 ottobre:
«Illustrissimo Signore, ec. — Oggi, 6, Ettore ed io fummo soli dal Papa con le lettere di Vostra Signoria, del 26 del passato mese e del primo del corrente, e con la lista [189] della comitiva. Questa è molto piaciuta a Sua Santità; parendole onorevolissima e ricca, massime perchè vi sono esattamente specificate condizione e qualità delle persone. Come ho inteso da ottima via, Vostra Eccellenza ha in ciò superato il credere del Papa. Dopo esserci alquanto fermati a parlare con Sua Santità, questa, come Vostra Signoria intenderà per le cose infrascritte, fece chiamare l'illustrissimo duca di Romagna e il cardinale Orsini. Erano anche presenti monsignor di Elna, monsignor Troche e messer Adriano. Il Papa volle che la lista fosse letta di nuovo, e fu ancor più commendata, particolarmente dal duca, il quale dimostrò aver conoscenza di parecchie delle persone nominate. Egli la ritenne anche; e gli fu gratissimo che io gliela rendessi, volendo egli restituirmela.
»Noi procurammo di avere la lista della comitiva, che dovrà venire con l'illustrissima duchessa; ma non è ancora in ordine. Sua Santità dice che vi saranno poche dame, per essere queste Romane selvatiche e male atte a cavallo. Sinora la duchessa ha presso di sè 5 o 7 donzelle da marito, 4 fanciulle e 3 dame anziane; e queste resteranno con lei. Forse se ne aggiungerà qualche altra. Ma s'è cercato con destrezza di distogliercela, dicendole che troverebbe infinite dame d'onore in Ferrara. È con lei puranche una madonna Geronima, sorella del cardinale Borgia, maritata con un Orsini. Costei le farà compagnia con tre donne. Altre sin qui non vi sono. Credo, come han detto, si sforzeranno ritrovarne persino a Napoli; ma pensano poterne aver poche, e solo per accompagnare la duchessa. La duchessa d'Urbino ha fatto intendere che verrebbe con 50 cavalli. Di uomini anche Sua Santità dice esservene carestia, per non trovarsi in Roma altri signori che gli Orsini, e anche questi per la maggior parte esser fuori. Pure spera raccoglierne buon numero, soprattutto se il duca di Romagna non andrà in campo; mentre al seguito [190] suo trovansi altri gentiluomini. Sua Santità dice che di preti e gente dotta avrebbe da mandare abbastanza; ma non di persone meglio adatte. Del resto, la comitiva che manderà la Signoria Vostra supplirà per l'uno e per l'altro, tanto più che, a detta di Sua Santità, è consuetudine che la grande comitiva sia mandata dallo sposo, e che la sposa invece non vada che con pochi. Ad ogni modo, a quel che ho presentito, non mancheranno meno di 200 uomini a cavallo. Circa la via, che a Sua Signoria converrà fare, il Papa è ancora dubbioso. Egli vorrebbe che passasse per Bologna; e dice che anche i Fiorentini l'avevano invitata. Comunque Sua Santità non abbia ancora presa una decisione, pure la duchessa affermò si farebbe la via della Marca, e che avendo il tutto comunicato al Papa, questi erasi deliberato appunto in tal senso. Forse egli potrà desiderare ch'essa vada a Bologna attraverso le terre del duca di Romagna.
»Relativamente al desiderio di Vostra Eccellenza, che un cardinale accompagni la duchessa, Sua Santità oppose non sembrarle onesto che un cardinale qualunque si parta da Roma a tale scopo. Ma ha scritto al cardinale di Salerno, legato nella Marca, di pigliare il cammino verso le terre del duca di Romagna e di aspettar lì per far poi compagnia alla duchessa a Ferrara e cantare la Messa sponsalizia. Egli crede che il cardinale non mancherà di farlo, quando il suo stato non sano non glielo impedisca. Ma, ove così fosse, Sua Santità forse provvederebbe con un altro....
»Intendendo in questi ragionamenti Sua Santità, che non avevamo potuto avere udienza dall'illustrissimo duca, se ne mostrò spiacentissimo, e disse che Sua Signoria aveva codesto vizio; e che gli ambasciatori di Rimini erano qui da due mesi, senza aver mai potuto parlare con lui; che era suo solito far del giorno notte e della notte giorno. [191] Questo modo di vivere le rincresceva sino al cuore, e non sa se Sua Signoria riuscirà a conservare il conquistato. In quella vece lodò l'illustrissima duchessa, come donna prudente e facile a prestare udienza, e, ove bisogni, anche a prodigar carezze. Fece altissimi elogii di lei e dell'aver governato il Ducato di Spoleto con la maggior grazia del mondo. Insomma la magnificò moltissimo, e disse che, anche allorchè trattava qualcosa con lui, il Papa, Sua Signoria sapeva molto ben vincere la partita. Credo che Sua Santità parlasse così, più con l'intenzione di dir bene di lei — come mi pare meriti — che per dir male dell'altro; abbenchè il linguaggio suo mostrasse il contrario. E continuamente mi raccomando a Vostra Eccellenza. — Roma, 8 ottobre.»
Il Papa lasciava raramente sfuggire l'occasione di lodar la bellezza e l'accorgimento della figliuola. Stabiliva raffronti tra lei e le donne d'Italia allora più famose, la marchesa di Mantova e la duchessa d'Urbino. Un giorno parlò anche agl'inviati di Ferrara dell'età di lei, e notò che nell'aprile (1502) compiva il suo ventiduesimo anno; mentre Cesare in quel tempo istesso sarebbe giunto al ventiseesimo.[152]
Egli si sentiva molto soddisfatto per la scelta del seguito. Le persone, che dovevano comporlo, eran principi di casa d'Este e i più ragguardevoli uomini di Ferrara. Gli fu pure di gradimento che Annibale Bentivoglio, il figlio del signore di Bologna, vi si unisse; e, ridendo, diceva all'ambasciatore di Ferrara: «Se il suo signore per prender la sposa volesse anche mandare a Roma Turchi, per lui sarebbero benvenuti.»
I Fiorentini, per tema di Cesare, spedirono inviati a Lucrezia per pregarla di passare pel loro paese nell'andare [192] a Ferrara. Nondimeno il Papa decise che prenderebbe la via di Romagna. Secondo il barbarico dispotismo di quei tempi, i paesi, pe' quali il corteo passava, eran tenuti a mantenerlo. Ora per non gravar d'avvantaggio i paesi di Romagna fu deciso che il seguito, venendo di Ferrara a Roma, farebbe la strada attraverso la Toscana. Se non che la Repubblica di Firenze rifiutava di mantenerlo a proprie spese in tutto il suo territorio; non voleva che ospitarlo soltanto nella città di Firenze, ovvero onorarlo con un presente.[153]
Facevansi frattanto in Ferrara gli apprestamenti per le feste delle nozze. Il duca mandò inviti a principi amici. Aveva anche pensato al discorso, che all'arrivo di Lucrezia doveva esser tenuto alle feste nuziali. Nella Rinascenza simili declamazioni erano l'ingrediente più essenziale di una festa. E quel discorso dovett'essere davvero qualcosa di splendido. All'uopo Ercole aveva incaricato i suoi ambasciatori in Roma di mandargli notizie sulla casa Borgia, perchè l'oratore ne facesse tesoro.[154] Gli ambasciatori compirono con scrupolo l'incarico, rispondendo al loro signore nel modo che segue:
«Illustrissimo Principe e Signor nostro singolarissimo. — Abbiamo usato ogni diligenza e studio per ritrovare, come ai dì passati l'Eccellenza Vostra ce ne commise, qualche cosa relativa a' fatti di questa illustrissima casa Borgia. A tale oggetto abbiamo investigato da ogni canto, e con noi pure i nostri qui in Roma, e non solo dotti, ma anche tali, che immaginavamo si dilettassero di ricerche simili. Ora, abbenchè avessimo finalmente scoperto la casa esser nel paese spagnuolo nobilissima e antichissima, pure non ritroviamo cose egregie fatte dagli antichi suoi progenitori, perchè in quelle parti si vive vita molto civile [193] e delicata; e Vostra Eccellenza sa bene come così si costumi nella Spagna, e massime in Valenza.
»Sino ad ora solo di Callisto si ritrova qualcosa degna, in ispecial modo le sue proprie geste, delle quali il Platina scrive assai. Del resto, è generalmente saputo ciò che questo Papa ha operato. Onde chi abbia a fare l'orazione avrà dinanzi aperto un largo campo. Noi adunque, Eccellentissimo Signore, non abbiamo trovato intorno alla casa più di ciò; ma solo intorno alle persone de' pontefici alla stessa appartenenti e a' discorsi di obbedienza a coloro indirizzati. E quel che poi i papi han fatto, dinota assai ciò che di loro possa dirsi. Se altro ci sarà dato scoprire, non mancheremo di darne notizia a Vostra Eccellenza, alla quale umilmente ci raccomandiamo. — Roma, 18 ottobre 1501.»
Quando il duca dell'antica casa degli Este lesse questo laconico dispaccio, dovette ridere e trovarne l'ingenuità così poco diplomatica da parer quasi un'ironia. Del rimanente, non sembra che i probi ambasciatori abbian fatto capo alla vera sorgente. Se avessero chiesto consiglio a' più intimi cortigiani de' Borgia, per esempio a' parenti, avrebbero da loro ricevuto un albero genealogico, dal quale appariva i Borgia discendere dagli antichi re d'Aragona, se non forse proprio da Ercole.
Frattanto l'impazienza del Papa e di Lucrezia cresceva ogni dì più, perchè l'invio del seguito era sempre differito, e i nemici de' Borgia cominciavano già a prendersene beffe. Il duca dichiarava che non poteva pensare a far prendere madonna Lucrezia, ove non gli fosse consegnata la Bolla d'investitura. Lamentava la lentezza nell'adempimento in Roma delle promesse. Esigeva il pagamento in contanti della dote, che doveva esser fatto dai Banchi in Venezia, Bologna e altre città al più tardi all'ingresso in Roma del corteo d'onore, minacciando far ritornar [194] questo in Ferrara, senza la sposa, ove la somma non fosse interamente numerata.[155] Poichè la cessione di Cento e Pieve non poteva essere prontamente condotta a termine, domandava dal Papa un pegno, o il Vescovado di Bologna pel figlio Ippolito o anche una cauzione. Inoltre pose innanzi pretensioni di beneficii pel suo bastardo Don Giulio e pel suo ambasciatore Gianluca Pozzi. Per quest'ultimo Lucrezia seppe ottenere il Vescovado di Reggio; ed agl'inviati di Ferrara fece similmente dal Papa concedere una casa in Roma.
Negozio importante fu anche l'ornamento di cose preziose, di cui Lucrezia doveva esser fornita. La passione per tal genere d'ornamenti ancora oggi è grande in Roma. Le donne di nobili famiglie non vi tralasciano alcuna occasione per risplendere piene di diamanti; e sin qui tale ricchezza costituiva di regola un fedecommesso. Nella Rinascenza la passione aveva toccato il grado di vera e propria manìa. Ercole fece dire alla nuora che dovesse seco portare i gioielli e non alienarli. Che egli intanto per mezzo del seguito le manderebbe un ricco ornamento, perchè — così aggiunge con molta galanterìa — essendo ella il più prezioso de' gioielli, meritava aver pietre preziose in maggior numero e più belle ancora di quelle che da lui stesso e dalla propria moglie fossero state possedute. E che non era, per certo, un così potente uomo come il duca di Savoia; ma nondimeno sempre in grado di mandare a lei gioie non meno belle di quelle che colui aveva.[156]
Le relazioni tra Ercole e la nuora erano le più amichevoli che potesse desiderarsi. Lucrezia, in vero, giammai non si stancava di fare che le esigenze di lui trovassero ascolto presso il Papa. Questi però era da parte sua profondamente [195] irritato pel procedere del duca. Lo fece premurosamente pregare di mandare a Roma il seguito; e lo assicurò che i due castelli di Romagna sarebbero consegnati prima ancora che Lucrezia giungesse a Ferrara. Una volta che questa fosse colà, otterrebbe da lui tutto che desiderasse; così grande essendo l'amor suo per colei, ch'egli pensava andarle insino a far visita a Ferrara nella primavera.[157] Egli sospettò altresì che il temporeggiamento nell'invio del corteo derivasse da qualche intrigo dell'imperatore. E veramente Massimiliano, anco in novembre, mandò il segretario suo Agostino Semenza al duca, con l'esortazione a non lasciarlo partire per Roma; di che, prometteva, sarebbe ad Ercole riconoscente. Il duca, il 22 novembre, mandò uno scritto all'ambasciatore imperiale, dichiarando aver appunto allora spedito un corriere a' suoi inviati a Roma; l'inverno esser prossimo, e quindi il tempo per prender Lucrezia non favorevole; volerlo, annuendovi il Papa, differire, senza però romperla con lo stesso. Se egli ciò facesse, Sua Maestà poteva pensare se il Papa gli diventerebbe nemico. Egli dovrebbe aspettarsi da lui eterna persecuzione e anche una guerra. Ed appunto per schivare siffatti pericoli aveva accondisceso a legarsi in parentela con Sua Santità. Confidava perciò in Sua Maestà, che non vorrebbe esporlo a tanto pericolo, ma nella sua giustizia darebbe valore all'addotta scusa.[158]
Contemporaneamente Ercole incaricò gl'inviati di render conto al Papa delle minacce dell'imperatore e di dichiarargli, che quanto a sè teneva fermo agli obblighi assunti; ma che tanto più urgentemente doveva desiderare la spedizione delle Bolle, in quanto ogni ulteriore differimento adduceva pericolo.
[196]
Alessandro ne fu fuori di sè dalla rabbia. Caricò di rimproveri gl'inviati, e diede del mercatante al duca stesso. Ercole dichiarò allora al messo dell'imperatore il primo dicembre non poter più oltre differire l'invio del corteo, senza apertamente romperla col Papa. Il giorno medesimo scrisse agli ambasciatori a Roma, dolendosi del titolo di mercatante statogli dal Papa regalato.[159] Tranquillò anche quest'ultimo, assicurandolo aver fissato la partenza del corteo da Ferrara pel 9 o 10 dicembre.[160]
In questo mentre si provvedeva al corredo di Lucrezia con profusione degna davvero di una principessa di sangue reale. Il 13 dicembre 1501 l'agente del marchese Gonzaga a Roma scriveva al suo signore: «La dote sarà in tutto di 300,000 ducati, oltre i donativi che di giorno in giorno Madonna riceverà. Primieramente 100,000 ducati contanti; poi argenteria per più di 30,000 ducati, gioielli, panni di raso, biancheria finissima, ornamenti e finimenti di gran prezzo per muli e cavalli; in tutto per altri 160,000 ducati. Ha, fra l'altre, una balzana del valore di oltre 15,000 ducati, e 200 camice, delle quali molte del valore di 100 ducati ciascuna; e ogni manica costa da se sola 30 ducati, con frange d'oro, e simili lavori.» Un altro informava la marchesa Isabella, che una sola veste di Lucrezia valeva 20,000 ducati, e un solo cappello più di 10,000. «S'è qui — così quell'agente di Mantova continuava — e a Napoli lavorato e venduto più oro tirato in sei mesi che non in due anni passati. In terzo luogo, gli altri 100,000 ducati sono valuta de' castelli (Cento e Pieve) [197] ed esonerazione di Ferrara dal censo. Il numero de' cavalli e delle persone che il Papa dà per compagnia della figliuola, toccherà il migliaio, e 200 carriaggi, oltre forse qualche carretta francese, se il tempo lo permetterà; senza contare poi tutta la compagnia che viene a levarla.»[161]
Finalmente il duca si decise a spedirlo codesto seguito, comunque le Bolle non fossero ancora in pronto. All'unione oramai inevitabile di suo figlio con Lucrezia volendo dare il massimo splendore possibile, mandò per prender colei una cavalcata di oltre 500 persone. Duce era il cardinale Ippolito, accompagnato da altri cinque membri della Casa ducale, i fratelli Don Ferrante e Don Sigismondo, poi Niccolò Maria d'Este vescovo di Adria, Meliaduse d'Este vescovo di Comacchio e Don Ercole, un nipote del duca. Amici e parenti di gran riguardo, ovvero feudatarii di Ferrara componevano il seguito, i signori di Correggio e Mirandola, i conti Rangoni di Modena, uno de' Pii di Carpi, i conti Bevilacqua, Roverella, Sagrato, Strozzi di Ferrara, Annibale Bentivoglio di Bologna, ed altri molti.
Tutti codesti signori, vestiti di abiti ricchissimi, con grosse catene d'oro al collo, sopra superbi cavalli, uscirono da Ferrara il 9 dicembre, preceduti da una fanfara di 13 trombetti e 8 pifferi. E così, con alla testa un cardinale, desioso di vita e di spasso, la brigata traversò con gran rumore le terre d'Italia. Chi oggi potesse imbattersi in essa, la crederebbe una truppa di cavalieri artisti in viaggio. Gli allegri viaggiatori non pagaron mai scotto. Nel territorio del Ducato vissero a spese del duca, ch'è dire, de' sudditi suoi. Nel territorio di altri signori trovarono pari accoglienza. E appena messo piede sullo Stato della Chiesa, i luoghi, per dove passarono, dovettero pensare al loro mantenimento.
[198]
Malgrado di tutto il lusso della Rinascenza, il viaggiare era allora una grande pena. Per ogni dove si viaggiava in Europa allora come oggi in Oriente. Grandi signori e dame, che oggidì scorrono in fuga terre e paesi sulle strade ferrate entro carrozze comode come sale, e che perciò stesso sono sì frequentemente in moto, nel secolo XVI non avrebbero potuto andar che passo passo e a cavallo o sul mulo o alternativamente in lettiga, esposti a tutte le perfidie de' tempi, de' venti, delle orride strade. Per percorrere la distanza da Ferrara a Roma, al che bastano oggi 14 ore, occorsero alla cavalcata 13 giorni interi.
Finalmente il 22 dicembre arrivò a Monterosi, misero castello a 15 miglia da Roma, in istato deplorevole; tutti bagnati dalle piogge iemali, tutti inzaccherati di mota; uomini e cavalli stracchi e disfatti come dagli strapazzi di una campagna. Di colà il cardinale spedì a Roma un messaggiero con un trombetto a prendere gli ordini del Papa. Fu risposto che facessero l'entrata per Porta del Popolo.
Questo ingresso de' Ferraresi in Roma è il più splendido spettacolo durante il regno di Alessandro VI. La cavalcata era in generale la pompa più spettacolosa e più in pregio nel Medio Evo. Stato, Chiesa, società esprimevano lo splendore e l'importanza loro con siffatto genere di apparati, quasi pubblici trionfi. Il cavallo era ancora simbolo ed istrumento di gran parte della forza come della magnificenza mondana. Il significato suo nella civiltà è venuto meno con la cavalleria. D'allora in poi in tutta Europa la cavalcata non fu più in uso. Dove ancora ne appariscono i residui, come nel seguito principesco nelle riviste militari, ovvero ne' cortei di corporazioni, l'effetto si perde sotto la monotonia o la scipitezza delle divise di gala. Quanto il senso delle forme e delle feste sia mutato negli uomini, specie in Italia, patria della cavalcata, si potè [199] vedere in Roma il 2 luglio 1871, quando Vittorio Emanuele fece ingresso nella sua nuova capitale. Se momento siffatto, uno dei più importanti in tutta la storia d'Italia, fosse caduto nell'epoca della Rinascenza, certo si sarebbe vista una delle più grandiose e trionfali cavalcate. Invece l'ingresso in Roma del primo Re dell'Italia unificata sembrò come l'entrata di carrozze impolverate, che menassero viaggiatori, il Re e la Corte sua, dalla strada ferrata alla loro dimora. In questa semplicità borghese era certamente maggior grandezza morale che nella pompa clamorosa di un trionfo cesareo. Pure noi non parliamo qui dell'intimo valore delle solennità pubbliche; ma solo della diversità de' tempi rispetto alle feste, ai modi e ai bisogni delle stesse. L'estinguersi di quel sentimento grandioso della festa, quale la Rinascenza lo aveva suscitato, sarebbe sicuramente da considerare come un impoverimento. Il bisogno suo ancora oggidì torna spesso a rinverdire. E gli spettacoli più belli, visti ai tempi nostri in Europa, sono stati quelli delle schiere tedesche di ritorno dalla Francia in patria. Erano, è vero, feste militari; se non che e la sontuosità, onde le città s'erano parate, e la gioiosa partecipazione di tutti gli ordini della cittadinanza, tolsero loro quel carattere esclusivo.
Alessandro VI avrebbe proprio scapitato in reputazione, ove in congiuntura così solenne per la sua famiglia non avesse dato segno di magnificenza innanzi al popolo con un sontuoso spettacolo. Per questo Adriano VI più tardi divenne la favola de' Romani. Egli nè comprendeva nè aveva in onore queste necessità proprie alla Rinascenza.
Il 23 dicembre, verso le 10 ore del mattino, i Ferraresi arrivarono a Ponte Molle. In una villa trovarono una colezione apparecchiata. La contrada allora non aveva apparenza essenzialmente diversa da quella d'oggi. Casini e [200] case coloniche sulle pendici di Monte Mario con in cima la Villa de' Mellini; e così pure sulle colline costellanti la via Flaminia. Il Ponte sul Tevere era stato riedificato da Niccolò V, e munito anche di torre; la quale Callisto III fece terminare. Da Ponte Molle a Porta del Popolo si stendeva, come oggi, lungo la via, uno squallido sobborgo.
Al Ponte sul Tevere la cavalcata ricevette il saluto del Senatore di Roma, del Governatore della città, e del Barigello o capitano di polizia. Questi signori erano iti con 2000 uomini a piedi e a cavallo. A mezzo trar di arco dalla Porta s'incontrò il seguito di Cesare. Innanzi 6 paggi; poi 100 gentiluomini a cavallo; quindi 200 Svizzeri a piedi, vestiti di velluto nero e panno giallo, divisa del Papa, con berretti a pennacchio e armati di alabarde. Dopo, a cavallo, il duca di Romagna, insieme con l'ambasciatore di Francia. Indossava un vestito alla francese con cintola di panno d'oro. Il saluto ebbe luogo al suono delle musiche. Tutti i signori smontarono di cavallo. Cesare abbracciò il cardinale Ippolito, e quindi, cavalcando a lato di lui, volse alla Porta.
Se egli aveva un seguito di 4000 uomini e i magistrati della città uno di 2000, e se si calcola anche la folla degli spettatori, non si comprende davvero come sì enorme moltitudine abbia potuto dispiegarsi davanti Porta del Popolo. Ma non dovevano allora esservi case, e la pianura, occupata oggi dalla Villa Borghese, dev'essere stata pressochè libera.
Alla Porta il corteo fu salutato da 19 cardinali, ciascuno con un seguito di 200 persone. Il ricevimento qui, sotto un diluvio di declamazioni, durò non meno di due ore; sicchè si fece sera. Finalmente tutta questa cavalcata di parecchie migliaia, al suono di trombe, pifferi e corni, mosse lungo il Corso, per Campo di Fiore, verso il Vaticano, salutata da' cannoni di Castel Sant'Angelo.
[201]
Alessandro stava ad una finestra del palazzo a vedere quel corteggio, che veniva a porre in atto il più audace desiderio della casa sua. Quando poi i camerieri alla scala del palazzo ricevettero i Ferraresi e gl'introdussero presso di lui, egli andò loro incontro con 12 cardinali. Quelli gli baciavano i piedi, ed ei gli sollevava ed abbracciava. Si restò un pezzo in gioviali discorsi; quindi Cesare condusse dalla sorella i principi di Ferrara.
Lucrezia si fece sino alla scala di casa, al braccio di attempato cavaliere, vestito di velluto nero, con catena d'oro al collo. Secondo il cerimoniale prestabilito, non baciò i cognati: inclinò soltanto il viso a' visi, questa essendo la forma francese. Essa portava abito di drappo bianco tessuto in oro, e bernia foderata di zibellino; le maniche, di candido broccato in oro, strette con tagli trasversali alla foggia spagnuola; per acconciatura al capo una cuffia di velo verde, listata intorno d'oro battuto e orlata di perline; al collo un vezzo di grosse perle con un balaustro non legato. Furono serviti rinfreschi, e Lucrezia dispensò piccoli regali, lavori di gioiellieri romani. I principi col seguito loro se n'andarono molto contenti. «Questo so io di certo — così scriveva El Prete, — che al nostro cardinale Ippolito scintillavano gli occhi: ella è dama seducente e veramente graziosa.»
Anche il cardinale scrisse la sera stessa alla sorella Isabella di Mantova, per chetarne la curiosità, circa l'abbigliamento di Lucrezia. Le vestimenta erano allora l'oggetto più importante, soprattutto in una corte. E mai non vi fu tempo, come nella Rinascenza, in cui il costume delle donne fosse più ricco e più nobile insieme. Sembra che la marchesa abbia espressamente mandato a Roma un agente per essere informata delle persone e delle feste, con l'obbligo però di prendere a preferenza nota degli abiti. El Prete si trasse d'impegno con tanta scrupolosità, [202] come oggi saprebbe solo un Reporter del Times.[162] Stando alle descrizioni di lui, un pittore avrebbe potuto fare un ritratto di Lucrezia, che di molto si sarebbe approssimato alla verità.
Anche la stessa sera l'ambasciatore di Ferrara fece a donna Lucrezia la sua visita officiale. Comunicò quindi al duca l'impressione che la nuora di lui gli aveva fatta:
«Illustrissimo Signor mio. Questa sera, poichè ebbi cenato, fui in compagnia di messer Gerardo Saraceni presso l'illustrissima Madonna Lucrezia, per visitarla a nome di Vostra Eccellenza e dell'illustrissimo Don Alfonso. In tale occasione venimmo in lungo ragionamento su diverse cose. In verità ella si diede a riconoscere per donna molto prudente e discreta e di buona indole, e di grandissima osservanza verso Vostra Eccellenza e l'illustrissimo Don Alfonso; sicchè si può ben giudicare, che entrambi saranno di lei veramente soddisfatti. Oltrecchè ella ha ottima grazia in ogni cosa, ed è a un tempo modesta, venusta e onesta. Nè poi meno è cattolica, nè mostra meno temere Dio. Domattina si confessa con l'intenzione di comunicarsi il dì della Natività del Signore. La bellezza sua è già per sè soddisfacente; ma la piacevolezza delle maniere e il modo grazioso di porgersi l'aumentano e fanno parer maggiore. In conclusione le sue qualità a me paion tali, che nulla di sinistro si debba o possa sospettar di lei: piuttosto è da presumere, credere e sperarne sempre ottime azioni. Di che m'è parso conveniente, in omaggio alla verità, far con questo scritto testimonianza a Vostra Altezza. Ed ella sia certa che come, in conformità del debito ed ufficio mio, scrivo senza passione il vero; così, per la servitù che mi lega all'Eccellenza Vostra, ciò mi colma di singolare letizia e consolazione. Mi raccomando alla buona [203] grazia di Vostra Eccellenza. — Roma, 23 dicembre 1501, nell'ora sesta della notte. Di Vostra Eccellenza servitore Giovanni Luca.»[163]
La lettera del Pozzi mostra quanto grande fosse ancora all'ultimo istante la sfiducia del duca e del figlio. Abbassarsi sino al punto di mettere confidenzialmente a parte l'inviato in Roma delle loro perplessità d'animo in cose cotanto intime e personali, dovett'essere per entrambi una umiliazione. Ed umiliante fu del pari desiderar da colui un'attestazione delle qualità di una donna destinata ad essere duchessa di Ferrara. Quella sola frase della lettera nella quale il Pozzi non si perita di affermare, che nulla di sinistro s'abbia a sospettar di Lucrezia, getta abbastanza luce sui brutti rumori che sul conto di lei correvano. La testimonianza però fu splendida. Nelle mani di qualunque difensore di Lucrezia essa è tale, che può bensì valere come il più importante dei documenti. E se colei avesse potuto leggerla, forse la vergogna non sarebbe stata impari alla soddisfazione che n'avrebbe provata.
I principi di Ferrara presero stanza in Vaticano; altri signori in Belvedere; i più furono mandati in casa di curiali, con l'obbligo di curarne il mantenimento. I papi riguardavano allora le faccende loro private come affari dello Stato. Per farne le spese, aggravavano la mano, senz'altro, sugl'impiegati di corte; e la turba di questi a volta sua nè viveva nè s'arricchiva che mercè la grazia papale. Nondimeno anche alcuni mercatanti dovettero portare il peso della splendidezza papale. Parecchi impiegati mormoravano per l'ospitamento dovuto ai Ferraresi, i quali eran trattati così male, che il Papa dovette intervenire.[164]
Per la festa di Natale il Papa disse messa in San Pietro; e i principi vi assistettero come ministri. L'ambasciatore [204] descrisse al suo signore l'apparenza magnifica e anche religiosa del Papa, a un di presso come si descriverebbe il presentarsi sulla scena di un istrione famoso.[165]
Per ordine del Papa il carnevale cominciò allora, e ogni giorno avevan luogo feste in Vaticano.
El Prete ci ha lasciato una ingenua descrizione di un trattenimento serale nel palazzo di Lucrezia, che ci ripone vivi dinanzi gl'usi del tempo. «Questa illustrissima Madonna — così scrive — poco si vede, perchè occupata per la partenza. Domenica, giorno di Santo Stefano (26 dicembre), andai la sera anch'io in fretta nella sua stanza. Sua Signoria sedeva appresso al letto; e all'angolo della camera erano una ventina di donne romane, vestite a la romanesca co' tradizionali panni in testa (con quelli drapi in testa); vi eran poi le sue donzelle, dieci di numero. Aprì il ballo un gentiluomo di Valenza con una donzella di nome Nicola. Poscia ballò gentilmente e con grazia singolare Madonna con Don Ferrante. Portava indosso una gammurra di raso nero con liste d'oro e maniche nere; il polsino tutto serrato, il resto tutto di sopra tagliato e la camicia fuori; il petto sino alla gola copriva un velo listato d'oro; un filo di perle al collo; sul capo una cuffia di velo verde con una lenza di piccoli rubini; una sopravveste nera di raso foderato colorita e bella. Le sue donzelle non hanno ancora sfoggiato: se altre non ve ne saranno, le nostre potranno star loro a lato per apparenza e tutto il resto. Due o tre sono graziose. Una valenzana, Catalina, ballò bene; un'altra è seducente. Senza che sel sapesse, io l'ho tolta per mia favorita. Iersera (il 28) il cardinale andò mascherato per la città col duca e Don Ferrante; e poi andammo dalla duchessa, ove si ballò. Da mane a sera non si vede in Roma che cortigiane in maschera. Col [205] suonar delle 24 non possono più lasciarsi veder fuori di casa, perchè si fanno de' brutti giochi.»
Quantunque il matrimonio fosse già stato, mercè procura, concluso in Ferrara, pure Alessandro volle che l'atto fosse ancora una volta stipulato in Roma. E, per schivare una pura ripetizione, lo sposalizio in Ferrara fu celebrato solo con la formola: vis, volo; e lo scambio degli anelli differito.
La sera del 30 dicembre i Ferraresi condussero madonna Lucrezia in Vaticano. La sposa di Alfonso uscì dal suo palazzo con tutta la sua corte e con 50 dame d'onore. Aveva sopravvesta di broccato d'oro alla francese con maniche aperte, che scendevano sino a terra. Di sotto, abito di cremisino foderato d'ermellino. Il lungo strascico portavano damigelle di compagnia. In testa una cuffia di seta e oro, e i capelli fermati da un semplice cordoncino nero. Al collo un vezzo di perle con pendente, composto di uno smeraldo, un rubino e una grossa perla.
Don Ferrante e Don Sigismondo la conducevano per mano. Così il corteggio si pose in cammino. Sulla scala di San Pietro risuonavano musicali accordi. Il Papa stava ad aspettare nella Sala Paolina sul trono, e accanto a lui 13 cardinali e il figlio Cesare. Degli ambasciatori stranieri eran presenti quelli di Francia, di Spagna e Venezia: il tedesco mancava. La cerimonia cominciò con la lettura del mandato di procura del duca di Ferrara. Poscia il vescovo di Andria tenne il discorso d'uso; ma fu d'uopo l'abbreviasse per comando del Papa.[166] Innanzi a costui fu messa una tavola, e vi presero posto Don Ferrante, qual rappresentante di suo fratello, e donna Lucrezia. Ferrante rivolse a questa la domanda, secondo la formola; e, avendo essa risposto affermativamente, le pose al dito l'anello con queste [206] parole: «Questo anello matrimoniale manda a te, illustrissima Donna Lucrezia, l'illustrissimo Don Alfonso per libera determinazione, e io te lo consegno a nome di lui.» E Lucrezia: «Così anch'io per libera determinazione lo accetto.»
Del compimento dell'atto fu fatta fede in un istrumento per man di notaro. Subito dopo il cardinale Ippolito presentò a Lucrezia i gioielli. Il duca, che le faceva un prezioso regalo del valore di 70,000 ducati, annetteva particolare importanza al modo in che avesse ad esser consegnato. Il 21 dicembre aveva scritto al figlio di offrire i gioielli con quelle parole, che gli avrebbe suggerite l'ambasciatore Pozzi; avvertendolo anche che ciò era per misura di precauzione, affinchè, in caso d'infedeltà di madonna Lucrezia ad Alfonso, le gioie non andassero perdute.[167] Sino all'ultimo il duca trattava i Borgia con la sfiducia di uomo, che teme di essere ingannato. Onde il 30 dicembre il Pozzi gli scriveva: «Pel matrimonio è stato stipulato un istrumento, nel quale è detto soltanto che a madonna Lucrezia è fatto presente dell'anello nuziale; senza dir motto di altro regalo. Modo migliore per rispondere alle intenzioni di Vostra Eccellenza non v'era. Non s'è dunque in guisa alcuna parlato di donativo, e su di ciò l'Eccellenza Vostra non nudrirà dubbio di sorta.»
Ippolito si disimpegnò con tanta grazia, che il Papa gli disse: avere egli aumentata la bellezza dell'ornamento. Le gioie erano in un forzierino, che il cardinale pose prima innanzi al Papa e poscia aprì. Un tesoriere ferrarese l'aiutò a tenere i gioielli nella vera luce, sì che ne apparisse tutta la preziosità. Il Papa stesso gli prese in mano e gli mostrò [207] alla figlia. Erano catene, anelli, orecchini e pietre bellamente legate; magnifico, in particolar modo, un monile di perle; e, quanto a perle, Lucrezia sentiva una vera passione. Ippolito presentò pure alla cognata i suoi proprii regali, tra i quali quattro croci finamente lavorate. I cardinali offrirono regali dello stesso genere.
Dopo si fecero tutti alle finestre della sala per vedere i giuochi sulla Piazza di San Pietro: una corsa di cavalli ed una giostra per una nave. Otto nobili difendevano quest'ultima contro altrettanti che l'assalivano. Si combatteva con armi taglienti; e cinque persone n'usciron ferite.
La comitiva si condusse quindi nella camera del Pappagallo. Il Papa prese posto sul trono, alla sua sinistra i cardinali, a destra Ippolito, donna Lucrezia e Cesare. «Egli richiese — così El Prete — il duca di fare una danza con madonna Lucrezia, la qual cosa fece con buona grazia. Sua Santità rise continuamente. Le donzelle ballarono pure molto bene a due a due. La cosa durò più d'un'ora. Quindi si diè principio alle commedie. Se ne cominciò una, ma non fu finita perchè troppo lunga. Ne venne poi un'altra in versi latini, con un pastore e alcuni bambini, che fu molto bella. Il significato non lo compresi. Finite le commedie, andaron via tutti, meno Sua Santità, la sposa e i cognati, che restarono, avendo il Papa dato in tal sera il banchetto nuziale, del quale non posso informare. Si desinò in famiglia.»
Le feste continuarono tutti i giorni, mentre Roma da parte sua era piena delle baldorie carnascialesche. L'ultimo giorno dell'anno il cardinale Sanseverino e Cesare fecero rappresentar commedie. Quella ordinata da Cesare fu un'egloga con attrezzi pastorali. Alcuni pastori magnificarono la giovane coppia, il duca Ercole e il Papa come protettori di Ferrara.[168]
[208]
Il primo giorno dell'anno (1502) venne solennizzato con pompa particolare. I Priori di Roma posero in campo un corteo. Tredici carri trionfali, con a capo lo stendardo della città e i magistrati, mossero a suono di musica da Piazza Navona pel Vaticano. Nel primo si vedeva il trionfo di Ercole; ne' seguenti Cesare ed altri eroi romani. Si disposero in ordine innanzi al Vaticano, dalle cui finestre il Papa e gli ospiti suoi si godevano lo spettacolo. Furon declamate poesie in onore degli sposi. La rappresentazione durò quattr'ore.
Quindi seguirono commedie nella camera del Pappagallo, e una splendida Moresca, ballo del tempo, nella Sala dei Papi, parata già da Innocenzo VIII di bellissime coltrine di broccato in oro. Quivi era elevata una scena bassa e stretta, adorna di frasche e illuminata con torce. Gli spettatori presero posto su' banchi o per terra, come a ciascuno meglio aggradiva. Dopo la rappresentazione di un'egloga, un cantambanco, vestito da donna, cominciò a ballar la Moresca. Vi pigliò parte come ballerino anche Cesare, in costume ricchissimo, tanto che, non ostante la maschera, si distingueva di primo tratto. Il ballo era accompagnato dal suono di tamburini. Le trombette ne annunziarono un altro. Apparve un albero, sulla cui cima oscillava un Genio, recitante poesie. Buttò giù nove cordoni di seta, le cui estremità furon prese da nove danzatori. Questi andaron formando intorno all'albero una carola, che il Genio pareva intrecciasse con la sua mano. La Moresca incontrò grandissimo plauso. Da ultimo il Papa desiderò veder ballare anche la figlia. Ed essa ballò con la damigella di compagnia valenzana; e dietro di loro seguivano in coppia gli altri danzatori e le danzatrici.[169]
Commedie e moresche furon dunque la parte essenziale [209] di questa festa. Le poesie dovettero essere composte da Romani, i Porcari, Mellini, Inghirami, Evangelista Maddaleni; e forse anche presero parte essi stessi alla rappresentazione; mentre da lunga pezza non s'era più ai Romani offerta occasione altrettanto solenne per mostrare i progressi loro nell'arte drammatica. Lucrezia ogni giorno dev'essere stata coperta da un diluvio di sonetti ed epitalamii. Reca davvero molta maraviglia, che nulla di tutto ciò siasi conservato, nè che venga nemmeno un poeta romano di quei giorni nominato come autore di qualche commedia.
Il 2 gennaio fu data sulla Piazza di San Pietro una caccia al toro. Questa costumanza tutta spagnuola era stata importata in Italia sin dal XIV secolo; ma non divenne generale che nel seguente. Gli Aragonesi la trapiantarono in Napoli, e i Borgia in Roma, ove sino a' tempi ultimi, in Piazza Navona o al Testaccio, le cacce di tal natura erano frequenti. Cesare faceva volentieri mostra in simili barbari giuochi dell'abilità e della forza sua. In una caccia data nell'anno del Giubileo aveva maravigliato tutta Roma, spiccando con un colpo di sciabola la testa ad un bove.
Il 2 gennaio con nove altri Spagnuoli, che dovevano essere veri mattadori, egli entrò a cavallo nello steccato, ove sul cominciare non furono introdotti che due tori. Contro il più furioso stette egli solo a cavallo e con la lancia. Poscia entrò anche a piedi in compagnia di dieci altri Spagnuoli. Fatta questa mostra eroica, il duca si ritirò, lasciando il carico del rimanente spettacolo ai mattadori. Dieci tori e un bufalo furon morti.
La sera furono recitati i Menemmi di Plauto e altre scene, il cui soggetto fu l'apoteosi di Cesare e di Ercole. Gl'inviati di Ferrara ne diedero una relazione, ch'è una pittura dilettevolissima del tempo:
«Questa notte, nella camera del Papa, è stata recitata [210] la Commedia del Menechino (i Menemmi). Rappresentarono benissimo la persona dello schiavo, del parassita e anche del ruffiano e della moglie di Menechino. Ma i Menechini stessi non dissero con molta grazia. Non portavan maschera e non v'era scenario, la camera non essendo capace abbastanza. In quel luogo, in cui Menechino, per comando del suocero, che crede fosse impazzito, è preso, ed ei grida che gli vien fatta violenza, disse essere maraviglia che così si usasse, mentre Cesare è potente, Giove propizio ed Ercole benevolo.
»Prima della recitazione ebbe luogo altra rappresentazione. Venne fuori un bambino vestito da donna, rappresentante la virtù e un altro rappresentante la fortuna. Disputarono su quale fosse da preferire per grado; ed ecco sopraggiungere la gloria su carro trionfale, avendo il mondo sotto i piedi con le parole scritte: Gloria Domus Borgiae. La gloria, che chiamavasi anche luce, preferì la virtù alla fortuna, dicendo che Cesare ed Ercole appunto con virtù avevan superata la fortuna; e riferì molti nobili fatti dell'illustrissimo duca di Romagna. Quindi comparve Ercole con la pelle del leone e con la clava; e Giunone gli mandò contro la fortuna. Ercole, combattendo con essa, la vinse, prese e legò. Allora Giunone pregò Ercole di volerla liberare; ed egli clemente e magnanimo la concesse a Giunone, a condizione, che nè essa nè quella avessero mai a far cosa alcuna contro la casa di Ercole e di Cesare. Il che fu da quelle promesso, anzi Giunone promise pure di favorire l'unione delle due case.
»Venne poscia Roma su un carro di trionfo. Si dolse che Alessandro, che tiene il luogo di Giove, le facesse la ingiuria di toglierle via l'eccelsa madonna Lucrezia; e la raccomandò grandemente, mostrando come la fosse il rifugio di tutta Roma. Dopo Roma, Ferrara, senza carro di trionfo; e disse che madonna Lucrezia non andava in città [211] indegna e che Roma non la perdeva. Sopraggiunse quindi Mercurio mandato dagli Dei per riconciliare Roma e Ferrara, volere di coloro essendo, che madonna Lucrezia andasse a Ferrara. E fece quindi seder Ferrara al posto d'onore sul carro trionfale.
»Tutte queste cose furon recitate in versi eroici pieni di eloquenza. Il parentado tra Cesare ed Ercole vi fu continuamente celebrato. Si volle anche manifestamente esprimere, che insieme uniti dovessero compiere grandi fatti contro i nemici di Ercole. Che se la realtà potesse corrispondere a tali pronostici, le cose nostre verrebbero a molto buon termine. E così ci raccomandiamo alla grazia di Vostra Eccellenza. Roma, 2 gennaio 1502. — Giovanni Luca e Gerardo Saraceni.»[170]
Arrivò finalmente il giorno della partenza di Lucrezia, il 6 gennaio. Doveva esser quella una comitiva fastosa che la simile non s'era vista mai. Lucrezia doveva percorrere da regina le terre d'Italia. V'era anche un cardinale, che l'accompagnava come legato, Francesco Borgia, arcivescovo di Cosenza. Egli doveva la porpora a Lucrezia ed era il suo più fedel partigiano; antico signore e brava persona della casa Borgia, come il Pozzi scriveva a Ferrara. A madonna furono anche dati per compagnia tre vescovi, di Carniola, di Venosa e di Orte.
Alessandro fece ogni sforzo per persuadere quante donne e uomini nobili romani fu possibile ad unirsi al corteo. Ed ottenne anche questo, che la città di Roma nominasse quattro inviati d'onore, che dovevano assistere anche alle feste in Ferrara: Stefano Del Bufalo, Antonio Paoluzzo, Giacomo Frangipane e Domenico Massimi. Allo scopo stesso la nobiltà romana scelse Francesco Colonna di Palestrina e Giuliano conte di Anguillara. Vi s'aggiunsero anche Ranuccio Farnese di Matelica e Don Giulio Raimondo [212] Borgia, capitano della guardia palatina, nipote del Papa. De' gentiluomini romani di second'ordine ve ne furono otto.
Cesare per conto proprio preparò un seguito di onore di 200 cavalieri, con musica e con buffoni per divertire per via la sorella. Spagnuoli, Francesi, Romani, Italiani di varie provincie composero la schiera. Due di loro vennero più tardi in fama, Ivo d'Allegre e Don Ugo Moncada. Di Romani v'erano il cavaliere Orsini, Piero Santa Croce, Giangiorgio Cesarini, fratello del cardinale Giuliano, ed altri signori degli Alberini, Sanguigni, Crescenzi e Mancini.
Lucrezia prese seco anch'essa una corte officiale di 180 persone. Nella lista, che è giunta sino a noi, sono specialmente indicate le sue dame di compagnia. Prima Angela Borgia, una damigella elegantissima, come la chiama un cronista di Ferrara. La bellezza sua fu già lodata in Roma dal poeta Diomede Guidalotto. E con essa era anche la sorella donna Girolama, moglie del giovane Fabio Orsini. Accompagnavano pure Lucrezia madonna Adriana Ursina, un'altra Adriana, moglie di Don Francesco Colonna, e una dama della casa degli Orsini, della quale non è indicato il nome, nè è ammessibile potesse essere la Giulia Farnese.
Molte vetture, che il Papa aveva fatte costruire in Roma, e 150 muli trasportavano le suppellettili di Lucrezia. Il bagaglio fu in parte avviato innanzi. La duchessa portò via seco tutto quanto il Papa avevale permesso di prendere. Egli non volle nemmeno che ne fosse disteso inventario, come il notaro Beneimbene aveva consigliato. «Perchè io voglio — così diceva agli ambasciatori ferraresi — che la duchessa liberamente disponga delle proprietà sue e le doni cui meglio le aggrada.» Egli aveva anche fatto alla figlia un presente di 9000 ducati per abbigliamento di lei e della sua servitù, e regalatole altresì una bella lettiga alla francese, nella quale avrebbe accanto [213] a lei seduto la duchessa di Urbino, appena scontrata sul cammino.[171]
Mentre Alessandro lodavasi con gli ambasciatori di Ferrara della castità e pudicizia di sua figlia, esprimeva il desiderio che il suocero non la facesse attorniare che da dame e cavalieri per bene. «Ella stessa gli ha detto — così gli ambasciatori scrivevano al loro signore — che non farebbe arrossire mai Sua Santità pel modo suo d'operare; la qual cosa, per quanto possiam giudicare, teniamo per certo. Perchè, quanto più conversiamo con lei e quanto più consideriamo il viver suo, tanto veniamo in miglior opinione della bontà, onestà e discrezione sua, non omettendo che in casa sua non si vive solo cristianamente, ma anche religiosamente.»[172]
Anche il cardinal Ferrari si permise scriver lettera al duca, del quale era stato un tempo servitore. E in tono tutto pieno di unzione esortavalo a trattare amorevolmente la nuora, e levava al cielo le singolari virtù e meriti di costei.[173]
Il 5 gennaio fu pagato a' Ferraresi il saldo della dote in contanti, e gl'inviati avvisarono il duca, che tutto procedeva con ordine; che la nuora portava anche seco tutte le Bolle piene e in ottima forma; e che la comitiva era per porsi in cammino.[174]
Alessandro aveva prescritto le stazioni del lungo viaggio: Castelnuovo, Civitacastellana, Narni, Terni, Spoleto, Foligno. Quivi doveva trovarsi il duca Guidobaldo o la moglie per accompagnare madonna Lucrezia a Urbino. Di qui poi si doveva muovere attraverso gli Stati di Cesare; e per Pesaro, Rimini, Cesena, Forlì, Faenza e Imola andare a Bologna, per quindi giungere pel Po a Ferrara.
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I luoghi, pe' quali si passava, avrebbero dovuto soggiacere a carichi troppo gravosi, ove avessero ospitata la cavalcata tutta quanta. Fu per questo qualche volta divisa e avviata per diverse strade. Come si procedesse in ciò, lo mostra un Breve del Papa a' Priori di Nepi, che il Gran Kahn di Persia non avrebbe potuto concepire in termini più laconici:
«Amati figliuoli, salute e benedizione Apostolica. — La nostra diletta figlia in Cristo, la nobile signora duchessa Lucrezia de' Borgia, partirà di qui, con numeroso seguito di gentiluomini, lunedì prossimo per essere accompagnata presso l'amato figliuolo, il nobile Alfonso di Ferrara, primogenito del duca. Dugento de' cavalieri prenderanno la via della città vostra. Noi vogliamo e vi ordiniamo, per quanto avete cara la grazia nostra e non volete incorrere nella nostra disgrazia, di accoglierli e trattarli per un giorno e due notti con ogni onoranza. Così per la vostra sollecitudine troverete appo noi il meritato plauso. Dato in Roma, presso San Pietro, sotto l'anello del pescatore, il 28 dicembre 1501, l'anno decimo del nostro Pontificato. — Adriano.»[175]
Il modo stesso fu tenuto con molti altri paesi. In ogni città, in cui la cavalcata giungeva e soprattutto in quelle ove si fermava, dovevasi per ordine del Papa onorar Lucrezia con archi trionfali, luminarie e cortei. Soltanto le spese tutte a carico delle Comunità.
Il 6 gennaio Lucrezia prese commiato da Roma, dal figlio Rodrigo e dai genitori. Vannozza però non l'avrà forse veduta che a quattr'occhi. Niuno di coloro, che riferiscono [215] delle feste in Vaticano, ha mai fatto menzione di quella donna, nemmeno di nome.
Nella camera del Pappagallo ella si congedò dal padre, col quale restò sola un pezzo, sinchè non sopraggiunse Cesare. Nel separarsi da lei Alessandro continuò a dirle ad alta voce, che stésse di buon animo e gli scrivesse sempre che alcuna cosa da lui desiderasse, perchè di lontano farebbe per lei ancora più di quello che aveva fatto in Roma. Andò quindi per vederla in varii posti, sino a che la cavalcata non fu scomparsa.[176]
Lucrezia mosse alle tre dopo mezzogiorno. Sino a Porta del Popolo fu accompagnata da tutti i cardinali, dagli ambasciatori e da' magistrati di Roma. Montava sopra una mula bianca con coperta e finimenti d'argento battuto e frange d'oro ch'era un ricco vedere. Era in abito di viaggio: una gamurra d'oro tirato coperta di cremisino tagliato, e con una striscia di broccato d'oro, foderata d'armellino. Cavalcava in mezzo ad un corteggio di più di 1000 persone. Aveva accanto i principi di Ferrara e il cardinal di Cosenza. Il fratello Cesare l'accompagnò per un tratto; poscia, col cardinale Ippolito, tornò indietro al Vaticano.
Così Lucrezia Borgia separavasi per sempre da Roma e da un orribile passato.
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La cavalcata, che conduceva donna Lucrezia a Ferrara, avanzava a piccole tappe. E anche queste stancavano molto le donne, soprattutto in una stagione, in cui sullo stesso territorio romano s'incontra giorni rigidi e piovosi.
Non si giunse a Foligno che il settimo giorno. Vogliamo qui approfittare della relazione, che da quella città gli ambasciatori di Ferrara spedirono al loro signore, perchè rende conto in modo vivo e sensibile del viaggio insino a lì e degl'incidenti occorsi.
«Illustrissimo ed eccellentissimo Signor nostro. — Benchè avessimo da Narni scritto per la posta, via di Roma, all'Eccellenza Vostra, che saremmo andati a giornate continuate da Terni a Spoleto, e da Spoleto qui, nondimeno, essendo l'illustrissima duchessa e le donne sue molto affaticate, si deliberò riposare un giorno a Foligno. Noi quindi di qua non partiremo che domani, nè arriveremo ad Urbino prima di martedì prossimo, che sarà il 18 del volgente. Perchè domani andremo a Nocera; sabato [220] a Gualdo; domenica a Gubbio; lunedì a Cagli, e martedì a Urbino. Ivi ci fermeremo anche un giorno, cioè, tutto il mercoldì. E di lì poscia, il 20, si andrà a Pesaro, e così, di città in città, siccome in altre lettere è stato scritto all'Eccellenza Vostra.
»Ma siamo certi che la duchessa vorrà riposare molti giorni per intero; sicchè, senza dubbio, a noi non sarà dato toccar Ferrara prima degli ultimi di questo mese, ovvero vi giungeremo il primo giorno del vegnente, e forse il secondo o il terzo. Epperò a me è parso conveniente darne notizia di qui a Vostra Eccellenza, affinchè sappia ove siamo e ove stimiamo dover essere e possa ordinare quello che meglio giudicherà. Poichè laddove le piacesse che si differisca l'arrivo in Ferrara al 2 o al 3 febbraio, crediamo che ciò sia per succedere facilmente. Che se invece preferisse che il nostro arrivo avesse luogo l'ultimo di questo mese o il primo di febbraio, potrà avvisarcene; chè, in tal caso, solliciteremo, come abbiamo procurato sin qui, l'andar riposato.
»La ragione, che mi muove a credere quanto di sopra, è che l'illustrissima madonna Lucrezia è di complessione delicata e non avvezza a cavalcare; e le donne sue lo sono ancora meno. E conosciamo anche che la non vorrebbe essere all'arrivo in Ferrara tutta sbattuta e conquassata dal viaggio.
»In tutti i luoghi, pe' quali Sua Signoria è passata, è stata ben veduta e amorevolmente e con grande riverenza accolta. Dalle donne anche ha avuto presenti con tale dimostrazione, che tutto pareva esser fatto per riguardo a lei stessa. Tanto universalmente è benvoluta in questi paesi, ne' quali, per essere già stata nella legazione di Spoleto, è anche molto ben conosciuta. Qui in Foligno le è stato fatto migliore accoglimento e maggiori testimonianze di letizia che in altri luoghi fuori di Roma. Perchè, oltre i [221] Signori, così chiamati per esser Presidenti della repubblica, che le vennero incontro sino alla porta in mantelli e cappucci di seta rossa, tutti a piedi, e l'accompagnarono sino all'alloggiamento; sulla piazza, presso la porta stessa, le venne anche innanzi un trofeo, sul quale era una persona, rappresentante Lucrezia romana con un pugnale in mano. Recitò alcuni versi, che significavano: sopraggiungendo Sua Signoria, dalla quale essa stessa era superata in pudicizia, modestia, prudenza e costanza, le dava loco e cedeva.
»Sulla piazza poi era un carro trionfale e sul davanti un Cupido e sopra Paride col pomo d'oro in mano. Il quale disse alcune rime, il cui senso era: egli un tempo aveva per suo giudizio dato il pomo a Venere, la quale sola eccedeva di bellezza Giunone e Pallade; ma ora revocava la sentenza e donava il pomo a Sua Signoria, come a quella che vinceva tutte e tre le Dee, mentre in lei più che in tutte le altre era maggiore la bellezza, la sapienza, la ricchezza o la potenza.
»Finalmente sulla piazza trovammo una galea armata di Turchi, la quale si fece innanzi a donna Lucrezia, sino al mezzo della piazza stessa. Uno de' Turchi dalla prora recitò alcuni versi in rima, di questo tenore: il Granturco sapendo quanto Lucrezia fosse potente in Italia e quanto buona mediatrice di pace, la mandava a visitare e ad offrirle la restituzione di quello ch'ei teneva di terra cristiana. Di avere il testo di codesti versi non ci siamo curati, perchè non sono davvero di quelli del Petrarca. E poi la rappresentazione stessa a me non pare fosse di grande importanza, nè molto al proposito.
»Non vogliamo tralasciare di dire che donna Lucrezia a quattro miglia da Foligno fu incontrata da tutti i Baglioni, che sono nello Stato, venuti da Perugia e da' loro castelli a farle riverenza ed invitarla di andare colà.
»Sua Signoria persiste pure nel desiderio di andare [222] per acqua da Bologna a Ferrara, per schivare i disagi del cavalcare e della via di terra; di che noi abbiamo già da Narni avvisato l'Eccellenza Vostra.
»Sua Santità, Signor Nostro, prende tanta cura per Sua Signoria, che ogni dì e ogni ora vuole intendere dei progressi; e questa deve da ogni luogo di propria mano farle sapere della sua salute. Ciò conferma quello che già più volte è stato scritto a Vostra Eccellenza, che Sua Santità l'ami più che alcun'altra persona del suo sangue.
»Noi non saremo negligenti, se avremo modo di tener avvisata Vostra Eccellenza di giorno in giorno del viaggio e delle cose che accadranno.
»Fra Terni e Spoleto, nella Valle della Strettura, uno staffiero dell'illustre Don Sigismondo venne a parole rissose con un altro del nobile romano Stefano de' Fabii, ch'è nella comitiva della duchessa, per causa assai lieve di certi tordi. L'uno e l'altro posero mano alle armi. Sopraggiunse a cavallo un certo Pizaguerra, anch'egli de' famigliari di Don Sigismondo, e ferì al capo il palafreniero del nominato Stefano. Di che questi, di natura impaziente, collerico e insolente, tanto si commosse e dolse da mostrare di non voler andare più avanti. E quando s'andò nella rôcca di Spoleto, passò a lato agli illustri Don Ferrante e Don Sigismondo senza salutarli e senza far loro attenzione. Tuttavia, perchè la natura del fatto era stata inopinata e casuale e noi tutti ne eravamo molto dolenti; e perchè Pizaguerra ed anche lo staffiero di Don Sigismondo eran fuggiti, sicchè non v'era da far più nulla; il cardinale di Cosenza, madonna Lucrezia e tutti diedero torto a Stefano. Ed egli acquetato e pacificato tirò via con gli altri. Ci raccomandiamo alla grazia di Vostra Eccellenza. Da Foligno il 13 gennaio 1502. — Giovanni Luca e Gerardo Saraceni.
»PS. Il cardinale di Cosenza, per quanto apprendiamo [223] sin qui, non andrà oltre i confini degli Stati del signor duca di Urbino.»[177]
In Foligno convennero i Baglioni di Perugia per salutare Lucrezia e darle una scorta d'onore. S'andò, per Nocera e Gualdo, a Gubbio, una delle più notevoli città del Ducato di Urbino. A due miglia dalla città Lucrezia fu incontrata dalla duchessa Elisabetta, che poi la condusse al Palazzo civico. Le due donne non si separarono più, avendo Elisabetta mantenuta la promessa di accompagnare Lucrezia a Ferrara.
Il cardinale Borgia da Gubbio ritornò a Roma; e quelle andarono innanzi verso Cagli nella comoda lettiga, regalata da Alessandro. Ne' pressi di Urbino, il 18 gennaio, la cavalcata fu salutata dal duca Guidobaldo, venuto all'incontro con tutta la corte sua. Egli condusse Lucrezia nella sua residenza, il superbo palazzo di Federigo, ove furono ospitati anche i principi d'Este; mentre egli stesso e la duchessa per cortesia n'uscirono. Sì in Urbino come in altri luoghi del suo territorio, il gentile Guidobaldo aveva fatto innalzar le armi de' Borgia e del re di Francia.
Il matrimonio di Lucrezia aveva sempre ripugnato ai Montefeltri. Ma oramai facevano onore all'ospite loro, per riguardo a Ferrara, come anche per tema del Papa. Conoscevano Lucrezia sino da Roma, ove Guidobaldo, qual condottiero del Papa, aveva tanto infelicemente guerreggiato contro gli Orsini; e la conoscevano pure da Pesaro. Ora potevano sperare che la sicurezza di Urbino troverebbe valido sostegno nell'influenza e nell'amicizia di lei. Ma pochi mesi appena, e Guidobaldo e la moglie sua, diabolicamente ingannati e traditi dal fratello dell'ospite, tra angosce mortali dovevano essere scacciati dal loro paese.
[224]
Dopo un giorno di riposo, Lucrezia e la duchessa lasciarono Urbino, il 20 gennaio, accompagnate per un tratto da Guidobaldo sulla via per Pesaro. Quivi la cavalcata non giunse che la sera in sul tardi. La via, che unisce le due città, è oggi una comoda strada carrozzabile attraverso amene colline; ma allora non era accessibile che a' cavalli; epperò i viaggiatori giunsero a Pesaro proprio affranti e sfiniti.
Lucrezia v'entrò col cuore pieno di sentimenti penosi. Lì difatto doveva starle dinanzi la figura del ripudiato marito, Giovanni Sforza, che viveva in esilio a Mantova, spirando vendetta, e che poteva fors'anche andare a Ferrara per disturbare le feste nuziali. Pesaro era ora proprietà del fratello Cesare. Questi aveva dato ordine di ricevere splendidamente la sorella in tutte le città del suo territorio ch'ella toccasse. Cento fanciulli, vestiti co' colori di lui, giallo e rosso, con rami d'olivo in mano, la salutarono innanzi alla porta di Pesaro, al grido: «Duca! Duca! Lucrezia! Lucrezia!» I magistrati della città l'accompagnarono al palazzo, una volta sua residenza.[178]
Le più nobili donne furono a ricevere la loro antica signora con grandi dimostrazioni di gioia. Era tra loro anche Lucrezia Lopez, un tempo sua dama di corte e ora moglie di Gianfrancesco Ardizi.[179]
Lucrezia passò a Pesaro un giorno, senza lasciarsi vedere. Permise che la sera le dame del suo seguito con quelle di Pesaro ballassero; ma al ballo essa non prese parte. Come il Pozzi informava il duca Ercole, «essa restò sempre nella sua stanza sì per attendere a lavarsi il capo, e sì per essere di natura sua assai solitaria e remota.» [225] Se non che il contegno in Pesaro potrebbe forse spiegarsi meglio con i pensieri malinconici ond'era assediata.[180]
In tutte le città del duca di Romagna ebbe uguale accoglimento. Per ogni dove i magistrati venivano alle porte a presentarle le chiavi della città. In nome di Cesare essa era ora accompagnata da Don Ramiro d'Orco, luogotenente di colui in Cesena, quella stessa ferocissima tigre che Cesare medesimo, appena un anno dopo, fece squartare.
Per Rimini e Cesena si giunse a Forlì il 25 gennaio. La sala del palazzo di questa città era decorata di preziosi tappeti e anche le soffitte coperte di drappi variopinti. Una tribuna era stata elevata per le dame. I magistrati fecero regali in viveri, confetti e candele di cera. Non ostante il rigido governo, che i rettori di Cesare, e soprattutto Ramiro, tenevano in Romagna, pure bande di masnadieri rendevan malsicure le strade. Temendo che l'audace bandito Giambattista Carrara non avesse a piombare addosso al corteo, nel passaggio presso Cervia, si mandò una scorta di 1000 fantaccini e 150 cavalieri; dando, del resto, a credere si trattasse solo di un accompagnamento d'onore voluto dalla popolazione.[181]
A Faenza Lucrezia disse, che si fermerebbe ad Imola tutto il venerdì per lavarsi il capo; mentre non avrebbe potuto ciò far di nuovo che più tardi, finito il carnevale. Questa lavanda del capo, che abbiamo già più volte avuto occasione di menzionare come uno degli atti proprii all'acconciatura di quel tempo, dev'essere stata connessa con speciali procedimenti nel modo di curare i capelli.[182] L'ambasciatore ferrarese dava notizia al suo signore di questi disegni di Lucrezia, come d'impedimento deplorabile, pel quale l'ingresso di madonna in Ferrara doveva [226] esser differito sino al 2 febbraio. E Don Ferrante scriveva similmente da Imola, aver quivi Lucrezia desiderato un giorno di riposo per mettere in ordine i suoi ornamenti e lavarsi il capo; la qual cosa, com'essa diceva, non aveva più fatta da otto giorni e cominciava perciò ad avere dolor di testa.[183]
Riposatasi ad Imola, la cavalcata il 28 gennaio si pose in via per Bologna. Giunta sul confine del territorio della grande città e de' suoi signori, fu ricevuta da tutti i figliuoli del Bentivoglio e della moglie Ginevra con uno splendido seguito. E a due miglia dalla porta venne Giovanni stesso ad incontrarla.
Il tiranno di Bologna, che la salvezza sua da Cesare doveva solo alla protezione di Francia, non risparmiò nulla per fare onore alla sorella del nemico suo. Con parecchie centinaia di cavalieri la condusse quasi in trionfo per la città, che egli aveva, a così dir, seminata delle armi dei Borgia, di Cesare, del Papa, di Lucrezia, e di quelle di Francia e degli Este. Sulla porta del suo sontuoso palazzo la superba matrona Ginevra era con molte gentildonne a ricevere la sposa. Come questa celebre donna, zia di Giovanni Sforza di Pesaro, doveva in cuor suo odiare la Borgia! Pure nè Alessandro nè Cesare, ma Giulio II Della Rovere doveva, dopo solo quattro anni, scacciar lei e tutta la schiatta sua per sempre da Bologna.
Tra pompose feste si passò colà il 30 gennaio. La sera i Bentivoglio diedero un ballo e un convito.
Il giorno dopo accompagnarono Lucrezia fuori di città, volendo questa proseguire il viaggio per la già prossima Ferrara per acqua sul canale, che conduceva allora da Bologna al Po, prima che fosse tagliato dalla posteriore deviazione del Reno.
La sera dello stesso giorno 31, Lucrezia giunse al [227] castello Bentivoglio a 20 miglia da Ferrara. V'era arrivata appena, che a un tratto v'apparve il marito Alfonso. Profonda fu la commozione di lei; pure si compose prestamente e lo accolse «con gran segno di devozione e con grazia;» al che egli corrispose con molta galanteria.[184] Il principe erede di Ferrara aveva insino allora mantenuta verso la sposa un'attitudine riservata e mutola. Gli uomini di quel tempo non avevan sentore di quella entusiastica felicità della passione, ovvero di quel sentimentalismo tutto proprio all'età nostra. Ma anche così, è pur sempre strano che non appaia assolutamente segno alcuno di corrispondenza epistolare tra Lucrezia ed Alfonso durante il tempo, in che il matrimonio fu trattato e quindi concluso, e nel quale, d'altra parte, troviamo molte lettere tra Lucrezia e Ercole. Ora in fine, fosse per sommissione al padre, per cortesia o per curiosità, questo ruvido e taciturno Alfonso usciva dalla sua ritenutezza. Egli era venuto travestito. Restò due ore, quindi tornò a Ferrara.
Questo breve incontro valse a sgravare l'animo di Lucrezia d'un peso opprimente. E quelle due ore probabilmente bastarono anche, se non a disarmare Alfonso del tutto, a fargli almeno sentire il fascino della giovane sposa. Non avevano avuto interamente torto i galanti cittadini di Foligno nell'attribuire a Lucrezia il pomo di Paride. Di quell'incontro un cronista di Ferrara dice: tutto il popolo gioì, e ancora più furono contenti la sposa ed i suoi, che Sua Altezza sentisse il desiderio di vederla e l'accogliesse tanto volentieri; e questo fu segno ch'ella sarebbe ben ricevuta e meglio trattata.[185]
Forse niuno ne fu più lieto del Papa. La figlia gliene [228] diè contezza subito, perchè quotidianamente scrivevagli del progredire del viaggio; e quotidianamente pure altre persone gli mandavan dispacci. Egli era sempre dubitoso del buon accoglimento di Lucrezia per parte degli Este: quella nuova lo rassicurò. Partita colei da Roma, fece ripetute istanze presso il cardinal Ferrari, perchè esortasse il duca a trattare benevolmente la nuora. Osservava al proposito, che molto aveva fatto, ma più poteva fare ancora. L'esonerazione dal canone di Ferrara, così diceva, se compra con danaro, non avrebbe importato meno di 200,000 ducati; e solo per la spedizione delle Bolle gl'impiegati della Cancelleria avrebbero potuto pretenderne 5 a 6000. I re di Francia e di Spagna, per esentarsi dal tributo di Napoli, che pur non consisteva che in una chinea, avevano dovuto dare al duca di Romagna una rendita annua di 20,000 ducati. Ferrara invece aveva tutto ottenuto gratuitamente.[186]
Il duca rispose alle esortazioni di quel cardinale il 22 gennaio, assicurandolo che la nuora avrebbe trovato il più affettuoso accoglimento.[187]
Il primo febbraio Lucrezia continuò sul canale il viaggio per Ferrara. A Malalbergo trovò Isabella Gonzaga, venuta ad incontrarla. La marchesa era stata premurosamente invitata dal padre per fare in palazzo gli onori della festa. Ma era però a malincuore accondiscesa alla chiamata. Nondimeno con furia gioiosa — così scriveva ora al marito, rimasto a casa — salutò e abbracciò la cognata, [229] appena giunta. L'accompagnò quindi sul navilio sino a Torre della Fossa, ove il canale sbocca in uno de' rami del Po. Il Po scorre maestoso a quattro miglia da Ferrara, e solo un braccio secondario, il Po di Ferrara, ovvero, come oggi si chiama, il Canale di Cento, tocca la città, ove si divide in Volano e Primano, i quali vanno poi a scaricarsi nell'Adriatico. Questi non sono che meschini canali; e il navigarvi non potè essere in alcun tempo un diletto, nè un grandioso spettacolo.
A Torre della Fossa stava ad aspettare il duca con Don Alfonso e con la corte. Quando Lucrezia ebbe posto piede a terra, egli la baciò; dopo che questa ebbe a lui stesso con grande riverenza baciato la mano. Salirono quindi tutti sopra un Bucintoro sontuosamente ornato. Gli ambasciatori stranieri e molti cavalieri furon presentati alla sposa, della quale toccarono la mano. Tra suoni e trombe e sparo di cannoni si giunse a Borgo San Luca, ove si scese. Lucrezia entrò nel palazzo di Alberto d'Este, fratello naturale di Ercole. Fu ricevuta da Lucrezia Bentivoglio, figlia naturale di Ercole e da molte gentildonne. Il siniscalco del duca le presentò madonna Teodora e dodici signorine, destinate per sue dame di compagnia in Ferrara. Cinque belle carrozze, ognuna con quattro cavalli, le furono offerte come regalo del suocero. Quella casa di campagna è andata in rovina. Il sobborgo di San Luca esiste; ma tutto v'è così mutato, che dei tempi, de' quali parliamo, non rimane vestigio.[188]
La residenza degli Este rigurgitava già di migliaia di nuovi venuti dietro invito del duca o per curiosità. I grandi vassalli dello Stato erano tutti presenti. Ma di principi regnanti nessuno. I signori di Urbino e di Mantova si [230] fecero rappresentare dalle mogli. Annibale era rappresentante della casa de' Bentivoglio. Roma, Venezia, Firenze, Lucca, Siena e il re di Francia avevan mandati ambasciatori, che furono ospitati ne' palazzi della nobiltà. Cesare stesso se n'era rimasto a Roma, e si fece rappresentare da' cavalieri suoi. Doveva invece, per desiderio di Alessandro, la moglie, Carlotta d'Albret, venir di Francia a Ferrara per le feste, e soggiornarvi un mese. Ma nemmeno essa si lasciò vedere.
Ercole, aveva provvisto con profusione regale agli apparecchi per le feste. Da settimane i magazzini della corte e della città riboccavano di provvigioni. Ciò che la Rinascenza aveva prodotto di bello anche in Ferrara, presso una corte piena di gusto e di spirito, fra una cittadinanza agiata, nel cui seno studii, arti, industrie erano in fiore, fece di sè copiosa mostra in quella occasione.
L'ingresso quindi di Lucrezia il 2 febbraio fu uno de' più splendidi spettacoli di quel tempo. E per Lucrezia stessa fu l'ora più festosa della vita, come quella, nella quale giungeva a quanto di più alto e di migliore la natura sua potesse aspirare.
Due ore dopo mezzogiorno il duca con tutti gli ambasciatori e la corte andò al palazzo d'Alberto a prendere la sposa.[189] La cavalcata si dispose per entrare, traversando il ponte sul Po, per porta di Castel Tedaldo, fortezza ch'oggi più non esiste.
Aprivano il corteggio 75 arcieri a cavallo, in divisa di casa d'Este, bianco e rosso; e dietro, 80 trombetti e molti pifferi. Seguivano i nobili di Ferrara senza ordine; poi le corti della marchesa di Mantova, rimasta in palazzo, e della duchessa di Urbino. Veniva quindi Don Alfonso a cavallo con a lato il cognato Annibale Bentivoglio, circondato [231] da otto paggi. Era vestito in velluto rosso alla francese, berretto di velluto nero al capo, ornato di oro battuto. Portava scarpe alla francese di velluto nero, e sopra uose di damasco incarnato. Il cavallo baio era ornato di cremisino e oro.
È singolare che Don Alfonso non entrasse in Ferrara accanto alla sposa: ma l'etichetta del tempo aveva modi di vedere diversi da' nostri. Lo sposo alle prime file, la sposa al centro, e il suocero in coda: voleva significare che Lucrezia era il personaggio principale della festa. Dietro ad Alfonso seguiva appunto la cavalcata della sposa: prima paggi e ufficiali di corte, poi molti cavalieri spagnuoli; cinque vescovi; quindi gli ambasciatori in ordine ascendente, ultimi i quattro deputati di Roma, sopra bei cavalli, in lunghi mantelli di broccato e neri berretti di velluto in testa. Dopo, sei suonatori di tamburi e due buffoni favoriti di Lucrezia.
Ed eccola lei, la sposa, sfavillante di bellezza e di felicità, sopra bianco destriero coperto di scarlatto; e intorno intorno scudieri. Lucrezia portava gamurra a maniche aperte, di velluto nero, listata finamente d'oro e sbernia di broccato d'oro foderata di ermellino. In testa una rete quasi a forma di velo, scintillante di diamanti e d'oro, senza diadema: regalo del suocero. Al collo un filo di grosse perle e rubini, che una volta era stato della duchessa di Ferrara, come Isabella Gonzaga notava sospirando. La bella chioma fluttuava disciolta giù per le spalle. Cavalcava sotto un baldacchino di porpora, che portavano, alternandosi, i dottori di Ferrara, cioè dire, i membri del collegio di Diritto, Medicina e Matematica.
Per far onore al re di Francia, protettore di Ferrara e de' Borgia, Lucrezia aveva chiamato appresso di sè l'ambasciatore francese Filippo Della Rocca Berti, e fattolo rimanere alla sua sinistra. Sicchè questi le cavalcava a fianco, [232] ma non sotto il baldacchino. Tale distinzione stava a dimostrare come quel potente monarca fosse veramente colui che conduceva questa sposa nel palazzo degli Este.
Dietro di Lucrezia veniva il duca in velluto nero, sopra cavallo morello, coperto del velluto stesso. E alla sua sinistra la duchessa di Urbino, anch'essa in abito di velluto nero.[190]
Seguivan poi nobili e paggi; quindi gli altri principi di casa d'Este: ciascuno a fianco di una delle dame di Lucrezia. Mancava solo il cardinale Ippolito, rimasto a Roma.[191] Delle donne, che avevano accompagnato Lucrezia, tre soltanto erano a cavallo, Jeronima Borgia, la moglie di Fabio Orsini, un'altra Orsini, che non è indicata con maggior distinzione di questo, e madonna Adriana, «vedova e nobile donna e parente del Papa.»[192]
Appresso, quattro carrozze di gala con dame d'onore di Ferrara bellamente ornate, delle quali dodici damigelle deputate alla corte della giovane duchessa. Venivan poscia condotti a mano due muli bianchi e due cavalli bianchi del pari, coperti di velluto e seta e con preziosi ornamenti d'oro. E dietro un treno di 86 muli carichi della guardaroba e de' tesori della sposa. Passando questo lungo seguito in mezzo alla folla accorsa, i buoni Ferraresi dovettero dirsi, [233] che Don Alfonso s'era scelto una ricca sposa. Solo però pochi seppero pensare che tutte quelle balle e quei forzieri e bauli, trascinati a mostra con tanto fastosa iattanza, altro non erano che una prodigalità esercitata a spese de' paesi della Cristianità.
Alla porta di Castel Tedaldo il cavallo di Lucrezia per un colpo di cannone s'impennò, cacciando di sella quella ch'era pure la figura principale dello spettacolo. La sposa fu presto in piedi; il duca la fece montare sopra una mula bianca, e il corteggio tirò via. Vi furono le salutazioni d'uso da archi di trionfo e da tribune, declamazioni e scene mitologiche, delle quali la più notevole fu un seguito di ninfe, che circondavano la loro regina, assisa sur un bove rosso; mentre alcuni satiri saltavano intorno. Il Sannazzaro avrebbe potuto pensare che il motivo di siffatta apoteosi dell'arme de' Borgia stésse nel suo epigramma, col quale aveva deriso la Giulia Farnese, figurandola quale Europa sul toro.
Giunto il corteggio sulla Piazza del Duomo, scesero da due torri due acrobati a rivolger complimenti alla sposa. In quell'epoca al festevole si disposava sempre il grottesco.
Era già sera, quando la cavalcata arrivò sulla Piazza del Duomo, alla residenza del duca. A questo punto fu concessa libertà a tutti i carcerati. I trombetti e pifferi si raccolsero tutti insieme e fecero risuonare alto i loro istrumenti.
È difficile determinare con esattezza ove fosse allora la residenza, in cui si fermò Lucrezia. Gli Este avevano edificato nella città parecchi palazzi che abitavano con vece alterna: Schifanoja, Diamanti, Paradiso, Belvedere, Belfiore e Castel Vecchio. Un cronista della città, tra le abitazioni «che i signori di casa d'Este possedevano,» indicava nell'anno 1494 pel duca il Palazzo del Cortile e poi [234] Castel Vecchio; per Alfonso, Castel Vecchio; pel cardinale Ippolito, il Palazzo della Certosa.[193] Nell'anno 1502 Ercole adunque dimorava in uno de' due palazzi nominati, i quali, del resto, erano congiunti; mentre da Castel Vecchio a Piazza del Duomo era tutta una serie di edifizii, che si terminava col Palazzo della Ragione. Questa specie di congiunzione sussiste ancora, abbenchè tutti gli edifizii siano mutati.
La residenza del duca in quel tempo era rimpetto al Duomo: aveva un'ampia corte con scala di marmo, e di qui il nome di Palazzo del Cortile. Questa è probabilmente la corte stessa chiamata oggi Cortil Ducale. Vi si entrava dalla Piazza del Duomo pel portone, ai lati del quale stanno le due colonne, che un tempo sostenevano le statue di Niccolò III e di Borso. I narratori dell'ingresso di Lucrezia dicono espressamente, ch'essa scese di cavallo alle scale del Cortile di marmo.
Fu quivi ricevuta dalla marchesa Gonzaga con molte dame di alto lignaggio. La giovane moglie di Alfonso, se la commozione del momento glien'avesse lasciato campo, avrebbe potuto osservare sorridendo, come la nobile casa d'Este le avesse schierata davanti per darle il benvenuto tutta un'accolta, brillante veramente, di bastarde. Su quella scala venne difatti salutata da Lucrezia, figliuola naturale di Ercole e moglie di Annibale Bentivoglio, e da tre figliuole naturali di Sigismondo d'Este, Lucrezia contessa di Carrara, Diana contessa Uguzoni, e Bianca Sanseverino.[194]
S'era fatto notte: fiaccole e doppieri illuminavano il palazzo. Fra lo strepito di pifferi e trombette la giovane coppia fu condotta nella Sala di ricevimento, ove sedette [235] in trono. Ebbero luogo le presentazioni d'uso delle persone di corte, e probabilmente un oratore rivolse allora a madonna un discorso d'occasione, pel quale il duca aveva fatto raccogliere notizie sulla casa Borgia. C'è ignoto il nome del fortunato oratore; ma conosciamo invece alcuni poeti, che presentarono alla bella principessa i loro epitalamii. Niccolò Mario Paniciato tutto pieno d'entusiasmo compose una serie di poesie ed epigrammi latini in onore di Lucrezia, di Alfonso e di Ercole, che raccolse sotto il titolo Borgias. Vi sono, fra l'altre, ferventissime felicitazioni per lo sposalizio della giovane coppia; e la bellezza di Lucrezia vi è magnificata più di quella di Elena, perchè accoppiata con pudore incomparabile.[195]
Questo poeta, a quanto pare, non fece imprimere i suoi versi, sicchè n'è rimasto solo il manoscritto nella Biblioteca di Ferrara. Invece la vigilia dell'ingresso lo stampatore Lorenzo tirò un epitalamio composto da un giovane latinista. Era Celio Calcagnini, divenuto più tardi celebre anche come matematico, favorito del cardinale Ippolito e amico pure del grande Erasmo. Semplicissima è la favola della poesia. Venere abbandona Roma e accompagna Lucrezia; Mnemosine ingiunge alle figliuole, le Muse, di magnificare la nobile principessa, il che esse fanno, del resto, con grande esuberanza. Non son dimenticati i [236] principi della casa. Euterpe canta la lode di Ercole, Tersicore encomia Alfonso, e Calliope porta a cielo il trionfo di Cesare in Romagna.[196]
Fra i poeti di Ferrara, che recarono omaggi, apparve anche in quest'occasione un altro, che sin d'allora dava già molto a sperare del genio suo, Lodovico Ariosto, allora di 27 anni, già conosciuto alla corte di Ferrara e ne' circoli de' dotti italiani come latinista e commediografo. Anch'egli scrisse e presentò a Lucrezia un epitalamio. È semplice e grazioso, senza pedanteria mitologica, ma non notevole per invenzione. Il Poeta celebra la fortuna della città di Ferrara, che omai tutti gli stranieri invidieranno pel possesso di un gioiello incomparabile; mentre Roma, per la perdita di Lucrezia, è fatta povera e caduta ancora una volta in rovina.[197] Egli esalta la giovane principessa come pulcherrima virgo, e sin d'ora allude a Lucrezia antica.
Finite le cerimonie del ricevimento, il duca condusse la nuora nell'appartamento per lei preparato. Ella poteva starsi più che contenta dell'accoglimento trovato in casa d'Este. Anche l'impressione dalla sua persona prodotta fu la più favorevole. Il cronista Bernardino Zambotto scriveva in proposito: «La sposa è di età di 24 anni (e in ciò s'ingannava), bellissima di faccia, occhi vaghi e allegri, dritta di persona e di statura, accorta, prudentissima, sapientissima e allegra, piacevole ed umanissima. Tanto piacque a questo popolo, che tutti ne hanno preso consolazione [237] grandissima, sperando aiuto e buon governo da Sua Signoria; e ne pigliano gran contento, sperando questa città doverne conseguire molti benefizii, massime per l'autorità del Papa, il quale ama sommamente sua figlia, come lo ha dimostrato con la dote data e con le castella concesse a Don Alfonso.»[198]
La grazia di Lucrezia dev'essere stata allora proprio affascinante. Lo mostra il medaglione che abbiam di lei; e, del resto, i testimoni oculari lo dicono tutti. Il Cagnolo di Parma scriveva: «È di mediocre statura; gracile d'aspetto; di faccia alquanto lunga; il naso ha profilato e bello; aurei i capelli, gli occhi bianchi, la bocca alquanto grande; candidissimi i denti; la gola schietta e bianca, ornata con decente valore. In tutto l'esser suo continuamente allegra e ridente.»[199]
Bianco chiama il Cagnolo il colore degli occhi di Lucrezia. Vuol dire che lo smalto bianco nell'occhio deve aver fatto in lui maggiore impressione del colore dell'iride; e questo avrebbe, senza dubbio, chiamato nero o cilestre, se fosse stato decisamente l'uno o l'altro. Il fiorentino Firenzuola nel suo Trattato Della perfetta bellezza di una donna vuole biondo il capello, gli occhi bianchi con pupilla non interamente nera, abbenchè sia amata da Greci e Italiani. Il miglior colore degli occhi è, com'egli dice, tanè.[200] A Lucrezia, tutta spirante grazia, col viso giocondo e con l'aurea chioma, doveva adattarsi un occhio di colore indeterminato, che a noi piace immaginar di un grigio chiaro anzichè bruno. Appunto questa indeterminatezza dell'iride spiega come anche i poeti di Ferrara, che cantarono allora il magico potere dell'occhio della bella duchessa, tacessero del colore.
[238]
Non già la forma eletta nè la bellezza classica, ma una grazia indescrivibile, cui s'aggiungeva alcunchè di misterioso e di strano, era la forza, mercè la quale quella donna singolare affascinava tutti gli uomini. Venustà e mansuetudine nell'aspetto, giovialità ed amorevolezza nel parlare sono qualità che in lei celebrarono tutti i contemporanei.[201] Raffigurando questo aspetto animato di tinte così graziose e tutto pieno di spirito, con quei grandi occhi penetranti, con quelle ciocche di aurei fluttuanti capelli, si ha dinanzi una bellezza romantica, quale forse lo Shakespeare deve aver pensato l'Imogene.
Le feste nuziali in Ferrara si protrassero per sei giorni, durante il carnevale. Quanto a contenuto spirituale, le feste officiali all'epoca della Rinascenza non erano gran fatto più significative di quelle analoghe proprie a' tempi nostri. Pure, il sontuoso costume, un certo senso ideale della bellezza e l'etichetta più raffinata davano ad ogni modo alle feste di quel tempo, in cui veniva alla luce il Cortegiano del Castiglione, un carattere più elevato.
Rispetto a certe rappresentazioni, il secolo XVI rimaneva indietro al nostro: teatro, fuochi d'artificio, concerti musicali. Le illuminazioni non erano ignote; e si facevano danze a cavallo a luce di fiaccole, e si tiravan pure razzi. Ma una festa notturna in un giardino illuminato, quale ai giorni nostri fu data dall'Imperatore d'Austria allo Schah di Persia nel Castello di Schönbrunn, [239] sarebbe stata impossibile in quel tempo. Vale lo stesso per le produzioni musicali, soprattutto pe' concerti a grande orchestra, affatto sconosciuti allora. Certamente quella società avrebbe avuto in orrore la musica chiassosa de' tempi nostri; e lo strepito dei tamburi, che lacera gli orecchi, sarebbe sembrato all'italiano della Rinascenza così barbaro, come le parate militari, che tuttora oggi sono lo spettacolo prediletto nelle grandi Corti di Europa per fare onore o intimidire ospiti augusti. Similmente nelle Corti italiane d'allora i tornei erano rari: alcuna volta avevano luogo duelli, ne' quali l'abilità del combattente aveva campo di farsi ammirare.
Il duca, dopo lungo e maturo esame, aveva fissato il programma delle feste con i suoi mastri di cerimonie. In sostanza dovevano comprendere, come più o meno in congiunture simili a' giorni nostri, tre distrazioni principali: banchetti, balli e rappresentazioni teatrali. E proprio dall'ultima parte del programma Ercole s'imprometteva l'effetto più grandioso e fama veramente onorevole presso tutto il mondo colto ed elegante.
Era egli uno de' più passionati fondatori del teatro nella Rinascenza. Già parecchi anni innanzi aveva fatto da poeti presso la corte sua tradurre in terza rima e rappresentare commedie di Plauto e Terenzio. Avevano a tal uopo lavorato per lui il Guarino, il Berardo, il Collenuccio, il Bojardo stesso. Sin dal 1486 i Menemmi, la commedia prediletta di Plauto, erano stati rappresentati a Ferrara, vólti in italiano. Nel febbraio 1491, quando Ercole solennizzò le splendide feste per lo sposalizio di suo figlio Alfonso con Anna Sforza, furono rappresentati di nuovo; e il giorno dopo fu data una commedia di Terenzio e l'Anfitrione, accomodato per la scena dal Collenuccio.[202]
[240]
Vero è che mancava ancora in Ferrara un teatro stabile; ma ve n'era uno provvisorio, che bastava alla rappresentazione delle commedie, la quale, per altro, tranne congiunture eccezionali, non aveva luogo che nel carnevale soltanto. Ercole aveva a quest'oggetto disposta una sala nel Palazzo del Podestà, grande edifizio di architettura gotica, dirimpetto ad uno de' lati del Duomo, ed oggi tuttora esistente, chiamato Palazzo della Ragione. La sala era, mercè un andito, in comunicazione con la residenza stessa.
L'elevata scena, detta allora Tribunale, aveva un 40 braccia in lunghezza e 50 in larghezza. V'erano case di legno dipinto e tutto l'occorrente ad uno scenario, rocce, alberi, e simili. Di contro agli spettatori la scena era chiusa da una parete di legno ornata di merli a guisa di muro. Nel mezzo del proscenio era l'orchestra, e ivi sedevano pure tutti gl'illustrissimi principi e ambasciatori. La grandissima sala, che serviva per gli spettatori, conteneva tredici file di sedie, fornite di cuscini, divise in modo che le donne rimanevan nel mezzo e gli uomini dai due lati. Tutta la sala era capace di un 3000 persone.
Ercole stesso, standosene forse ai suggerimenti dello Strozzi, dell'Ariosto, del Calcagnini e di altri umanisti di Ferrara, avrà disposto il teatro. Quelli e altri accademici vi rappresentavano forse alcune parti; ma il duca avrà chiamato attori anche da altri paesi, da Mantova, Siena e Roma. Difatto, tra uomini e donne, non eran meno di 110 personaggi. Egli fece pure allestire una nuova guardaroba. L'espettazione per simile produzione in così solenne occasione doveva esser grandissima.
Le feste cominciarono il 3 febbraio, e presto fu notato che la bellezza delle tre donne eminenti, Lucrezia, Isabella e la duchessa d'Urbino, dava alle stesse luce e decoro. Eran esse nel numero delle più belle dame del tempo loro; e gl'intendenti potevan forse dubitare quale, d'Isabella [241] o Lucrezia, fosse più degna del pomo di Paride. La nobile marchesa di Mantova era, certamente, di sei anni più anziana della cognata; pure era una perfetta figura di donna. Con femminile gelosia ella osservava la persona di Lucrezia. Nelle lettere, che giornalmente scriveva al marito in Mantova, descriveva con ogni minutezza i vestiti della rivale; ma non una parola delle attrattive di lei. «Della figura di madonna Lucrezia — scriveva così sin dal primo febbraio — mi taccio, poichè so che Vostra Eccellenza la conosce di vista.» In altra lettera del 3 febbraio dava, tutta piena di sè, ad intendere al marito, che, quanto alla persona e al seguito suo, sperava poter sostenere il paragone con le altre, e forse anche ottenere la palma. Con un giudizio identico una sua dama di compagnia, la marchesana di Cotrone, cercava confortare il marito di lei, il marchese di Mantova, scrivendogli: «La sposa non ha nulla di singolare, quanto a bellezza; ma ha dolce ciera. E malgrado delle sue molte dame, e dell'illustrissima madonna di Urbino, ch'è bella assai, e mostra in verità di essere degna sorella di Vostra Eccellenza, nondimeno, alla mia illustrissima signora Isabella, nel parere de' nostri e di quanti son qui venuti con questa duchessa di Ferrara, spetta il vanto di essere la più bella. E ciò è fuori di dubbio; mentre accanto alla Signoria Sua tutte le altre erano un nulla. Epperò a tal riguardo noi porteremo il palio nella casa della mia padrona.»[203]
La prima sera delle feste fu dato un ballo nella sala grande della residenza. Il concorso fu tanto, che lo spazio non bastò. Lucrezia, sotto un baldacchino d'oro sontuosissimo, sedeva sur una tribuna, ove presero posto anche le principesse [242] di Mantova e di Urbino e altre donne illustri, e da ultimo gli ambasciatori. Era quindi concesso, nonostante la folla, ammirare la raggiante bellezza di quelle donne, e gli abiti ricchi e le gioie preziose. Un ballo nella Rinascenza non aveva le forme rigide della moda odierna: era un diletto più naturale ed insieme più semplice: spesso ballavan donne con donne, e si ballava anche soli. Quanto a' modi di ballare, predominavano già i Francesi; mentre in quel tempo la Francia cominciava già a dettare le sue mode agli altri popoli. Nondimeno v'erano pure danze spagnuole e italiane. Lucrezia era una danzatrice seducente; e volentieri faceva mostra dell'arte e della grazia sua. Essa scese dalla tribuna e ballò più volte balli spagnuoli e romaneschi al suon di tamburini.[204]
Dopo il ballo ebbe luogo la rappresentazione drammatica con tanta impazienza attesa. Il duca fece prima venire innanzi tutti gli attori in maschera e vestiario da scena per passarli a rassegna. Il drammaturgo o direttore della compagnia si presentò sotto la figura di Plauto; ed espose brevemente il programma teatrale, cioè dire, l'argomento di tutte le opere da darsi nelle cinque sere. La scelta di commedie di autori drammatici viventi non offrì al duca nel 1502 difficoltà di sorta, essendovene poche davvero. La Calandra del Dovizi, che pochi anni dopo ebbe tanto successo, non era scritta ancora. È vero che l'Ariosto aveva già composto la Cassaria e i Suppositi. Pure il nome suo non era allora grande tanto, che gli toccasse l'onore di vederli rappresentati in quella ricorrenza.[205] Di più il duca voleva una [243] produzione assolutamente classica: il mondo doveva parlarne; ed in effetto l'esecuzione teatrale fu quale sin allora non era stata vista mai in Italia. Noi ne abbiamo particolareggiate descrizioni, le quali non sono state per anco messe a profitto per la storia del teatro. In modo più preciso delle posteriori relazioni intorno al Teatro Vaticano, sotto Leone X, esse mostrano la natura delle rappresentazioni drammatiche nella Rinascenza, e sono pertanto una classica dipintura del tempo.
Chi sappia immaginare, stando alle relazioni del Cagnolo, dello Zambotto e d'Isabella, tutto quello splendido pubblico di ospiti nuziali, seduto ne' più ricchi abiti su quelle file di panche, vede innanzi a sè uno de' più belli e più solenni convegni della Rinascenza. Tutto quello spettacolo così svariato di forme, tanto ricco di colori, accoppiati con quella scena anticheggiante e con quel che vi era rappresentato, le commedie plautine, e, incastrate negl'intermezzi, le pantomime e le moresche, di carattere queste mitologico, puramente fantastico e burlesco sino all'oscenità; è cosa tanto romantica, che ci fa credere trasportati nel Sogno d'una notte d'estate dello Shakespeare. E il duca Ercole di Ferrara scambiamo con Teseo, il duca d'Atene, innanzi al quale e alle coppie di sposi felici vengono date commedie e balli.
Secondo il programma, dal 3 agli 8 febbraio, eccetto una sera, dovevansi l'una dopo l'altra recitare cinque commedie di Plauto. Negl'intermezzi dovevano aver luogo azioni musicali e moresche. La moresca era ciò che oggi chiamiamo il ballo, la pantomima intrecciata con la danza. L'origine sua risale all'antichità; e l'uso di essa si lascia già scoprire nel più oscuro Medio Evo. Primitivamente era una danza pirrica in vestiario scenico; e, come tale, si mantenne sino a' tempi nostri. Ricordo averla vista ancora nel 1852 ballare pubblicamente nel Porto di Genova. Tolse il [244] nome, a mio credere, da questo, che in tutti i paesi latini, che ebbero a subire l'invasione de' Saraceni, la danza pirrica voleva quasi rappresentare una pugna tra Cristiani e Mori, e, per ragione di contrapposto, usava far apparire questi ultimi sotto la figura di neri. Poi il concetto di moresca fu esteso ed applicato a significare il ballo in generale. Con accompagnamento di flauti e violini s'eseguivano, ballando, scene d'ogni specie tratte da' miti antichi, dalla vita cavalleresca come dalla comune. Vi erano pure danze di persone mostruosamente fantastiche, di rozzi idioti e villanzoni e contadini, di selvaggi e satiri, ne' quali fioccavan bastonate a tutt'andare, nel più barbaro modo che mai. Sembra che questo ballo romantico abbia proprio in Ferrara servito di spinta allo svolgimento di una particolare coltura. Quella città fu difatti la culla dell'epopea romantica, di Mambriano e di Orlando. Non accade dire che, lo stesso come a' dì nostri, il ballo aveva pel pubblico la massima attrattiva. Ad una commedia plautina invece, che su uomini, che sentono alla moderna, non può avere altro effetto che di un giuoco di burattini, quel pubblico, se era di buona fede, doveva provare noia veramente profonda. E le rappresentazioni duravano 4 a 5 ore, dalle 6 o 7 di sera alla mezzanotte.
La prima sera, poichè il duca ebbe condotto gli ospiti nella sala del teatro, e questi ebbero preso posto, venne prima fuori Plauto avanti alla principesca coppia, e recitò un complimento. Quindi cominciò la rappresentazione dell'Epidico. Terminato il primo atto, e così anche dopo gli altri, seguì il ballo. Con l'Epidico s'innestarono cinque bellissime moresche. Comparvero prima dieci gladiatori; al suon di tamburini fecero una danza pirrica, con celere movimento e con varie armi. Alla seconda presero parte dodici persone in altro vestiario. La terza rappresentava un carro, tirato da un unicorno e guidato da una giovinetta. V'eran [245] sopra alcuni uomini legati a un tronco e, seduti fra cespugli, quattro suonatori di liuto. La donzella sciolse i primi, che, scesi, fecero la moresca; mentre gli altri cantavan bellissime canzoni. Almeno così assicura il Gagnolo; ma la marchesa di Mantova, di gusto così raffinato, stimò invece la musica tanto tetra da non meritar quasi menzione alcuna. Nelle sue notevoli lettere Isabella si mostra critica acuta non solo degli spettacoli teatrali, ma di tutte le feste date in occasione delle nozze. La quarta moresca fu ballata da dieci Mori, con candelotti accesi in bocca. La quinta di nuovo da dieci uomini vestiti in modo fantastico, con piume al capo e aste in mano, in cima delle quali ardeva un gran fuoco. Finito l'Epidico e le moresche, furono anche regalati esercizii ginnastici.
Il 4 febbraio, venerdì, Lucrezia non si lasciò vedere prima del mezzogiorno. Il duca frattanto condusse gli ospiti in giro per la città. S'andò a far visita ad una santa donna, suora Lucia di Viterbo, che Ercole, rigoroso credente, si era tirata a Ferrara come una rarità preziosa. La monaca ogni venerdì rinnovava la Passione; mentre nel corpo suo apparivano le Stimate ne' cinque luoghi, com'ebbe Cristo. E difatti ella donò all'ambasciatore francese alcune pezzuole, che aveva tenuto sopra le Stimate; e monsignor Rocca Berti le tolse con grande devozione. Di lì s'andò a vedere il vecchio castello, ove il duca fece mostra dell'artiglieria ferrarese, materia prediletta degli studii suoi. S'andò poscia ad aspettare madonna Lucrezia, la quale apparve più tardi nella grande sala, accompagnata da tutti gli ambasciatori. Si ballò sino alle 6 di sera; e quindi ebbe luogo la rappresentazione, le Baccadi, che durò cinque ore. Isabella la trovò smisuratamente lunga e noiosa. Vi furono anche balli come nell'Epidico. Persone vestite di panno color di carne tenevano in mano, danzando, torce che ardevano spandendo odorosi effluvii. [246] Altre figure fantastiche eseguirono una lotta danzante con un drago.
Il giorno appresso Lucrezia fu invisibile. Era occupata a lavarsi il capo e a scrivere lettere. Gli ospiti nuziali si contentarono d'andare a zonzo per Ferrara. Non vi fu alcuna festa officiale. L'ambasciatore Francese mandò regali a' principi della casa in nome del re di Francia: al duca uno scudo d'oro smaltato con un San Francesco, lavoro parigino di molto pregio; al principe erede, Alfonso, uno scudo simile con l'immagine di Maria Maddalena, e a proposito di ciò l'ambasciatore faceva notare, che Sua Altezza aveva scelto una sposa pari in virtù e grazia alla Maddalena: quae multum meruit, quia multum credidit. Forse fu questo presente per Alfonso, allusivo alla Maddalena, una pensata ironia da parte del re di Francia. Alfonso ricevette pure una istruzione intorno al modo di fondere i cannoni. Anche Don Ferrante ebbe similmente in dono uno scudo d'oro. Lucrezia ebbe una corona di globi d'oro sottilmente lavorati, e pieni di muschio. Ad Angela, la sua seducente dama di compagnia, toccò una collana d'oro di gran costo.
Il rappresentante di Francia fu trattato con ogni possibile carezza. Il sabato stesso l'invitò a cena la marchesa di Mantova; e a tavola lo fece sedere in mezzo a lei e alla duchessa d'Urbino. «S'intrattennero — così racconta il Gagnolo — in molte parole amorose e atti soavissimi e accostumati. Dopo cena, per compiacere al signor ambasciatore, la marchesa col liuto in mano cantò diverse canzoni con melodia e soavità grandissima. Lo menò poscia secolei in camera, ove quasi per un'ora, in presenza di due donzelle di compagnia, stettero in diversi colloquii secreti. Ella si cavò quindi i guanti e glieli porse in regalo amorosamente e con accomodate parole; e il signor ambasciatore gli accettò con riverenza ed amore, come quelli che derivavano da quella vaghissima fonte. In verità, egli ha riservati i guanti in santuario [247] usque in consumationem saeculi.» Noi vogliamo credere al Gagnolo, e ammettere anche che pel fortunato ambasciatore di Francia codesta reliquia di una bella e florida dama fosse preziosa altrettanto quanto i cenci statigli regalati dalla povera suora Lucia.
La domenica, 6 febbraio, in Duomo vi fu ufficio solenne. Un cameriere papale consegnò a Don Alfonso la berretta e la spada consacrata, mandategli da Alessandro VI. L'arcivescovo, innanzi all'altare, l'una gli pose in testa e gli dètte l'altra in mano. Dopo mezzogiorno i principi d'Este e le principesse presero madonna Lucrezia dal suo appartamento, e la condussero nella sala del festino. Si danzò per due ore. Con una damigella di compagnia Lucrezia fece alcuni balli francesi. La sera fu dato il Miles gloriosus. Una delle moresche in quella rappresentazione dovett'essere davvero una danza mostruosa: dieci pastori cozzavan fra loro, armata la testa di corna di becco.
Il 7 febbraio sulla Piazza del Duomo vi fu torneo a cavallo fra un Bolognese e un Imolese, e si terminò senza sangue. La sera fu data l'Asinaria, con una moresca veramente bizzarra. Apparvero quattordici satiri, fra' quali uno con in mano una testa d'asino inargentata, e dentro un oriuolo a suono. I satiri danzarono su quella melodia; fecero poi una caccia di uccelli d'ogni specie e di bestie feroci. A questa rappresentazione tenne dietro nel secondo intermezzo una produzione di otto cantori, fra i quali una donna di Mantova, che si fece sentire con accompagnamento di tre liuti. Alla fine fu data una moresca rappresentante tutta la serie de' lavori campestri, aratura, seminagione, mietitura e battitura delle biade; e quindi celebrazione delle feste della mèsse. Questo ballo allegro e spigliato, forse il meglio riuscito di tutti, si chiuse con un ballo campestre al suono di zampogne.
L'ultimo dì delle feste, l'8 febbraio, era anche l'ultimo [248] di carnevale. Gl'inviati, che subito dopo volevan partirsi, presentarono donativi alla sposa, parte in belle stoffe, parte in argento lavorato. Il più curioso le venne da' rappresentanti di Venezia. L'eccelsa Repubblica aveva mandato per le feste a Ferrara due nobili uomini, Niccolò Dolfini e Andrea Foscolo, entrambi vestiti con gran lusso a spese dello Stato. Il vestimento allora non era men costoso che bello, e i sarti della Rinascenza non potrebbero che guardare con disdegno quei de' giorni nostri. In quel tempo, quando l'arte era nel massimo fiore, anche i sarti erano veri e proprii artisti. Lavoravano nelle stoffe più preziose, velluto, seta e broccato d'oro; e i colori, l'andatura delle pieghe, e il taglio degli abiti, tutto ciò era fornito da pittori. Il vestito era adunque qualcosa, cui s'annetteva il più alto valore, qual condizione essenziale all'apparenza della bella persona. Tutti i relatori delle feste di Ferrara non tralasciarono mai di notare con ogni particolarità gli abiti, che in ciascuna solennità vestivano Lucrezia e altre dame di alta origine, e descrissero anche quelli degli uomini. Quanto, in punto di vestito, si mettesse importanza sempre e in ogni luogo, lo mostran pure le relazioni che i Veneziani mandarono in patria, e che Marin Sanudo ha inserite nel suo Diario. E ancora meglio lo prova il fatto, che i due ambasciatori di Venezia, prima di muovere per Ferrara, dovettero mostrarsi pubblicamente innanzi al Senato riunito ne' loro abiti nuovi; grandi mantelli in forma di pallii di velluto cremisino foderati di ermellino e con cappucci simili. Più di 4000 persone erano ad ammirarli nella sala del Gran Consiglio, e la Piazza di San Marco era gremita di popolo curioso di vederli quasi bestie rare e maravigliose. I nuovi abiti richiesero l'uno 32 e l'altro 28 braccia di velluto.[206] Appunto questi pallii portarono gl'inviati, [249] qual regalo di nozze, alla duchessa Lucrezia, siccome era stato deciso dalla Signoria di Venezia.[207] Il bizzarro presente fu offerto con forme di pretensione insieme e d'ingenuità. I due nobili signori tennero dapprima un lungo discorso, l'uno in latino, l'altro in italiano; poscia, ritiratisi nell'anticamera e toltesi quivi le superbe vesti, andarono a consegnarle alla sposa. La natura del regalo e la pedanteria degli esibitori furono, del resto, materia di scherno e di riso alla corte di Ferrara.[208]
La sera si ballò l'ultima volta, e s'assistette quindi all'ultima produzione teatrale, la Casina. Prima che questa cominciasse, fu suonata una musica del Rombonzino, e insieme furon cantate barzellette in lode degli sposi. Anche nella Casina furono incastrati parecchi pezzi di musica. Al terzo intermezzo sei violinisti suonarono benissimo, e tra questi si produsse come dilettante anche Don Alfonso. Sembra che specialmente in Ferrara l'arte di suonare il violino avesse toccato un grado di notevole perfezione, perchè, quando Cesare Borgia nel 1498 andò alla Corte di Francia, richiese il duca Ercole di alquanti suonatori per condurli seco in Francia, ove simili artisti eran molto ricercati.[209]
Il ballo consistette in una danza di rozzi uomini, che si contrastavano il possesso di una bella fanciulla, sinchè non apparve il Dio d'amore, accompagnato da musici, che la liberò da quelle strette. Poscia si vide una grandissima palla che si divise in due, e cominciò d risuonare di musicali accordi. Vennero infine dodici Svizzeri con [250] alabarde e con bandiera nazionale ed eseguirono con gran destrezza una danza pirrica.
Se, come il Gagnolo riferisce, le rappresentazioni drammatiche terminarono con questa scena, si sarebbe potuto rimproverare all'ordinatore della festa il poco buon senso, anzi il manco di spirito. Le moresche riunivano in sè il doppio carattere dell'opera e del ballo; ed esse furono le uniche produzioni inventate per queste feste nuziali. Ma se si paragona le feste di Ferrara con quelle date in occasione degli sponsali di Lucrezia al Vaticano, è certo che le prime restano di molto inferiori. Perchè nelle feste di Roma noi vedemmo commedie pastorali con allegorie allusive a Lucrezia, a' principi di Ferrara, a Cesare ed Alessandro. Invece in quelle di Ferrara non l'ombra di scene di tal genere, tutte ingegnose o almeno tenute per tali.
Malgrado al lusso spiegato dal duca, le sue feste ci sembrano monotone e atte a indurre stanchezza; ma, sicuramente, andarono a genio alla maggioranza di quei che v'assistettero. Isabella veramente ne diede giudizio sfavorevole. «In realtà — così scriveva al marito — queste nozze sono molto fredde. A me sembrano mille anni di esser di nuovo a Mantova, per rivedere Vostra Eccellenza e il mio figliuolino, e di allontanarmi di qua, ove non è briciolo di piacere. Vostra Eccellenza dunque non ha da invidiarmi per la presenza a queste nozze, le quali sono riuscite così gelate; che quasi invidio piuttosto lei di essersi rimasto a Mantova.» Questo giudizio della nobile donna fu evidentemente ispirato anche dalla profonda repugnanza sua per l'unione del fratello con Lucrezia. Nondimeno dovette essere anche in parte determinato dal carattere di quelle feste; mentre la marchesa espressamente lamentava la stanchezza e la noia, ond'era oppressa.[210]
[251]
Appena finite le feste, anche la marchesa tornò a Mantova. L'ultima lettera sua al marito da Ferrara porta la data del 9 febbraio. Da Mantova poi scrisse il 18 la prima lettera alla cognata Lucrezia:
«Illustrissima Signora. — L'amore che io porto alla Signoria Vostra, e il desiderio di sapere che ella persevera in quella buona salute, come al momento della mia partenza, mi fanno credere che anch'ella sia nell'espettazione stessa rispetto a me. Epperò, nella speranza di farle cosa grata, le significo ch'io sono arrivata sana e salva lunedì in questa città. Vi ho trovato anche in ottima convalescenza il mio Illustrissimo Signor consorte. Resta ch'io intenda parimenti della signoria Vostra lo stesso, acciò possa pigliarne piacere, come di sorella cordialissima. E benchè reputi superfluo offrirle le cose sue, nondimeno una volta per tutte voglio ricordarle, che la può disporre della persona e della facoltà mia non altrimenti che delle sue proprie. Me le raccomando per sempre, e la prego di volermi raccomandare al di lei Illustrissimo Signor consorte, mio fratello onorandissimo.»[211]
Lucrezia rispose il 22:
«Mia Illustrissima Signora Cognata e Sorella onorandissima. — Abbenchè sarebbe stato debito mio il prevenire Vostra Eccellenza nelle prove di amorevolezza, ch'ella s'è degnata usare verso di me, nulladimeno volentieri mi rassegno alla mia negligenza per questo solo, che l'Eccellenza Vostra m'abbia per tal guisa tanto più obbligata al servizio suo. Non potrei giammai esprimerle con quanta consolazione e contentezza abbia inteso il suo prospero arrivo in Mantova e la buona salute dell'illustre suo signor consorte. Possa lo stesso, assieme all'Eccellenza Vostra, come io ne prego Dio, esser preservato in prosperità e aumento di buono e felice [252] stato secondo il desiderio loro. E per ubbidire, come desidero e debbo, al comando dell'Eccellenza Vostra, le significo che anch'io per grazia di Dio mi trovo bene e sempre pronta a far cosa che le sia grata. — Ferrara, 22 febbraio 1502. Devota Sorella, che desidera servirla, Lucrezia Estensis de Borgia.»[212]
Con questa lettera officialmente cortese cominciò il carteggio fra le due celebri donne, continuato per lo spazio di 17 anni. Ciò prova che la marchesa, sul principio ostile, divenne più tardi sincera amica della cognata.
Il duca di Ferrara fu di tutto cuore contento, quando gli ospiti presero finalmente la via d'andarsene. Solo madonna Adriana, Jeronima e quella Orsini innominata non diedero segno di voler tornare a Roma. Alessandro le aveva incaricate di rimaner colà, sino a che non giungesse la moglie di Cesare. Dovevano andare incontro a costei sino in Lombardia, e poscia accompagnarla a Roma. Se non che la duchessa di Romagna, malgrado delle premurose sollecitazioni del nunzio, non aveva voluto abbandonar la Francia. Suo fratello soltanto, il cardinale d'Albret, era giunto in Ferrara il 6 febbraio; ma ben presto continuò la strada per Roma.
Adriana, come prossima parente del Papa e di Lucrezia, era stata alla corte di Ferrara trattata assai onorevolmente, ed era anche entrata in relazione molto intima con la marchesa Isabella. Fa prova di ciò una lettera di quest'ultima, diretta ad Adriana, lo stesso giorno 18 febbraio, nel quale scrisse a Lucrezia. Vi si parla di una persona statale raccomandata in Ferrara da Adriana in proprio nome e anche a nome di madonna Giulia; donde risulta che quella innominata Orsini non era la Giulia Farnese.[213]
[253]
Ercole desiderava ardentemente la partenza di quelle donne.
In una lettera del 14 febbraio al suo ambasciatore Costabili in Roma lagnavasi con certa vivacità della inutile dimora delle stesse alla corte sua. «Noi vi diciamo — così scrivevagli — che la presenza delle nominate madonne fa sì che gran numero di altre persone, uomini e donne, rimangano similmente qui, aspettando la partenza di quelle; il che è peso grande ed insopportabile dispendio. Perchè se si conta tutt'insieme il numero delle persone del seguito di queste donne e di altre, restano ancora qui quasi 450 uomini e 350 cavalli.» Ciò egli, l'ambasciatore, potere rappresentare al Papa, ed i viveri esser consumati, e la duchessa di Romagna non esser per venire per Pasqua; e quanto a lui non poter più fare le spese, avendo già per le feste delle nozze erogato più di 25,000 ducati. Il Papa poteva quindi richiamare quelle donne. In un poscritto aggiungeva: «Io ho licenziati i gentiluomini dell'Illustrissimo Signor Duca di Romagna, dappoi che sono stati qui dodici giorni, perchè era gente impertinente, e la presenza loro era senza alcun frutto per Sua Santità e pel Duca di Romagna.»[214]
Finalmente le importune donne partirono; ma, a quel che pare, più tardi che ad Ercole non piacesse. V'è difatti un dispaccio dell'inviato Gerardo Saraceni da Roma del 4 maggio, col quale informa il duca, che monsignor di Venosa e madonna Adriana, ritornati da Ferrara, avevano espresso al Papa la loro gratitudine per l'amorevole accoglienza colà trovata.
Lo stesso giorno 14 febbraio Ercole scrisse una lettera [254] al Papa, il cui tenore, tolte alcune frasi, non aveva nulla di simulato:
«Santissimo Padre e Signore. — Prima che l'illustrissima duchessa, nostra figliuola comune, giungesse qua, era mia ferma intenzione, come si conveniva, di accoglierla con benevolenza e con onore, e in alcuna cosa non mancare che tenesse a mostrarle particolare affetto. Ora, da che Sua Signoria è arrivata, mi ha talmente soddisfatto per le virtù e degne qualità trovate in essa, che non solo mi son raffermato in quella mia buona disposizione, ma altresì il desiderio e l'animo di far così è in me grandemente cresciuto, tanto più che veggo la Santità Vostra per un Breve di sua mano farmene amorevolmente ricordo. Stia adunque Vostra Santità di buon animo; mentre io userò verso la duchessa in tali termini, che la Beatitudine Vostra abbia a riconoscere come io la tenga per la più cara cosa che abbia al mondo.»[215]
Sin dal primo entrare nel castello degli Este, Lucrezia appartenne interamente a nuove relazioni, a nuovi interessi, si può dire, a un mondo nuovo per lei. Si trovò come principessa in uno de' più ragguardevoli Stati italiani e in una città a lei straniera, che da mezzo secolo a quella parte era diventata sì importante, che lo spirito della coltura nazionale v'aveva trovata una nuova sede e una nuova forma. Si vide accolta in una delle più cospicue case principesche d'Italia, che tempo e storia insieme avevan circondata di splendore veramente romantico. Una fortuna straordinaria e immensa l'aveva fatta entrare in quella [255] casa famosa, della quale ella stessa ora doveva rendersi degna.
La stirpe degli Este era, accanto all'altra de' duchi di Savoia, la più antica e più eccelsa d'Italia. Anzi la seconda era dalla prima ecclissata per l'importanza dello Stato di Ferrara, grazie alla sua posizione geografica.
Ecco in breve la storia degli Este:
I signori, che ebbero il nome feudale da un piccolo castello tra Padova e Ferrara, ripetevan l'origine loro dalla invasione longobardica, e da una famiglia, il cui stipite chiamavasi Alberto. I nomi Adalberto e Alberto ebbero in italiano la forma di Oberto, che nel diminutivo si trasformò in Obizzo e Azzo. Nel X secolo apparisce un marchese Oberto, che fu partigiano di re Berengario prima, poi di Ottone il Grande. È ignoto da qual territorio togliessero il titolo di Marchesi egli e i prossimi discendenti suoi. Furono, ad ogni modo, grandi signori in Lombardia come in Toscana. Un pronipote di Oberto, Alberto Azzo II, vien ne' documenti nominato Marchio de Longobardia. Egli dominava da Mantova all'Adriatico e alla valle del Po, ove possedeva Este e Rovigo. Sposò Cunigonda, sorella del conte Guelfo III di Suabia. Così la famosa stirpe tedesca de' Guelfi si unì con quella degli Oberti, ed entrò nella cerchia delle relazioni italiane. Venuto a morte Alberto Azzo nel 1096 in età di più di 100 anni, lasciò i figli Guelfo e Folco. Costoro furono i progenitori della casa d'Este in Italia e della casa guelfa di Braunschweig in Germania. Guelfo difatti ereditò i beni di suo avo materno Guelfo III, col quale nel 1055 erasi estinta la linea maschile della casa sua. E andò in Germania; vi divenne duca di Baviera, e fondò la linea de' Guelfi.
Folco ereditò i possedimenti italiani del padre, e consolidò la linea degli Este. Nella gran lotta degl'imperatori tedeschi col Papato i marchesi d'Este furono aspri e tenacissimi [256] combattenti; prima seguaci fervorosi, poscia capi del partito guelfo; il che valse a fondare il loro potere anche in Ferrara.
Gl'inizii primi di questa città furono oscuri e ignoti. Si crede che fosse venuta su al tempo delle immigrazioni forestiere. Dopo la donazione di Pipino e di Carlomagno la Chiesa pretese di averne il possesso. Fu compresa anche nella donazione della contessa Matilde. Nelle guerre tra il Papa e l'imperatore, cui diè alimento la disputa intorno l'eredità di Matilde, Ferrara acquistò la sua autonomia come repubblica.
Il XII secolo era sul finire, quando gli Este cominciarono a mettervi piede. Il nipote di Folco, Azzo V, sposò in quel tempo Marchesella Adelardi, erede del capo dei Guelfi nella città; mentre Salinguerra v'era capo de' Ghibellini. Da quel momento i marchesi d'Este andaron man mano guadagnando influenza in Ferrara. Essi divennero capi del partito guelfo anche nell'Alta Italia.
L'anno 1208 riuscì ad Azzo VI di scacciare Salinguerra. La città era così profondamente stanca della lunga lotta partigiana, che diede al vincitore la qualità ereditaria di Podestà. Fu questo il primo esempio di spontanea dedizione di una libera repubblica alla mercè di un signore. Così gli Este furono i primi a fondare un potere dinastico sulle rovine di una repubblica. L'audace Salinguerra, figura eroica delle più notevoli del tempo degli Hohenstaufen in Italia, scacciò di Ferrara ripetute volte Azzo e il successore di lui Azzo VII, sino a che nel 1240 non soggiacque e finì di vivere nel carcere. Dopo d'allora gli Este furono padroni di Ferrara.
Per un certo tempo, durante l'esilio avignonese de' papi, ne furono scacciati per opera della Chiesa; ma ritornarono il 1317, chiamativi da' cittadini che s'eran sollevati contro il luogotenente di quella. Giovanni XXII gli confermò [257] con diploma d'investitura, mercè il quale ricevevano Ferrara in feudo dalla Chiesa contro l'annuo tributo di 10,000 fiorini d'oro. Oramai gli Este ordinarono il loro Stato come tiranni di Ferrara. Era uno Stato, cui il perdurare della dinastia fra tante guerre rese consistente. La dinastia degli Este non fu, come quelle di quasi tutte le altre dominazioni italiane, il prodotto di momentanee conquiste, d'intrusi illegittimi, ma antica, ereditaria, fortemente abbarbicata.
Con Aldobrandino, signore di Ferrara, di Modena, Rovigo e Comacchio, cominciò a venire al potere una serie di principi la maggior parte illustri, mercè i quali la città di Ferrara potè levarsi a quell'importanza, ond'era in possesso al cominciare del secolo XVI. Ad Aldobrandino successero i fratelli, Niccolò dal 1361 al 1388, e Alberto sino al 1393. Poi sino al 1441 dominò il figliuolo di costui Niccolò III, uomo di spiriti gagliardi e bellicosi. Essendo i suoi figli legittimi Ercole e Sigismondo minorenni, gli successe il suo bastardo Lionello. Questo principe non solo continuò quello che il padre aveva iniziato; ma fece di Ferrara uno Stato splendido e temuto. Il grande Alfonso di Napoli gli diè in moglie nel 1444 la figlia Maria; e per tal guisa gli Este si strinsero in intimo legame con la Casa reale degli Aragonesi. Lionello fu savio e liberale, cultore di ogni arte e scienza, principe di nome immortale. Nel 1450 gli successe il fratello Borso, al pari di lui bastardo, usurpando anch'egli il posto ai figliuoli legittimi di Niccolò III.
Borso fu uno de' principi più splendidi e grandiosi del tempo suo. Federico III, di ritorno dal suo viaggio d'incoronazione, lo nominò in Ferrara duca di Modena e Reggio, conte di Rovigo e Comacchio, paesi che appartenevano tutti all'Impero. D'allora in poi gli Este, la cui arma era stata un'aquila bianca, presero l'aquila nera imperiale, [258] alla quale unirono i gigli di Francia, che un tempo Carlo VII aveva loro concessi. Il 14 aprile 1471 anche Paolo II nominò in Roma Borso duca di Ferrara. Poco dopo, il 27 maggio, questo principe famoso morì nubile e senza discendenti.
Gli successe Ercole, figliuolo legittimo di Niccolò III. Per tal guisa il governo ritornò alla linea pura degli Este, dopochè, per opera appunto di due bastardi, Ferrara era diventata uno Stato potente. Nel giugno 1473 Ercole si ammogliò con Eleonora di Aragona, figliuola di Ferdinando di Napoli. Le feste pel matrimonio furono sontuosissime. Da quel tempo sino al giorno, in cui questo secondo duca di Ferrara con altrettanta pompa univa Lucrezia in matrimonio con suo figlio, eran scorsi 29 anni di lotte molte e varie. Ercole aveva corso il massimo pericolo, onde lo Stato suo potesse essere minacciato: la guerra di Venezia e di papa Sisto IV contro di lui, la quale il 1482 fu terminata felicemente, non senza però la cessione di alcuni territorii in favore de' Veneziani. Ma il pericolo poteva rinnovarsi. Accanitissimi nemici del suo Stato erano sempre Venezia e la Chiesa. La sua politica quindi prescrivevagli di collegarsi con Francia, la quale comandava a Milano e forse poteva rendersi per sempre padrona di Napoli. Per questo motivo stesso erasi visto nella necessità di dare in moglie a suo figlio Lucrezia Borgia, a condizioni però vantaggiosissime. Lucrezia adunque poteva aver coscienza dell'alta significazione che la persona sua aveva per lo Stato di Ferrara. E ciò sin dal bel principio svegliò in lei il sentimento della sicurezza, rispetto alla nobile casa, cui ella omai apparteneva.
Il duca destinò Castel Vecchio a residenza degli sposi. Ivi Lucrezia stabilì la sua corte officiale. Il celebre castello esiste tuttora come uno de' più grandiosi monumenti medievali. Esso torreggia su tutta Ferrara ed è visibile da [259] miglia lontano. Il color rosso scuro; il carattere grave e triste, congiunto ad una regolarità architettonica, che può dirsi perfetta; le quattro poderose torri; tutto ciò produce addentro impressione fortissima, specialmente al chiaro di luna, quando queste ultime riflettono la loro ombra nell'acqua del fossato, onde il castello ancora oggi, come in antico, è intorno ricinto. Alla fantasia dell'osservatore riappariscono allora le figure de' personaggi notevoli, che una volta v'abitarono o lo animarono: Ugo e Parisina Malatesta,[216] Borso, Lucrezia Borgia e Alfonso, Renata di Francia e Calvino, l'Ariosto, Alfonso II, l'infelice Tasso ed Eleonora.
Castel Vecchio fu fatto edificare dal marchese Niccolò nel 1385, dopo una sommossa cittadina. I successori lo compirono e ornarono nell'interno. Mercè cammini coperti era in comunicazione con la residenza dirimpetto al Duomo. Prima che Ercole allargasse Ferrara dal lato settentrionale, il castello rimaneva alla parte estrema, presso le mura. Una delle torri, quella chiamata del Leone, copriva la porta della città. Un braccio del Po, che allora scorreva in vicinanza, forniva d'acqua il fossato, sul quale si passava su ponti levatoi.
Al tempo di Lucrezia l'aspetto del castello era qual è ora solo nella sua forma essenziale. I comignoli delle torri sono di tempo posteriore. Le torri stesse erano più basse. Avevano merli, e così pure tutte le mura, come il castello dei Gonzaga in Mantova: intorno intorno armate de' cannoni fatti fondere da Alfonso. L'interno era una corte con portici, quadrata e lastricata. Si mostrò quivi a Lucrezia il luogo, ove Niccolò III, nel 1425, fece tagliare [260] il capo all'infelice suo figlio Ugo e alla matrigna, la bella Parisina. E la lugubre memoria dovette suggerire alla figliuola di Alessandro di esser fedele al marito.
Ampie scale di marmo menavano a' due appartamenti del castello, de' quali quello al primo piano serviva di residenza a' principi. Era una fila di sale e di camere. Col tempo tutto è così mutato, che anche quei, che più a fondo conoscono Ferrara, confessano non saper più ove fosse l'abitazione di Lucrezia. Anche delle pitture, che gli Este vi fecero fare, rimangono appena alcuni affreschi del Dossi e uno d'altro maestro.
La residenza in quel castello dovette forse essere sempre malinconica e alquanto oppressiva. Ciò era in armonia col carattere di Ferrara. Anche oggi la città reca l'impressione di una serietà cupa e monotona. Quando dall'alto de' merli del castello guardi quella estesissima pianura riccamente coltivata, pur sempre uniforme, priva di un bello orizzonte, mentre le Alpi di Verona appena si disegnano in lontananza, e il più prossimo Appennino non ha aspetto gran fatto maestoso; quando guardi quella massa nera della città, un senso di maraviglia ti assale, pensando come mai la gioconda poesia dell'Ariosto sia nata in quel luogo. Il cielo, la terra e il mare atti ad ispirarlo avrebbe dovuto piuttosto cercare in quel eliso di Sorrento, che fu culla del Tasso. Una prova di più della verità sovente osservata, che la fantasia poetica è indipendente dai luoghi.
Ferrara giace in una pianura malsana, attraversata dai rami del Po e da parecchi canali. Il fiume principale non dà punto vita alla città nè alla campagna, perchè scorre lontano molte miglia. Mura poderose con quattro porte cingevano la città d'ogni lato. Al tempo di Lucrezia, oltre Castel Vecchio sull'estremità nordica, v'era pure dal lato sud-occidentale Castel Tealto o Tedaldo. Questa [261] fortezza era posta sur uno de' rami del Po. Aveva una porta, per la quale s'entrava in città, mentre un ponte di barche menava dall'altro lato al sobborgo San Giorgio. Per questa porta Lucrezia aveva fatto il suo ingresso. Di Castel Tedaldo oggi non resta più nulla; fu distrutto sul principiare del secolo XVII, quando il Papa, espulsi i discendenti di Alfonso, fece edificare la nuova grande fortezza.
Ferrara aveva spaziose piazze e strade regolari con portici. Sulla piazza principale era il Duomo, ragguardevole edifizio di stile gotico-lombardo dell'anno 1135, nel quale fu consacrato. L'alta facciata, divisa in tre parti e con tre frontoni formati di tre serie di archi, che partecipano del gotico e del romano, poggiati su colonne, e con le antiche sculture, tutte annerite dal tempo, ha un'apparenza veramente singolare, che sente insieme dell'originalità medievale e di bizzarro romanticismo. Nulla colpisce oggi tanto in Ferrara quanto la prima vista di codesta facciata. Si crede aver dinanzi una figura del favoloso mondo ariostesco. Rimpetto a uno de' lati della Cattedrale sta ancora il gotico Palazzo della Ragione, e stavano altra volta due vecchie torri, una delle quali chiamavasi Rigobello. Di fronte poi alla facciata era la residenza degli Este. Ivi abitava Ercole, e un tempo abitò Eugenio IV, quando tenne a Ferrara il famoso Concilio. Innanzi al palazzo erano una volta le statue de' due grandi principi di Ferrara, Niccolò III e Borso: la prima equestre, l'altra seduta. Erano poste su colonne; epperò avevano piccole dimensioni. Oggi le colonne sussistono a' lati del portone: le statue furono distrutte nel 1796.
Gli Este gareggiarono con altri principi e repubbliche nell'edificare chiese e monasteri, de' quali Ferrara è ricca tuttora. Intorno l'anno 1500 più notevoli erano: San Domenico, San Francesco, Santa Maria in Vado, Sant'Antonio, San Giorgio innanzi a Porta Romana, il chiostro del [262] Corpus Domini e la Certosa. Tutte queste chiese sono state più o meno rammodernate. Benchè alcune si distinguano per belle proporzioni e spaziosità, pure niuna ha un'individualità artistica rilevante.
Col XV secolo anche Ferrara cominciò ad arricchirsi di palazzi, che oggi pure sono il decoro della deserta città, e costituiscono una parte di gran valore della storia dell'architettura, dagl'inizii del Rinascimento sino al passaggio nel barocco. Alcuni sono in uno stato di deplorabile decadenza. Sullo scorcio del secolo XVI il marchese Alberto costruì i palazzi del Paradiso, oggi l'Università, e Schifanoja. Ercole edificò il Palazzo Pareschi. Di lui può dirsi che fosse il rinnovatore di Ferrara. Allargò la città, aggiungendovi, verso settentrione, un nuovo quartiere, l'Addizione Erculea. Questa è pur oggi la parte più splendida della moderna Ferrara. È attraversata da due strade lunghe ed ampie, il Corso di Porta Po con la sua continuazione nel Corso di Porta Mare, e la strada de' Piopponi. Passeggiando per quelle vie tranquille e solitarie, fa stupore vedere quella lunga fila di bei palazzi della Rinascenza, monumenti di una vita rigogliosa, ma ora spenta del tutto. Ercole aprì colà una piazza, e all'intorno la nobiltà vi fece elevar palazzi. La si chiama oggi Piazza Ariostea, avendo nel mezzo il monumento del grande Poeta. È forse il più bello che sia mai stato eretto ad un poeta. La statua marmorea si slancia alta e libera sopra magnifica colonna, sicchè domina tutta Ferrara. Anche la storia sua accresce al monumento fascino e attrattiva. Originariamente doveva sulla piazza essere messa la statua equestre di Ercole su due colonne. Le si trasportavano sul Po, quando l'una andò a fondo. L'altra fu impiegata nel 1675 a sostenere la statua in bronzo di Papa Alessandro VII. La quale fu abbattuta nella rivoluzione dell'anno 1796, e sostituita dalla statua della Libertà, alla cui solenne elevazione assistette [263] il generale Napoleone Buonaparte. Tre anni dopo gli Austriaci gettarono giù la Libertà, e la colonna restò decapitata sino al 1810, anno in cui vi fu messa la statua imperatoria di Napoleone. E questa pure cadde col cadere dell'imperatore. Finalmente nel 1835 Ferrara pose su quella colonna la statua dell'Ariosto. Niun mutamento di dominazione politica e niuna forza umana potrà mai più gettare abbasso quell'immagine da quell'altezza, ove la sostiene e protegge un poema immortale.
Nel nuovo quartiere di Ercole sursero palazzi sontuosi. Il fratello di lui Sigismondo edificò il grandioso Palazzo Diamanti, ove oggi è la Pinacoteca. I Trotti, i Castelli, i Sacrati e i Bevilacqua v'eressero i loro palazzi privati, esistenti tuttora. Ferrara era abitata da numerosa e ricca nobiltà, discendente in parte da antiche famiglie di conti. Oltre i già nominati, eran del novero: i Contrarii, i Pii, i Costabili, gli Strozzi, i Saraceni e i Boschetti, i Roverella, i Muzzarelli e i Pendaglia.
L'aristocrazia ferrarese aveva da gran tempo superato il periodo delle intestine lotte partigiane e della indomita fierezza feudale, ed era diventata cortigiana. Gli Este, e massime il battagliero Niccolò III, avevano domati e sommessi questi baroni, che originariamente vivevano nei loro feudi. Ormai essi erano al servizio del principe, coprivano i più ragguardevoli ufficii nella corte e nello Stato, ed eran capitani nell'esercito. Prendevano bensì parte, e forse con più fervore che non facesse la nobiltà degli altri Stati italiani, alla cultura dello spirito, essendo questa essenzialmente opera de' principi d'Este. Epperò alcuni nomi di grandi signori spiccano a quell'epoca nel movimento letterario di Ferrara.
L'Università ferrarese sin dalla metà del XV secolo era venuta in tanto rigoglio da stare bene, accanto a quelle di Padova e Bologna, tra le più celebri d'Italia. Era stata [264] aperta nel 1391 dal marchese Alberto; poscia riformata da Niccolò III. All'apogeo dello splendore la condussero Lionello e Borso. Lionello fu discepolo del famoso Guarino da Verona, ed egli stesso dotto assai in ogni scienza. Fu altresì l'amico e l'idolo degli umanisti del tempo suo. Pieno d'entusiasmo, faceva collezione di manoscritti rari o li faceva copiare. Fu il fondatore della Biblioteca. Borso continuò le stesse tracce con altrettanta attività e fervore.
Già nel 1474 l'Università di Ferrara contava 45 professori, largamente retribuiti. Ercole ne aumentò il numero. Nel primo anno del suo regno fu anche introdotta l'arte tipografica.[217]
Nell'indole del popolo, come nel carattere della città, una disposizione seria si direbbe che sia l'impronta fondamentale e più risaltante. Con essa si disposava il bisogno di speculazione e di critica, come pure delle scienze esatte. Girolamo Savonarola, il profeta fanatico in quel deserto morale dei tempi borgiani, nacque in Ferrara. Lucrezia ebbe forse spesso a ricordarsi di quest'uomo, nel quale il padre suo per mano del carnefice aveva fatto soffocare la protesta delle anime ancora credenti e pure contro il Papato di lui.
L'astronomia e la matematica, le scienze naturali in generale e la medicina, che allora insieme con quelle era parte integrante delle discipline filosofiche, fiorirono specialmente in Ferrara. Il Savonarola stesso aveva dovuto studiar medicina. Suo avo Michele, celebre medico di Padova, era stato chiamato a Ferrara da Niccolò III.[218] Come medico, matematico e filosofo ed anche qual filologo vi brillava dal 1464 il vicentino Niccolò Leoniceno. Ai piedi suoi sedettero tali, che poscia furono i più famosi eruditi e poeti [265] d'Italia. Egli formava ancora l'orgoglio di Ferrara, quando v'andò Lucrezia. Invece il grande matematico Domenico Maria Novara insegnava allora in Bologna, ove aveva avuto a discepolo il Copernico.
Da questa Università vennero fuori grandi umanisti, che al tempo dell'arrivo di Lucrezia erano ancora bambini o giovanetti, fra i quali i due Giraldi e quel geniale Celio Calcagnini, che le aveva dedicato una poesia per nozze. Tutti questi uomini erano ben veduti alla corte degli Este, essendo persone tutt'altro che esclusive, ma d'ingegno versatili e facili nella forma. In verità, solo più tardi, quando la divisione del lavoro e la necessaria limitazione professionale prevalse nella scienza, la viva erudizione dell'umanismo si trasformò in pedanteria di casta.
Ma soprattutto alla poesia, e ad una particolar forma di essa, la città di Ferrara, proprio nell'epoca di Lucrezia, diè impronta affatto speciale ed assolutamente romantica. Per questa via potette divenire una di quelle città, che pe' tardi nepoti sono ancora luoghi di pellegrinaggio della civiltà. Ferrara produsse molti poeti in ambedue le lingue, latina e italiana. Pressochè tutti quegli eruditi poetavano in latino. La più parte non erano certamente che gelidi facitori di versi; ma alcuni s'elevarono al più alto grado nella letteratura poetica, sicchè anche oggi non sono dimenticati. Eran tra questi specialmente i due Strozzi, padre e figlio, e Antonio Tebaldeo. Se non che, a petto di tali poeti neolatini, ebbero importanza di gran lunga maggiore quei che in lingua italiana seppero svolgere e perfezionare l'arte epico-romantica. La lussuriosa e tanto splendida corte di Ferrara, con quel carattere di forte romanticismo, onde la casa degli Este erasi circondata, mentre la storia sua rimontava al tempo eroico medievale, con quella eletta nobiltà e col moderno sentimento cavalleresco, favoreggiava già per propria essenza il culto del genere [266] epico. Ma s'aggiungeva anche, come fondo adatto e propizio, la città con la sua propria storia e col suo carattere architettonico. In Ferrara, come in Firenze, non vi ha monumenti dell'antichità romana: tutto appartiene al Medio Evo. Lucrezia non trovò più nella corte di Ercole l'amico di lui, il Bojardo, il celebre poeta dell'Orlando Innamorato. Ma forse viveva ancora il cantore di Mambriano, Francesco Cieco. Ed abbiamo già visto come l'Ariosto, quegli che presto doveva oscurare la gloria de' due precursori, avesse offerto gli omaggi suoi a Lucrezia.
Meno prospera vita delle scienze e della poesia ebbero in Ferrara le arti belle. Pure, se non vi produssero maestri di prim'ordine, come Raffaello o Tiziano, vi tennero, ad ogni modo, non ispregevole luogo per la coltura italiana. Gli Este coltivarono la pittura. I palazzi loro fecero ornare con affreschi, de' quali rimangono ancora alcuni notevoli per originalità, come quelli che ultimamente, nel 1840, furono scoperti nel Palazzo di Schifanoja. Una scuola indigena venne in gran reputazione sino dalla metà del XV secolo. Ne fu capo Cosimo Tura. Uscirono da essa due ragguardevoli pittori, Dosso Dossi e Benvenuto Tisio, il quale sotto nome di Garofalo divenne celebre come uno de' migliori discepoli di Raffaello. Le opere di questi pittori, entrambi contemporanei di Lucrezia — Garofalo era più giovane di un anno — ornano ancora molte chiese di Ferrara, e sono altresì il principale decoro della Pinacoteca.
Tal'era, ne' tratti suoi più essenziali, la città di Ferrara; e tale pure la vita spirituale, ond'era animata, intorno il 1502. È evidente che, oltre lo splendore della corte e la politica importanza, come capitale dello Stato, anche la vita interiore v'era fervida e rigogliosa. Alcuni cronisti affermano, che il numero degli abitanti toccasse allora i 100,000. Fosse pure la cifra esagerata, ad ogni modo, al principio del XVI secolo, all'epoca sua fiorente, Ferrara [267] dovett'essere più popolosa di Roma. Era città prospera ed agiata: accanto alla nobiltà, una borghesia operosa, mercè l'industria, massime la fabbricazione di panni, e mercè il commercio, vi si procacciava un tranquillo godimento della vita.
Con ogni studio Alessandro teneva dietro a quanto accadeva in Ferrara. Egli non perdeva d'occhio la figlia. Questa e gli agenti di lui lo informavano d'ogni segno di favore o disfavore, cui incontrasse. Cessata l'ebbrezza delle feste nuziali, quando Lucrezia doveva affrontare con tatto l'invidia e il sospetto e formarsi nella corte un solido stato, potevano forse esserle serbati giorni difficili e penosi. Le informazioni di costei rassicurarono Alessandro, specialmente rispetto al contegno di Alfonso. Egli non supponeva che il principe erede di Ferrara amasse la figliuola. Ma ciò che solo gl'importava era che la trattasse da moglie e la facesse madre di un principe. Sentito che Don Alfonso passava la notte con Lucrezia, n'espresse grande soddisfazione all'ambasciatore ferrarese. «Certamente di giorno egli va altrove, giovane qual è, pel piacer suo; ma in ciò fa molto bene:» così pensava Sua Santità.[219]
Egli ottenne pure che il duca désse alla nuora, come rendita annuale, 12,000 ducati invece di 6000, come colui voleva. Lucrezia era difatti liberale e aveva bisogno di molto.
Frattanto Cesare apparecchiavasi a condurre a termine [268] quelle imprese, di cui gli erano mallevadori insieme il parentado con Ferrara e l'assenso di Francia. Dopochè ebbe fatto sgozzare in Castel Sant'Angelo il giovane Astorre Manfredi, mosse il 13 giugno per Romagna. Trasse in inganno l'ingenuo Guidobaldo d'Urbino, e ad un tratto s'impadronì dello Stato di lui. Ciò fu il 21 giugno. Il duca fuggiasco riparò a Mantova: poi andò con la moglie a Venezia.
Ora Cesare si rivolse contro Camerino. Trasse in agguato i Varano, e li fece trucidare: solo uno scampò. Di tutte le sue geste egli informava la corte di Ferrara. Ed Ercole non si vergognava di felicitarlo di atrocità, mercè le quali principi amici o prossimi parenti di lui avevan subito la estrema rovina. Da Urbino scrisse alla sorella questa lettera:
«Illustrissima Signora e Germana nostra carissima. — Tengo per certo, che per la presente indisposizione della Eccellenza Vostra non possa esservi nulla più efficace e più salutare che il sentire buone e felici nuove. Le facciamo sapere che in questo punto abbiamo avuto nuova certezza della presa di Camerino. Noi la preghiamo di far onore a codesta nuova con evidente miglioramento dello stato suo, e di volerci informare di ciò. Imperocchè per l'indisposizione sua non possiamo provar piacere nè per questa, nè per altre nuove. Noi la preghiamo pure di partecipare la presente all'Illustrissimo Signor Don Alfonso, suo marito, come a fratello nostro amatissimo, e al quale per fretta non scriviamo. — Urbino, 20 luglio 1502. Di Vostra Eccellenza fratello, il quale l'ama come se stesso, Cesare.»[220]
Poco dopo Cesare fece alla sorella la sorpresa di una visita nel Palazzo Belfiore. Vi giunse con cinque cavalieri travestito, il 28 luglio. Si fermò due ore appena; quindi, accompagnato sino a Modena dal cognato Alfonso, ripartì [269] frettolosamente per recarsi in Lombardia presso il re di Francia.
In questo mentre Alessandro aveva presa una risoluzione intorno alla conquistata Camerino, interamente in opposizione con le mire di Cesare, la quale mostrava a costui, che alla fin fine la volontà del padre non era tutta e intera in poter suo. Il 2 settembre 1502 Alessandro investì di Camerino, come Ducato, quell'Infante Giovanni Borgia, nominato da lui talvolta suo, tal'altra figliuolo di Cesare, e che aveva già investito del Ducato di Nepi. Tutti questi possedimenti reggeva in nome dell'Infante il suo tutore, il cardinal di Cosenza, Francesco Borgia. V'hanno monete di questo effimero Duca di Camerino.[221]
Il 5 settembre Lucrezia, a grandissimo cordoglio di Alessandro, che aveva sperato nella nascita di un erede al trono, partorì una bambina morta. Essa ne fu gravemente malata. A questa nuova Ercole venne in fretta da Reggio, ove era ito incontro a Cesare di ritorno dalla Lombardia. Trovò Lucrezia affidata alle cure del più abile de' medici di Alessandro, il vescovo di Venosa. Il 19 settembre venne anche Cesare a visitar la sorella: restò con lei due giorni; quindi andò ad Imola.[222]
Lucrezia si sentiva opprimere in Castel Vecchio, e desiderava respirare aria migliore. L'8 ottobre andò a stare nel chiostro del Corpus Domini. Vi fu accompagnata da tutta la corte. Si riebbe in salute, e già il 22 del mese [270] stesso, a grande gioia di tutti, come lo stesso duca Ercole scrisse a Roma, potè tornare alla sua residenza nel castello. Alfonso andò pure a Loreto a sciorre un voto fatto pel ristabilimento della moglie. La pubblica sollecitudine, di che Lucrezia nella congiuntura fu fatta segno, mostrarono che si cominciava ad amarla in Ferrara.[223]
Nel mese d'ottobre ebbe pur luogo la ribellione dei condottieri, che mancò poco non traesse Cesare a rovina. Per la defezione de' generali anche il paese d'Urbino insorse, tanto che Guidobaldo il 18 ottobre poteva già rientrare nella sua capitale. Ma la protezione di Francia e la cecità de' codardi salvarono il duca di Romagna dal più estremo pericolo. Il 31 dicembre egli si sbarazzò di quei baroni col noto strattagemma in Sinigaglia. Fu il suo capolavoro. Vitellozzo e Oliverotto fece immediatamente sgozzare. Gli Orsini, Paolo, il suocero di Jeronima Borgia, e Francesco, il duca di Gravina, che un tempo doveva essere marito di Lucrezia, incontrarono la stessa sorte il 18 gennaio 1503.
Il duca di Ferrara mandò a Cesare congratulazioni. I Gonzaga fecero altrettanto. Isabella stessa, che aveva visto scacciar da Urbino sua cognata, e il marito di questa costretto a fuggirsi di colà una seconda volta, gli scrisse lettere piene di complimenti. I Gonzaga volevano ora effettivamente impegnar la mano del loro piccolo Federigo, principe erede, con Luisa, figliuola di Cesare. E con la mediazione di Francesco Trochio già si trattava a Roma dell'affare. Ecco una lettera d'Isabella a Cesare:
«Al Signor Duca di Valenza. — Illustrissimo, etc. — De' felici progressi di Vostra Eccellenza, ch'ella con amorevole lettera ci ha significati, abbiam preso piacere e contento, quale si conviene alla mutua amicizia e alla benevolenza, che è tra lei e il nostro illustre signor consorte. [271] Epperò in suo e in nostro nome ci congratuliamo seco per la sicurezza e prosperità conquistate; e la ringraziamo per la partecipazione e anche per l'offerta di tenerci avvisati degli ulteriori successi. Al qual proposito la preghiamo di persistere nella bontà sua. Poichè, amandola come noi facciamo, desideriamo sentire più spesso degli andamenti suoi per poterci rallegrare con lei pel bene e per l'esaltazione di Vostra Eccellenza. Ora, credendo noi che, dopo le pene e le fatiche patite in codeste sue gloriose imprese, voglia anche trovar loco di ricrearsi, mi è parso bene mandarle 100 maschere per mezzo del nostro staffiero Giovanni. Certamente noi lo riconosciamo come vile dono rispetto alla grandezza de' meriti dell'Eccellenza Vostra e anche all'animo nostro. Nullameno valga come testimonianza che, ove in questo nostro paese fosse cosa più degna e conveniente, più volentieri gliela manderemmo. Che se inoltre le maschere mancheranno della bellezza che pur si confarebbe, piaccia a Vostra Eccellenza imputarlo ai maestri di Ferrara. I quali, per la proibizione già da molti anni di mascherarsi colà in pubblico, hanno disimparato a farne. Possa quindi supplire la sincera volontà e affezione nostra verso Vostra Eccellenza. Quanto alla pratica nostra, non accade replicare altro, finchè non intendiamo da Vostra Eccellenza la risoluzione di Sua Santità, Nostro Signore, circa il caso della sicurtà, che le abbiamo fatto esplicare a voce mediante Brognolo. Onde stiamo in aspettazione per venire alla conclusione. A lei ci raccomandiamo ed offeriamo. 15 gennaio 1503.»[224]
Cesare da Acquapendente rispose così alla marchesa:
«Illustrissima Signora Commara e Sorella nostra onorandissima. — Abbiamo ricevuto il dono di Vostra Eccellenza delle 100 maschere, che mi sono state molto accette per la multiplice varietà e singolare bellezza, e ancora più per [272] essere sopraggiunte in tempo e luogo che più al proposito non sarebbe potuto essere, come se Vostra Eccellenza ci avesse prefissa la legge e l'ordine delle imprese nostre e della nostra tornata a Roma. In vero in quel medesimo giorno ci eravamo impadroniti della città e contado di Sinigaglia con le fortezze, e punito di santa ragione i perfidi tradimenti degli avversarii nostri, e liberato altresì da tirannia Città di Castello, Fermo, Cisterna, Montone e Perugia, e ridottele all'ubbidienza di Sua Santità, Signor Nostro. Ed ora abbiamo anche deposto dal tirannico dominio, che s'era usurpato a Siena, Pandolfo Petrucci, addimostratosi contro di noi feroce nemico. E soprattutto ci sono state accettissime le maschere, perchè venivano dalla fraterna e singolare benevolenza, ch'ella, ne siamo certissimi, con l'Illustrissimo suo Signor Consorte ci porta. E di questo ella ci dà prova con l'amorevolissima lettera, con la quale ci ha mandato quel presente. Per tutte codeste cose noi dovremmo per lettera ringraziarla infinite volte, se la grandezza de' meriti suoi e del suo consorte presso di noi non rifiutasse ogni dimostrazione di parole, ricercando invece efficacità di fatti. Noi useremo le maschere, e la loro perfetta bellezza ci sparagnerà la cura di ogni altro ornamento. Quanto alla nostra comune parentela vi perseveriamo sempre con maggior fervore. Nella nostra andata a Roma ci adopereremo in guisa che Sua Santità, Signor Nostro, le dia pienissimo effetto. Al prigioniero accorderemo la libertà, siccome l'Eccellenza Vostra da noi desidera. Assumeremo subito piena informazione, e, avutala, non ci resteremo di rispondere alla Signoria Vostra Illustrissima con sua soddisfazione, e a questa ci raccomandiamo. — Dal campo papale presso Acquapendente, il primo febbraio. Di Vostra Eccellenza compare e fratello il Duca di Romagna, etc., Cesare.»[225]
[273]
Cesare s'accostava allora al sommo de' desiderii suoi, la corona reale dell'Italia centrale. Questo audace disegno però non restò che un sogno. Luigi XII gli proibì di spingersi e penetrare più in là. Gli Orsini e altri baroni dei territorii romani si levarono a lotta disperata; ond'ei dovette in fretta recarsi a Roma. Poichè Consalvo aveva abbattuto la potenza francese nel Regno di Napoli, e il 14 maggio era entrato vittorioso nella capitale, Alessandro e suo figlio cominciarono a volgersi verso Spagna. Se non che Luigi XII, per la riconquista di Napoli, mandò sotto il La Tremouille nuovo esercito, nel quale prese servizio al soldo del re anche il marchese di Mantova. Nell'agosto 1503 l'esercito s'era avanzato sin sul Patrimonio di San Pietro.
Ma ecco che in un solo e stesso giorno Alessandro e Cesare caddero malati. Il Papa morì il 18 agosto. Che entrambi siano stati in pari tempo avvelenati, è stato affermato e negato insieme. E, per quante ragioni si possa far valere in favore dell'una e dell'altra opinione, questo è sicuro che il fatto rimane incerto.
La morte del padre fu per Lucrezia, fatta astrazione da ogni sentimento personale, un avvenimento capace di mettere in forse la condizione sua in Ferrara. In realtà, la potenza di Alessandro era stata per lei saldo sostegno. Nè essa poteva dirsi ancora sicura dell'affetto duraturo del suocero nè del marito. Piuttosto Alfonso ora poteva ricordarsi di ciò che una volta gli ebbe detto Luigi XII: che, alla morte di Alessandro VI, egli non saprebbe più chi fosse la donna, la quale egli avea sposata. Il re stesso domandò un giorno all'ambasciatore di Ferrara presso la sua corte, se sapesse in che modo madonna Lucrezia aveva accolta la nuova della morte del Papa. E avendo il ministro risposto d'ignorarlo, Luigi XII gli disse: «So che non siete mai stati contenti di codesto matrimonio; questa madonna [274] Lucrezia non è nemmeno la moglie effettiva di Don Alfonso.»[226]
Lucrezia sarebbe stata sgomenta assai, dove avesse potuto leggere la lettera che il suocero scrisse al suo ambasciatore Giangiorgio Seregni in Milano, allora in possesso de' Francesi, con la quale gli apriva l'animo suo in occasione della morte di Alessandro VI:
«Giangiorgio. — Per chiarirti di quello che da molti si è domandato, se per la morte del Papa stiamo di mala voglia, ti assicuriamo che la non ci è spiaciuta per niun capo. Piuttosto per l'onore del Nostro Signore Dio e per l'universale bene della Cristianità abbiamo già da più dì desiderato, che la divina bontà e provvidenza volesse provvedere un pastore buono ed esemplare e togliesse dalla Chiesa sua tanto scandalo. Per quel che riguarda noi peculiarmente, non potremmo altrimenti desiderare; perchè presso di noi prepondera il riguardo alla gloria di Dio e al bene dell'universale. Pure, oltre a questo, ti diciamo, che non fu mai Papa, dal quale non avessimo ricevuto grazia e piacere più che da questo, anche dopo l'affinità contratta. Avemmo da lui soltanto appena quello, cui era obbligato, mentre noi non ce ne stemmo alla fede sua. Del rimanente, in niun'altra cosa, nè grande nè mediocre nè piccola, siamo stati compiaciuti da lui. Il che crediamo in gran parte procedesse per colpa del duca di Romagna. Non avendo egli potuto fare di noi quello che avrebbe voluto, si è con noi condotto da estraneo. Giammai non si è aperto con noi; giammai non ci ha communicati gli andamenti suoi; nè noi abbiamo communicato a lui i nostri. Da ultimo, inclinando egli a Spagna, e vedendoci noi buoni francesi, non avevamo mai da sperare piacere alcuno nè dal Papa nè da Sua Signoria. Per questo tal morte [275] non ci è dispiaciuta; mentre non avevamo ad aspettarci che male dalla possanza del nominato duca. Noi vogliamo che tu communichi puntualmente questo nostro secreto al Gran Maestro (Chaumont), al quale non vogliamo che sia celato l'animo nostro. Con altri però parlane sobriamente. Respingerai poscia la presente indietro a messer Gian Luca (Pozzi) nostro Consigliere. — Belriguardo, 24 agosto 1503.»[227]
Questo linguaggio era molto schietto. Tenuto conto de' grandi beneficii venuti allo Stato suo dall'unione con Lucrezia, si sarebbe forse potuto dare ad Ercole dell'ingrato. Se non che egli aveva sempre risguardato quel matrimonio puramente come un affare. E quanto poi alle relazioni sue con Cesare, aveva ragione di concepirle come faceva.
Sentiamo ora come scrivesse della morte del Papa un altro principe famoso e molto intimo con i Borgia. Il marchese di Mantova, al tempo dell'avvenimento, era all'esercito francese, e nel suo quartier generale in Isola Farnese, a poche miglia innanzi Roma. Di colà scrisse alla moglie Isabella il 22 settembre 1503:
«Illustre Signora, moglie nostra amatissima. — Affinchè la Signoria Vostra sia, al pari di noi, informata del decesso di papa Alessandro VI, le significhiamo quanto segue. Essendo malato, egli cominciò a parlare in forma, che chi non intendeva il suo proposito, credeva che vaneggiasse, ancorachè ragionasse con gran sentimento. Le parole sue erano: — Verrò, verrò, l'è ragionevole; aspetta ancora un po'. — Quei che intendevano il suo secreto, le spiegavano così: nel Conclave, alla morte d'Innocenzo, egli pattuì col diavolo, comprando il Papato con l'anima sua; fra gli altri patti fu che dovesse vivere sulla Santa Sede 12 anni; il che gli è stato atteso con quattro dì di giunta. V'è ancor chi afferma aver visto in camera di lui, [276] al punto di rendere lo spirito, sette diavoli. Morto che fu, il corpo suo cominciò a bollire e la bocca a spumare, come caldaio sul fuoco; e continuò così sino a che stette sopra terra. Di più divenne oltre modo grosso, tanto che in lui non appariva più forma di corpo umano, e dalla larghezza alla lunghezza non v'era più differenza alcuna. Fu portato alla sepoltura senza molti onori; il cataletto fu trascinato da un facchino, con una corda legata al piede, sino al luogo ove fu sotterrato; e ciò perchè non si trovò alcuno che volesse toccarlo. Gli furon fatte esequie tanto misere, che la Nana moglie del zoppo le ha in Mantova più onorevoli. L'ultima fama sua rivive ogni giorno ne' più vituperosi epitaffi.»[228]
Le relazioni del Burkard, dell'ambasciatore veneto Giustinian, del ferrarese Costabili e di molti altri contengono la descrizione stessa, e quasi con identiche parole. La favola del diavolo o Babuino, venuto a prendersi Alessandro, si può, del resto, legger pure in una relazione nel Diario di Marin Sanudo. Il marchese Gonzaga, uomo di spirito tanto côlto e largo, la teneva per vera con la stessa ingenuità del popolino di Roma.
La leggenda diabolica di Faust e di Don Giovanni, che venne istantaneamente a collegarsi con la morte di Alessandro VI — e non mancò neppure il cane nero, che irrequieto e senza mai posare correva in San Pietro — quella leggenda, dico, esprimeva il giudizio de' contemporanei sull'abominevole natura del Borgia e sulla sconfinata fortuna toccatagli in vita. Nulladimeno la figura morale di Alessandro VI è così enigmatica da rimanere un mistero, anche per lo sguardo del più acuto psicologo.
In lui, come radice de' delitti suoi, non scopriamo ambizione nè sete di dominio, donde è mai sempre scaturita la massima parte delle colpe de' regi. In lui non odio [277] del simile, nè crudeltà, nè piacere nel male; ma sensualità e la più nobile delle forme, che valgano a spiritualizzarla: l'amore pe' figliuoli. Tutte le osservazioni della psicologia disporrebbero l'animo a credere che l'enorme carico di colpe abbia fatto di Alessandro un uomo oppresso, come Tiberio e Luigi XI, dalla paura e dalla demenza. In quella vece innanzi a noi sta un uomo sempre pronto ai godimenti mondani, che sin nella più tarda età non sente l'esaurimento della vita: «Il Papa ogni dì si ringiovanisce; i suoi pensieri non passano mai una notte; è di natura allegra e fa quello che gli torna utile; e tutto il suo pensiero è di far grandi i suoi figliuoli; nè d'altro si cura.» Così l'ambasciatore veneto Capello nel 1500, due anni prima che quegli morisse.
Il lato inesplicabile della natura sua non eran già le passioni, cui abbandonossi, nè le azioni commesse. Delitti pari, e anche più gravi, consumarono molti principi, prima e dopo di lui. L'inconcepibile è che le commettesse come Papa. Come è possibile che Alessandro VI congiungesse insieme quel delirio de' sensi e quelle spietate azioni con la coscienza continua di essere, qual ei si teneva, sacerdote supremo della religione, e rappresentante di Dio in terra? Abissi dell'anima umana! Non v'ha occhio capace di penetrarli e scrutarli. In che modo mai riduceva egli al silenzio i rimorsi e i palpiti della coscienza; come riusciva a nasconderli sotto quell'aspetto sempre franco e sereno? E poteva egli credere all'immortalità dell'anima e all'esistenza di un Dio?
Ove si guardi alla gioconda e festosa spensieratezza, che in ogni azione sua poneva, si potrebbe affermare che Alessandro VI sia stato ateo e materialista per convinzione. Per spiriti profondamente filosofici e infelici vi può essere un punto di vista, dal quale tutto questo dibattersi del mondo umano apparisca come privo di scopo, come miserabile [278] giuoco di fantocci. Più di un papa e di un imperatore poteva ripetere il noto motto: Vanitas, omnia vanitas, se nella coscienza della propria effimera esistenza osservava questa fragile gabbia di matti e l'insipidezza delle gioie e de' dolori loro, e le illusioni e i timori e l'egoismo e le idolatrie dell'uomo. Ma in Alessandro VI non v'ha traccia dello spirito di un Faust; nulla di un sottilizzante disprezzo del mondo; nulla di uno scetticismo titanico. Piuttosto una straordinaria ingenuità di fede sembra essersi in lui disposata con l'attitudine ad ogni enormezza. Lo stesso Papa, che all'effigie della Madre di Gesù faceva improntare i tratti dell'adultera Giulia Farnese, credeva di essere sotto il patrocinio speciale della Madonna.
La vita di Alessandro VI è il più acuto contrapposto dell'ideale di Cristo. Questa è verità tanto incontrastabile, che non ha bisogno di altra prova se non del semplice confronto del procedere di colui con le dottrine dell'Evangelio. Si confronti soltanto con i dieci Comandamenti: non fornicare — non ammazzare — non far falsa testimonianza....
Il fatto che Rodrigo Borgia sia stato Papa, apparirà a tutti i seguaci della Chiesa come il più miserando degli avvenimenti, come quello che dovrebbe essere deplorato più amaramente di ogni altra opposizione ostile, anche di ogni aperta ribellione alla Chiesa stessa. Certo è un fatto che non può distruggere la venerabilità dovuta alla Chiesa, a questo secolare ed elevatissimo prodotto dello spirito umano. Ma non distrugge forse tutta una serie di concetti mistici, che con l'idea del Papato si eran connessi?
Le maledizioni contro il padre suo, che a un tratto rimbombarono per tutta Italia, difficilmente arrivarono all'orecchio di Lucrezia. Pure n'ebbe in sè qualche sentore, e dovette esserne terribilmente commossa. Tutto il passato in Roma le tornò ancora una volta vivo nella coscienza, [279] ed oppresse l'anima sua. Suo padre, che primo l'aveva fatta infelice, era poscia stato l'artefice della fortuna sua. Pietà infantile e religioso timore dovettero a un tempo assalirla. Il Bembo ha descritto il suo dolore e la sua angoscia. Quest'uomo, dipoi tanto celebre, era venuto il 1503 alla corte di Ferrara, ov'egli, giovane nobile veneto della più fine coltura e di bellissimo aspetto, fu accolto con gioia, e s'era preso d'ardente passione per Lucrezia. Il perfetto cortigiano le scrisse questa lettera di condoglianza:
«Io venni bene ieri a Vostra Signoria parte per farle intendere di quanto affanno e cordoglio m'erano le sue disavventure e parte per confortarnela, come io potessi il meglio, e pregarla a darsene pace, intendendo io che voi ve ne affliggevate oltra modo. Ma non m'è venuto fatto potermi in ciò soddisfare nè nell'una cosa, nè nell'altra. Chè, tosto che io vidi voi in quelle tenebre e in quel nero drappo mesta e lagrimosa giacere, ogni senso mi si ristrinse nel cuore, e stetti buona pezza senza poter niente dire, o almeno senza sapere ciò che io mi dicessi. E più tosto bisognoso io di conforto, che possente a darne altrui, confusa l'anima dalla pietà di quella vista, tra mutolo e scilinguato mi dipartii, siccome vedeste o poteste vedere. La qual cosa se forse m'è avvenuta perciò, che a voi non facesse nè di mia doglianza nè di mio conforto mestiero, siccome a colei, la quale e conoscendo la mia verso lei osservanza e fede, conosce parimente il mio dolore per lo suo, alla consolazione piglia per se stessa dalla sua infinita sapienza conforto senza altronde attendernelo, meno mi doglio di me stesso e della poca mia virtù, che intanto m'abbandonasse a quel tempo. Ma se pure e in questo e in quello ho a farne a voi parevole segno: dico che in quanto alla noia, senza fallo alcuno nessun'altra via avea la fortuna da potermi compiutamente far tristo e doloroso, che questa, [280] dando a voi di dolervi e di attristarvi cagione: nè poteva suo strale alcuno passarmi tanto nell'anima quanto quello che mi veniva dalle vostre lagrime bagnato a ferire. In quanto poi alla consolazione e conforto, altro non so che dirvi, se non che vi ricordiate che ogni vostro dolore ammollisce e fa minore il tempo, il qual tempo indugiare e non prevenir col consiglio tanto più a voi si disdice, quanto da voi maggior prudenza è aspettata, la quale per le cotidiane pruove delle vostre virtù s'aspetta sommissima in ogni avvenimento e caso. Che se bene ora voi quel vostro così gran padre avete perduto, che maggiore la fortuna medesima dare nol vi potea, non è perciò questo il primo colpo che avete dalla vostra nemica e maligna disavventura ricevuto. Anzi dee oggimai l'animo vostro aver fatto il callo alle percosse degli avversi casi, tante e sì gravi n'avete voi sofferte per lo addietro. Oltra che, perciò che così portano per avventura le presenti condizioni che si faccia, non è da commettere, che alcuno creder possa che voi non tanto la caduta, quanto ancora la stante vostra fortuna piagniate. Ma per avventura io sono poco prudente, che a voi queste cose scrivo. Perchè farò fine umilmente raccomandandomivi. State sana. A' 2 d'agosto 1503. In Ostellato.»[229]
Calmata la prima commozione, Lucrezia potette benedire alla sua sorte. Se, anzi che esser moglie di Alfonso, i destini suoi fossero stati ancora legati a quelli de' Borgia, in quanta miseria non sarebbe anch'ella caduta! Presto si convinse che lo stato suo in Ferrara non era scosso. Doveva ciò parte alle proprie prerogative, e parte pure a [281] quei solidi e duraturi vantaggi che aveva arrecati in dote alla casa d'Este. Se non che vedeva la vita de' suoi in pericolo a Roma. Il fratello Cesare vi giaceva malato. V'erano anche il figliuolo Rodrigo e Giovanni, il duca di Nepi. E intanto gli Orsini, spinti dal furore, cercavano vendicare nel sangue de' Borgia quello de' congiunti loro.
Ella assediò di preghiere il suocero, perchè aiutasse Cesare e gli mantenesse gli Stati. Ercole trovò più vantaggioso che la Romagna rimanesse a Cesare, anzichè cadesse in potere de' Veneziani. Mandò colà Pandolfo Collenuccio per eccitar le popolazioni a restar fedeli al loro duca. Al suo ambasciatore in Roma esprimeva la sua gioia per esser Cesare in via di guarigione.[230]
Ad eccezione della Romagna, lo Stato, messo insieme a furia di rapine dal figlio di Alessandro, cominciò in un momento ad andare in brani. I tiranni scacciati da lui ritornavano nelle loro città. Da Venezia Guidobaldo ed Elisabetta si condussero in fretta ad Urbino, che gli accolse festeggiando. Ed anche più presto di loro era Giovanni Sforza tornato da Mantova a Pesaro. Il marchese Gonzaga aveva mandato a lui la prima nuova della morte di Alessandro e della malattia di Cesare; e lo Sforza ne lo ringraziò con questa lettera:
«Illustre Signore e Cognato onorandissimo. — Ringrazio l'Eccellenza Vostra per la buona nuova che s'è degnata di darmi con le sue lettere dello stato del Valentino. N'ho in vero provato tanta allegrezza, che spero omai mettere un termine ai mali miei. Io l'assicuro, che quando rientri nel mio Stato mi considererò come creatura di Vostra Eccellenza, perchè ella è padrone del tutto e anche della mia propria persona. Io la prego, se altro la intende del nominato Valentino che sia morto, a volermene [282] dare qualche avviso, che la mi farà singolare piacere. Di cuore me le raccomando per sempre. — Mantova, 25 agosto 1503. Di Vostra Eccellenza servitore Giovanni Sforza di Pesaro.»[231]
Già il 3 settembre lo Sforza potette informare il marchese di essere entrato in Pesaro fra le acclamazioni del popolo. Per il fausto avvenimento fece coniare una medaglia. Porta da un lato il suo busto; dall'altro un giogo spezzato con le parole: Patria recepta.[232] Sitibondo di vendetta, infuriò contro i ribelli di Pesaro con confische, col carcere e con esecuzioni capitali. Molti cittadini fece impiccare alle finestre del suo castello. Anche il Collenuccio, che aveva riparato a Ferrara sotto la protezione di Lucrezia e del duca, doveva ben presto cadergli in mano. Lo attirò a Pesaro con traditoresche promesse. Ma poscia per quell'accusa, dal Collenuccio un tempo indirizzata a Cesare Borgia, della quale asserì aver solo allora avuto cognizione, lo cacciò in prigione. Il Collenuccio, non privo certo di colpa verso l'antico signore ed amico, subì il suo destino e affrontò tranquillamente la morte nel luglio 1504.[233]
Infrattanto Lucrezia seguiva con grande ansietà il corso degli eventi in Roma. Niuna lettera sua a Cesare o di questo a lei, in quel periodo, è rimasta. Ne abbiamo solo alcune tra Cesare e il duca di Ferrara, che non cessò mai di scrivergli. Il 13 settembre Ercole lo felicitava per la ricuperata salute, e lo informava aver, mercè un inviato, esortato i popoli di Romagna alla fedeltà verso di lui.
[283]
Questa lettera giunse a Cesare in Nepi. Poichè per trattato con l'ambasciatore francese in Roma si fu messo sotto la protezione della Francia, egli, cedendo alla domanda de' cardinali, erasi ritirato in Nepi. Condusse seco la madre Vannozza e il fratello Jofrè, e, senza dubbio, anche la piccola figlia Luisa, come i due bambini Rodrigo e Giovanni, il quale ultimo era appunto duca di Nepi. La prossimità dell'esercito di Francia, accampato ancora in quel territorio, lo rendeva colà sicuro. Come se nulla fosse successo, egli scrisse lettere al marchese Gonzaga, che teneva allora il quartier generale a Campagnano. Gli mandò pure in regalo alcuni cani da caccia. Anche di Jofrè vi sono lettere da Nepi del 18 settembre allo stesso marchese.[234]
Quivi Cesare apprese che il suo protettore ed amico Amboise non era, com'egli aveva sperato, riuscito a farsi elegger Papa; ma che era stato invece eletto il Piccolomini. Il 22 settembre salì sulla Santa Sede, come Pio III, questo vecchio e già moribondo cardinale: del resto, padre felice di non meno di 12 figliuoli, tra maschi e femmine, che solo la morte gli tolse di poter introdurre nel Vaticano e farli principi. Egli permise a Cesare di rientrare in Roma e mostrò anche di favoreggiarlo. Ma non erano quasi ancora tornati i Borgia, che già il 3 ottobre gli Orsini si levarono pieni di furore gridando morte al loro nemico. Cesare con i bambini riparò in Castel Sant'Angelo; e già il 18 ottobre Pio III moriva.
I bambini non avevano omai altri difensori che Cesare e quei due cardinali, alla tutela de' quali Alessandro avevagli affidati. I loro Ducati svanirono come per colpo magico. Appena morto il Papa, i Gaetani tornarono da Mantova e s'impossessarono di nuovo di Sermoneta e di tutti gli altri beni, stati concessi al piccolo Rodrigo. Su Nepi affacciò pretensioni Ascanio Sforza o la Camera Apostolica. [284] Di Camerino s'impadronì di nuovo l'ultimo dei Varano.
Il piccolo Rodrigo era duca di Bisceglia, e come tale sotto la protezione di Spagna. Difatti, con molta previdenza, Alessandro VI aveva sin dal 20 maggio 1502 ottenuto da Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia diploma, mercè il quale la Casa reale di Spagna assicurava alla famiglia Borgia tutti i suoi beni nel Napoletano. E in questo atto erano espressamente nominati Cesare e successori suoi, Don Jofrè di Squillace, Don Juan, il figliuolo dell'ucciso Gandia, Lucrezia qual duchessa di Bisceglia, e il figlio ed erede suo Rodrigo.[235] Nell'Archivio di casa d'Este si trovano ancora i documenti della Cancelleria di Lucrezia, relativi all'amministrazione de' beni di Rodrigo, insieme con altri che si riferiscono al piccolo Giovanni.[236]
Malgrado della protezione di Spagna, la vita del figliuolo di Lucrezia era allora in pericolo a Roma. Niun dovere incombeva a lei più stretto che di esigere che il figlio le fosse reso, e di prenderlo seco. Nol fece, perchè non potette o perchè non ebbe cuore abbastanza da farlo, o forse perchè le nacque il sospetto che appunto in Ferrara la vita di quel bambino sarebbe esposta a maggior pericolo. Il cardinal di Cosenza, tutore di Rodrigo, le propose di vendere tutti i mobili del figliuolo e di condurlo fuori d'Italia e metterlo al sicuro in Spagna. Essa comunicò la proposta al suocero, che le rispose così:
«Illustrissima Signora Nuora e figlia nostra dilettissima. — Abbiamo avuto la lettera di Vostra Signoria assieme a quella, che il reverendissimo cardinale di Cosenza le diresse, e ch'ella ci ha mandata. Qui, con questa nostra, [285] gliela respingiamo, dopo essere stata letta da niun'altra persona se non da noi. Abbiam notato la prudenza, con la quale la Signoria Vostra stessa e il nominato Cardinale scrivono. E le parole loro sono accompagnate da tante buone ragioni, che non si può giudicare se non che siano amorevoli e savie. Onde, avendo tutto ben ponderato, ne pare che la Signoria Vostra possa e debba acconsentire a quanto il detto reverendissimo Monsignore propone di voler fare. A noi sembra che Vostra Signoria debba avergli qualche obbligazione per la prova di cordiale amore ch'egli addimostra verso di lei e dell'Illustrissimo Don Rodrigo, del quale accade dire essere stato preservato in vita per opra di colui. Quando anche esso Don Rodrigo avesse a stare un po' più lontano da Vostra Signoria, tanto meglio stare lontano e sicuro che vicino con pericolo, come il Cardinale fa vedere che sarebbe. Nè per questa lontananza l'amore tra voi diminuirà. Una volta poi fatto grande, potrà secondo le circostanze di tempo pigliar da sè partito, se tornare in Italia o rimanersi lontano. È buona idea quella dello stesso Cardinale d'invertire i mobili in danaro per supplire al vivere di colui aumentandone le entrate, siccome egli dice di voler fare. Per ogni rispetto adunque, come abbiamo detto, pare a noi sia bene acconsentire alla proposta. Non di manco se a Vostra Signoria, ch'è prudentissima, paresse altrimenti, ce ne rimettiamo a lei. Si tenga sana. — Codegorico, 4 ottobre 1503. Ercole Duca di Ferrara, etc.»[237]
Intanto il primo novembre 1503 salì sul trono papale il Della Rovere, come Giulio II. I Della Rovere, i Borgia, i Medici, tre famiglie di cui ciascuna contò due papi, hanno dato al Papato l'aspetto politico moderno. Negli annali della Chiesa non vi sono altre famiglie che abbiano avuto altrettanto influsso sulla storia. I nomi loro abbracciano [286] un grande processo di rivoluzioni politiche e morali. Ora i Della Rovere occupavano ancora una volta il posto dei Borgia, de' quali fierissimo nemico era già stato un tempo Giuliano. La decadenza di Cesare poteva omai riguardarsi come decisa.
In altre storie si legge come Giulio II si servisse dapprima di Cesare per assicurarsi, mercè l'influenza di lui su' cardinali spagnuoli, l'elezione; e poscia, ottenuta una volta la dedizione delle fortezze di Romagna, lo mettesse da parte. Cesare si gettò nelle braccia della Spagna. Nell'aprile 1504 andò da Ostia a Napoli, ove il Gran Capitano Consalvo era luogotenente di Ferdinando il Cattolico. Fu accompagnato da Don Jofrè; e v'era già stato preceduto da' cardinali Francesco Romolini di Sorrento e Lodovico Borgia, fuggiti a Napoli per tema di un processo. Ma Consalvo ritrattò il salvocondotto che aveva dato a Cesare. E a nome del re Ferdinando lo fece arrestare il 27 maggio, e lo mandò nel Castello d'Ischia.
Nulla sappiamo della sorte de' bambini Borgia. È molto probabile che sian rimasti sotto la protezione de' cardinali spagnuoli in Roma o piuttosto in Napoli. Avendo appena salva la vita, Cesare fu imbarcato per la Spagna. Le cose sue di maggior valore egli aveva dato a custodire in Roma agli amici suoi, perchè gliele serbassero in modo sicuro e spedissero a Ferrara. Perciò il 31 dicembre 1503 il duca Ercole scriveva al suo ambasciatore a Roma, di prendere in consegna le casse di Cesare, quando il cardinale di Sorrento gliele rimettesse, e di spedirle quindi a Ferrara come proprietà del cardinale d'Este.[238] Se non che Giulio II, quando fu morto il cardinale Romolini, ancora nel maggio 1507, confiscò nella casa di lui 12 casse e 84 balle, contenenti tappeti, drappi e altre suppellettili di proprietà di Cesare. Altra parte de' tesori di costui, oro e [287] argento e altri oggetti preziosi, il Papa esigette gli fosse resa da Firenze, ove Cesare l'aveva depositata. Però la Signoria Fiorentina dichiarò volersi essa stessa compensare.[239]
La deportazione di Cesare in Spagna fece molto senso. Niuno voleva darsene per autore, non Consalvo, non il Papa e nemmeno il re Ferdinando. Fu detto pure essere stata la vedova di Gandia, la quale alla Corte di Spagna aveva ottenuto che fosse preso l'assassino del marito.[240] I cardinali spagnuoli s'impegnarono per Cesare. Anche Lucrezia cooperò con grandi sforzi alla liberazione del fratello. Giunsero di lui notizie dalla Spagna; le prime dell'ottobre 1504. Il Costabili scriveva a Ferrara: «Gli affari del duca Valentino non sembrano tanto disperati quanto s'era detto. Il cardinale di Salerno ebbe lettere del 3 dal Requesenz, il maggiordomo del duca, da costui mandato anticipatamente, prima che egli stesso arrivasse colà, con lettere di parecchi cardinali alle Maestà Cattoliche di Spagna. Ora il Requesenz scrisse, il duca essere stato rinchiuso con un sol servitore nel Castello di Siviglia, che, ancorachè molto forte, pure è spazioso assai. Ma poscia gli sono stati dati otto servitori. Scrisse benanche aver parlato al re intorno la liberazione, e questi avergli risposto, che non lui aveva comandato l'imprigionamento del duca; ma aveva disposto che fosse in quel castello rinchiuso per molte cose, delle quali Consalvo lo chiama colpevole. Quando queste si provassero non vere, egli senza dubbio farebbe, rispetto a Cesare, il voler de' cardinali. Pure doveasi prima di tutto aspettare che la regina risanasse. Risposta [288] identica diede pure agli ambasciatori del re e della regina di Navarra, che si eran presso lui con ogni fervore impegnati per la liberazione di Cesare. Epperò il Requesenz sperava che questi ben presto ricupererebbe la sua libertà.»[241]
Dalle lettere adunque del Requesenz risulta, che Cesare in prima fu portato a Siviglia; di là fu poi mandato al Castello Medina del Campo nella Castiglia. Le preghiere sue presso il re di Francia rimasero inascoltate. In Italia poi niuno poteva desiderare di vederlo rimesso in libertà. Ivi, tranne sua sorella, non v'era chi si prendesse cura dell'avventuriero decaduto. Ma gli sforzi di colei con difficoltà trovavano un buon appoggio da parte medesima degli Este. Ove Cesare fosse tornato in Italia, è chiaro che sarebbe venuto a turbar la pace alla corte di Ferrara, e forse anche avrebbe fatto di questa il centro de' suoi intrighi. Solo i Gonzaga sembrano non avergli tolto del tutto la loro benevolenza; abbenchè, in luogo d'imparentarsi con lui, come un tempo desideravano, diventassero ora congiunti de' Della Rovere. Difatti il marchese di Mantova il 9 aprile 1505 sposò la sua giovane figlia Eleonora col nipote di Giulio II, con Francesco Maria Della Rovere, l'erede di Urbino.[242] Era specialmente Isabella Gonzaga quella che, per compiacere alla cognata Lucrezia, appoggiava presso il marito le intercessioni di costei. L'Archivio di casa Gonzaga contiene ancora parecchie lettere di Lucrezia al marchese in favore di Cesare.
Il 18 agosto 1505 ella gli scrisse da Reggio, che aveva iniziato pratiche in Roma e nudriva speranza, che il Papa darebbe facoltà al cardinale Pietro Jsualles a fare un viaggio alla Corte di Spagna per ottenere la liberazione di Cesare. Pregava perciò il marchese di voler intercedere presso [289] il Papa, perchè permettesse al cardinale siffatta commissione.[243] Gli scrisse di nuovo l'8 novembre da Belriguardo, e lo ringraziò della intenzione di lui di spedire nella Spagna un agente. E gli mandò al tempo stesso una lettera pel re Ferdinando e un'altra pel fratello Cesare.
Non si sa se il cardinale andasse in effetto alla Corte di Madrid. È poco credibile che Giulio II glielo abbia permesso.
Nell'anno stesso che Lucrezia con grande amore tanto s'affannava per la sorte dell'abominevole fratello, le condizioni sue proprie mutarono di molto. Il 25 gennaio 1505 ella era divenuta di fatto duchessa di Ferrara. Il marito Alfonso, per desiderio del padre, aveva intrapreso un viaggio per far conoscenza delle corti di Francia, delle Fiandre e d'Inghilterra. Doveva quindi tornare in Italia, passando per la Spagna. Se non che, alla Corte di Enrico VII d'Inghilterra, gli giunsero dispacci che lo informavano della infermità del duca. Tornò in fretta a Ferrara, ove poco dopo il suo arrivo Ercole moriva.
Alfonso salì sul trono ducale in un tempo che richiedeva da lui molta energia e molta prudenza per affrontare i pericoli, onde lo Stato suo era minacciato. Perchè la Repubblica di Venezia s'era già impadronita d'una parte della Romagna, e cercava chiudere a Ferrara le foci del Po. E dall'altro lato Giulio II apparecchiavasi in Roma a sottomettere Bologna e dopo a stendere forse anco la mano su Ferrara. In condizioni siffatte fu fortuna per quello Stato avere a capo un principe, come Alfonso, di indole posata e pratica. Egli non amava lo sfarzo nè la prodigalità; di avere una corte splendida non si curava punto. Tutto quello che fosse [290] apparenza, anche il suo vestimento, negligeva. Le passioni sue si concentravano nell'esercito, nelle fortificazioni e nel fondere cannoni. Quando le occupazioni gliene lasciavano agio, trovava il suo svago in una bottega di tornitore che s'era ordinata, ovvero, da quell'abile dilettante ch'era, nel dipingere vasi di maiolica. Per la più elevata coltura non ebbe alcun senso. L'abbandonò alla moglie.
Con piena libertà regolava Lucrezia la sua corte. Ormai erasi fatta anima e centro di ogni vita spirituale in Ferrara. Il côlto intelletto, la bellezza, la grazia irresistibile della sua natura affascinavano chiunque le si accostasse. La ripugnanza, che in sul principio i congiunti di casa d'Este avevan sentito per lei, era svanita. Specialmente in Isabella Gonzaga s'era convertita in affezione. N'è prova la copiosa corrispondenza epistolare tra loro, durata sino alla morte di Lucrezia. Parecchie centinaia delle lettere sue alla marchesa di Mantova si conservano ancora nell'Archivio Gonzaga.
Le sue relazioni con la casa d'Urbino s'erano appena fatte meno amichevoli e cordiali. Continuarono ancora così, quando Guidobaldo fu venuto a morte nell'aprile 1508, mentre successore di costui fu Francesco Maria Rovere, genero d'Isabella Gonzaga. Essa riceveva le visite di questi principi, e stava in intimo contatto con molti de' più ragguardevoli uomini, quali Baldassarre Castiglione e Ottaviano Fregoso, Aldo Manuzio e il Bembo.
Il Bembo ardeva d'amore per la bella duchessa. La cantò in versi, e le dedicò il primo agosto 1504 il suo dialogo sull'amore, Gli Asolani, con una lettera, nella quale ne celebrava le virtù. L'amico suo Aldo, che aveva dapprima vissuto in Ferrara alla corte di Ercole, poi era andato presso i Pii nell'incantevole Carpi, e da ultimo stabilitosi in Venezia, stampò quivi nel 1505 Gli Asolani e gli mandò a Lucrezia con una dedica. La passione [291] del Bembo per la duchessa è cosa, su cui non cade dubbio. Ma sarebbe sterile impresa voler desumere dalle prove di affetto, che la bella donna gli diede, che la passione abbia trascesi i confini del lecito; il che si è creduto poter arguire dalle lettere del Bembo a colei, stampate nelle opere di lui; e molto più da quelle dirette a lui stesso dalla Lucrezia. L'ingegnoso Veneziano, dal 1503 al 1506, tempo in cui andò a stare alla corte di Guidobaldo in Urbino, stette sempre in vivissime relazioni personali con Lucrezia. Le scrisse lettere, allorchè dimorava dagli amici suoi Strozzi, in villa Ostellato. In esse, soprattutto in alcune, ch'ei indirizzava ad un'amica innominata, e ch'era, senza dubbio, la duchessa, si sente qualcosa più dell'amicizia: son piene di tenera confidenza. Le lettere di Lucrezia al Bembo esistono, com'è noto, nell'Ambrosiana di Milano. Ogni visitatore della celebre Biblioteca le avrà viste insieme con la ciocca di biondi capelli, che v'è unita. Quelle sono autografe e incontrastabili; dell'autenticità invece dell'altra sembra lecito dubitare; ma potette anche ben essere un pegno d'affetto, che al fortunato Bembo riuscì ottenere. Le lettere della Lucrezia a lui sono state descritte e commentate prima da Baldassarre Oltrocchi; poi messe in voga da Lord Byron, e ultimamente, nell'anno 1859, pubblicate in Milano da Bernardo Gatti.[244] Sono nove in tutto: sette in italiano, e due in spagnuolo. V'è anche annessa una canzone spagnuola.
Che nel suo cuore Lucrezia accogliesse pel Bembo più che amicizia, deve parere certo. Lei giovane tuttora, e lui perfetto cavaliere, bello, amabile e pieno di spirito sì da ecclissare interamente il ruvido Alfonso. Di questo egli [292] dovette anzi eccitare la gelosia. E forse per ciò e pel pericolo, onde si vide minacciato, si decise ad andarsene a stare in Urbino. Sino al 1513, benchè di lontano, si tenne in amichevole relazione con Lucrezia.
Molti altri poeti in Ferrara le offrivano omaggi e la divinizzavano. I versi de' due Strozzi sono anzi più appassionati di quelli del Bembo, forse perchè il loro ingegno poetico era superiore. Tito, il padre, s'incontrava col suo geniale figliuolo, Ercole, negli stessi sentimenti rispetto alla bella principessa, e sino ne' motivi e nelle immagini poetiche. E siffatta comunanza basta già a provare, che l'amor loro non era che una devozione estetica. Tito cantò una rosa, che Lucrezia avevagli offerta; ma il figliuolo lo vinse in un epigramma: La Rosa di Lucrezia,[245] che difficilmente fu la stessa che aveva ricevuta il padre.
Tito ne' suoi epigrammi confessava, che, mentre per l'età sua si teneva sicuro dell'amore, ora nondimeno era preso ne' ceppi di Lucrezia. In essa — così diceva — s'è raccolta ogni magnificenza del cielo e della terra; e niente che le stia a paro può trovarsi nel mondo. Al Bembo, di cui gli era nota la passione, diresse un epigramma, nel quale con spiritosa vena componeva il nome Lucrezia da Lux e Retia, e saporitamente rideva della rete, nella quale segnatamente il Bembo era avviluppato.[246]
Suo figlio Ercole la chiamava una Giunone nel soccorrere; una Pallade ne' costumi; una Venere nell'aspetto. Cantò in versi catulliani il marmoreo Cupido, che la principessa [293] aveva posto nella sala. Il Dio d'amore era stato pietrificato dal lampo degli occhi di lei. L'occhio bellissimo di Lucrezia paragonava al sole, che accieca chi osa fissarlo. Come Medusa, con lo sguardo suo essa faceva diventar di pietra l'acciecato. Ma anche nella pietra l'amorosa pena perdura e si sfoga in lagrime.
È mai possibile leggere tutte quelle graziose poesie, e pensare ancora che gli autori potessero scriverle, tenendo Lucrezia realmente colpevole di que' delitti, onde il Sannazzaro non aveva lasciato di accusarla anche dopo la morte del padre?
Antonio Tebaldeo, il Calcagnini e il Giraldi cantarono anche la bellezza e la virtù di Lucrezia. Marcello Filosseno compose su lei amorosi sonetti, comparandola con Minerva e Venere. Jacopo Caviceo, che negli anni ultimi della sua vita — morì il 1511 — fu vicario del Vescovado di Ferrara, le dedicò il suo curioso romanzo, Peregrino, con una epistola dedicatoria, nella quale l'esaltava come «bella ed erudita, savia e costumata.» La serie de' poeti, che stettero a' piedi suoi, dev'essere stata lunga assai. Ed essa accoglieva gli omaggi loro con quella stessa aria di orgoglio soddisfatto, con cui ogni bella donna riceve oggi di simili offerte. Alcuni de' poeti erano forse ebbri d'amore per lei. Altri la incensavano per pura cortigianesca adulazione. Ma contenti tutti d'avere in essa un ideale, che poteva per lo meno valere come platonica sorgente delle rime e de' versi loro.
Quei poeti per noi oggi non sono che nomi letterarii, eccettuato l'Ariosto. Dal 1503 il grande Poeta fu in istrette relazioni con la corte di Ferrara, essendo entrato anzi tutto a' servizii del cardinale Ippolito. Poco dopo, nel 1505, diè principio al suo poema, sul cui svolgimento però non pare la bella duchessa abbia spiegato grande influenza. Alcuna volta la glorificò, segnatamente in una ottava, per la [294] quale essa non avrebbe saputo render grazie che bastassero, se avesse inteso che il Poeta era destinato all'immortalità: è l'83ma del canto XLII dell'Orlando Furioso. L'Ariosto colloca l'immagine di Lucrezia nel tempio d'onore delle donne, sostenuta da due cavalieri testimoni dell'onore di lei, i due celebri poeti, Antonio Tebaldeo ed Ercole Strozzi. L'iscrizione sotto l'immagine dice, che la patria di lei, Roma, debba per bellezza ed onestà porla al disopra della Lucrezia antica.[247]
Uno scrittore moderno italiano, a proposito di quest'omaggio dell'Ariosto, osserva: «Per quanto si voglia tener conto dello spirito cortigianesco dei poeti di quei tempi e della buona servitù di messer Ludovico agli Estensi, si consentirà tuttavia che l'arte adulatoria aveva pur essa i suoi canoni e i suoi limiti, e che male avvisato e inesperto delle materie del mondo e delle usanze delle Corti sarebbe stato colui che avesse lodato un principe di ciò appunto, di cui più palesemente avesse meritato biasimo; imperocchè la lode avrebbe allora vestito le forme dell'ironia, e mal ne avrebbe incolto all'incauto e sconsigliato piaggiatore.»[248] L'adulazione fu il prezzo, onde i poeti di corte in ogni tempo pagarono la loro aurea servitù; fu il loro peccato e la loro pena. L'Ariosto e il Tasso se ne tennero tanto poco lontani quanto Orazio e Virgilio. Allorchè il Cantore dell'Orlando Furioso si vide trattato con freddezza dal cardinale Ippolito, avrebbe voluto d'un [295] tratto dar di frego a tutto ciò che aveva detto in lode di lui. Uopo è anche ammettere che il semplice nome Lucrezia porgeva occasione all'Ariosto, come agli altri poeti, di stabilire paragone con quell'ideale classico dell'onestà muliebre. Questo s'offriva quasi spontaneo all'immaginazione, soprattutto pe' poeti della Rinascenza. Nulladimeno non si può in tutto rigettare l'osservazione del moderno difensore di Lucrezia. Dove pure quel paragone non fosse stato fatto, è certo che altri contemporanei dell'Ariosto hanno appunto esaltato l'onestà della bella duchessa. E questo è sicuro, che nel periodo della sua vita in Ferrara essa si mostrò qual modello di donna virtuosa.
Alla corte sua viveva una giovane dama, le cui attrattive affascinavano tutti i cuori, sino a che non divenne cagione di un tragico avvenimento. Era quell'Angela Borgia, che Lucrezia aveva seco menato da Roma a Ferrara, un tempo fidanzata di Francesco Maria Rovere. Non si sa quando la promessa di matrimonio sia stata sciolta. Dovett'essere forse appena dopo la morte di Alessandro. Allora, come s'è visto, l'erede di Urbino si ammogliò con Eleonora Gonzaga. Fra gli adoratori di Angela erano i due fratelli del duca Alfonso, il cardinale Ippolito e Giulio, figliuolo naturale di Ercole, uomini egualmente rotti al vizio. Un giorno che il cardinale le offriva gli omaggi suoi, Angela vantò i belli occhi di Giulio. Il geloso libertino ne sentì dispetto sì forte, che concepì tutto un disegno di vendetta veramente infernale. Il reverendo cardinale ordinò a compri sicarii di cogliere in agguato il fratello, di ritorno da una caccia, e di cavargli quegli occhi, che donna Angela aveva trovati sì belli. L'attentato fu compiuto in presenza del cardinale stesso; ma non riuscì così a pieno com'ei avrebbe desiderato. Il ferito fu trasportato al suo palazzo, ove i medici potettero per gran ventura salvargli un occhio. Il criminoso fatto accadde il 3 novembre [296] 1505.[249] Tutta la corte ne fu in grande commozione. Il duca, è vero, punì il cardinale, esiliandolo temporaneamente; ma l'infelice Giulio aveva ben motivo di rimproverargli, ch'innanzi a quel delitto s'era rimasto indifferente. Egli ardeva di vendicarsi, e il suo furore doveva ben presto trarsi dietro le più terribili conseguenze.
Per l'Ariosto, cortigiano dell'empio cardinale, l'imbarazzo non fu poco nè piccolo. Se la cavò in modo, a dir vero, punto onorevole; il che contribuisce a scemare valore alle lodi da lui tributate a Lucrezia. L'adulazione l'acciecò e l'indusse a scrivere un'egloga, nella quale assegnava le ragioni dell'attentato, e cercava in parte riabilitare gli assassini, dipingendo con foschi colori il carattere di Giulio. Nell'egloga stessa diè anche la stura ad un entusiastico panegirico di Lucrezia. Ne lodò non solo la bellezza e lo spirito e le opere di pietà, ma sopra ogni cosa la pudicizia, per la quale sarebbe già stata glorificata prima di venire a Ferrara.[250]
Un anno dopo, il 6 dicembre 1506, Lucrezia sposò donna Angela col conte Alessandro Pio di Sassuolo. E, per strano accidente, più tardi il figlio di costoro, Giberto, fu marito d'Isabella, figlia naturale del cardinale Ippolito.
Intanto, nel mese stesso di novembre, in cui ebbe luogo l'attentato, un avvenimento in Vaticano fece su Lucrezia gravissima impressione, e risvegliò in lei le più penose ricordanze. La Giulia Farnese, la compagna della sua sciagurata gioventù, vi apparve in condizioni tali, che ella dovette sentirsene commossa davvero. Non sappiamo [297] quali casi incontrasse l'amante di Alessandro poco innanzi e dopo la morte di costui. Probabilmente andò a vivere col marito Orsini al Castello di Bassanello; ed ivi forse si ritirò pure la suocera Adriana. Per lo meno troviamo colà la Giulia nel 1504, anno in cui nella famiglia Orsini fu consumato uno di quei delitti di sangue, così frequenti nella storia delle famiglie italiane. La sorella di Giulia, Girolama Farnese, la vedova di Puccio Pucci, erasi in seconde nozze sposata col conte Giuliano Orsini di Anguillara. Il figliastro Giambattista di Stabbia ammazzò Girolama, perchè, come fu detto, essa stessa aveva voluto avvelenar lui. Giulia diede sepoltura all'uccisa sorella in Bassanello.
L'anno appresso dev'essere andata a Roma ed aver preso dimora nel palazzo degli Orsini. Suo marito era morto, e forse morta doveva esser pure Adriana Ursina; mentre non comparisce nell'atto solenne avuto luogo in Vaticano nel novembre 1505. Ivi, a grandissimo stupore di tutta Roma, Giulia maritò l'unica figlia sua, Laura, col nipote carnale di papa Giulio II, Niccolò Della Rovere, fratello del cardinal Galeotto.
Laura, per quanti erano addentro a' misteri della madre, passava per figliuola di Alessandro VI, e quindi per sorella naturale della duchessa di Ferrara. All'età di sette anni appena la madre, il 2 aprile 1499, l'aveva formalmente promessa in isposa al dodicenne figliuolo di Raimondo Farnese. Il legame era poscia stato sciolto, per dar luogo all'altro, il più splendido che l'ambizione di quella donna sapesse desiderare.[251]
L'assenso di Giulio II all'unione di suo nipote con la bastarda di Alessandro VI è uno de' fatti più singolari nella storia personale di questo Papa. Sembra indicare la [298] sua riconciliazione con i Borgia. Egli gli aveva odiati, sino a che fu loro nemico; ma l'odio suo non aveva mai avuto motivi morali. Giulio II non ha mai disprezzato Alessandro e Cesare: piuttosto, al pari del Machiavelli, n'ha riconosciuto con ammirazione la forza. Niun documento ci attesta, che asceso al trono egli abbia intrattenuto relazioni personali con Lucrezia Borgia. Pure è da tenere per sicuro, che lo abbia fatto, per riguardo alla casa degli Este. Una volta soltanto aveva recato sfregio gravissimo a Lucrezia, quando il 24 gennaio 1504, mettendo Guglielmo Gaetani in possesso di Sermoneta, scrisse una Bolla in termini così poco riguardosi, che vi dava, senza complimenti, ad Alessandro VI del truffatore, avido di arricchire i suoi con le spoliazioni degli altri.[252] E signori di Sermoneta erano stati per lo appunto Lucrezia prima, poi il figlio Rodrigo.
Più tardi, soprattutto quando Alfonso fu venuto al governo, le relazioni del Papa con Lucrezia dovettero farsi più amichevoli. Ella continuò pure a mantenere un commercio epistolare con Giulia Farnese. Senza dubbio ebbe da questa la nuova dell'unione della figlia con la Casa del Papa.
Il matrimonio fu solennizzato in Vaticano, presenti Giulio II, il cardinale Alessandro Farnese e la madre della sposa. Quel giorno segnò per Giulia uno de' più grandi trionfi nella sua vita così piena di avventure. Aveva soggiogato la resistenza morale di un altro Papa; e questi era il nemico di Alessandro e l'autore della rovina di Cesare. Essa, l'adultera, la ganza di Alessandro VI, stigmatizzata con le satire di Roma e di tutta Italia, compariva ora in Vaticano, come una delle più cospicue signore dell'aristocrazia romana, come l'illustrissima gentildonna Julia de Farnesio, vedova dell'Orsini, per sposarvi la figlia sua e di [299] Alessandro col nepote di Giulio II, e così assolvere e purificare il suo peccaminoso passato. In quel tempo essa era ancora donna bella e seducente, che toccava, tutt'al più, il trentesimo anno dell'età sua.
Questa fortuna e questa reintegrazione dell'onor suo — se pure, rispetto alla morale del tempo, accade di ciò parlare — essa le doveva alla reputazione del fratello, il cardinale. Vi furono anche riguardi politici che indussero il Papa a quella unione. Per effettuare il suo disegno di ricostituzione dello Stato della Chiesa, egli voleva innanzi tutto guadagnarsi l'animo delle grandi famiglie romane. Tirò dalla sua i Farnesi e gli Orsini. Nel maggio 1506 maritò la propria figlia naturale, Felice, con Giangiordano Orsini di Bracciano; e nel luglio dello stesso anno diede la nipote Lucrezia Gara Della Rovere, sorella di Niccolò, in moglie a Marcantonio Colonna.
La giovane Laura Orsini ereditò Bassanello e i diritti sul palazzo di Monte Giordano in Roma. Dopo quel tempo la madre Giulia scompare di nuovo dalla scena. E non è più visibile nè sotto Giulio II, nè sotto Leone X. Il 14 marzo 1524 fece testamento in favore delle nipoti Isabella e Costanza, pel caso che la figliuola non avesse discendenti. Il 23 marzo dello stesso anno l'ambasciatore veneto in Roma, Marco Foscari, scriveva alla Signoria: «La sorella del cardinale Farnese, madonna Giulia, un tempo amante di papa Alessandro, è morta.» Queste parole danno a credere che la sia morta in Roma. Di Giulia bella non abbiamo nessun ritratto autentico. Soltanto la tradizione romana pretende che delle due figure marmoree, che ornano il sarcofago di Paolo III Farnese in San Pietro, l'una, la Giustizia, rappresenti l'immagine fedele della sorella, la Giulia Farnese, e l'altra, la Saviezza, quella della madre di lui, Giovannella Gaetani.
La figliuola di Giulia restò signora di Bassanello e [300] Carbognano. Ebbe un figlio, Giulio Della Rovere, che più tardi ebbe grido di uomo molto dotto.[253]
Frattanto l'attentato commesso contro Giulio d'Este adduceva tali conseguenze, che la casa di Ferrara si trovò minacciata da una terribile catastrofe. Giulio accusava Alfonso d'iniquità; e invece i molti amici del cardinale trovavano l'esilio di lui sin troppo duro. Ippolito aveva gran seguito in Ferrara. Egli era uomo mondano e prodigo; mentre il duca, tutto immerso nelle sue inclinazioni positive e nelle sue occupazioni pratiche, trascurava la corte e la nobiltà. Un partito si formò, che aspirava ad un violento cambiamento di governo. Rivoluzioni siffatte furon tutt'altro che nuove nella casa degli Este, sin nel tempo in che Ercole era venuto al potere.
Giulio fece entrare ne' suoi disegni di vendetta alcuni nobili malcontenti, e uomini senza coscienza ch'erano al servizio del duca: il conte Albertino Boschetti da San Cesario, il genero di lui, capitano della Guardia palatina, un cameriere, un cantante di camera del duca, e alcuni altri. Alla congiura prese parte anche Don Ferrante, germano di Alfonso, al quale, come procuratore di costui, era stata affidata Lucrezia in Roma. Intendimento di Giulio era di spedire all'altro mondo il cardinale, avvelenandolo; e, poichè il fatto non sarebbe passato impunito ove Ercole rimanesse in vita, di ammazzare anche quest'ultimo e mettere sul trono Don Ferrante. L'uccisione di Alfonso doveva aver luogo in un ballo in maschera.
Il cardinale, ch'era servito egregiamente dalle sue spie in Ferrara, ebbe notizia del disegno, e potè presto avvertirne il fratello Alfonso. Ciò fu nel luglio 1506. I congiurati cercarono salvezza nella fuga. Pure non riuscì fuggire che a Giulio e al cantante Guasconi, il primo a Mantova, [301] il secondo a Roma. Il conte Boschetti fu preso a poca distanza da Ferrara. Quanto a Don Ferrante, sembra non abbia fatto tentativo alcuno di fuga. Condotto alla presenza del duca, gli si gettò a' piedi, implorando grazia. Ma, inetto oramai a contener lo sdegno, Alfonso non solo lo scacciò adirato da sè; ma con uno stocco, che aveva in mano, gli cavò fuori un occhio. Quindi lo fece rinchiudere nella torre del castello. Colà fu ben presto menato anche Don Giulio, consegnato, dopo alquanta resistenza, dal marchese di Mantova. Il processo di crimenlese fu subito condotto a termine, e i colpevoli condannati a morte. Primo ad esser decapitato innanzi al Palazzo della Ragione fu il Boschetti con due de' complici suoi. Lo spettacolo dell'esecuzione è con precisione figurato in una statistica criminale di Ferrara di quel tempo; e il notevole manoscritto si conserva nella Biblioteca dell'Università.
I due principi dovevano essere impiccati il 12 agosto nella corte del castello. Il patibolo era già stato rizzato; le tribune andavan popolandosi; il duca venne a prendere il suo posto; furon condotti i due infelici coperti di catene. Alfonso fece allora un segno: egli rendeva grazia a' suoi fratelli. Privi di sensi, furon questi riportati nel carcere. La loro pena era la prigione in vita. E vi languirono per lunghi anni, anche dopo la morte di Alfonso. Nulla potette mai ammollire il cuore di quest'uomo crudele. Tutto il tempo che visse seppe acconciarsi al pensiero, che i miseri fratelli giacevano là, nella torre, in quel castello stesso, ove egli libero entrava e usciva, ove abitava, ove non di rado trovava gioia e contento. Tali gli Este, quelli che l'Ariosto nel suo poema ha levati a cielo. Don Ferrante cedette alla morte il 22 febbraio 1540 nell'età di 63 anni. Don Giulio ricuperò la libertà nell'anno 1559, e poscia morì il 24 marzo 1561, di 83 anni.
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Proprio nel tempo che quella tragedia si svolgeva alla corte di Ferrara, e che alla memoria di Lucrezia dovevano ripresentarsi vivi i ricordi della sua passata vita, Giulio II usciva da Roma per dar seguito alle sue ardite imprese. Queste eran rivolte alla ricostituzione dello Stato della Chiesa, mercè la scacciata di quei tiranni, che un tempo avevano potuto schivare il ferro di Cesare. Come vassallo della Chiesa, Alfonso mandò truppe ausiliarie. Non prese però parte di persona alla spedizione; mentre invece Guidobaldo d'Urbino, che aveva adottato Francesco Maria Della Rovere a figlio e successore suo, e il marchese Gonzaga servivano personalmente nell'esercito di Giulio II. Il 12 settembre 1506 il Papa entrò in Perugia, i cui tiranni, i Baglioni, pieni di timore e spavento, gli si sottomisero. L'11 novembre fece il suo ingresso in Bologna, dopochè Giovanni Bentivoglio, la moglie Ginevra e tutti i figliuoli loro eran già sulla via dell'esilio. Colà Giulio fece alto, gettando avidi sguardi sulla Romagna, una volta Stato di Cesare, ed ora in potere de' Veneziani.
Uno strano caso faceva proprio allora apparir di nuovo in lontananza la già dileguata figura di quel duca di Romagna. Il 26 novembre giunse a Lucrezia la nuova, che il fratello era evaso dalla sua prigione nella Spagna. Il giorno dopo ella ne informò il marchese Gonzaga, ch'era a Bologna come Capitan Generale della Chiesa.
Per la liberazione di Cesare ella erasi dato un gran da fare; ma le intercessioni sue non fecero presa sull'animo del re di Spagna. Finalmente per circostanze accidentali quegli ottenne libertà. Lo Zurita racconta che Ferdinando il Cattolico nella primavera del 1506 voleva prender Cesare [303] dalla prigione di Aragona e menarlo seco in Napoli, ove andava per ordinarvi le faccende del Reame e per assicurarsi di Consalvo, della cui fedeltà aveva cominciato a insospettire. Ma il genero, l'arciduca Filippo, col quale era in una certa tensione, in causa delle pretensioni che colui affacciava sul governo della Castiglia, negò di render Cesare prigioniero in Medina, ch'era luogo castigliano. Ora, assente Ferdinando per quel viaggio, Filippo venne a morte in Burgos il 5 settembre 1506. E Cesare approfittò per fuggire di questa circostanza e anche della lontananza del re. La fuga fu aiutata dal partito castigliano, che aveva in mente servirsi del celebre condottiero.
Il 25 ottobre egli fuggì dal Castello di Medina sulla terra del conte di Benavente, ove si fermò dapprima. Alcuni baroni, che desideravano rimettere il governo della Castiglia nelle mani di Massimiliano, padre di Filippo, volevano mandarlo ambasciatore nelle Fiandre alla Corte dell'imperatore. Ma, svanito il progetto, Cesare se ne andò a Pamplona, dal cognato, il re di Navarra, anch'egli implicato ne' negozii castigliani e in quel momento in guerra col suo ribelle Conestabile, il conte di Lerin.
Di lì scrisse al marchese di Mantova. Questa è l'ultima lettera che abbiamo di lui, o che almeno ci è nota:
«Illustrissimo Principe e signor Cognato, onorando qual fratello. — Avviso Vostra Eccellenza, come, dopo tanti travagli, è piaciuto al Signor Nostro Iddio liberarmi e cavarmi di prigione. In qual modo sia ciò accaduto, intenderà dal mio segretario Federigo, esibitore della presente. Piaccia a Dio, d'infinita clemenza, che ciò sia per maggior suo servizio. Al presente mi trovo in Pamplona con gl'illustrissimi re e regina di Navarra. Vi giunsi il 3 dicembre, della qual cosa, come di ogni altra, Vostra Signoria sarà a pieno informata dal nominato Federigo. Piaccia a lei prestargli, per quanto sarà per dire in mio nome, [304] tutta quella fede, come farebbe alla mia persona propria. Mi raccomando per sempre all'Eccellenza Vostra. — Da Pamplona, il 7 dicembre 1506. Di Vostra Eccellenza compare fratello minore Cesare.»
La lettera è suggellata con ostia. Il suggello porta le doppie armi di Cesare, finamente incise, con l'iscrizione: Cæsar Borgia De Francia Dux Romandiolæ. Uno degli scudi contiene l'arme de' Borgia co' gigli francesi, dalla cui corona si levano sette draghi dalle lingue aguzze; l'altro, l'arme della moglie di Cesare con i gigli di Francia e un pegaso che sormonta il cimiero.[254]
Il segretario di Cesare giunse a Ferrara sugli ultimi di dicembre.[255] Difficilmente era stato mandato in Italia solo per confermare la liberazione del suo signore. Egli vi veniva pure per investigare lo stato delle cose, e vedere se una restaurazione del duca di Romagna fosse ancora possibile. Ma per simili sogni niun momento poteva essere più inopportuno della fine dell'anno 1506, quando Giulio II aveva preso appunto possesso di Bologna. Il marchese Gonzaga, sulla cui benevolenza Cesare faceva ancora assegnamento, era colà Generalissimo dell'esercito papale. E questo, come si teneva, era già pronto ad un'impresa in Romagna. Pure la Romagna era l'unico paese, nel quale Cesare potesse avere in vista una restaurazione. Il suo buon governo vi aveva lasciato orma profonda; e i Romagnoli avrebbero preferito la dominazione di lui, anzichè sottomettersi al reggimento della Chiesa. È giusto ciò che lo Zurita, lo storico d'Aragona, dice: «La liberazione di Cesare costernò il Papa, perchè il duca era tale uomo che da se solo bastava a mettere sossopra l'Italia intera. Egli era amato assai non solo dalla gente di guerra, ma anche da [305] molti in Ferrara e nelle terre della Chiesa: fatto che raramente scontrasi in tiranno altro qualsiasi.»
L'inviato di Cesare osò spingersi sino a Bologna, nonostante che vi fosse il Papa; e questi lo fece prendere. Informatane Lucrezia, scrisse al marchese Gonzaga questa lettera:
«Illustrissimo signor Cognato e Fratello riveritissimo. — Ho appunto inteso che per commissione di Sua Santità, Nostro Signore, è stato preso in Bologna Federigo, cancelliere del signor Duca, mio fratello. Io son certissima ch'egli non si troverà in mancamento alcuno, non essendo venuto per fare o per dire alcunchè di disaggradevole o di molesto per Sua Santità, mentre nulla di simile penserebbe nè ardirebbe Sua Eccellenza. Che se colui avesse avuto alcuna commissione, me l'avrebbe anticipatamente comunicata, ed io non avrei giammai tollerato nè tollererei ch'egli fosse motivo anche a sospetto, essendo io, al pari dell'Illustre mio Signor Consorte, devotissima e fedelissima serva di Sua Beatitudine. Quanto a me, non trovo nè so ch'egli sia venuto per altro se non per portare la nuova della liberazione. Onde tengo per cosa indubitata che egli sia del tutto innocente. Ma la detenzione è un fatto che ha per me un peso grave, massime per lo smacco che può derivarne al detto Duca mio fratello, quasi non fosse in grazia di Sua Santità; e lo stesso vale pure riguardo a me. Io prego adunque quanto più so e posso l'Eccellenza Vostra, e per quanto amore la mi porta, di adoperarsi in ogni guisa presso Sua Santità, perchè colui presto sia rilasciato. E questa cosa io spero dalla benignità di quella, e dalla efficacia ed intercessione di Vostra Eccellenza. Perocchè niun piacere nè beneficio potrei dall'Eccellenza Vostra al presente ricevere maggiore di questo, e pel quale sapessi esserle più obbligata e per l'onor mio e per ogni rispetto. Sicchè di nuovo le raccomando di tutto cuore questo affare. E me le offro [306] e raccomando. — Ferrara, 15 gennaio 1507. Di Vostra Eccellenza sorella e serva la Duchessa di Ferrara.»[256]
Da Pamplona Cesare mandò il Requesenz, il suo antico maggiordomo, al re di Francia, per impetrare la permissione di tornare alla Corte e al servizio di lui. Ma Luigi XII non volle saperne. All'inviato, che a nome di Cesare pretendeva il Ducato di Valenza e la pensione per lo innanzi percepita come principe della Casa di Francia, fu risposto con un rifiuto.[257]
Ben presto la morte veniva a porre termine a tutte le speranze del famoso avventuriero. Al soldo del cognato di Navarra, Cesare cingeva d'assedio il vassallo di lui Don Loys de Beamonte, conte di Lerin, nel Castello Viana. Quivi cadde morto in una imboscata, valorosamente pugnando, il 12 marzo 1507. Il luogo è nella diocesi di Pamplona; e per strana coincidenza, come lo Zurita nota, il giorno della morte di Cesare fu quello stesso, in cui aveva un tempo ricevuto il Vescovado di Pamplona. E in questa città con grande onoranza fu anche seppellito. Non aveva che 51 anno, proprio come Nerone.
La caduta dell'uomo formidabile, che una volta aveva fatto tremare l'Italia intera, e il cui nome era divenuto celebre per ogni dove, liberava Giulio II da un pretendente, che col tempo avrebbe potuto diventargli molesto assai. Chi può dire difatti tutti gl'imbarazzi che Cesare avrebbe potuto procacciargli o nella guerra con Venezia pel possesso della Romagna, come alleato e condottiero della Repubblica, o ancor più in quella del Papa stesso con la Francia, dopo la defezione di lui dalla Lega di Cambray? Niun dubbio che Luigi XII, tutto spirante vendetta, avrebbe ricondotto [307] Cesare in Romagna, messo a profitto gli antichi legami in quel paese, come pure le grandi attitudini di lui.
La nuova della morte di Cesare giunse a Ferrara da Rema e da Napoli, nell'aprile 1507, mentre il duca Alfonso era assente. Il suo consigliere Magnanini e il cardinale Ippolito celarono i dispacci alla travagliata duchessa, prossima a sgravarsi, la quale per altro aveva già dell'accaduto più che un presentimento. Le si disse soltanto, che in un combattimento il fratello era stato ferito. In preda a profonda commozione, si ritrasse in un convento della città, e vi passò due giorni pregando; quindi fece ritorno al palazzo. Non appena il rumore della morte di Cesare era arrivato all'orecchio di lei, aveva spedito il servitore Tullio a Navarra. Ma, confermatosi della realtà del fatto, questi a mezza strada tornò indietro a Ferrara. Era quivi venuto pure il Grasica, scudiero di Cesare, che aveva assistito ai funerali del duca in Pamplona; e diede notizie precise sulle circostanze della morte. Il cardinale si decise oramai a dire a Lucrezia la verità, consegnandole la lettera del marito Alfonso, che recava la triste nuova.[258]
La duchessa mostrò più rassegnazione di quello si potesse aspettare. Il dolor suo si mescolava con l'amarezza di tutte quelle rimembranze e di quei sentimenti, che la vita in Ferrara aveva potuto sopire, non estinguere del tutto. E ben due volte risursero nell'anima sua più prepotenti e spaventevoli che mai: alla morte del padre, e ora alla morte del terribile fratello, l'uccisore del suo giovane sposo Alfonso. Se è lecito pensare che il cordoglio suo, oltre tutte le altre ragioni che concorrevano a generarlo, fu essenzialmente il prodotto del più santo de' sentimenti, lo spettacolo di Lucrezia, che piange la morte di Cesare Borgia, rappresenta [308] davvero uno de' più bei trionfi dell'amore fraterno. E a noi piace tener così, perchè, di certo, quest'amore è il più puro e generoso di tutti i sentimenti umani.
In verità, bisogna riconoscerlo, Cesare Borgia non appariva nè alla sorella nè in generale a' contemporanei quale lo vediamo noi oggi. Oggi per noi i suoi misfatti sembrano sempre più neri; mentre invece le sue buone qualità e quella sua importanza, tanto per politiche ragioni esaltata dal Machiavelli, si sono via via rimpicciolite. E per ogni pensatore la possanza, cui quel giovane avventuriero, per rincontro di condizioni affatto peculiari, seppe levarsi, non può che esser prova di ciò, che la moltitudine volgare, paurosa e ignorante, è capace di sopportare. Essa sopportò anche la puerile grandezza di un Cesare Borgia, innanzi al quale principi e città allibirono per anni. Ned egli, del resto, fu l'ultimo idolo della storia, sfacciato tanto quanto intimamente vuoto, innanzi al quale il mondo si sia prosternato tremando.
Ma quando anche Lucrezia non si fosse formato un giudizio chiaro sul conto di suo fratello, pure nè la memoria nè la mente sua potevano esser diventate mute e inerti. Per parte sua lo perdonò; ma dovette domandarsi, se lo perdonerebbe del pari l'incorruttibile giudice delle azioni umane. E noi sappiamo ch'ella era cattolica credente e fervorosa nel senso della religione di quel tempo. Possiamo quindi immaginare quante messe espiatorie facesse dire per l'anima di Cesare, e quante preghiere volgesse al Cielo in suffragio della stessa.
Ercole Strozzi cercò confortarla con pompose poesie, nel 1508 le dedicò un epicedio per Cesare. Questa poesia barocca è notevole pel concetto dell'autore, e quasi è lecito chiamarla l'accompagnamento poetico del Principe del Machiavelli. In prima il poeta mostra la profonda angoscia delle due donne, Lucrezia e Carlotta, che spargono sul caduto [309] caldissime lagrime, come già altra volta ne versarono per Achille Cassandra e Polissena. Dipinge l'eroica carriera di Cesare, pari al grande Romano nelle geste come nel nome. Novera tutte le città di Romagna da lui conquistate, e accusa l'invido destino che non gli permise conquistarne altre, perchè in tal caso non avrebbe lasciato a Giulio II la gloria di Bologna. Racconta che, tempo innanzi, il genio di Roma era apparso al popolo romano e aveva profetizzato la fine di Alessandro e di Cesare, deplorando che con loro svaniva la speranza sua di vedere una volta venire la sua salute dalla stirpe di Callisto, siccome gli Iddii le avevan promesso. Ora Crato istruisce il poeta intorno a tal promessa. Pallade e Venere, quella amica di Cesare e Spagnuoli, questa italiana di patria e indignata che stranieri avessero a padroneggiare su' discendenti di Troia, avevano, disputando tra loro, levato i loro richiami innanzi a Giove, e accusatolo di non aver mantenuto la promessa di dare all'Italia un re eroico. Giove avevale calmate: il fato era irresistibile. È vero che Cesare aveva dovuto morire come Achille; ma dalle due stirpi degli Este e de' Borgia, derivate da Troia e dall'Ellade, nascerà l'eroe promesso. Pallade quindi entra in Nepi, ove, dopo la morte di Alessandro, Cesare giaceva malato di peste; e al suo letto, sotto le sembianze del padre di lui, gli presagisce la morte, cui egli, nella coscienza della sua gloria, doveva affrontare da eroe. Poscia s'invola come uccello, e corre a Ferrara da Lucrezia. Descritta la caduta di Cesare in Spagna, il poeta consola la sorella prima con filosofici luoghi comuni, e poi annunziandole ch'ella sarebbe la madre del predestinato figlio d'eroi.[259]
Stando all'asserzione dello Zurita, Cesare Borgia non [310] lasciò che un'unica figliuola, la quale visse con la madre sotto la protezione del re di Navarra. Ebbe nome Luisa. Si maritò più tardi con Luigi De La Tremouille; e, morto costui, con Filippo di Bourbon, barone di Busset. La madre, Carlotta d'Albret, dopo una vita tanto commossa, si diede alla pietà e devozione contemplativa. Ritirata dal mondo, morì gl'11 marzo 1514. Due figliuoli naturali di Cesare, Girolamo e Lucrezia, vivevano in Ferrara, ove l'ultima si fece monaca, e nel 1573 morì badessa di San Bernardino.[260]
Nel febbraio 1550 in Parigi saltò fuori un altro bastardo di Cesare. Era un prete che si spacciava per figliuolo naturale del duca, di nome Don Luigi. Era venuto di Roma per chiedere soccorsi al re di Francia, avendo, com'ei diceva, suo padre incontrato la morte nel regno di Navarra in servizio della Corona di Francia. Gli furon dati 100 ducati, co' quali se ne tornò a Roma.[261]
Ben due volte Lucrezia aveva per sciagurato accidente tradite le speranze di Alfonso di aver discendenti. Finalmente il 4 d'aprile gli partorì un figliuolo. Gli si diede il nome dell'avo paterno.
Ercole Strozzi, alla nascita di questo erede al trono, festeggiò il compimento delle sue predizioni. In un genetliaco adulava la duchessa, esprimendo l'augurio, che le geste dello zio Cesare e dell'avo Alessandro potessero un giorno servir di modello al figliuolo. Perchè coloro lo avrebbero fatto ricordare di Camillo e degli Scipioni e degli eroi della Grecia.
Passarono poche settimane appena, ed il geniale poeta [311] fece una fine orribile. Il suo trasporto per Lucrezia non era certamente che di cavalier cortigiano o di poeta, che s'inchina alla bellezza. Oggetto invece delle sue passioni era Barbara Torelli, la giovane vedova di Ercole Bentivoglio. Ella lo preferì ad altro gentiluomo ferrarese. E il fortunato Strozzi la sposò nel maggio 1508.
Il mattino del 6 giugno, tredici giorni dopo, il poeta era steso morto all'angolo del Palazzo Este, detto oggi Pareschi, avviluppato nel suo mantello, i capelli arruffati, il corpo coperto di ventidue ferite. Tutta Ferrara ne fu costernata. Lo Strozzi era il decoro della città, uno de' poeti più ricchi d'ingegno del tempo suo, il prediletto di tutti i cultori degli studii, amico del Bembo e dell'Ariosto, favorito della duchessa, in grande reputazione presso la corte. Dalla morte del padre, Tito aveva occupato il posto da colui tenuto, di capo de' dodici giudici di Ferrara. Era ancora nel fiore degli anni: aveva toccato appena il ventisettesimo.
Quest'orribile avvenimento dovette riporre in mente a Lucrezia il giorno dell'uccisione del fratello Gandia. E come questa era rimasta avvolta nel mistero, il cui velo non fu mai sollevato, così pure la morte dello Strozzi. «Niuno nominò l'autore dell'assassinio, poichè il pretore tacque:» così disse più tardi Paolo Giovio nel suo elogio del poeta. Ma chi mai poteva far tacere il giudice, se non coloro che ne avevano la potestà?
Il fatto è stato attribuito ad Alfonso. Gli uni affermano che facesse ammazzare lo Strozzi per passione, ond'era preso per la moglie di lui; altri invece che vendicasse in lui il favore dispensatogli da Lucrezia. Anche i più moderni scrittori, che si sono sforzati di schiarire quel mistero, e che se ne riportano alle corrispondenze intime del tempo, dànno la colpa ad Alfonso.[262] E che il duca, il quale pure non solo [312] aveva punito con tanta crudeltà i congiurati contro la vita sua, ma era in generale mantenitore spietato delle leggi in tutta la loro severità, non facesse trattar l'affare dal magistrato, è, certamente, tale un fatto, che solleva contro di lui gravissime ragioni di sospetto.
Lucrezia è stata pur essa indicata come colpevole dell'uccisione, forse per gelosia verso Barbara Torelli, forse anche per tèma che lo Strozzi potesse propalare la relazione di lei col Bembo, della quale egli doveva essere a parte, soprattutto avendo il poeta sperato, mercè l'influenza della duchessa, ottenere la dignità cardinalizia, speranza che era poi rimasta frustrata. I moderni non hanno a ciò prestato fede alcuna. Anche l'Ariosto non credette all'accusa; altrimenti, come mai avrebbe osato in quel tempio d'onore delle donne di casa d'Este porre a fianco dell'immagine di Lucrezia appunto Ercole Strozzi, come araldo della gloria di lei? Avesse pur scritta la sua ottava, ciò che non è verosimile, innanzi la morte del poeta, l'avrebbe, ove fosse stato da quell'accusa preoccupato, in altro modo concepita al momento di pubblicare nel 1516 il suo poema per le stampe.
Non credette alla colpa di Lucrezia nemmeno Aldo Manuzio, perchè proprio nel 1513 le dedicò l'edizione delle poesie de' due Strozzi, padre e figlio, con una introduzione, nella quale la levava alle stelle.
Giulio II aveva intanto composta la Lega di Cambray, il cui scopo era la distruzione della potenza veneziana. Anche Ferrara v'era entrata a parte. La guerra quindi teneva molto occupato Alfonso fuori della residenza e dello Stato suo; e nella sua lontananza affidava a Lucrezia la reggenza. In verità, essa reggeva ora in ben altro senso che nel passato in Vaticano e a Spoleto. Nel 1509 ella vide [313] anche dappresso la tempesta guerriera, quando sul Po il marito e il cardinale riportarono vittoria sulla flotta veneziana. Il 25 agosto di quell'anno Lucrezia diè alla luce un secondo figliuolo, Ippolito.
Le guerre, che sconvolgevano l'Italia, attrassero oramai nel gran movimento anche Ferrara. Nè l'agitazione si calmò presto, ma solo quando Carlo V ebbe dato nuovo assetto alle condizioni italiane. Onde, da questo tempo in poi, la vita di Lucrezia subì l'influenza della politica. I primi anni tranquilli in Ferrara eran passati insieme colla sua gioventù. Ora si dedicò alla educazione de' suoi figliuoli, i principi d'Este, e agli affari dello Stato, ogni volta che il marito glieli confidò. Essa era donna accorta: sulla sua intelligenza il padre non s'era ingannato mai. Anche come reggente di Ferrara seppe guadagnarsi stima e reputazione. Nella dedica delle poesie degli Strozzi, che Aldo le fece, oltre le altre qualità, come il timor di Dio, la beneficenza pe' poveri e la bontà verso coloro che le eran prossimi, celebrava in modo particolare anche la eccellenza sua come reggente, della quale «i cittadini ammiravano l'acuto giudizio e lo spirito penetrante.» Anche volendo far la parte all'adulazione in queste lodi, ne rimane pur sempre un'altra, che è l'espressione della verità.
Non v'è quindi a maravigliarsi, se d'allora in poi la personalità di Lucrezia quasi scompaia, ovvero sia ecclissata dalla storia politica di Ferrara. I cronisti della città non più la rammentano che alla nascita de' figliuoli. E in tutta la biografia di Alfonso di Paolo Giovio non è menzionata che due o tre volte, ma con grande riverenza. L'attrattiva personale, suscitata un tempo dalle avventure di questa donna, era scomparsa col cessare delle stesse. Anche le sue lettere ad Alfonso e le molte altre all'amica sua Isabella Gonzaga sono pel biografo di lei pressochè di nessun conto.
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L'animo di Lucrezia era tutto immerso in quel mondo saldo e compatto, del quale oramai faceva parte. In mezzo a' serii ed alti doveri, che le incombevano, aveva trovato il suo posto tranquillo; e solo di rado ebbe ancora a sentirsi come turbata per eventi, che la riportavano con la mente al periodo romano della sua vita. Il che avvenne nel 1510 per la morte di Giovanni Sforza di Pesaro.
Dopo il ritorno nello Stato lo Sforza per Bolla di Giulio II v'era stato confermato qual feudatario. Da quel tempo aveva cercato di governare con saviezza, introdotti alcuni miglioramenti, e munito anche di nuovo il castello di Pesaro. Egli era uomo dotto e dedito allo studio della filosofia. Fu egli, come nota il Ratti, un biografo di casa Sforza, l'autore dell'indice di tutto l'Archivio di Pesaro. Nel 1504 s'era ammogliato ancora una volta con una nobile veneziana, Ginevra, di casa Tiepolo, che lo aveva conosciuto nell'esilio. Il 4 novembre 1505 n'ebbe un figliuolo, Costanzo.[263] Non sappiamo in quali termini si tenesse col d'Este a lui congiunto; ma non potettero essere che freddi e tesi. Nella vita sua non poteva più esservi motivo di contento davvero. Tutta la celebre casa Sforza inclinante al tramonto o caduta di già, a lui non rimaneva speranza alcuna in una lunga durata della sua propria schiatta. Nel Castello di Gradara, ove il più del tempo soleva vivere in solitudine, lo colse tranquillamente la morte il 27 luglio 1510.
Essendo il figliuolo bambino ancora, assunse la reggenza di Pesaro il fratello suo naturale Galeazzo, che s'era ammogliato con Ginevra, figlia di Ercole Bentivoglio. Ma, quel fanciullo essendo morto il 5 agosto 1512, papa Giulio negò a Galeazzo l'investitura. Egli costrinse quest'ultimo degli Sforza di Pesaro ad un trattato, in forza del quale il [315] 30 ottobre 1512 dovette consegnare il castello e la terra a Francesco Maria Della Rovere, già, per la morte di Guidobaldo, diventato duca d'Urbino sin dall'aprile 1508. Così Pesaro fu riunito a quest'altro Stato. Galeazzo morì a Milano il 1515, dopochè il duca Massimiliano Sforza avevalo istituito suo erede. Per tal morte la linea de' signori di Pesaro s'estinse, non avendo Giovanni Sforza lasciato che una figliuola naturale, Isabella. Questa sposò il 1520 Cipriano Sernigi, nobile fiorentino, e morì in Roma l'anno 1561, in fama di donna illustre assai per coltura e dottrina.[264] Fu sepolta in Laterano, ove può vedersene il profilo in marmo e leggersi ancora quest'epitaffio: Isabellae Sfortiae Ioannis Pesaurensium F. Feminae Sui Temporis Prudentia ac Pietate Insigni Exec. Test. P. Vix. Ann. LVII. M. VII. D. III. Obiit Ann. MDLXI. XI. Kal. Febr. Consensu Nobilium De Mutis Papazurris.
La morte del suo primo marito dovette rinnovare in Lucrezia la coscienza della colpa sua verso lo stesso. Oramai era in un'età e le disposizioni de' suoi sentimenti religiosi erano tali, che non era più possibile che la leggerezza la vincesse in lei sulla coscienza. Se non che i tempi volgevano tanto burrascosi, che tosto ella diè altra direzione a tutti i pensieri suoi. Il 9 agosto 1510, pochi giorni dopo la morte dello Sforza, Giulio II scomunicò Alfonso e lo dichiarò decaduto da tutti i feudi ecclesiastici. Il Papa allora aveva ripreso i disegni dello zio Sisto, che, alleato con Venezia, aveva un tempo voluto strappar Ferrara agli Este. Rabbonito da' Veneziani con la cessione delle città romagnuole, erasi Giulio riconciliato con la Repubblica, e domandato ad Alfonso che anch'egli abbandonasse la lega [316] francese e desistesse dalla guerra contro Venezia. Al che il duca erasi ricusato; e conseguenza di ciò fu la scomunica. Dopo d'allora Ferrara, nella più stretta alleanza con la Francia, si vide spinta in quella guerra furibonda, che condusse alla celebre battaglia di Ravenna, degli 11 aprile 1512, nella quale l'artiglieria di Alfonso decise le sorti della giornata.
Appunto in tal guerra e in occasione del tentativo di Giulio II d'impadronirsi di Ferrara con una sorpresa strategica, il famoso Bayard fece conoscenza di Lucrezia. Tornando i cavalieri francesi, in compagnia de' loro commilitoni ferraresi, trionfanti in Ferrara, dopo la conquista della Bastìa, vennero accolti con altissime dimostrazioni d'onore. A memoria di ciò il biografo del Bayard scrisse più tardi in lode di Lucrezia: «Soprattutto la buona duchessa, ch'era una perla in questo mondo, accolse i Francesi con grande distinzione, e tutti i giorni dava loro feste maravigliose e banchetti sul gusto italiano. Io oso ben dirlo: nè del tempo suo nè molto innanzi s'è mai trovata principessa di lei più gloriosa; mentr'ella era bella e buona e dolce e cortese con tutti; e nulla è pure più sicuro di questo che, comunque il marito di lei fosse principe savio e coraggioso, nondimeno essa, mercè la sua cortesia, gli ha reso buoni e grandi servizii.»[265]
È noto come, per la morte di Gastone di Foix alla battaglia di Ravenna, la vittoria di Francia si convertisse in perdita, e la sconfitta del Papa in trionfo. Alfonso si vide privo di difesa. Nel luglio 1512 s'affrettò ad andare a Roma per ricevervi da Giulio l'assoluzione. Benchè ottenesse questa, pure solo una fuga precipitosa potette salvarlo [317] dall'estrema rovina o dalla sorte medesima di Cesare Borgia. Aiutato da' Colonna, che lo condussero a Marino, gli riuscì travestito tornare a Ferrara.
Furono giorni tormentosi per Lucrezia. Mentre tremava per la vita del marito, ebbe anche la nuova della morte del figlio suo, lontano ed espulso. Il 28 agosto 1512 l'agente mantovano Stazio Gadio scriveva da Roma al suo signore Gonzaga: «Qui si dà per certo che il duca di Bisceglie, figlio della signora duchessa di Ferrara e di Don Alfonso d'Aragona, sia morto a Bari, ove la duchessa di quella città lo teneva seco.»[266] Lucrezia stessa ne informò una persona sconosciuta con lettera del primo ottobre, nella quale diceva: «Io mi trovo tuttavia involta in lacrime e amaritudine per la morte del duca di Biselli, mio figliuolo carissimo; su di che il latore della presente potrà darle i particolari.»
Ignoriamo i destini del povero Rodrigo ne' primi anni dopo la morte di Alessandro e dopo che Cesare fu tradotto in Spagna. Pure dobbiamo tenere per certo, che visse in Napoli sotto la tutela de' cardinali Ludovico Borgia e Romolini di Sorrento. Il re di Spagna, giusta i trattati anteriori, lo riconobbe qual duca di Bisceglie, e vi sono ancora del settembre 1505 documenti, ne' quali il luogotenente del piccolo duca prestava giuramento di fedeltà nelle mani de' due cardinali tutori.[267] Probabilmente Rodrigo fu educato da donna Sancia, sua zia carnale. Anche questa trovavasi col marito nel Reame di Napoli, ove Don Jofrè fu riconosciuto nel possesso de' suoi beni. Sancia morì senza figliuoli nel 1506, appunto durante il soggiorno di Ferdinando il Cattolico a Napoli. Pertanto fecero ritorno al re gran parte de' feudi di Don Jofrè, il quale nulladimeno [318] restò principe di Squillace. Egli si ammogliò una seconda volta, e da questo matrimonio ebbe discendenti. Nulla si sa della fine sua. Una delle sue nipoti, Anna de Borgia, principessa di Squillace, come ultima discendente di questo ramo portò in dote, sugl'inizii del XVII secolo, quel possedimento nella casa Gandia di Spagna, sposando Don Francesco Borgia.
Morta la Sancia, Rodrigo dovette forse essere affidato all'altra zia, sorella maggiore di suo padre. Era questa Isabella, la più infelice delle donne di quel tempo, vedova di Giangaleazzo di Milano, fatto morir di veleno da Lodovico il Moro. In tutta la storia d'Italia di quel periodo, in cui con l'invasione di Carlo VIII una tempesta di fortunose vicende si scatenò sulle varie dinastie che la dominavano, difficilmente potrebbe trovarsi una figura altrettanto tragica quanto quella d'Isabella d'Aragona. Ella fu colpita insieme dalla rovina delle due case Sforza e Aragona. E d'ambo queste famiglie può ben dirsi ciò che il Caracciolo nel suo De varietate fortunae ha detto degli Sforza: «Non v'ha ancora tragedia, per orribile che sia, cui la casa Sforza non possa offrire sufficiente materia.» Isabella aveva assistito alla caduta di tutta la casa sua, un tempo così potente, e visto menare il proprio figlio Francesco, da Luigi XII, prigioniero in Francia, ove doveva morire giovane ancora e sacerdote. Essa erasi ritirata a Bari, città che Lodovico il Moro nel 1499 le aveva abbandonata, e ne fu duchessa sino alla morte, sino cioè agl'11 febbraio 1524.
Ora s'era preso seco il figliuolo di Lucrezia, il quale moriva in casa sua all'età di tredici anni. Quest'ultima pretese alla eredità di lui; e, come risulta da documenti, la ebbe in effetto da Isabella d'Aragona, qual tutrice del defunto, nella somma di alcune migliaia di ducati.[268] Quali [319] che fossero le circostanze, che costrinsero Lucrezia a tener lontano da sè il figliuolo, è certo, ad ogni modo, che questo infelice bambino lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra.
Grazie all'energia d'Alfonso e ai supremi sforzi dello Stato, la guerra contro Ferrara era cessata. Pure Giulio II aveva tolto allo Stato Modena e Reggio; perdita gravissima per la casa d'Este, tanto che la storia di Ferrara per parecchi anni si concentrò tutta nell'intento di riconquistare le due città. Per fortuna d'Alfonso Giulio II morì nel febbraio 1513. Sulla Santa Sede gli successe Leon X. Aveva costui insino allora mantenuto amichevoli relazioni con i principi d'Urbino e di Ferrara, i quali non sapevano da lui aspettarsi che atti d'amicizia. Ma proprio per mano di questo Medici, uomo falso, che riuscì a trarre tutti in errore, dovevano quelle due case subire i più amari disinganni. Alfonso andò in tutta fretta a Roma per l'incoronazione di Leone, e se ne tornò a Ferrara con le migliori speranze in una intera e perfetta riconciliazione con la Santa Sede.
Lucrezia in Ferrara s'era acquistata stima e affetto presso l'universale. Era divenuta la madre del popolo. I miseri e gli afflitti trovavano presso di lei ascolto e soccorsi. Carestia e indigenza e finanze esauste: tali erano state le conseguenze della guerra. Lucrezia si spogliò de' suoi ornamenti e delle sue gioie, e gli pose in pegno. Rinunziò, come il Giovio la lodava, alla pompa e alla vanità del mondo, cui dalla prima giovanezza era usa. Si diede ad una vita religiosamente devota; fondò istituzioni monastiche e ospedali. Che tutto questo facesse, non v'è a maravigliarsi. Ciò s'accordava con la natura della [320] donna non solo, ma col suo passato e con le sofferte vicissitudini. La più gran parte delle donne, che han molto vissuto ed amato, finiscono bigotte. E la bigotteria è sovente l'ultima forma, che alla vanità della donna rimane a prendere. La rimembranza di un mondo pieno di vizii e di delitti commessi dalle persone a lei più prossime, e fors'anco la memoria delle colpe proprie, non potevano cessare di tormentar l'animo di Lucrezia. E così anche quelle altre donne, che insieme o prima di lei avevano preso parte, quali personaggi principali, alla storia dei Borgia, si trovarono in condizione interiore identica, e provarono lo stesso bisogno di religioso conforto. La vedova di Cesare finì la vita in un chiostro; altrettanto fece la vedova di Gandia. Anche la vedova di Alessandro VI divenne una vecchia bacchettona. E, se ne fossero giunte nuove sino a noi, senza dubbio troveremmo pure l'adultera Giulia Farnese, in sul tramonto della vita, se non fatta santa in un monastero, immersa in quotidiane pratiche di devozione.
L'anno 1513, in cui fu messo termine alla guerra contro Ferrara, segnò un nuovo periodo nella vita di Lucrezia. D'allora in poi prese decisamente quel devoto indirizzo; il quale però non degenerò in bacchettoneria fanatica: le valsero in questo d'impedimento la pratica energia d'Alfonso, le cure per la famiglia e pei figliuoli, i doveri della corte. La corte di Ferrara aveva per la guerra perduto molto del suo splendore; pure fra le Corti d'Italia rimaneva sempre una delle più ragguardevoli. Alfonso stesso dedicò alcuno degli anni di pace, che seguirono, al culto delle arti. Lavoravan per lui nel castello, come anche a Belriguardo e a Belfiore, i migliori maestri di Ferrara, quali il Dossi, il Garofalo e Michele Costa. Il Tiziano, che alcuna volta fu ospite in Ferrara, dipinse per lui; ed anche a Raffaello ei diè commissioni. Fondò similmente un [321] museo di antichità. Nel suo gabinetto Lucrezia aveva un Cupido di Michelangelo. Nondimeno il trasporto della duchessa per le cose d'arte non era molto vivo, e non paragonabile nemmeno alla lontana con la passione della cognata Isabella di Mantova, la quale era in relazione con gli artisti più famosi del tempo suo e teneva agenti in tutte le grandi città d'Italia, con l'incarico d'informarla d'ogni nuovo prodotto delle arti belle.
Dopo il 1513, quando la Corte di Leon X venne in fiore, Ferrara ebbe a patire perdita non piccola, anzi fu proprio messa nell'ombra. Il lusso artistico del Medici attrasse in Roma i più eletti ingegni d'Italia. V'andò il poeta Tebaldeo, e vi vivevano il Sadoleto e il Bembo, ora segretarii di Leone. I due Strozzi eran morti. L'Aldo, sulla carriera del quale, come erudito ed editore, Lucrezia ne' primi anni aveva esercitato un certo benefico influsso, viveva a Venezia. Nondimeno si teneva di colà in commercio letterario con la sua protettrice. Celio Calcagnini rimase fedele a Ferrara. Anche l'Università continuò a mantenersi in certo rigoglio. Lucrezia era di più molto amica del Trissino, il nobile vicentino, l'infelice rivale dell'Ariosto nella poesia epica. Vi sono cinque lettere del Trissino dirette a Lucrezia negli ultimi anni della vita di lei.[269] Ma l'orgoglio di Ferrara era l'Ariosto; e Lucrezia viveva ancora, quando la glorificazione di lui era cominciata. Egli non dedicò a lei nè ad Alfonso il suo Poema, ma all'indegno cardinale Ippolito, al cui servigio lo avevan fatto entrare circostanze accidentali. Niuna casa principesca fu mai magnificata tanto, quanto quella degli Este per mano dell'Ariosto. Con l'Orlando Furioso per tutti i tempi, sinchè l'idioma italiano vive e dura, essa è divenuta nella letteratura immortale e monumentale. Ed anche Lucrezia ha trovato in quel poema [322] il suo posto d'onore. Ma per bello che questo sia, pure è certo, che l'Ariosto le avrebbe offerto omaggi più caldi e più frequenti, ov'ella lo avesse incoraggiato, mostrandogli una premura realmente entusiastica.
Le relazioni di Lucrezia col marito, non fondate sull'amore e non mai spinte sino alla passione, sembrano nondimeno essersi via via fatte sempre più intime e cordiali. Nell'aprile 1514 gli aveva partorito un terzo figliuolo, Alessandro, che morì all'età di due anni. Il 4 luglio 1515 diede alla luce una bambina, Leonora; e il primo novembre 1516 un altro bambino, Francesco. Alfonso era contento di vedersi padre di figliuoli, che erano suoi eredi legittimi. Egli s'abbandonò alle gioie domestiche; ma gli era di soddisfazione l'osservare la stima, anzi l'ammirazione, onde la moglie era circondata. Se gli omaggi erano per lo innanzi tributati alla sua giovanile bellezza, ora invece venivano offerti alle virtù sue. La donna, che una volta fu la più ingiuriata del tempo suo, prendeva ora il suo posto nel tempio d'onore delle donne. Il Caviceo poteva insino osar di adulare la festeggiata Isabella Gonzaga con questo giudizio, che egli l'esaltava abbastanza, dicendole che si approssimava alla perfezione di Lucrezia. Il passato parve così morto nella memoria degli uomini, che lo stesso nome Borgia non era pronunziato che a titolo d'onore.
Nel 1517 Lucrezia ebbe di nuovo a rammentarsi della vita sua in Roma. Alla corte apparve una figura di quel tempo, che s'era già dileguata. Era Giovanni Borgia, il misterioso Infante romano, una volta duca di Nepi e Camerino, e compagno di sventura di Rodrigo, il figliuolo di Lucrezia. Giovane di 19 a 20 anni, egli, a quanto pare, andava da Napoli in Romagna, ove fece naufragio. Il suo bagaglio, di cui s'era nell'occasione impossessata la Comunità di Pesaro, fu richiesto il 2 dicembre da un ambasciatore di Lucrezia; e nell'atto Giovanni Borgia vien [323] chiamato fratello di lei. Da altri documenti apparisce, che nel gennaio 1518 egli viveva alla corte di sua sorella.[270] Si vede che Alfonso non aveva impedito alla moglie di accogliere questo prossimo parente. Sembra anzi che l'anno stesso Giovanni l'accompagnasse in Francia, ov'egli, il duca, lo presentò al re Francesco I, successo sul trono il 1515 al suocero Luigi XII.
Dappoi l'Infante romano scompare di nuovo, sino all'anno 1530, in cui riapparisce in Roma qual pretendente al Ducato di Camerino. L'ultimo de' Varano, Giammaria, caduto Cesare, era colà tornato; e Giulio II lo aveva riconosciuto vassallo della Chiesa. Leon X nell'aprile 1515 lo fece duca di Camerino, e lo unì in matrimonio con la propria nipote, la bella Caterina Cibo. Giammaria morì nell'agosto 1527, lasciando unica erede la figlia Giulia ancora minore. Un bastardo della casa Varano, con le armi alla mano, mise innanzi pretensioni su Camerino; ma, mentre la lite pendeva tuttora, ne pose in campo pure Giovanni Borgia, antico e primo duca di quel paese. In un voluminoso documento del 29 giugno 1530, che contiene tutto il processo, Giovanni non è designato solo come Domicellus Romanus principalis, ma si chiama egli stesso Oratore del Papa. Di qui risulta che il bastardo di Alessandro VI viveva allora in Roma come persona di alta condizione, ed era anche al servizio del Papa. La Rota Romana decise contro Giovanni e lo condannò alle spese del giudizio. Con un Breve del 7 giugno 1532, Clemente VII gli proibì di molestare con altre pretensioni Giulia Varano e la madre di lei. Da quel tempo in poi le sorti di questo Borgia sono ignote.[271]
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Lo stesso anno, in cui l'ultimo figlio del padre apparve alla corte sua, Lucrezia perdette anche la madre. Al tempo della morte di Alessandro VI, Vannozza era già divenuta vedova. In quella congiuntura, anzi durante ancora la malattia del Papa, ella si pose sotto la protezione della gente d'arme di suo figlio Cesare. Per tal guisa potette forse giungere sino al letto di costui, che giaceva similmente malato. Da documenti si ricava che Vannozza, immediatamente dopo la morte di Alessandro e nella sede vacante, abitò il palazzo del cardinale di San Clemente in Borgo. E quando Cesare dovette andarsene a Nepi, ella lo accompagnò e con lui fece ritorno a Roma dopo la elezione del Piccolomini.
Non seguì i suoi figliuoli in Napoli: restò in Roma. Dappoichè il Della Rovere era Papa, le condizioni della città eran tornate allo stato normale. I partigiani de' Borgia temevano, certamente, di vedersi intentar contro processi. Il 6 marzo 1504 fu di fatto condannato a morte un cameriere dell'avvelenato cardinale di Sant'Angelo; il quale ad alta voce affermò aver commesso il misfatto per comando espresso di Alessandro e Cesare.[272] I cardinali Romolini e Lodovico [325] Borgia fuggirono allora a Napoli. Don Micheletto, l'esecutore de' delitti di sangue per conto di Cesare, giaceva nelle prigioni di Castel Sant'Angelo. L'ambasciatore veneto informava la Repubblica nel 1504, che Micheletto era sottoposto ad un interrogatorio per scoprire come fosse occorsa la morte di parecchie persone, soprattutto del duca di Gandia, di Varano di Camerino, di Astorre e Ottaviano Manfredi, del duca di Bisceglie, del giovane Bernardino di Sermoneta, del vescovo di Cagli, e di molti altri infelici.
Quando Cesare fu lontano, Vannozza potè sempre contare sulla protezione di amici potenti, segnatamente i Farnesi e i Cesarini, e di parecchi cardinali. Temeva però veder confiscati i beni suoi, non tutti, per verità, acquisiti a giusto titolo. Su' primi del 1504 Lodovico Mattei le intentò un processo. L'accusava di avere, mentre Cesare faceva guerra agli Orsini e mediante i mercenarii di lui, rubato violentemente 1160 pecore; il qual gregge Maria d'Aragona, moglie di Giovan Giordano Orsini, aveva mandato su' campi del Mattei per metterlo al sicuro. Vannozza fu condannata al rifacimento de' danni.[274]
Ella cercava in tutti i modi di salvare il suo avere e [326] la sua fortuna. Il 4 dicembre 1503 fece una donazione alla chiesa di Santa Maria del Popolo, legando alla sua Cappella gentilizia le case che possedeva sulla piazza Pizzo di Merlo, riservandosene l'usufrutto vita durante. E gli Agostiniani dalla parte loro si obbligarono di dire una messa funebre il 24 marzo per Carlo Canale, un'altra il 13 ottobre per Giorgio de Croce, e una terza nel giorno della morte di lei. In quest'istrumento Vannozza si dice vedova di Carlo Canale da Mantova, scrittore e soldano apostolico del defunto Alessandro VI, e nomina Giorgio de Croce suo primo marito. L'atto fu stipulato nel Borgo di San Pietro nell'abitazione di Agapito d'Amelia.[275] Di qui si ricava che alla fine del dicembre Vannozza viveva ancora in Borgo e sotto la protezione di colui, che era stato per anni cancelliere di suo figlio; mentre Cesare stesso era prigioniero nella Torre Borgia in Vaticano. Solo, dopo che questi il 16 febbraio 1504 ebbe abbandonato Roma per sempre, ella forse uscì dal Borgo Vaticano.
Già il primo aprile 1504 è indicata, come sua abitazione, una casa sulla piazza de' Santi Apostoli nella regione Trevi, vale a dire, nella cerchia ove i Colonna erano potenti; i Colonna, che avevano il meno sofferto per opera di Cesare, e che in forza di contratto stipulato con lui n'ebbero alla morte di Alessandro restituiti i beni loro. Altre case, di proprietà sua, Vannozza aveva vendute al romano Giuliano de Lenis; ma il primo aprile 1504 questi annullò la vendita simulata, con l'espressa dichiarazione di aver quella avuto luogo solo per tema di atti di prepotenza alla morte di Alessandro.[276]
Cessata ogni ragion di timore, Vannozza andò ad abitar di nuovo la sua antica casa in Piazza Branca. Difatti in un istrumento del novembre 1512 vien chiamata «Donna [327] Vannozza de Cataneis della Regione Regola;» e appunto in questa era posta la casa. Trattavasi di una lite mossale dall'orafo di quella regione stessa, Nardo Antonazzi.
L'artefice richiedeva il pagamento di una croce d'argento da lui fatta per Vannozza nel 1500. L'accusava di essersi, senz'altro, appropriata quel lavoro; la qual cosa, com'ei diceva, erasi permessa «in quel tempo, in cui il duca Valentino dominava su tutta la città e quasi sull'Italia intera.» Non tutti gli atti di tal processo esistono; ma da deposizioni di testimoni della parte accusata risulta che questa fu in grado di provare di essere stata calunniata.[277]
Vannozza era stata investita da Alessandro VI, se non del Castello Bleda presso Viterbo, di molti diritti sullo stesso. Il 6 luglio 1513 inoltrò istanza presso il Cardinal Vicario, Raffaele Riario, contro la comunità di quel castello pel pagamento di carte somme. Questo documento su pergamena è concepito in termini ampollosi, e rivolto a tutte le autorità immaginabili del mondo.[278]
Vannozza potette ancora sotto tre successori di Alessandro VI assistere alla vicenda delle cose in Vaticano, ove il posto de' figliuoli suoi, una volta onnipotenti, fu occupato successivamente da' Della Rovere e da' Medici. Vide il Papato sollevarsi a grande potenza mondana, ed ella stessa ebbe coscienza che, senza le geste di Alessandro e di Cesare, la cosa non sarebbe stata possibile. Se scorse di lontano il potente Giulio II, forse nel punto in cui, conquistata Bologna, fece con sfarzo degno di un imperatore il suo ingresso trionfale in Roma, è molto verosimile che quella donna sperduta nella gran folla andasse con amara ironia a se stessa ripetendo, che suo figlio Cesare aveva una parte in quel trionfo, anzi era egli che aveva aiutato Giulio II a giungere al Papato. Con soddisfazione aveva [328] potuto apprendere le lodi, con le quali quel Papa riconosceva l'importanza del figliuolo, allorchè scriveva a' Fiorentini nel novembre 1503, ch'egli circondava di paterno amore il duca di Romagna «per le preclare virtù e pe' meriti gloriosi di lui.» Forse potè anche prender cognizione del Principe del Machiavelli, nel quale il geniale statista faceva del figliuolo di lei l'ideale di un reggitore.
Tuttochè la potenza dei Borgia fosse scaduta, e i figli suoi fossero morti o lontani; pure, sinchè Vannozza visse, la città portò sempre l'impronta della grandezza di quelli. Appunto per questo passato ella divenne uno degli esseri più notevoli, del quale ogni uomo era bramoso di far conoscenza. E se è lecito qui un paragone di relazioni diverse per proporzioni, ma identiche per destino e significato, può dirsi che la condizione di Vannozza fu allora in Roma pari a quella che vi tenne madama Letizia Ramolini dopo la caduta del suo potentissimo figliuolo.
Con orgoglio fissava lo sguardo suo sulla figlia Lucrezia, la duchessa di Ferrara, la plus triomphante princesse, come la chiamò il biografo del Bayard. Di vederla però non le fu più concesso, non avendo ella ardito di andare alla corte di Ferrara; ma intrattenne con lei carteggio epistolare. Nell'Archivio di casa d'Este sono nove lettere di Vannozza degli anni 1515, 1516 e 1517, delle quali sette sono dirette al cardinale Ippolito, e due a Lucrezia. Esse riguardano tutte interessi o domande di carattere pratico e privato.
Le disposizioni d'animo ed anche lo stato della Vannozza appariscono dal modo di firmarsi in tali lettere: «La felice ed infelice Vannozza Borgia de Cathaneis;» ovvero: «Vostra felice e infelice madre Vannozza Borgia.» Il nome di famiglia se l'era appropriato anch'essa non nelle relazioni ufficiali, ma nelle private.
L'ultima lettera a Lucrezia del 19 dicembre 1515 si [329] riferisce all'antico segretario di suo figlio Cesare, Agapito d'Amelia, e dice così:
«Illustrissima Signora, salute e raccomandazione. — Vostra Eccellenza deve ben ricordarsi la servitù della buona memoria di messer Agapito d'Amelia verso il già duca nostro, e l'amore ed affezione sempre porti a noi in ispecie. Per il che non in minima cosa soltanto, ma in ogni altra di qualunque sorta fosse meritano i suoi di essere aiutati e favoriti. Ora prima di morire egli rinunziò in favore de' nipoti suoi tutti i beneficii a Giambattista Dell'Aquila; tra i quali alcuni di poca valuta nell'Arcivescovado di Capua. Il defunto fece questo a maggior vantaggio dei nipoti, non potendo pensar mai che costoro sarebbero molestati dal reverendissimo cardinale arcivescovo. Se ora Vostra Eccellenza vuol farmi cosa grata, la prego si degni per tutti gli anzidetti rispetti di favorire gl'indicati nipoti presso Sua Eminenza. A pieno, come di bisogno, sarà Vostra Eccellenza informata dal latore della presente, Nicola, anch'egli nipote del detto Agapito. E si tenga forte l'Eccellenza Vostra, alla quale anch'io mi raccomando — Roma, il 19 dicembre 1515.»
«Postscripta. Vostra Eccellenza farà in questo affare come meglio crederà, essendomi stato forza lo scrivere. Epperò si faccia solo quello che torni ad onore di Monsignore; e quanto alla presente darà risposta qual meglio le pare. — Di vostra Eccellenza Illustrissima perpetua oratrice Vannozza.»[279]
Si vede che Vannozza faceva onore alla scuola diplomatica de' Borgia.
Agapito, autore di tante scritture di Cesare, era, come dalla lettera apparisce, rimasto irremovibilmente fedele ai Borgia, e morto a Roma. Sicuramente Vannozza aveva visto altri antichi amici, adulatori e parassiti della casa venir [330] meno e voltarsi altrove. Pure alcuni, e anche persone ragguardevoli, dovettero rimanerle devoti. Già, come madre della duchessa di Ferrara, godeva sempre di una certa influenza. E poi viveva in condizioni facoltose, qual signora rispettabile, chiamata la magnifica e nobile Madonna Vannozza. Mantenne pure relazioni con alcuni cardinali, spagnuoli e parenti di Alessandro VI o creature di quest'ultimo; ma sopravvisse alla più parte di loro. De' cardinali Borgia, i due Giovanni erano già morti negli anni 1500 e 1503; Francesco e Lodovico morirono nel 1511 e 1512. Nel 1510 era anche morto il cardinale Giuliano Cesarini. In realtà Vannozza vide morir tutti i favoriti e le creature di Alessandro nel Collegio cardinalizio, ad eccezione del Farnese, di Adriano Castellesi e dell'Albret, cognato di Cesare.
Ella si procacciò novelli amici, mercè quella specie di pietà devota, solita trasformazione di tutti i tempi nella vita delle peccatrici invecchiate. Divenne una bacchettona tutta premurosa e sollecita di sante pratiche. Bazzicava frequentissima in chiesa e col confessionale, e la si vedeva famigliare ed intima con istituzioni pie e con ospedali. Così trasformata ebbe a conoscerla Paolo Giovio, e la chiamò donna dabbene. Ove avesse vissuto ancora un decennio, è molto probabile che sarebbe anche venuta in odore di santità. Fece molte fondazioni di beneficenza per gli ospedali di San Salvatore al Laterano, di Santa Maria in Portico e della Consolazione, per la Confraternita dell'Annunziata alla Minerva e per San Lorenzo in Damaso, come risulta dal suo testamento del 15 gennaio 1517.[280]
Per lungo tempo furon lette negli ospedali di Laterano e della Consolazione iscrizioni commemorative delle fondazioni di lei e dell'obbligo insieme di dir messe in [331] eterno, ne' giorni della morte de' suoi due mariti e di lei stessa.
Vannozza morì in Roma il 26 novembre 1518. La morte sua non passò inosservata, come lo mostra questa lettera di un Veneto:
«Avantieri morì madonna Vannozza, una volta amica di papa Alessandro e madre del duca Valentino e della duchessa di Ferrara. In quella notte mi trovai in luogo, donde mi fu dato intendere il grido per la morte, secondo il costume romano, con queste formali parole: — Messer Paolo fa la parte, perchè è morta madonna Vannozza, la madre del duca di Gandia; la trapassata appartiene alla Confraternita del Gonfalone. — Ieri fu sotterrata in Santa Maria del Popolo, ove fu portata con ogni pompa, quasi come un cardinale. Aveva 66 anni. Ha legato tutta la sua fortuna, che non era piccola, a San Giovanni in Laterano. A' funerali assistevano i camerieri del Papa, cosa non solita in altri casi.»[281]
Marcantonio Altieri, uno degli uomini più ragguardevoli di Roma, lasciò di lei una specie di elogio funebre. Egli era guardiano della Confraternita del Gonfalone ad Sancta Sanctorum; e, in tal qualità, fece nel 1525 l'inventario de' beni del sodalizio. Nel manoscritto, conservato nell'Archivio della Confraternita, l'Altieri disse:
«Noi non possiamo nemmeno dimenticare le amorevoli fondazioni, fatte dalla molto stimabile ed onorevole donna, madonna Vannozza di casa Catanei, avventurosa madre d'illustrissimi signori, del signor duca di Gandia, del signor duca Valentino, del principe di Squillace e di madonna Lucrezia duchessa di Ferrara. Volendo essa dotare la Confraternita di beni terreni, le lasciò molti gioielli di non piccolo valore e v'aggiunse altri soccorsi, pei quali la Confraternita, pochi anni dopo, potè liberarsi da alcune [332] obbligazioni e soprattutto per mediazione de' gentiluomini messer Mariano Castellano e del mio carissimo messer Raffaele Casali, che furono non molto addietro guardiani. Ella fece specialmente un accordo col distinto e celebre orafo Caradosso, pel quale, dandogli 2000 ducati, costui doveva con le sue peregrine opere d'arte rispondere al desiderio di quella nobilissima e onorandissima donna. Quindi per fare ornamenti e poterli completare, ella ci lasciò tanta proprietà da ricavarne per sempre l'annuo reddito di 400 ducati, co' quali alimentiamo il numero pur troppo grande dei poveri e dei bambini. Per gratitudine verso cosiffatti sentimenti suoi tanto devoti e pii e pe' soccorsi così abbondanti ed amorevoli in pro dei bisognosi, la nostra onorevole Confraternita decise all'unanimità e molto volontieri non solo di solennizzare le esequie di lei con ogni splendidezza di onori e di pompa, ma anche di ricordarne la memoria con magnifico e grandioso monumento. Quindi per pubblica acclamazione fu anche presa la risoluzione di festeggiarne, d'allora in poi, il giorno dell'esequie, in Santa Maria del Popolo, ove quella fu sotterrata, con messe e cerimonie, con concorso di gente, con molti ceri e torce e con ogni devozione; e ciò non solo per raccomandare a Dio la salute dell'anima sua, ma anche per mostrare al mondo che noi abbiamo in odio e in abominazione l'ingratitudine.»
Esser portata al sepolcro con sfarzosa solennità era stato l'orgoglio di quella donna. Il giorno dell'esequie tutta Roma dovette parlar di lei, dell'amante di Alessandro VI e della madre di figliuoli cotanto famosi. Leon X, facendovi intervenire la Corte, diede ai funerali carattere pubblico, anzi con tale distinzione riconobbe officialmente Vannozza qual vedova di Alessandro, o almeno qual madre della duchessa di Ferrara. Del resto, tutta la città vi fu rappresentata, mentre alla Confraternita del Gonfalone appartenevano [333] i membri più ragguardevoli della nobiltà e della borghesia di Roma. Vannozza fu deposta in Santa Maria del Popolo nella sua Cappella gentilizia, accanto al suo infelice figlio Don Juan di Gandia. Non si sa se le sia stato eretto un sarcofago di marmo, ma l'esecutore testamentario pose sulla tomba queste superbe parole:
«A Vannozza Catanea, nobilitata dai figliuoli suoi, i duchi Cesare di Valenza, Juan di Gandia, Jofred di Squillace e Lucrezia di Ferrara; alla donna altamente illustre al tempo stesso per l'onestà, la pietà, l'età e la saggezza sua, e tanto benemerita dell'Ospedale lateranense, pose Jeronimo Pico, fidecommissario ed esecutore testamentario. Visse anni 77, mesi 4, giorni 13. Morì nell'anno 1518 il 26 novembre.»
Sicuramente Vannozza se n'andò via da questo mondo nella fermissima credenza di aver con oro ed argento e con pie istituzioni lavate le colpe e i peccati suoi, e d'essersi compro il regno de' cieli. Non aveva forse potuto comprarsi la pompa funeraria e una menzogna sulla pietra del sepolcro? Per più di 200 anni i frati di Santa Maria del Popolo cantaron messe in requie dell'anima sua, sino a che l'Autorità ecclesiastica non gli fece smettere, meno forse pensando che l'anima di quella donna n'avesse già abbastanza, e più per una coscienza critica e storica, che cominciava a levare il capo. Più tardi un sentimento di odio e a un tempo di vergogna ha fatto sparire ogni traccia di quella pietra sepolcrale.
Le condizioni dello Stato di Ferrara s'erano fatte di nuovo difficili assai. Leon X aveva preso a seguitare le orme di Alessandro VI. Anch'egli cercava raccozzare un regno pel nipote Lorenzo de' Medici. Già nel 1516 lo aveva [334] creato duca d'Urbino, dopo aver con la forza delle armi scacciato di colà il legittimo erede di Guidobaldo. Francesco Maria Della Rovere, la moglie, la madre sua adottiva Elisabetta trovavansi in Mantova, in quell'asilo di tutti i principi fuggiaschi. Leone ardeva dal desiderio di scacciare anche gli Este da Ferrara. Solo la protezione di Francia guarentiva Alfonso da una guerra col Papa. Visto che quest'ultimo, in disprezzo del trattato, non consegnava le città di Modena e Reggio, il duca andò nel novembre 1518 alla Corte di Francesco I per raccomandargli le faccende sue. Tornò a Ferrara nel febbraio 1519. Apprese quivi la morte del cognato, il marchese Francesco Gonzaga di Mantova, seguita il 20 del mese stesso. Lucrezia scrisse l'ultimo di marzo alla vedova Isabella nel modo che segue:
«Illustrissima Signora, cognata onoratissima. — L'acerbità del caso della morte dell'illustrissimo consorte dell'Eccellenza Vostra, di buona memoria, m'è stata per infiniti rispetti di tanta mestizia e dolore, che avrei io bisogno di esser consolata più di quel che possa consolare altrui, soprattutto l'Eccellenza Vostra, ch'è pur quella che per la troppo grande perdita ha dovuto sentire gravissimo affanno. Io dunque mi rattristo e dolgo con Vostra Eccellenza per questo disgraziato caso, che non potrei mai esprimere quanto mi gravi e prema. Ma poichè non v'è oramai riparo ed è così piaciuto al Signor Nostro, uopo è conformarsi alla volontà sua. E per tanto prego e conforto Vostra Eccellenza a voler tollerare questo caso con fermezza e come alla saviezza sua si conviene. E son certa che ella saprà farlo. Null'altro le dirò per ora, se non che me le raccomando e offro per sempre. — Ferrara, l'ultimo di marzo 1519. Cognata Lucrezia duchessa di Ferrara.»[282]
[335]
Successore del marchese fu il primogenito Federigo. Nel 1530 l'imperatore Carlo V lo fece primo duca di Mantova. Un anno dopo s'unì in matrimonio con Margherita di Monferrato. Era questi quel Federigo stesso destinato tempo innanzi a diventare marito di Luisa, la figliuola di Cesare. La celebre Isabella madre sua visse vedova sino al 13 febbraio 1539.
Alfonso aveva trovato al ritorno sua moglie in condizioni di salute molto travagliose. Ella s'approssimava allo sgravo. Il 14 giugno 1519 partorì una bambina morta. Prevedendo la sua fine, scrisse in capo a otto giorni una lettera a papa Leone. È l'ultima; e, concepita sotto l'impressione di una prossima morte, è profondamente sentita. Leggendo questo suo addio alla vita, si guarda nel fondo dell'anima sua, attraverso la quale passavano per l'ultima volta ancora le rimembranze del passato, quando già il terrore e gli erramenti di quel tempo non giungevano più a turbarla.
«Santissimo Padre e Beatissimo signor mio. — Con ogni possibile reverenza d'animo bacio i santi piedi di Vostra Beatitudine, e umilmente mi raccomando alla sua santa grazia. Dopo che per una difficile gravidanza ebbi molto sofferto per più di due mesi, partorii, come a Dio piacque, il 14 di questo mese, sul far del giorno, una bambina; e speravo, liberatami col parto, che anche il mio male si dovesse alleviare. Ma è successo il contrario; sicchè m'è forza cedere alla natura. E tanto è il dono che il nostro Creatore clementissimo m'ha fatto, che ho coscienza della fine della mia vita, e sento che fra poche ore, avendo però prima ricevuti tutti i Santi Sacramenti della Chiesa, ne sarò fuori. In questo punto come cristiana, benchè peccatrice, mi son ricordata di supplicare Vostra Beatitudine che per sua benignità si degni darmi del tesoro spirituale qualche suffragio, dispensando all'anima mia la sua santa benedizione. [336] Di che la prego devotamente. E alla sua santa grazia raccomando il mio consorte e i miei figliuoli, tutti servitori di Vostra Beatitudine. — In Ferrara, il 22 febbraio 1519, nella 14ma ora. Di Vostra Santità umilissima serva Lucrezia d'Este.»[283]
La lettera è scritta con animo così sereno e dignitoso, e libero tanto da qualsiasi sovreccitazione di sentimento, ch'è lecito dimandarsi, se avrebbe potuto scriverla, sul letto di morte, una donna, la cui coscienza fosse effettivamente sotto il peso di quell'enormezze, ond'è stata accusata la figliuola di Alessandro.
Lucrezia morì il 24 giugno, nella notte, in presenza di Alfonso. La morte fu immediatamente annunziata dal duca con lettera autografa al nipote Federigo Gonzaga.
«Illustrissimo Signore, onorandissimo fratello e nipote. — A Dio, Signor Nostro, è piaciuto di chiamare a sè in quest'ora l'anima dell'Illustrissima Signora Duchessa, mia consorte carissima. Non posso fare di non comunicarla a Vostra Eccellenza per l'amore nostro mutuo, il quale mi fa credere che i piaceri e le avversità dell'uno siano anche dell'altro. Non posso scriver questo senza lacrime, tanto m'è grave vedermi privo di sì dolce e cara compagna, poichè tale ella era per me, per i buoni costumi suoi e il tenero amore che era fra noi. Per sì acerbo caso vorrei ben domandare aiuto di consolazione da Vostra Eccellenza. Ma so che anch'ella n'avrà la parte sua di dolore. E a me sarà più caro avere chi a me s'accompagni col pianto che chi mi consoli. E alla Signoria Vostra mi raccomando. — Ferrara, 24 giugno 1519, ora quinta della notte. Alfonso duca di Ferrara.»[284]
Il marchese Federigo mandò suo zio Giovanni Gonzaga [337] a Ferrara; e di lì questi scrisse: «Non si maravigli Vostra Eccellenza, se dico partir domani di qua, perciocchè le esequie non si fanno, ma solamente nelle parrocchie son detti gli ufficii. È vero però che il signor duca accompagnò personalmente alla sepoltura l'illustrissima sua consorte. Questa è stata sotterrata al Monastero delle Suore del Corpo di Cristo, nella sepoltura medesima ove fu deposta la madre del duca. A tutta la città è rincresciuto molto della morte di lei, soprattutto al duca stesso. Egli dimostra veramente averne avuto singolare cordoglio. Qui si dicono cose grandi della vita sua, e che da forse dieci anni la portava il cilizio; è circa due anni che ogni giorno la si confessava, e comunicavasi da tre a quattro volte il mese. E di nuovo mi raccomando continuamente alla buona grazia di Vostra Eccellenza. — Ferrara, 28 giugno 1519. Giovanni de Gonzaga marchese.[285]
Le tombe di Lucrezia, d'Alfonso e di molti altri membri della casa d'Este in Ferrara sono scomparse. Indarno cerchi colà o a Modena il ritratto della famosa donna. Neppur uno n'è rimasto; e nondimeno è certo che pittori di grido la ritrassero. Ed in Ferrara non era difetto di pittori: v'era il Dossi, il Garofalo, il Cosma ed altri. Anche il Tiziano avrà dipinto la bella duchessa. Il ritratto da lui fatto d'Isabella d'Este Gonzaga, l'emula, quanto a bellezza, della Lucrezia, si conserva nella Galleria Belvedere a Vienna. È un'avvenente figura di donna d'un bello ovale e dalle linee molto corrette, dagl'occhi bruni e dall'espressione di femminile dolcezza. Manca un ritratto di Lucrezia per mano dello stesso maestro; mentre quello della Galleria Doria attribuito a lui o da altri a Paolo Veronese, tuttochè questo artista non sia [338] nato che il 1528, è una delle tante invenzioni solite a incontrarsi nelle gallerie. Così pure nella Galleria stessa v'è una figura di grandezza naturale di donna dalle forme di amazzone con elmo in mano, che si attribuisce a Dosso Dossi; e s'è affermato senza tanti discorsi essere il ritratto della Vannozza.
Ad alquanta verosimiglianza potrebbe piuttosto pretendere un ritratto ad olio, proprietà di monsignor Antonelli, direttore del Gabinetto numismatico di Ferrara, non perchè porti in caratteri alquanto antichi il nome di Lucrezia Borgia, ma perchè alcuni lineamenti sembrano rassomigliare a quelli del medaglione. Ad ogni modo, questo non è ritratto autentico, come non sono tampoco i due su maiolica posseduti dall'inglese Rawdon Brown in Venezia; lavori, secondo l'ipotesi di costui, di Alfonso stesso, dilettante di pittura delle maioliche. Quando anche tale opinione potesse esser fondata, il che non è, simili ritratti puramente decorativi appena offrirebbero qualche somiglianza.
Altri ritratti certi di Lucrezia Borgia non vi sono, tranne quelli nella medaglia, impressa nel periodo della sua vita in Ferrara. Uno è in fronte di questo libro: è il più perfetto di tutti, e può dirsi anche ch'è una delle più notevoli impronte della Rinascenza. Pare ne sia stato autore Filippino Lippi nell'anno 1502, dopo il matrimonio di Lucrezia con Alfonso. Il rovescio porta un'immagine caratteristica non solo pel tempo, ma per Lucrezia stessa: Amore con le ali mezzo strappate, legato ad un lauro; accanto un violino, e più sotto carte di musica; la faretra dell'amoroso Iddio infranta pende a un ramo dell'albero; e l'arco per terra con la corda spezzata. Intorno l'iscrizione: Virtuti Ac Formae Pudicitia Praeciosissimum. Con tali simboli l'artista volle forse significare che il tempo de' liberi ludi amorosi eran passati, e con l'albero d'alloro alluse forse alla gloriosa casa degli Este. Se codesta [339] allegoria, alquanto ardita, poteva nulladimeno convenire per una sposa qualunque, per Lucrezia Borgia poi fu davvero la più appropriata che potesse immaginarsi.[286]
Guardando quella testa attraente, da' lunghi capelli disciolti, un senso di maraviglia t'assale. Niun contrasto maggiore di quello che passa tra l'immagine reale e l'immagine che ciascuno si sarà fatta di Lucrezia Borgia, secondo la rappresentazione tradizionale del carattere di lei. Quell'effigie presenta un aspetto d'infantile candore, di una espressione singolare, senza linee classiche nel profilo. Bello non si direbbe nemmanco. Diceva il vero la marchesana di Cotrone, scrivendo a Francesco Gonzaga, che Lucrezia non aveva nulla di particolarmente bello, ma ciò che si chiama dolce ciera. La testa di lei ha punta o poca somiglianza con quella del padre, quale le migliori medaglie lo raffigurano; meno forse nel naso fortemente profilato. La linea frontale di Lucrezia è prominente, mentre in Alessandro VI è depressa; e il mento scende in quella alquanto indietro, in questo invece sta con la bocca sulla stessa linea.
Un'altra medaglia non rappresenta Lucrezia co' capelli disciolti, ma col capo avvolto da una rete e dalla lenza, un nastro ornato di pietre preziose o di perle. La chioma copre l'orecchio; e quindi dalle spalle in giù una lunga treccia, proprio nella forma allora in uso, come può, [340] ad esempio, vedersi in una bella medaglia di Elisabetta Gonzaga d'Urbino.[287]
I documenti, che hanno fornito i materiali a questo libro, pongono ogni lettore in grado di formarsi un giudizio su Lucrezia Borgia. Questo sarà forse approssimativamente giusto o per lo meno più giusto di quello omai trasmesso e per tradizione accettato. Gli uomini del passato sono problemi pe' giudici loro. Se giudicando di contemporanei a noi conosciuti, diamo ne' più madornali errori, quanto più non siamo esposti ad errare appena che vogliamo comprendere la natura di uomini, che ci stanno dinanzi solo come ombre. Tutte le condizioni personali alla loro vita e tutto l'intreccio delle circostanze di luogo, di tempo, di persone, nel cui mezzo s'andaron formando, e i più intimi secreti dell'esser loro giacciono lì, qual serie di fatti tutti scissi e divisi; e da questi frammenti uopo è per noi ricostruire un carattere. Per chi guardi alla legge di causalità, la storia è la giustizia del mondo. Ma non di rado la storia scritta è per sè il più ignorante de' tribunali. Molti caratteri storici vedrebbero ne' ritratti loro fatti ne' libri come tante caricature, e di cuore riderebbero del giudizio sul conto loro portato.
Lucrezia Borgia forse consentirebbe con chi attenendosi a' documenti del tempo osasse affermare, ch'ella fu donna leggiera, amabile e infelice insieme. L'infelicità sua in vita furono gli avversi casi da lei in parte immeritati; e, dopo morte, l'opinione che s'andò formando intorno il suo carattere. Il marchio d'infamia sulla sua fronte impresso seppe ella stessa, come duchessa di Ferrara, cancellare; ma apparve di nuovo, poichè fu morta. E come presto riapparisse, lo mostra il giudizio che davano di lei i Della Rovere in Urbino. Nel 1552 Guidobaldo II, figlio di [341] Francesco Maria e di Eleonora Gonzaga, doveva sposarsi con Giulia Varano; ma domandò invece la mano di una Orsini. Il padre gli oppose i matrimonii di principi con donne indegne di loro; fra gli altri, quello di Alfonso di Ferrara. Costui — diceva egli — s'è disposato con Lucrezia Borgia, con una donna di quella sorta che pubblicamente si sa, e ha dato anche a suo figlio un mostro (Renata). Guidobaldo confermò cosiffatto giudizio: rispose che egli sapeva d'avere un padre, che giammai non lo vorrebbe costringere a prendere una sposa come Lucrezia Borgia, di quella mala sorta che fu quella, e con tante disoneste parti.[288] Così l'opinione continuò a propagarsi, e Lucrezia Borgia divenne il tipo di ogni abiezione femminea, sino a che Vittor Hugo nel suo dramma e il Donizetti nella sua opera non la portarono sulle scene appunto sotto quei colori.
Ancora, per concludere, qualche parola intorno ad Alfonso e alla discendenza sua e di Lucrezia. Il duca di Ferrara sopravvisse alla moglie altri 15 anni, che furono difficili e procellosi. Seppe non pertanto con prudenza resistere e mantenersi contro l'odio papale de' Medici. Si vendicò di Clemente VII col sacco di Roma, cui resero possibile i soccorsi suoi all'esercito imperiale. Ebbe da Carlo V Modena e Reggio; e di tal guisa fu in grado di trasmettere agli eredi suoi gli antichi Stati di casa d'Este nella integrità loro. Non passò ad altre nozze. Ma Laura Eustochia Dianti, bella e giovane ferrarese, gli fu compagna. Questa gli partorì due figliuoli, Alfonso e Alfonsino. Egli morì il 31 ottobre 1534 di 58 anni, quando i fratelli lo avevano già preceduto nel sepolcro, il cardinale Ippolito nel 1520 e Don Sigismondo nel 1524.
Da Lucrezia Borgia ebbe cinque figliuoli. Ercole fu suo erede al trono. Ippolito fu cardinale; morì il 2 dicembre [342] 1572 in Tivoli, ove suo monumento è la Villa d'Este. Eleonora fu monaca nel monastero del Corpus Domini, e vi morì il 15 luglio 1575. Francesco fu marchese di Massalombarda, e morì il 22 febbraio 1578. In fine Alessandro, morto, come s'è detto, varcata appena l'età di due anni, il 10 luglio 1516.
Il figlio di Lucrezia Ercole II regnò sino all'ottobre 1559. Suo padre nel 1528 avevalo sposato con Renata, la brutta, ma molto intelligente figliuola di Luigi XII. Lucrezia non aveva visto mai la sua nuora, e non mai sospettato neppure che Renata potesse divenir tale. La vita di questa celebre duchessa costituisce un importante episodio nella storia di Ferrara. Essa fu seguace entusiastica di quella Riforma, che finalmente penetrò nel mondo, intesa ad emancipare lo spirito da una Chiesa, a capo della quale erano stati i Borgia, i Della Rovere e i Medici. E per questo i Della Rovere la chiamavano un mostro. Per un certo tempo Renata tenne nascosti alla corte sua Calvino e Clemente Marot.
Un caso strano occorse: appunto alla corte del figliuolo di Lucrezia nel 1550 apparve un uomo, che valse a rinnovar la memoria della storia della famiglia Borgia, già quasi diventata un mito per la generazione allora vivente. Era Don Francesco Borgia, duca di Gandia, e ora, nell'anno 1550, gesuita. La sua inattesa comparsa in Ferrara ci porge occasione di fare un cenno delle vicende di casa Gandia.
Di tutti i discendenti di Alessandro VI i più fortunati furono appunto quei che tolsero l'origine dall'ucciso Don Juan. La vedova donna Maria visse un pezzo in grande reputazione alla Corte della regina Isabella di Castiglia. Poscia, presa da malinconia e da bigottismo, andò a chiudersi in un monastero. Morì l'anno 1557. Il suo unico figlio Don Juan, ancora bambino, era successo [343] allo sciagurato padre nel Ducato di Gandia, ed aveva anche serbati i possedimenti nel Napoletano. Questi comprendevano un territorio esteso in Terra di Lavoro con le città di Sessa, Teano, Carinola, Montefuscolo, Fiume, e altre. Il giovane Gandia nel 1506 le cedette al re di Spagna, e ne fu compensato pecuniariamente: il gran capitano Consalvo ebbe il Principato di Sessa.
Don Juan restò in Spagna, ove fu uno de' Grandi, e di grado elevato assai. Sposò Giovanna d'Aragona, principessa della caduta Casa reale di Napoli; e in seconde nozze, nell'anno 1520, donna Francesca de Castro y Pinos, figlia del visconte d'Eval. I matrimonii de' Borgia furono la maggior parte assai fecondi. Venuto a morte codesto nipote di Alessandro VI nel 1543, non lasciò meno di quindici figliuoli. Le figlie si maritarono con Grandi di Spagna, e i figli appartennero alla più cospicua nobiltà del paese, ove conseguirono altresì le più alte cariche. Il maggiore, Don Francesco Borgia, nato il 1540, fu duca di Gandia, un gran signore, molto stimato alla Corte di Carlo V, che lo fece vicerè di Catalogna e commendatore di Santo Jago. Accompagnò anche l'imperatore nelle spedizioni in Francia e sino in Affrica. Il 1529 erasi ammogliato con Eleonora de Castro, dama di corte dell'imperatrice. E n'ebbe cinque figliuoli e tre figliuole. Morta la moglie nel 1546, nulla più lo trattenne dal seguire la passione, che da lungo tempo covava in seno, per la Compagnia di Gesù, quella cioè di rinunziare per sempre alla sua splendida condizione e di farsi gesuita. Pareva quasi una misteriosa tendenza ve lo spingesse, per scontar così i peccati della casa sua. Eppure non deve far maraviglia di trovare un pronipote di Alessandro VI sotto l'abito de' Gesuiti. La stessa demoniaca energia di volontà, per la quale i Borgia eransi segnalati, animava pure il loro compatriotta Loyola, benchè sotto altra forma e rivolta a diverso scopo. Ed anche le massime [344] del Principe del Machiavelli divennero la parte politica delle costituzioni gesuitiche.
Il duca di Gandia andò nel 1550 a Roma per gettarsi a' piedi del Papa e divenire membro dell'Ordine. Appunto allora Paolo III, fratello di Giulia Farnese, era morto, e Giulio III Del Monte asceso alla Santa Sede. Ma in Ferrara era ancora sul trono Ercole II, zio cugino di Don Francesco. Egli si ricordò della parentela e lo invitò, andando a Roma, di passar per Ferrara. Francesco si fermò alla corte del figlio di Lucrezia tre giorni, e vi fu ricevuto anche da Renata. Non si sa se l'entusiastico discepolo di Loyola fosse a notizia de' sentimenti religiosi dell'amica di Calvino. Il loro incontro però, nella patria del Savonarola e nell'appartamento di Lucrezia, offriva un contrasto acutissimo e de' più strani. Francesco continuò quindi per Roma; donde poscia tornò presto di nuovo in Spagna. Morto il Lainez, fu nel 1565 terzo Generale della Compagnia di Gesù. Morì in tal qualità a Roma l'anno 1572. La Chiesa lo santificò; così un pronipote di Alessandro VI divenne un santo.[289]
La discendenza di questo Borgia si ramificò, innestandosi con le più nobili famiglie di Spagna. Il suo primogenito Don Carlos, duca di Gandia, sposò donna Maddalena, figlia del conte Oliva della casa Centelles. Così quella famiglia, cui apparteneva il primo promesso sposo di Lucrezia, s'imparentò un mezzo secolo più tardi con i Borgia. La stirpe de' Gandia durò sin nel secolo XVIII, nel quale ebbe anche due cardinali Borgia.
Ercole II non scoprì le eretiche relazioni di sua moglie che nel 1554. La cacciò in un chiostro. Ma la nobile principessa restò fedele alla Riforma. Quando l'Inquisizione soffocò a Ferrara il moto riformatore, essendo duca il figlio [345] suo, ella rientrò in Francia. Ivi visse fra Ugonotti nel suo Castello di Montargis, e vi morì nel 1575. Per strana combinazione il duca di Guisa fu proprio genero di lei.
Renata diede al marito parecchi figliuoli: Alfonso, principe erede; Luigi, più tardi cardinale; donn'Anna, sposatasi appunto col duca di Guisa; donna Lucrezia, poscia duchessa d'Urbino; e donna Leonora, rimasta nubile.
Il figlio Alfonso II successe nel Governo di Ferrara l'anno 1559. È quel duca reso immortale dal Tasso. Come l'Ariosto, al tempo del primo Alfonso e di Lucrezia, aveva glorificata la casa d'Este con un poema monumentale, così ora Torquato Tasso continuava codesta specie di esaltazione tra i nipoti, quando sul trono di Ferrara sedeva il secondo Alfonso. Il caso metteva così ai servizii della stessa corte i due più grandi poeti epici d'Italia. La sorte del Tasso è uno dei più sinistri ricordi della casa d'Este; eppure, che il cigno canoro abbia fatto risuonare proprio in mezzo alla corte di Ferrara la sua canzone, è, al tempo stesso, l'ultimo dei ricordi che abbia importanza nella storia di quella. Perchè con Alfonso II, nipote di Lucrezia Borgia, morto senza figliuoli, s'estinse il 27 ottobre 1597 la linea legittima della famiglia d'Este. Don Cesare, un nipote di Alfonso I, figlio di quell'Alfonso, che Laura Dianti aveva a colui partorito e di donna Giulia Della Rovere di Urbino, salì, è vero, al trono di Ferrara alla morte di Alfonso II, come suo erede per legge; ma il Papa nol volle riconoscere. Indarno cercò mostrare come l'avo suo, poco prima di morire, avesse regolarmente sposato Laura Eustochia, e che fosse per questo divenuto egli legittimo erede della casa. A nulla giovò che i giureconsulti perorassero la validità delle pretensioni di Don Cesare innanzi ai tribunali di papi ed imperatori. E approdò ancor meno, che, sull'esempio del Muratori, quei diritti, a tutt'oggi, fossero dai Ferraresi sostenuti. A Don Cesare fu giuocoforza sottomettersi [346] alla decisione di Clemente VIII. Il 13 gennaio 1598 il nipote di Alfonso I dovette firmare la rinunzia al Ducato di Ferrara. Con la moglie Virginia dei Medici e coi figliuoli abbandonò quella, che per secoli era stata la residenza degli antenati suoi, e si ridusse a vivere a Modena col titolo di Duca di questa città, alla quale s'aggiunsero anche Reggio e Carpi.
Don Cesare continuò quivi la linea collaterale degli Este. Sullo scorcio del secolo XVIII, mercè l'arciduca Ferdinando, essa trapassò nella casa Austro-Estense. Ed anche questa oggi è venuta meno. E caduta pure è la dominazione dei Papi in Ferrara. Là ove un tempo, quando nel 1502 Lucrezia Borgia fece il suo ingresso, sorgeva Castel Tedaldo; là, ove Clemente VIII fece erigere la grande fortezza, oggi non è che un campo: la fortezza fu smantellata nel 1859. In quel campo sta dimenticata e quasi sperduta la statua di Paolo V, e intorno intorno tutto è solitudine. Così anche oggi, innanzi alla rôcca di Giovanni Sforza in Pesaro sorge una colonna, dalla quale la statua fu abbattuta: sulla base si legge: «Colonna di Urbano VIII; ecco tutto quel che ne rimane.»
[347]
[349]
Documento | ||
I. | Tavole nuziali tra Gianandrea Cesarini e Girolama Borgia. — (24 gennaio 1482) | Pag. 353 |
II. | Tavole nuziali tra Carlo Canale e Vannozza Catanei. — (8 giugno 1486) | 354 |
III. | Tavole nuziali tra Ursino Orsini e Giulia Farnese. — (20 maggio 1489) | 355 |
IV. | Tavole nuziali tra Lucrezia Borgia e Don Cherubin Joan de Centelles. — (26 febbraio 1491) | 358 |
V. | Ad Bovem Borgia | 364 |
VI. | Beatrice Borgia ad Alessandro VI. — (9 settembre 1492) | 365 |
VII. | Scioglimento del contratto di matrimonio tra Lucrezia Borgia e Don Gaspare. — (8 novembre 1492) | ivi |
VIII. | Ercole d'Este ad Alessandro VI. — (3 gennaio 1493) | 371 |
IX. | Minuta delle tavole nuziali tra Lucrezia Borgia e Giovanni Sforza. — (2 febbraio 1493) | 372 |
X. | Gianandrea Boccaccio al duca di Ferrara. — (13 giugno 1493.) | 376 |
XI. | Lorenzo Pucci al fratello Giannozzo. — (23, 24 dicembre 1493) | 378 |
XII. | Don Juan, duca di Gandia, al marchese Gonzaga. — (12 settembre 1496) | 381 |
XIII. | Poesia sulla morte di Don Juan di Gandia. — (16 giugno 1497) | ivi |
XIV. | Il cardinale Giuliano Della Rovere ad Alessandro VI. — (10 luglio 1497) | 382 |
XV. | Annullamento del contratto matrimoniale tra Lucrezia Borgia e Don Gasparo. — (10 giugno 1498) | ivi |
XVI. | Primo contratto di matrimonio tra Lucrezia Borgia e Don Alfonso d'Aragona. — (20 giugno 1498) | 385 |
XVII. | Atto relativo alla eredità reclamata da donna Maria Enriquez per suo figlio Don Juan. — (19 dicembre 1498) | 389 |
[350] | ||
XVIII. | Tavole nuziali tra Laura Orsini e Federico Farnese. — (2 aprile 1499) | 390 |
XIX. | Protesta di Jacopo Gaetani contro la Sentenza inflittagli. — (7 febbraio 1500) | 391 |
XX. | Elisabetta, duchessa d'Urbino, al fratello Francesco Gonzaga. — (21 marzo 1500) | 393 |
XXI. | Cesare Borgia al marchese Gonzaga. — (24 maggio 1500) | 394 |
XXII. | Dyalogus mortis et Pontificis laborantis febre. — (1500) | 395 |
XXIII. | Istrumenti relativi alla promessa di matrimonio di donna Angela Borgia con Francesco Maria Della Rovere. — (25 agosto e 2 settembre 1500) | ivi |
XXIV. | Giovanni Sforza al marchese Gonzaga. — (17 ottobre 1500) | 396 |
XXV. | Pandolfo Collenuccio al duca Ercole di Ferrara. — (29 ottobre 1500) | 397 |
XXVI. | Alessandro VI alla Signoria di Firenze. — (13 luglio 1501) | 400 |
XXVII. | Bolla di Alessandro VI relativa all'Infante romano Gio. Borgia. — (1º settembre 1501) | 401 |
XXVIII. | Idem. — (1º settembre 1501) | 405 |
XXIX. | Saraceni e Bellingeri al duca Ercole. — (23 settembre 1501) | 408 |
XXX. | Saraceni allo stesso. — (26 ottobre 1501) | 409 |
XXXI. | Gianluca Pozzi allo stesso. — (23 dicembre 1501) | 410 |
XXXII. | Sposalizio di donna Lucrezia Borgia con Don Alfonso d'Este mercè procura. — (28 dicembre 1501) | 411 |
XXXIII. | Alessandro VI alla Comunità di Nepi. — (28 dicembre 1501) | 413 |
XXXIV. | Pozzi e Saraceni al duca Ercole. — (2 gennaio 1502) | 414 |
XXXV. | El Prete alla marchesa Isabella Gonzaga. — (2 gennaio 1502) | 415 |
XXXVI. | Il cardinal Ferrari al duca Ercole. — (9 gennaio 1502) | 417 |
XXXVII. | Pozzi e Saraceni allo stesso. — (13 gennaio 1502) | 418 |
XXXVIII. | Il duca Ercole ad Alessandro VI. — (14 febbraio 1602) | 421 |
[351] | ||
XXXIX. | La marchesa Isabella Gonzaga a Lucrezia Borgia. — (18 febbraio 1502) | 422 |
XL. | La stessa ad Adriana Ursina. — (18 febbraio 1502) | ivi |
XLI. | Cesare Borgia alla sorella Lucrezia. — (20 luglio 1502) | 423 |
XLII. | Francesco Troche alla marchesa Isabella Gonzaga. — (1º settembre 1502) | ivi |
XLIII. | Lo stesso alla stessa. — (5 ottobre 1502) | 424 |
XLIV. | Isabella Gonzaga a Cesare Borgia. — (15 gennaio 1503) | ivi |
XLV. | Cesare Borgia ad Isabella Gonzaga. — (1º febbraio 1503) | 425 |
XLVI. | Il duca Ercole a Giangiorgio Seregni, suo oratore in Milano. — (24 agosto 1503) | 426 |
XLVII. | Giovanni Sforza al marchese Gonzaga. — (25 agosto 1503) | 427 |
XLVIII. | Don Jofrè Borgia allo stesso. — (18 settembre 1503) | ivi |
XLIX. | Il marchese Gonzaga a sua moglie Isabella. — (22 settembre 1503) | 428 |
L. | Il duca Ercole a Lucrezia Borgia. — (4 ottobre 1503) | 429 |
LI. | Lucrezia Borgia al marchese Gonzaga — (18 agosto 1505) | 430 |
LII. | Tavole nuziali tra Niccolò De Rovere e Laura Orsini. (Novembre 1505) | 431 |
LIII. | Cesare Borgia al marchese Gonzaga. — (7 dicembre 1506) | 433 |
LIV. | Lucrezia Borgia allo stesso. — (28 dicembre 1506) | ivi |
LV. | La stessa allo stesso. — (15 gennaio 1507) | 434 |
LVI. | Vannozza alla figlia Lucrezia. — (febbraio 1515) | 435 |
LVII. | Vannozza al cardinale Ippolito d'Este. — (14 settembre 1515) | 436 |
LVIII. | Vannozza alla figlia Lucrezia. — (19 dicembre 1515) | 437 |
LIX. | Lucrezia Borgia a Leon X. — (22 giugno 1519) | 438 |
Facsimile | ||
I. | Alessandro VI a Lucrezia Borgia. | 441 |
II. | Cesare Borgia ad Isabella Gonzaga. | 443 |
III. | Lucrezia Borgia alla stessa. | 445 |
[353]
24 gennaio 1482.
In dei no. am. Anno pont. Indict. et mense quibus supra die vero Jovis XXIIII. In presentia mei publici notii etc. Rmus in xpo pr et dnus dnus Rodericus Borgia Eps portuensis S. R. E. Cardinalis ac Vicecancellarius paterna caritate et affectione ductus ac motus erga nobilem et honestam ac generosam puellam virginem Jeronimam sororem excellentis et generosi adolescentis dni Petri Ludovici de Borgia et Johannis de Borgia infantis germanor. fratrum volens et intendens ipsam Jeronimam puellam que de sua domo et familia existit veluti filiam recognoscere et tractare et pro honore dicte sue domus et familie ipsam condecenter maritare ac dotare dotemque sibi condignam constituere In pres. mei publici notarii et rogator. ad infrascripta pacta et sponsalia in dei no. cum magco viro dno Gabrielle de Cesarinis domicello Romano Regionis Sti Eustachi patre ac legitimo administratore spectabilis adolescentuli Johannis Andree sui legitimi ac naturalis filii inter eos habita tractata et solemniter conclusa et firmata devenit in hunc qui sequitur modum et formam vid.
Seguono le stipulazioni. La dote è di 4000 ducator. auri in auro.
················
Acta fuerunt hec in palatio Rmi dni Cardlis Mediolanensis in quad. camera magna ejusdem palatii ubi ipse Rmus dnus residet et audientiam dare solet presentib. ibidem dicto Rmo pre dno Stefano de Nardinis tti Sancte Marie in transtiberim presbitero cardinale Mediolanensi vulgariter nuncupato ac etiam Rmo in xpo pre dno Jo. Bapta tti Sancti (Nicolai in Carcere) Cardinale de Sabellis vulgarit. dicto ac Magº et Illº, armor. capitaneo et ductore dno Virginio quond. dni Neapulionis [354] de Orsinis Juliano de Cesarinis de Regione Pontis Antonio de porcariis Regionis pinee, Romanis civibus testibus ad predicta omnia et singula adhibitis et rogatis.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene, nell'Archivio de' Notai al Campidoglio.)
8 giugno 1486.
Eodem anno pont. Ind. et mense die vero VIII. Junii. In presentia mei not. et testium etc. honesta Mulier Dna Vannotia relicta quond. dni... scriptoris apostolici Intendens ad secunda vota transire ac se matrimonio collocare et nuptias contrahere cum spectabili viro dno Carulo canale de Mantua.
Ante nuptias donavit eidem presenti et acceptanti ducatos auri in auro Mille et ultra donavit eidem similiter psenti et acceptanti unum ex officiis sollicitator. bullarum aplicar. et (promisit) facere et curare quod suis sumptibus dictum officium dicto dno Carulo conferatur vel gratis concordetur. Amplius et promisit eid. psenti in dotem et dotis nom. et pro jocalibus dare tradere et consignare eidem illud quod concorditer asseruerunt fuisse constitutum inter eos per manus spectabilis viri Dni Francisci de Maffeis scriptoris apostolici ac basil. S. Petri canonici et laurentii Barbarini de Catellinis Roni civis presentium et sic esse affermantium quorum dictis stare et credere promiserunt et convenerunt et tempore quo fiet salutio dotis promiserunt facere contractus cum cautelis ypotecis promissionibus et stipulationib. consuetis et cum dicta donatione dotis et jocalium constitutione. prefatus dnus Carolus interrogatus per me notar. ut publicam personam si volebat recipere habere et tenere in suam legitimam uxorem prefatam dnam Vannotiam respondit volo et similiter interrogata dicta dna Vannotia si volebat recipere dictum dnum carolum presentem in suum legitimum Maritum et ipsum pro legitimo viro habere et tenere secundum ritum sancte matris ecclie respondit volo. Et sic mutuo consensu et interveniente anuli aurei immissione in digito anulari ipsius dne Vannotie per ipsum dnum Carolum immissi matrimonium legitimum ac mutuo consensu interveniente per verba de presenti sponte contraxerunt. Que quid. omnia et singula perpetuo attendere et observare promiserunt. Rogaveruntque me notm ut publicum [355] conficerem instrumentum unum vel plura et totiens quotiens etc.
Acta fuerunt hec Rome in domo habitationis prefate dne Vannotie site in Rne Arenule juxta plateam de branchis presentibus Rd.º pre dno (mancano parecchie parole) Juliano Gallo Mercatore Bruchardo Barbarino et Dodro (sic) de Carnariis et aliis quampluribus testibus ad predicta vocatis et rogatis.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene, nell'Archivio de' Notai al Campidoglio.)
20 maggio 1489.
I. D. o. n. Anno pont. et Ind. quibus supra mensis vero Mai die XXma in presentia Rmi in xpto pris dni. R. Cardinalis et Epi. portuensis S. R. E. Vicecancellarii ac R.orum patrum dni Bartholomei Martini Epi Segobricensis dni Francisci Garzett Canonici Toletani et Johannis Staglie civis Romani et mei publ. notarii ad hec adhibitorum et rogatorum. Cum sicut infrascripte partes asseruerunt et sponte confesse fuerunt, alias inter mag.cum dom. Ursinum filium quond. mag.ci dni Ludovici de Ursinis dni Castri Vasanelli et mag.cam dnam dnam Adrianam matrem et tunc tutricem dicti dni Ursini ex una et mag.cam et honestam puellam dnam Juliam filiam quondam Mag.ci viri dni Petri Luisii de Farnesio tunc in humanis existentis et ipsum quond. dom. petrum ut patrem et legitimum tunc administratorem prefate Julie parte ex altera contracta fuerint sollemnia sponsalia de futuro cum promissionibus dotis et aliis promissionib. et pactis inter eos initis et contractis et ad presens dicti sponsi puberes facti dicta sponsalia rata grata et firma habentes in dicta promissione ipsorum nomine facta perseverantes ac persistentes dicta sponsalia ac legitimas nuptias solemni ac legitimo consensu de presenti interveniente et per traditionem et immissionem anuli sponsalis contrahere velint et de dicta dote promissa ydoneas cautiones facere et recipere. Ea propter [Mag.cus vir dnus Alexander filius et heres prefati quond. dni petri loisi de farnesio et ut frater et conjuncta persona prefate dne Julie qui primo et ante oia cum juramento sollemni tactis corporaliter sacris scripturis in manibus mei Noti ad sancta Dei evangelia infrascripta oia et singula perpetuo attendere et observare et contra non facere dicere [356] vel venire ratione sue minoris etatis XXti aut XXV annor. nec restitutionem in integrum postulare pro se ipso ac vice et noie Magci viri dni Angeli de Farnesio sui germani fratris et coheredis pro quo et se et bona sua principaliter et in solidum obligavit et de rato et rati habitione promisit et se facturum et curaturum ita et taliter et cum effectu quod dictus suus frater infrascripta oia et singula rata et firma habebit et contra non faciet dicet vel veniet ut supra. Et una cum prefato dno Alexandro] [Hoc totum scriptum fuit antequam stipulatum fuerit instrumentum deinde non fuit stipulatum quia defuit presentia dni Alexandri qui expectabatur et non venit ideo sic cancellatum fuit manu mei Notii.] Rdus in xpo pr. dnus Jacobus de Gaytanis prothonotar. apostolicus et Magcus et generosus vir dnus Cola de Gaytanis germani fres avunculi conjuncteque persone ejusdem Julie similiter de rato et rati habitione promictentes et sese in solidum obligantes et ex certa scientia obligari et teneri volentes promiserunt, et sollemni pactione et stipulatione intervenientib. convenerunt, dicto dno Ursino sponso prefate dne Julie presenti et michi Notº ut publice persone legitime stipulanti nuptiar. tempore et infra dilationes infrascriptas dare solvere numerare et in pecunia numerata cum effectu traddere eidem dno Ursino pro dote et dotis promisse nomine ad opus et utilitatem prefate dne Julie summam et quantitatem trium milium et quingentor. ducator. auri de camera ad computum LXXII. bl. pro quolibet duc. de qua integra summa dotis Mille solvere promiserunt infra termin. duor. annor. proxime futuror. a die presentis contractus incipiendor. et ut sequitur finiendorum Reliquos vero solvere promiserunt infra dilationes infrascriptas vz. quia singulis futuris annis post cursum dictor. duor. annor. solvere promiserunt dicto dno. Ursino ducatos sexcentos usque ad integram solutionem totius summe dictor. trium milium quingentor. ducator. cum omnib. dannis expensis et interesse dicta ex causa et indefectum solutionis predictor. vel aliorum ipsorum patiendis faciendis et incurrendis de quib. stare et credere simplici dicto et justo dicti dni Ursini et suor. heredum et successor. absque alia judicis taxatione seu boni viri arbitratu me Not.º sollemniter stipulante pro eo et dictis heredib. et successorib. omnibusq. quor. interest vel intererit in futurum Cum pactis et conventionibus sollemni stipulatione vallatis de restituenda vel lucranda dicta dote in omnem casum et eventum matrimonii dissolvendi secundum formam et dispositionem juris communis et secund. consuetudinem inter magnates urbis hacten. observatam. Et precibus et rogatu prefator. dnor. Alexandri de Farnesiis dni Jacobi prothon. et dni Cole de Gaytanis sui fris. et cujuslib. ipsor. Magcus vir dom. Gabriel de Cesarinis ac ven. vir dom. Franciscus de Lenis Canonicus Roman. et dom. Marius de Mellinis Franciscus de Lenis filius et specialis nuntius Rdi ptris dni petri de lenis Clerici camre apostolice [357] ab eo prout asseruit ad hoc missus pro quo et se obligando de rato promisit et Lellus Stefani de Lellis et Francis. Teoli omnes cives Romani sartus se ad infrascripta non teneri nec obligari sed teneri et obligari volentes ex certa eorum et cujusq. ipsor. scientia ipsi et quilib. ipsor. pro rata sponte sollemniter fidejubendo et intercedendo promiserunt et juraverunt se facturos et curaturos ita et taliter et cum effectu quod dicti principales expromissores predicta omnia et singula per eos promissa et pacta observabunt et adimplebunt et temporib. et dilationibus supra expressis dictam promissam dicto dno Ursino persolvent. Alias teneri voluerunt ipsi et quilib. ipsor. pro rata ad integr. solution. dictor. trium mil. et quingentor. ducator. infra dilationes supra expressas vd. quisq. pro rata sua tantum Que quidem omnia et sing. tam dicti principales expromissores quam fidejussores prefati perpetuo attendere et observare ut sup. promiserunt, contraq. non facere dicere nec venire pro quib. obligaverunt sese et omnia et sing. ipsor. bona mobilia stabilia presentia et futura et voluerunt pro predictis posse conveniri et cogi in omni loco et in omni foro et coram quocunq. judice ecclesiastico vel seculari et feriatis dieb. quibus renuntiaverunt expresse, renuntiaverunt et privilegio fori et omnib. exemptionib. ac defensionib. quib. contra promissa facere dicere vel venire possent vel aliquis eorum posset. Renuntiaver. etiam expresse dicti expromissores et fidejussores capituli divi hadriani et nove constitutionis beneficio ac beneficio de duob. vel plurib. reis debendi dividendar. et cedendar. actionum. Et juraverunt omnes sollemniter. Rogaveruntq. me notarium et dederunt potestatem.
Actum in domib. prefati R.mi D. Vicecancellarii in cam. stellarum presente ipso R.mo dno aliisque prenominatis supra descriptis etiam pro testibus adhibitis et rogatis.
Eisdem Anno pont. mense die vero XXI. factus fuit sollemnis contractus nuptiar. [Arratio solemnis] per immissionem anuli et legitimo consensu interveniente per verba vis volo ad interrogationem mei Notarii Si vellent alter in alterius legitimum matrimonium. primo dictus Ursinus respondit velle deinde similiter prefata dna Julia ibid. presens ipsum Ursinum in legitimum virum habere velle respondit Adstantibus ibi R.mo d.no Vicecancellario prefato R.mo d.no Cardinale de Ursinis Rmo d.no Rinaldo de Ursinis Archiep. Florentino et magna prelatorum et Magnatum et Nobilium Viror. multitudine. In domib. prefati dni Vicecancellarii in porticu seu viridario de quib. ego idem Notarius rogatus fui cum potestate extendendi in ampliori forma si opus fuerit.
Eisd. anno pont. mense et die et in eod. loco personaliter constitutus coram me Not. et testib. infrascriptis Mag.cus [358] vir dnus Angelus de Farnesio [Promissio indemnitatis cum ratificatione facta per M. d. Angm de farnesio.] qui primo et ante omnia cura sollemni juramento tactis sacris scripturis renuntiavit beneficio minoris etatis XXV. annor. et asserens se esse maiorem XXti et promisit non contravenire ac de rato et rati habitione promisit pro dno Alexandro ejus germano fare et se facturum certa prout asseruit habens scientiam de contractu promissionis dotis nomine dne Julie sue sororis Mag.co dno Ursino et de fidejussorib. prefatis pro summa trium mil. quingentor. ducator. et de aliis contractis in obligatione per eos facta Ad requisitionem et interpellationem Mag.ci dni Nicolai de Gaitanis ibidem presentis ac etiam mei Not.ii publici sponte et ex certa ejus scientia et non per errorem Ratificavit emologavit et confermavit omnia et sing. facta gesta promissa et contracta per ipsum Mag.cum dnum Nicol. Gaytanum ipsius dni Angeli et fratris nomine in dicto contractu sponsalium contenta et celebrata ac fidejussiones propterea prestitas et omnia et sing. in ipso contractu contenta et promisit ipsum dnum Nicolaum et alios expromissores et fidejussores perpetuo conservare ac dissobligare et liberare ab omni obligatione promissionis in fidejussione per eos prestita me Not.º ut publica persona presente et stipulante. Alias teneri voluit dictus dnus Angelus pro se et dicto suo fratre ad omnia et singula damna etc. de quibus etc. et pro quibus etc. Et voluit etc. et renuntiavit etc. et juravit, et dedit potestatem etc.
Actum ubi supra presentibus egregio legum doctore dno Francisco de Maximis et viro nobile petro de Valle Romanis civibus testibus etc.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
26 febbraio 1491.
Capitols fets, e concordats entre lo Rmo S.or lo senyor don Rodrigo de Borja Bisbe de Porto Caral de Valentia e vicecancellier de la Sancta Sede aplica, e lo magco micer Antonio Porcaro noble Roma com a curador donat et assignat a la noble e mes virtuosa Sra dona Lucretia de Borja Donzella habitant de present en Roma filla carnal de dit Rmo Caral, e germana del Ill. Sor don Joan de Borja, Duc de Gandia de una part: e lo noble e magio Sor Don Cherubi Joan de Centelles Sor de la vall de Ayora en Regne de Valencia de part [359] altra per causa e fi del matrimonj mediant la divina gra faedor per dits nobles don Cherubi Joan de Centelles, e Dona Lucretia soberdits, e entre ells, en la forma seguent.
Primerament es pactat, e concordat entre les dites parts que dit Rmo S.or Caral com a pare carnal, e dit micer Antonio com a curador e ab voluntat de dita Dona Lucretia per causa e contemplatio de dit matrimoni faedor se haje a obligar et prometer, e, axis obliga, e promet dit Rmo S.or Caral, ab bastants obligations e procuras, dar, e, constituir o fer dar, e, constituir a dita dona Lucretia en dot al dit noble don Cherubin Joan de Centelles Trenta tres milia Timbres valents CCC e XXXm mil sous moneda reals de valentia, çoes Trenta Milia en contants, e Tresmilia en Joyes e arreus de sa perssona. Laqual summa de contants se traura de les seguentes partides çoes XIm mil Timbres los quals per la clara memoria de don Pelois de Borja quondam Duc de Gandia en son testament a dita dona Lucretia germana sua, en nom de Dot, e matrimonj faedor foer lexades. It. VIII milia Tymbres dels quals en contemplatio de matrimoni faedor, e, nom de dot, es stada feta donatio a dita Dona Lucretia, per lo Rend S.or Don Cesar de Borja Prori de la sede aplica, e don Jofre de Borja Canonge, e, Pebordre, e, Ardiacha major de la Seu de Valentia germans los dos de dita Dona Lucrezia. Item set milia Tymbres, los quals dit Rmo S.or Caral etiam en nom de dot, e contemplatio de matrimonj ha donats a dita Dona Lucretia filla sua carnal, en certa donatio feta en Roma devant lo Rnd Auditor dla Cambra. It. VII. Milia altres Tymbres los quals dit Rmo S.or Caral promet donar, com de present dona per vigor de la facultat aell atorgada per la sede ap.ca Ultra los soberdits VII Milia per compliment de dits XXXIII Milia Tymbres, adita dona Lucretia filia sua: Compresa, empero en dita quantitad deis dits XIII Milia Timbres, que Sa Sia Rma li dona la summa dels dits tres milia Tymbres donada a dita Dona Lucretia filia sua per joyes, e arreus de la sua perssona. Les quals joyes e arreus sie estimats valer dits Tres milia Timbres. laqual quantitat de Trenta e Tres Milia Tymbres proçeides en lo modo davant dit, Dit Rmo S.or Caral se obligara pagar, o, fer pagar en nom de Dot de dita Lucretia, en los termens de jus scritt.
Item mes attenent que dita Dona Lucretia a XVIIII de Abril prop vinent entrara en edat de dotze anys, es concordat e pactat entre les dites parts, que lo Rmo S.or Caral prometa esser tengut et obligat fer, procurar, e donar obra, que dita Dona Lucretia haja e sia tenguda constituir procuradors legitims a contractar dit matrimonj per paraules de present ab dit noble Don Cherubi Joan de Centelles per medi de legitim procurador, o, procuradors a dit arte, specialment [360] per dita dona Lucretia constituits per tot lo mes de Abril del Anny Mil CCCCLXXXXII. en lo qual mes a XVIII dies de aquell haura complits XII anys de sa edat, los quals procurador, o, procuradors per dita dona Lucretia constituits fermara per tot lo mes de Juny sequent, de dit anny Mil. CCCCLXXXXII matrimonj per paraules de present ab lo dit Don Cherubi Joan de Centelles. E axi matrij dit Don Cherubi Joan, sia tengut, es obligar de fermar dit matrimonj ab dita Dona Lucretia per paraules de present dins lo sober dit Terme sots les penes dejus scrites.
Item mes avant es pactat, e concordat entre les dites parts que apres, que lo dit matrimonj sera contractat per paraules de present entre Don Cherubi Joan e Dona Lucretia damunt dits que dit Rmo Caral sia tengut fer, e procurar, e donar obra, que dita Dona Lucretia sia tramesa adespeses de sua Rma Sia e venga en Regne de Valentia e aço dins terme de un alter anny comtador del dia del contracte del matrimonj per paraules de present entre Don Cherubi Joan e dona Lucretia damunt dits o aço, sots les penes jusscrites.
Item es concordat e pactat entre les dites parts que apres dita dona Lucretia sera venguda en Regne de Valentia, ella e dit Don Cherubi Joan sien tenguts de solempnizar dit matrimonj, en faz dla esglia e consumar aquell, e aço, en continent, o alpus tart dins terme de sis meses contadors del dia dela venguda de dita Dona Lucretia en dit Regne, et aço per part sua, procurara e fara meter enobra, ab effecte, dit Rmo Caral, e don Cherubi Joan ho exemtara per sa part sots les penes de jusscrites e posades.
Item es mes pactat, e concordat entre les dites parts que dins un mes apres de contractat e fermat de matrimonj per paraules de put entre los sobredits don Cherubi Joan, e dona Lucretia per obs de luir e quitar aquells huyt Milia e trescents trenta tres sous quater diners censsals que per lo dit noble Don Cherubi Joan de Centelles foer originalment carregats al spectable Comte de Oliva germa seu ab Carta rebuda per n Antoni barreda not. dla ciutat de Valentia, e lo qual censal de present sefa a diverses persones per lo dit noble Don Cherubi se carregar es faça carregament ala dita noble Dona Lucretia e axi que la proprietat, e preu de dit censal sia convertida en luisio e quitament del dit censal, e la dita noble dona Lucretia per lo dit censal carregador succexea en los drets de prioritat, e potioritat del dit censal delqual sera fet quitament.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts per conservatio de pau, e amor que los cent, e deu milia sous ques han apagar per lo dit Ill. Don Joan de Borja Duc de Gandia se pagar, e sien pagatr ab tot effecte quinze dies ans [361] de la solemnjzatio, e consumatio de dit matrimonj al dit noble don Cherubi Joan de Centelles.
Item mes es pactat, e concondat entre les dites parts que la summa restant de la principal, e integra quantitat del dot que son CCCXXX milia suos, dels quals segons damunt es dit sen de luexe e de falque lo que sera despes per obs de luir e quitar lo Censal sobredit de VIII milia CCCXXXIII suos de renda carregat per lo dit Don Cherubi Joan de Centelles, e Cent, e deu milia suos del Duc de Gandia com damunt es dit. e XXX milia sous de Joyes, e arreus a dita dona Lucretia per dit Rmo Sor Caral donats, quinze dies ans, de solemnizar en fas de la esglia e consumar aquell dit Rmo S.or Caral promet pagar, o fer pagar, e ab effecte consignar tota dita restant quantitat comprenent en aquella los huytanta milia suos, adita Dona Lucretia donats per dits Rnt proton Don Cesar, e don Jofre germans seus, laqual sia convertida en compra e carregaments de censals en loc tut e segur en nom de dita noble Dona Lucretia di Borja a tota utilitat, e profit, e seguretat de aquella en axi que si lo dit spectable Comte de oliva volia pender et haver ladita quantitat per via de carregament de censal per luir e quitar censals anties, que fan, e responer lo comdat, e heretat de aquell, e ab carreo dels quals es hereu del spectable comte de oliva quondam pare de aquell, que de la dita quantitat se faça carreggament o carregaments de censals quants volra lo dit spectable comte de oliva, axi que los dits carregament o carregaments sie fets, es façe per luir, e quitar los dits censals anties ab spetial parte, de succeir en los drets de prioritat, e potioritat, e entots los alters dels dicts censals quitats, e dels qui aquells tindran e posseiran a tota utilitat, e seguretat de la dita Dona Lucretia de Borja, e dels seus.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que si sera cas que por dispositio divina, o alters no sera fet ab acabament solemnizat, e consumat lo dit matrimonj entre los dits nobles D. Cherubi Joan de Centelles e Dona Lucrezia de Borja que en tal cas dit Don Joan Cherubi e sos hereus sien tengust, e obligats restituir, e tornar dins terme de sis meses tota la quantitat que en nom de dita Dona Lucrezia se trobara esser esmerçada, o per dit Don Cherubi en qual se vol maña rebuda a dita Dona Lucrezia de Borja e sos hereus en contants, o censals esmerçats, e compres, o en carregaments e aço a electio, arbiter e mera voluntat dita Dona Lucrezia, eñént en electio sua exigir dita quantitat en comtants, o endits esmerços, o en carregaments, e enaquest derrer cas los censals esmerçats, o comprats de dita quantitat torne e sie pleno jure, e sens diminutio alguna, en domini e senyoria de la dita Dona Lucrezia de Borja e per obit de aquella en [362] domini e senyoria del Ill. Don Joan de Borja Duc de Gandia, o hereus de aquell.
Item mes es stat pacat e concordat, entre les dites parts, que los dits censals comprats que sie sobre lo dit spectable comte de oliva, o en altre loc de continent consumat lo dit matrimonj axi com es dit, pase e sie en domini e senyoria del dit noble don Cherubi Joan de Centelles, a fer e disponder de aquelles, com de bens e coses dotals, e les pensions, e preu, e proprietat de aquells sie a util e profit del dit noble Don Cherubi, dels quals a cautela, la dita noble dona Lucretia en paga rata dela dita dot sie tenguts for veuda e transportatio al dit noble D. Cherubi Joan, a tota utilitat de aquell la qual ara per als dits temps, cas, e loc, fan, e volen haver perfeta ab totes ses clausules de evictio, e altres semblans in solutum venditionis acostumades juxta lo stil de Regne de Valentia, e peritia dels notaris rebedors dels presents capitols.
Item mes es pactat, e concordat, entre les dites parts, que morint, e deffalint la dita noble dona Lucretia, lo que a deu no platia sens fill, o filla del dit matrimonj que en lo prop dit cas dels CCCXXX mil sous puxa solament testar de trentamilia suos, e tot lo restant entegrament sens diminutio alguna torne e sia del dit Ill. don Joan de Borja Duc de Gandia, e dels hereus de aquell e morint e defallint la dita noble dona Lucretia ab fill o fills puxa testar de dits CCCXXX milia sous, e de la dot a ses planes voluntats.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que per quant furs del Regne de valentia ales vergens es degut, e se deu fer augment e reax o donatio per nupties de la mitat de la dot instituida, lo dit noble D. Cherubi Joan fa augment, creix e donatio per nupties a la dita noble D. Lucrezia de Borja de cent sexanta cinc milia sous de la dita moneda per losquals obliga tots sos bens hagust, e per haver ab promissio de donar ydonees cautions, e seguretats en semblants contractes acostumades.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que entot cas, temps, e loc, de dot e creix restituidors, o de Dot restituidora lo dit noble D. Cherubi promet restituir, e sia tengut, e obligat restituir a la dita noble Dona Lucrezia de Borja, los dits dot, e creix que pne universal summa de CCCCLXXXXV milia sous. E encas, temps, e loc de risittutio de la dita dot promet e sia tengut, e obligat, lo dit doble d. Cherubi Joan, restituir los dits CCCXXX mil suos ala dita noble D. Lucretia, o aquell a qui pertanyeran segons forma dels presents capitols sots obligatio, e ypotheca de tots sos bens hagust e havedors, e, ab ydonees cautions, e seguritats, en semblants cassos acostumades.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que [363] entot cas, loc, e temps dels dits dot e creix restituidors per seguritat e tuitio de dita noble d. Lucrezia quinze dies ans de les nupties, e consumatio de dit matrimonj, sia livrada la possio de la dita val de Ayora, locs, e castells, de aquella per lo dit noble D. Cherubi Joan de Centelles, o per lo procurador de aquella la dita noble d. Lucretia o legitim procurador de aquella axi que los vasalls de la dita vall jure tenir la dita noble D. Lucrezia per sra fins sia integrament pagada dels dits dot, e creix, e fara los fruyts render e regalies propries de aquella la qual possio per al dit cas, temps, e loc, sia feta atota utilitat de dita noble d. Lucretia, axi com de present ab los presents capitols fa, e ha, perfeta lo dit noble d. Cherubi, e per quant ladita vall de Ayora, e bens de dit Don Cherubi Joan porie esser vinclats o no bastants e sufficients a asegurar complidament la restitutio dela quantitat dels dit Dot, e Creix fara ab effecte que lo spectable conte de Oliva son germa, se obligue ell, e sos bens per la restitutio integrament faedora a dita D. Lucretia per dit Dot e Creix.
Item es mes pactat, e concordat entre les dites parts, que per quant lo dit matrimonj se ha de fer per la dita D. Lucrezia de Borja ab manament voluntat e ordinatio de Rmo Sor Caral D. Rodrigo de Borja, per ço lo dit Rmo Sor D. Rodrigo de Borja promet, es obliga, en nom proprij e principalment, en qualsevol nom que millor se puxa, a tota utilitat e profit del dit noble D. Cherubin, que aquell dit Rmo S.or fara curara, e procurara e donara obra, ab tot effecte que la dita noble D. Lucretia dins los termens de sobre en altres capitols designats fara e complira lo dit matrimonj ab lo dit noble D. Cherubi Joan, E lo dit Sor Caral d. Rodrigo, vol esser, e sia principalment obligat, en pagar tots los dits CCCXXX mil. sous dela dita dot de sus designata, en la forma damunt dita, e los quals se done, es, instituexe es (han) apagar, al dit noble Don Cherubi, Axique dit Rmo S.or D. Rodrigo puxa esser convengut in solidum, e principalment exemtat, per rao de dita quantitat sotmetent se, a for, juhi, exame de qualsevol jutge e offitial per lo dit noble Don Cherubi, elegidor. E si sera cas que la dita noble dona Lucretia pervenguda a la edat legitima de fer lo matrimoni segons damunt es contengut, revisara fer aquell que en tal cas lo dit Sor Rmo don Rodrigo de Borja vol esser entorregut et ipso facto entorrega, e done al dit noble Don Cherubin deu milia florins de or en or per tots dans, e interes dels quals dite deumilia florins dit Sor Rmo ental cas fa donatio per contemplatio de matrimonj al dit noble Don Cherubi ab expressa obligatio e ypotheca de tots sos bens haguts e per haver.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que lo dit noble D. Cherubi Joan, prometa axi com de present [364] promet, e jura anre Sor Deu e als sancts quatre evangelis, que los presents capitols tendra, e observara, ab tot effecte: E solempnement ab la dita noble D. Lucretia venguda, a quella edat perfecta, dins los temps, e termens, de sus designats, fara, complira, e solempnizara lo dit matrimonj: e la dita noble D. Lucretia, en legitima miller pendra segons ordinatio de sancta mare esglesia. E si per lo dit noble D. Cherubin se feya lo contrari per dans e interesos, et alias per la millor forma e maña fer se puxa, a tota utilitat de dita noble D. Lucretia, lo dit noble D. Cherubin promet donar, e dona a dita noble Dona Lucretia deumilia florins de or en or, per rao e contemplatio de qualsevol matrimonj per ella ab qualsevol persona faedor, sots obligatio e ypotheca de tots sos bens e drets haguts e per haver consentit enaço, e expressament obligant se ell, e tots sos bens, lo spectable comte de oliva.
Item mes es pactat, e concordat entre les dites parts, que los presents capitols, e quascuns de aquells per si, sien executoris e quascuns de aquells sie fetes, e fermades corn de present se ferme, carta, e cartes publiques quantes sie naoriits a profit e utilitat de les dits parts, e da cascuna delles, ab clausules executories ab summissio e renuntiatio de for proprij, e de tota appellatio, recors, correctio e real comisio, e provisio, e ab varcatio de juy, e ab cles, jurades de no pleaejar ne impetrar restitutio de dans, interesos, e despeses, ab expresses obligatio, e ypotheca de tots lurs bens, e drets haguts e havedors, et ab los juraments, e penes peccuniaries renuntiations necessaries, e ab totes altres cauteles juxta la pratica e consuetut del Regne, e peritia de Notari, e Notaris en poder dels quals los presents capitols seran fets e fermats: Mancano le firme.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
Reverendmo in christo Patri Dno. Dno. C. Carli Valentino Benefactori meo Primario: — Sub Alex. VI. Pont. Max. Prosperius Triumphante Roma Hier. Portius Auditor Alumnus;
Reme et Acutissime Princeps Donec petita reporto, non istabo vacuus Borgium Sed accipe carmen. Non minus Cesari concivi meo Antisti. Valentino quam M. convenies Alexro.
Ad Bovem Borgia.
Qui tibi Dive Pater Sacra hec dedit arma: reliquit
Ille animum, mores, ingeniumque simul.
[365]
Aurea Saturni redimis sic secula Pastor
Et finitur placido nunc tua Roma jugo
Servat Alexandrum populus non munera Sextum
Propte te populus munera Pastor amat
Perpetuus foelix memorat tua Roma triumphons
Sedet Alexander florida Secla manet
Qui modo Rumuleos tutatur et equora Campos
Regnat Alexander Secula tuta manent
Prosperius priscis, iubilat Tua Roma Triumphis
Et quotiens Sacrum obtinet Alma Bovem
Vive diu Bos. Vive diu Bos. Borgia vive
Vivit Alexander Roma beata manet.
(Liber Hartmanni Schedel Nurembergensis artium ac utriusq. medicine doctoris. Cod. lat. Monacen. fol. 162.)
Valenza, 9 settembre 1492.
Sanctme ac beatme pr.
Post osculum pedum latorem presencium nobilem Nicholaum balbi civem Venetum nrm. legualem clientulum multas jacturas in pluribus locis perpessum tue ineffabili sanctitati comitimus: ac ipsam humiliter atque devote precamur ut nri. causa ipsum tanta gra. condonet ut coram ipsam suum valeat denudare animum. Oratio nra apud prefatam Sanctitatem vulgaris ne videatur eciam atque eciam suplicamus: ut nos erga ipsum eo quo animo confidit agnoscat. Vale. Ex urbe valencie Nono Setembris Nonas anno MCCCCLXXXXII.
De vra Sanctitate
indigne iermana e
servula Beatrice
de Borga.
(Bibl. Marciana in Venezia. Cl. X. Cod. CLXXIV. n. 166.)
8 novembre 1492.
In Dei nom. Amen. A. a. nat. D. N. J. Ch. Millmo. quatragintesimo nonagesimo secundo pont. S. D. N. D. Alexandri [366] div. prov. ppe VI. Ind. XI. mens. Nov. die VIII. Pateat omnibus hoc pns public. instrum, inspecturis qualr. in presentia mei publ. not. et testium infrascriptor. ad h. spec. rogator, constituti personalr. vir spectab. D. Antonius de porcariis civis rom. assertus curator insignis puelle Dne Lucretie Borgie Illis d. Joannis Borgie Ducis Gandie germane sororis et curatoris nomine ipsius parte ex una. Et insignis D. Joannes Franciscus de prochita Miles et Comes de Aversa hispanus et Magcus adolescens D. Gaspar ejus legit. et naturalis fil. tam suo nomine et pro suo interesse quam etiam procuratorio et administratorio nomine dicti sui filii ac ejus vice et nomine Magce et Illis dne Leonore De Prochita et de Castellecta Comitisse de Aversa ipsius dni Joannis Francisci genitricis, parte ex altera. Concorditer asserentes et affirmantes qualiter de anno proxime preterito 1491, ac de Mense aprilis die ultimo constituti fuerunt procuratores ac speciales nuntii per ipsam Dnam Lucretiam et praefatum ejus curatorem ac per S. D. N. nunc ppam tunc vero Card. et Vicecancellarium Magcus vir D. Janfredus De Borgia Dnus Baronie de Villa Longa et Dnus Jacobus Serra tunc Canonicus Valentinus et nunc Archiep. Arboren. et dnus Matheus Cucia decretor. doctor vicarius generalis Valentinus ad contraend. noie ipsius insig. dne. Lucretie constituentis legitima sponsalia cum pfato Magco adolescente dno Gaspare pubere de presenti legitimum consensum importantia cum pactis, dotalibus et nuptialib. ac ornamentorum et jocalium promissionib. stipulationib. penis et juramentis et aliis cautelis necessariis pensis et expressis in quibusd. capitulis p'mo et secundo loco tam per ipsum insignem dnum. Joannem franciscum quam per dictam Magam dnam Leonoram Comitissam transmissis et acceptatis et dicti mandati vigore et ex facultate eisdem tradita et concessa dictos omnes procuratores simul sicut dicte partes sponte asseruerunt et confesse fuerunt omnia et singula pacta et conventiones in dictis capitulis contenta cum dicta sponsalium celebratione cum praeindicato dno Gaspare et prefata dna Leonora ejusd. Gasparis avia solemni ac legitima stipulatione interveniente concluserunt ac firmaverunt et inter cetera pacta et capitula inter eos firmata et conclusa actum et conventum fuit, quod prefatus tunc Rmus dnus Vicecancellarius teneretur et obligatus esset facere et jurare cum effectu quod supra dicta dna Lucretia ejus naturalis filia que tunc nondum etatem duodecim annor, impleverat nec impletura erat usque ad XVIIIm diem mensis aprilis postquam viri potens et nubilis etatis effecta fuisset ipso etiam Gaspare pubere existente prefata Magnca dna Comitissa avia paterna dicti Gasparis et dnus Jo. Franciscus ejus pater et legitim, administrator effectualiter [367] curare et facere tenerentur quod legitimas nuptias cum ea contraheret et statim postq. ipse d. Gaspar XV. sue etatis annum implevisset similiter facere et curare teneretur pfata dna Comitissa et dnus Jo. Fran. quod ipse d. Gaspar eamdem dnam. Lucretiam in suam transferret familiam et matrimonium cum ea in facie ecclesie solemniter celebraret et consumaret ad omnem simplicem requisicionem prefati tunc Rmi d. Vicecan. et pfati dne Lucretie sub penis infrascriptis dummodo ipse tunc Rmus d. Vicecan. paratus esset ipsam d. Lucretiam ad Civitatem Valentinam trasmittere prout suis sumptibus transmittere promisit et in casum et eventum quod omnia et singula pacta vicissim non implerentur aut aliqua dictar. partium contra hentium respective contra faceret diceret vel veniret et ad effectum non deduceretur tunc una pars alteri et altera alteri respective ut supra que in aliquo promissor. contraveniret ad penam decem millium florenorum auri parti fidem servanti stipulandorum et applicandor. obligaretur. Et specialiter et expresse pfatus tunc Rmus d. Vicecan. in omnem casum et eventum contraventionis seu conventionum predictarum teneri et obligari voluit ad dandum et solvendum pro interesse ipsorum domine Comitisse et dni Joannis Francisci noie dicti d. Gasparis recipientium et stipulantium dictam summam decem millium florenor. auri Quam quidem summam ex tunc contemplatione matrimonii et propter nuptias idem Rmus tunc dnus Vicecan. donavit et donationis titulo dedit dicto dno Gaspari et patri et avie pro eo ut supra stipulantibus. Que quidem omnia et singula alterutri et vicis sim perpetuo observare et observari facere promiserunt et contra non facere, dicere, vel venire, et ita iuraverunt solemniter pfato iuramento tactisque per eos sacris evangeliorum scripturis et sub dicta pena decem millium florenorum auri parti fidem servanti applicandorum rato modo semper manent pacto prout hec in effectu et substantia et alia plurima in dictis pactis et capitulis latius apparere dignoscitur. Unde pfatus d. Antonius de porcariis assertus curator pfate d. Lucretie ex una et pfatus d. Joan. Franciscus pr. et legitimus administrator et curator prout ipse asseruit dicti dni Gasparis sui filii parte ex altera concorditer asserentes et affirmantes dicta sponsalia fuisse per verba de presenti vis volo ac modo predicto cum dictis procuratorib. legitimum et speciale mandatum tenentibus contracta ac predicta omnia et singula vera fuisse et esse ex certis respectibus et causis animum ipsor. inducentibus mature ac perpenso consilio et deliberatione precedentibus ad infrascripta nova pacta et conventiones solemni ac legitima stipulatione interveniente concorditer devenerunt vl. quia prenominatus Magcus et insig. D. Joan. Franciscus pater et legitim. administrator [368] assertusque curator dicti d. Gasparis pro quo et de rato et rati habitione promisit et se facturum et curaturum quod dictus ejus fil. nullo unquam tempore contrafacere dicere vel venire maxime ratione sue minoris etatis et adversus infrascripta in integrum restitutionis beneficium non postulabit, ac una cum eo et ipse dnus Gaspar cum consensu et auctoritate dicti sui patris presentis, nec non cum presentia et auctoritate eximii legum doctoris domini Simonis de Carofolis de Spoleto Ordinarii Judicis Capitolii et presentis Ill. alme urbis senatoris locum tenentis ibidem astantis et pro tribunali sedentis, et partium voluntate cognita suum decretum et sui ufficii ad postulationem supradicti dni Joannis Francisci suo et dicti sui filii nomine postulantis auctoritatem interponentis. Qui et insignis dnus Joannes franciscus se et bona sua principaliter obligando et pro dicta Magca dna Comitissa ejus matre absente de rato et ratihabitione promisit parte ex una: et prefatus d. Antonius de porcariis curator et curatorio nomine pfate dne Lucretie promictens dicto nomine quod similiter contra non facere vel venire nec restitutionem petere parte ex altera concorditer ac mutuo et vicissim mutuoque dissensu ex certa eorum et cujusque ipsor. scientia nullo juris, aut facti errore ducti ab omnib. et singulis dictis pactionib. sponsaliciis seu nuptialib. obligationib. promissionib. et penis quocumque vel qualicumque commissis vel incursis comictendis vel incurrendis sive ex conventione dicte dne Lucretie sive ex conventione pfati dni Gasparis, sive etiam ipsorum patrum seu quovis alio modo sponte recesserunt dictosque omnes et singulos contractus et sponsalia per verba de presenti ut supra contracta et omnia et sing. pacta et capitula etiam juramento firmata DISSOLVERUNT ET RESOLVERUNT et pro dissolutis et resolutis haberi voluerunt omniaque et singula istrumenta et cautiones et scripturas publicas vel privatas desuper confectas et confecta cassaverunt cancellaverunt et aboluerunt cessari et cancellari et aboleri mandaverunt et pro cassis irritis et nullis haberi voluerunt itaq. nullum de cetero producere possint nec valeant juris aut executionis effectum Renuntiantes mutuo ac vicissim una pars alteri et altera alteri cum solem. pacto de perpetuo amplius non petendo omnib. et singulis iuribus et actionib. tam realib. quam personalib. utilib. et directis civilib. et pretoriis ipothecariis seu mixtis et in rem scriptis eisdem aut aliam ipsorum competentibus seu competituris acquisitis seu acquirendis ex dictis conventionib. stipulationib. et penis contractis seu contrahendis et presertim ex causa donationis contemplatione matrimonii dicto dno Gaspari ut prefertur in locum contraventionis per tunc Rmum d. Vicecanc. et nunc ppam ut dictum est facte que cum ob dictam [369] causam facta fuerit causa cessante locum habere non debet me notario ut publica persona presenti recipienti et legitime stipti pro dictis partibus et qualib. ipsarum tam presentib. quam absentib. et pro ear. et cujusq. ipsar. heredib. et successorib. omnibusque quor. interest vel intererit in futur. etiam aliqua nova legitima stipulatione interveniente et acceptilatione solemniter subsequente Amplius etiam voluerunt et convenerunt dicte partes ex novo pacto solemni stipulato ut supra firmato quod dictis priorib. capitulis conventionib. juramentis et penis appositis non obstantib. liceat et permissum sit pfate D. Lucretie libere et impune legitimas nuptias ac legitimum matrimonium cum quocumque alio sibi placuerint contrahere ac perficere et consumare quandocumque et quod penitus et omnino libera et soluta remaneat perinde ac si nunquam dicta priora capitula et sponsalia cum stipulationib. dictar. penar. et cum dictis juratis facta aut celebrata fuissent sperantes quod praef. S. d. n. d. Alexander ppa sextus ex sua clementia ad supplicationem eorundem super dissolutione dictor. sponsalium ut supra per verba de punti contractor. et si juramentum intervenisset per bullam suae stis opportune dispensare dignabitur ac dispensationem concedere gratiose. Et pro majori et abundantiori cautela et validatione premissorum Idem insignis d. Jo. Fran. pater et legit. administrator assertusque curator pfati D. Gasparis sui filii et curatorio ed administratorio noie ipsius nec non et ipse dnus Gaspar cum pntia consensu et auctoritate dicti sui pris et curatoris constituti personaliter coram pfato Judice et locumten. Senatoris pro tribunali sedenti in quod. scamno ligneo in loco infrascripto quem locum pro juridico tribunali elegit pro validitate presentis actus sponte in ejus jurisdictionem consentientes et illam prorogantes petierunt hunc presenti contractui et omnib. contentis in eo suam et sui officii pdicti auctoritatem ac solenne decretum interponi. Supradict. vero dom. locumtenens judex sedens ut supra visis et diligenter cognitis perspectis omnib. et singul. instrumentis pactor. et capitulor. promissionum stipulationum ac penar. matureque consideratis presentib. novis pactis dissolutionis et dissensus ac annullationis et irritationis contractuum propter periculum incursus penarum in eisdem adiectarum concorditer ut supra firmatis et conclusis suam in his ei dicti sui officii auctoritatem et decretum solemniter interposuit cum meliori modo via et forma quibus magis et melius de jure fieri potest et debet ipsis dno Johanne Francisco et filio presentibus ac petentib. dictoque D. Antonio curatore pfate D. Lucretie curatorio noie acceptante. Que quidem oia et singula una pars alteri et altera alteri mutuo et vicissim ac concorditer perpetuo attendere et observare respective promiserunt [370] contraque non facere ut supra ad penam et sub pena viginti millium florenor. auri de Cra pro dimidia parte pacti fidem servanti et pro alia dimid. parte camere aplice. applicandor. me notario ut supra stipulante, pro dicta Camera et partib. ac pro heredib. et successorib. ear. omnibusque quor. interest ut supra sub obligatione et ipotheca omnium bonor. pfati D. Joannis Francisci mobilium et immobilium presentium et futuror. ac etiam pfate D. Lucretie pro quib. obligaverunt sese ambe partes in forma Camere aplice ampliori submittentes se coherctioni ac jurisdictioni dni Auditoris Camere cum constitutione procure et aliis clausis et cautelis ac renuntiationib. consuetis ac necessariis in similibus contractib. in forma Camere adhiberi consuetis et cum potestate extendendi in pleniori forma Camere aplice et juraverunt dictus D. Antonius curator et curatorio noie ac prenominatus D. Joan. Franciscus pater et curator unacum dicto Gaspare ejus filio tactis corporaliter sacris scripturis promissa oia et singula perpetuo attendere et observare et observari facere ut supradictum est et contra non venire aliqua ratione iure ttº seu causa nec aliquo quesito ingenio vel colore Rogaveruntque me notarium ut de predictis publicum conficerem instrumentum unum vel plura et totiens quotiens fuerim requisitus et dederunt potestatem extendendi non mutata substantia veritatis. Acta fuerunt hec Rome in palatio aplico in aula pontificis pntibus audientib. et intelligentib. infrascriptis testibus vd. Venerabil. ac integerrimis viris dnis Jacobo de Casanova Canonico et preposito Ecclie Valentine domino petro Caranza canonico toletan. dno Bernardo classio Notario regio valentin. testib. ad hoc de partium consensu et voluntate specialiter convocatis et rogatis.
Eodem anno pontif. jndictione mense et die quib. supra post predicta sic ut prefetur, inter dictas partes conclusa, et firmata Idem Insignis dnus Joannes franciscus sperans adhuc quod hujusmodi matrimonium divina favente gra suum divinum sortiri et consequi possit effectum promisit et solemni pactione et stipulatione interveniente convenit Smo D. N. D. Alexandro sexto pont. max.º pnti et sicut dixit id pariformiter optanti et acceptanti facere et curare cum effectu quod dictus dom. Gaspar ejus filius durante tpre unius anni alias nuptias aut sponsalia cum aliqua non contrahet nec celebrabit nisi interim prefata dna Lucretia nova sponsalia per verba vis volo legitimum consensum inducentia cum alio contrahere voluerit aut alias nuptias celebraret qua causa etiam ipsum dnum Gasparem liberum fore et esse et libere cum aliis nuptias contrahere posse voluerunt et convenerunt. Alias vero contrafaciendo Idem Insignis D. Johannes Franciscus sponte se obligavit et teneri voluit pfato Smo Dno N. ppe ad solvendum [371] pro pena et pene noie summam duor. millium ducator. auri in omnem eventum contraventionis eid. Smo D. N. ppe applicandor. me notº ut publica persona pnte et legitime stipulante pro ipso Smo D. N. pnte et pro dicta dna Lucretia absente omnibusq. quor. interest vel intererit in futurum. Et pro his firmiter et inviolabiliter observandis obligavit se dictus insignis dnus Joannis franciscus ac oia et singula ejus bona mobilia et immobilia pntia et futura in plenissima forma Camre aplice ut supra et voluit pro predictis posse conveniri et agi Rome Valentie et in omni loco et foro et coram quocunque judice ecclesiastico vel seculari et omni tpre et feriato et feriatis diebus quibus renunciavit expresse Renunciavit et privilegio fori et omnib. aliis exceptionibus et defentionibus quibus contravenire posset. Et juravit ad scta dei evangelia tactis sacris scripturis pdicta oia et singula attendere observare et contra non facere dicere vel venire sub dicta obligatione et pena et vinculo dicti prestiti juramenti. Rogaveruntque me notarium ut de predictis publicum conficiam instrumentum unum vel plura et totiens quotiens fuerim requisitus. Acta fuerunt hec in dicto palatio aplico in Camera juxta salam magnam pontificum pntibus Rdo pre dno Joanne Lopis ejusdem Smi dni nri ppe datario et dno PETRO CARANZA supra nominato ejusd. dni nri cubiculario testibus ad premissa specialiter vocatis et rogatis.
Et ego Camillus de Beneimbene juris doctor Romanus civis publicus Imperiali auctoritate notarius de omnibus et singulis sponsalium dissolutionibus et penarum remissionibus ac renunciationib. pactis et conventionibus et promissionib. et aliis supra contentis et expressis a prenominatis partibus Rogatus ut in publicam notam redigerem in aliis publicis negotiis ad psens impeditus per alium michi fidum domesticumque Notarium scribi feci ac propria manu subscripsi et publicavi solitoque signo notavi in fidem et testimonium omnium et singulorum premissorum.
(Archivio della Confraternitas S. Salvatoris ad Sancta Sanctorum in Roma.)
Ferrara, 3 gennaio 1493.
Sanctme ac beatme Pater et Dne., Domine mi colendissme humillima post beatorum pedum oscula commendatione exhibita. Quae jampridem de Bne Vra. maximis laudibus extollenda [372] cognovi, nunc etiam ex litteris Rdi D. epi. Mutinen. Legati apud Stem Vram mei, et non solum dilectmi Primogeniti mie Alfonsi, sed etiam omnium qui ei comites fuerunt, relatu amplmo accepi, de singulari Bnis Vrae in omnes, praesertim erga me, meosque benignitate, liberalitate, gratia, humanitate, et ineffabili caritate, qua in adventu istus suo, et semper dum apud eam commoratus est, ipsam complexa fuit, quibus ex causis, omnia quae possim jamdudum Sti Vrae debentem, nunc ea etiam et plura quam valeam Bni Vrae debere profiteor, immortales et quantas universus orbis animo concipere possit, ei gratias habens et agens servitor ego ipsius devotmus, et ad quaecunque sibi secunda grataque paratissimus, cui etiam atque etiam humillime me, meosque omnes commendatissimos esse volo et cupeo. Ferrariae III. Januarii 1493.
Ejusdem Sanctis V.
filius et servitor hercules Dux Ferrariae etc.
Siverius.
(Bibl. Marciana in Venezia. Lat. Cl. X. Cod. CLXXVI.)
2 febbraio 1493.
In nom. indiv. trinit. Anno a nat. D. N. J. Ch. Millº CCCCLXXXXIII. pont. Smi Dni Nri Dni Alexandri div. prov. PP. VI. Ind. XI. m. februarii die secundo pateat omnibus.... qualiter constitutus aput presentiam prefati smi dni nri pape magcus ac preclarus juris doctor dnus Nicolaus de Savano pisauriensis orator et procurator ac specialis nuntius ab illustri et potenti dno dno Johe Sforzia de Aragona comite cotognole ac civitatis pisauri ejusque comitatus pro smo dno nro antefato et pro sede aplica generali in temporalib. vicario spetialiter ab hoc constitutus ac destinatus habens ad infrascripta oia et sing. peragenda plenum et spetiale mandatum sicut apparet ex pub. docum. de eod. anno pontif. indict. quib. supra mense januarii die vero VIIII dicti mensis januarii in dicta civitate pisauri in camera giardini curie et domor. pfati ill. dni constituentis site in quarterio s. Jacobi juxta plateam curie vias publicas et alia latera in presentia spectabilium viror. magn. Johis francisa de arditiis ductoris physici de pesauro et dni ludovici cardani de turricellis parmens. ejusd. ill. dni cancellarii testium adhibitor. et convocator. per dnum Johannem de Germanis [373] de Austria civem pisauriens. pub. aposta et Imper. auctoritae notarium de eo rogatum et in pubca forma redactum. Cum Iris testimonialib. potestatis consilii et comunis ejusd. civitatis pisauri cum sigillo dicte civitatis (sicut) apparet per me notarium et testes visum lectum et penes et aput me pro habundantiori cautela et fide dimissum ac virtute dicti mandati et facultatis sibi concesse procuratorio noie pdicto Ad infrascripta capitula et pacta sponsalitia cum pfato smo dno Nro. D. Alex. pp. VI. et inter eos in dei noie concorditer conclusa et sollemni stipulatione firmata devenit quae sunt ista videl.
Quia pfatus S. D. N. d.nus Alexander sextus pont. max. sponte ac libere promisit pfato magco dno Nicolao ut procuratori ac nuntio pfati Ill. dni Johis Sforzie presenti et dicto nomine recipienti dare traddere assignare et consignare in legitimam sponsam et uxorem pfati Ill. dni Johis Sfortie de Aragonia Illustrem et eccellentem dnam Lucretiam Borgiam virginem incorruptam etatis jam nubilis existentem Illustris et excell. dni dne Johis Borgie Ducis Gandie germanam sororem eidemque Smo dno nro. PP. dilectissimam cum dote et dotis nomine triginta et unum milium ducatorum ad computum decem carlen. pro quolib. ducato de quibus triginta unum milib. duc. quinque milia et quingenta solvi debent per praefat. Ill. domin. Johem ejus fratrem virtute relicti eidem ill. dne Lucretie in testam. quond. bon. mem. dni Ludovici quond. ducis Gandie sui fratris defuncti facti videlicet de undecim milib. florenor. monete usualis valentiae quae faciunt et costituunt dictam summam vel ad circa. Alia vero decem milia ducator. solvi et tradi debent in vestibus jocalibus monilibus vasis argenteis et suppellectibus aliisq. ornamentis et reb. ad usum illustrium mulierum dictam summam decem mill. ducator. secund. comunem existimationem fiendam bene valentibus. Residuum vero usq.; ad summam XXX unius milium duc. solvere promisit id smus D. n. de pecuniis alias constitutis pro dote ejusd. in pecunia numerata promisitq. id. smus d. n. facere et cum effectu curare quod dicta ill. D. Lucretia consentiet et legitim. consens. prestabit ad. dic. matrimonium contrahend. ipsumq. matrimonium perficiet et ad effect. deducet sub pena infrascripta et versa vice pfatus magcus d. Nicolaus procur. quo supra noie sponte et libere et supra promisit et convenit prefato smo dno nro dno Alex. pp. VIto presenti et recipienti noie dicte Ill. dne Lucretie quod prefat. Ill. dnus Johes Sforzia de Aragonia accipiet in suam legit, sponsam et uxor prefatam Ill. dnam Lucretiam cum dote et jocalib. et ornamentis et supellectib. predictis ad dict. summ. triginta unius millium ducat. ascendentib. et q. consentient et legit, consensum prestabit in dicto matrimonio contrahendo et copulando et per verba de presenti vis volo legitm consensum importantia [374] nec non et quod infra unum annum proxime futurum incipiendo a die presentis contractus ipsam dnam lucretiam prefat. Ill. dnus Johes Sforzia in suam familiam transferet et ad suam domum ducet et cum ea inseparable matrim. copulabit. et interim durante dicto anno etiam quandocunque fuerit a prefato smo d. n. pp. interpellatus seu requisitus ad oem simplicem requisition. seu interpellation. prefati smi d. n. cum effectu paratum se obtulit, promisit et dictam dotem et jocalia constituta integraliter et effectualiter solvere dum et quando ipse ill. dnus Johes etiam cum effectu paratus fuerit ipsum in uxor. ducere et in matrimonio collocare et ipsum matrim. carnali copula interveniente perficere Itaq. eadem die qua dictum matrimon. consumabitur dicta integra solutio et satisfactio fiat et impleatur Insuper solemni pacto et stipulatione intervenientib. convenerunt quod in casum et eventum quo dictum Matrimonium nullis suscepit comunib. liberis ex eo nascituris quod deus avertat, dissolveretur dicto casu viro predecedente dicta integra dos absq. diminutione et omnia et sing. jocalia et ornamenta et supellectilia ac vasamenta que consumpta non fuerint, et eo modo et in ea qualitate in qua tunc erunt et reperentur redantur et restituantur ipsi ill. dne lucretie si viserit Idemq. locum habeat liberis etiam extantib. viro precedente et uxore superstite filiis vero extantib. et uxore precedente vir dotem lucretur ad usufructum salva proprietate et substantia pro dictis comunib. liberis Sed si ipsa dna lucretia viro premoriatur liberis non extantib. integra dos predicta reddatur dicto ill. dno Johi Borgie duci Gandie et suis heredib. et similiter jocalia non consumpta eid. restituantur cui Illustri dno Johi dicto casu quo prefata ill. dna lucretia ejus soror sine liberis decesserit ex tunc dicta dos et jocalia censeantur eidem donata et ita ex nunc dicto casu prefatus Smus D. N. pp liberaliter donavit et donationis titulo inter vivos irrevacabiliter eid. ill. dno Johi Borgie presenti et acceptanti ac legitime stipulanti pro se ipso ac etiam pro suis heredib. Idem Sm. d. n. sponte et libere donat transfert cedit et mandat cum omnib. jurib. et actub. ad faciendum et disponendum pro suo et suor. hered. libito et voluntate me not. ut pub. persona presente et legit. stipulante pro dicto Ill. dno Johe Borgia et suis heredib. predictis. Amplius convenerunt quod in casu et casib. restitutionis dotis et jocalium et ornamentor. predictor. nihil lucraretur nec vir nec uxor sive ex casu donationis propter nuptias sive ex alio jure municipali vel consuetudine in urbe Romana sive in dicta civitate pisauri vigentib. de lucranda parte dotis seu donationis propter nuptias sive ut dr. antefato aquirendis quib. omnib. et sing. legib. statutis municipalib. vel consuetudinib. locor. quoad dictum effectum lucrande dotis seu donationis propter [375] nuptias renuntiaver. expresse. Exceptis tamen donationib. et largitionib. que mutuo fieri consueverunt, et fieri contigerunt sive ex parte viri ipsi sponse tam a viro quam ab aliis etiam contemplatione viri sive ex parte sponse ipsi viro etiam per alios quoscunque contemplatione sponse que omnia et sing. convenerunt quod sint et esse censeantur mutuo et concorditer ac vicissim comuni consensu interveniente donata et nullo unq. tpre repeti posse ab eis vel heredib. et successorib. ipsor vel alterius eorum quia sic mutuo donare placuit.
Que quid. omnia et sing. dictus procurator quo supra noie promisit et convenit prefato Smo dno nro pp presenti recipienti et acceptanti pro se et quib. supra nominib. et michi Not. facere ratificari per dict. Ill. dnum Johem Sfortiam de aragonia principalem suum infra spatium unius mensis proxime futuri incoandum a die presentis contractus et solenne instrum. ratificationis cum renuntiatione omnium exception. et defensionum juris et facti quibus contrafacere dicere vel venire posset in publica forma transmictere seu transmicti facere et curare et in manib. prefati smi D. N. traddere quo quib. oib. et sing. observandis ac firmiter adimplendis dict. procur. quo supra noie obligavit et ypotecavit oia et sing. bona ipsius Ill. dni Johis sui principalis mobilia et stabilia presentia et futura et totum statum ejusdem et similiter prefatus Smus D. nr. obligavit oia et sing. bona sua temporalia presentia et futura promictentes mutuo ac vicissim promissa oia et sing. perpetuo attendere et observare rata grata et firma habere contraque non facere dicere vel venire ad penam et sub pena viginti milium ducat. parti fidem servanti applicandor. totiens commictenda quotiens contra factum vel aliter conventum fuerit me Not. etc. obligando prefatus magcus D. Nicolaus procurator prefatum Ill. dnum Johem in amplissima forma Camere apostol. et cum potestate extendendi et jurantes etiam vid. prefatus Smus D. N. pp in conscientia anime suo ponendo manum ad pectus et prefatus dn. Nicolaus tactis sacris scripturis rogantesque me Not. etc.
Post que incontinenti in presentia me ejusd. Not. et testium infrascript. et in eod. loco prefata Illustris. dna Lucretia Borgia ad interrogationem mei Not. publ. in presentia dicti Magci dni Nicolai de Savano procur. ac specialis nuntii prefati Ill. dni Johis Sforzie interrogantis si ipsa magca dna Lucretia habere velit, et tenere in suum legit, maritum ipm Ill. d. Johannem juxta et sec. ordinationem S. matris Eccl. sponte ac libere respondit Volo Et dictus magcus dn. Nicolaus proc. ac spetialis nunt. ad hoc deputatus sicut de ejus mandato ex publ. instrumento scripto et publicato manu ejusd. dni Johis de Germani pubci. Notari sub eisd. anno pont. Ind. et mense januarii die vero IIII et in ead. camera et loco presentib. magco et [376] generoso viro dno Johe Francº de capoinsacchis de Arimino juris utr. doctore potestate pisaurien. et nobili viro Francº Stefani letio magistro dom. ejusd. Ill. dn. Johis cum literis testimonialib. per me Not. et testes viso et lecto pariformiter interrogatus si dict. Ill. dnus Johes velit similit. accipere et habere et tenere in ejus legit. uxorem et procuratorio noie predicto respondit Volo et sic per verba vis volo legit. consensum in presentia inducentia dict. matrimon. et legitim. nuptias contraxerunt me not. etc. et subsequenter immediate prefat. magcus d. Nicolaus procur. quo supra noie pro majori sollenitate actus dicti sponsalium per verba de presenti ut prefertur solleniter contractarum accepto gemino anulo aurato cum lapide pretioso unum ex eis in digito anulari manus sinist. cujus vena ducitur ad cor immisit et alterum in alio digito ipsum ill. dnum Johan. dicto noie disponsavit et subarrando cum meliori mo. Rogaveruntq. me notarium etc.
Acta fuerunt hec in palatio apº in camera sita post lovium vid. in ea parte palatii que fabricata fuit per fe. re. dnum Innocentium pp VIII presentib. magco viro dno Stefano oratore Ill. ducis Mediolanensis ac Rdis ptrib. dno Johe lopis ep. perusino dno Bernardino lunen. protho. et secret. apco et dni nri. pp. et dno Jacobo de casanova dno petro caranzio dno Johe Marades dno Antonio Cubiculariis ejus. Smi d. n. pp pro testibus una mecum adhibitis et rogatis.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
Roma, 13 giugno 1493.
Illmo Signor mio..........
Hieri che furono XII. del dicto celebrate fuerunt publice le spondalizie in palatio cum maxima pompa et apparatu vocatis oib. matronis romanis, ac etiam principalioribus civibus, et multis cardinalibus numero decem interfuerunt et pont. in solio majestatis sedens, in medio dictor. Card. palatio et domib. undique plenis gentibus pro admiratione tante rei, il prefato signor di Pesaro, con le debite solemnitade desponsò la dona, et statim il vescovo di Concordia hebe una degnissima oratione. Non li interveneno per altro oratori, se non el Venetiano, Milanese et io, et in fino uno de quelli del Re di Francia.........
Parse al revmo Ascanio ch'io dovessi fare il donativo fra le sponsalitie et sopra di cio ne feci parlare al Papa: li rispuose [377] chel non me pareva et che quanto minore demonstratione se ne faceva era meglio, non dispiacche a soa santa et così al dicto Ascanio: pur dopoi fra loro et alcuni cardinali idest quelli se li trovavano vuolsino meglio consultare la cosa, tandem omnes convenerunt in sent. meam, et così il P. dopoi me chiamo, et dissemi: ne pare chel se faccia come tu hai dicto et così fu ordinato, che al tardo io fosse col donativo in palazzo dove S. B.ne fece una domestica cena al sposo et sposa dove li intraveneno li Rmi Ascanio, S. Anastasia et Colonna, poi la sposa, successive il sposo, drieto il Conte di Pitigliano Capitaneo della Chiexia, il S. Julio Ursino, demum Madona Julia de Farnese, de qua est tantus sermo, madona Theodorina com la figliola marchesana de Gerazo, nomine una figliola del dicto Capitaneo dona del signore Angelo Farnese, fratello de dicta Madona Julia, seguendo poi uno giovanetto fratello del dicto Cardle de la Colonna et Ma Adriana Ursina, la quale è socera de la dicta madona Julia, che ha sempre governata essa sposa in casa propria per essere in loco de nepote del Pontefice, la fu figliola de messer Piedro de Milla, noto a V. Ema Sigria, cosino carnale del Papa. Depositis mensis, che fu circa le 3 et quattro hore de nocte per parte dell'Illmo Duca di Milano fu facto il donativo suo a la sposa et fu de cinche peze de varii brocati d'oro, con doe annelle: videl. uno diamante et uno rubino in tutto de extima de 1000 ducati segondo fu apparenter judicato: poi io feci quello di V. Illma Sigria con le accomodate parolle de congratulatione et letitia del parentado, et oblatione amplissima: molto piache al papa il dono, el quale ultra tutti gli altri fu laudato et comendato, et meritamente per esser sei vasi molti honorati et richi: videl. doi bacilli con doi bochali grandissimi tutti dorati a la ragusea, et doi fiaschi segondo Lei ben sa. Oltre la sposa et sposo il Papa ne riferisse infinite grazie a V. Ema Sigria: la non potria credere quanto le sia stato grato, poi Ascanio fece il suo, che fu un apparecchio de credenza, cioè XII. tace tante scatelle tanti quadri, un bacilo de bona grandezza con suo bochale, quatro piati pur de grandezza: una confectera dorata piana a la romanesca; se dice uno mapo, e doe cope da bevere piane dorate: il resto senz'oro et lavoro subtile tutti politi; se crede de valuta de ducati mille o circa. Il Card. di Monreale doe annelle vid. uno zaphiro et uno diamante molto degne de pretio de 3000 circa: il protonotaro Cesarino uno bacile con suo bochale polito poteva esser di valuta de 800 Ducati, il Duca di Candia uno vaso in forma de frescatorio de valuta de circa 70 Duc. Il protonotario da Lunate uno vaso de certe composizione in forma de diaspro ornato dintorno de argento dorato, poteva valere da 60 a 70 duc. Altri doni non furono facti; a le noce se supplirà per [378] li altri cioè Cardinali, oratori et altri et io me ne sforcero fare il simile, credesse se farano Domenica proxima, non se sa il certo. Dapoi se attese a dansare per le done, et intermedio se fece una degna commedia, con molti canti et soni sempre assistente il papa e tutti noi altri, quid in pluribus moror? Saria un lungo scrivere. Totam noctem consumpsimus; judicet modo Exma Dominatio vestra si bene o male....
Humiliter me racomando. Rome 13. Junii 1493.
Emo D. V. humilis
Servus Jo. andr. ep. mutinensis.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 23, 24 dicembre 1493.
.... Domenica, fra Viterbo e Fabrica mi chiamò (sc. il Carle Farnese) e disse: Meser Lorenzo, io vego questo parentado del Magco il Sigre di Faenza fatto, e quando noi avessimo potuto darli questa figliuola di Mad.nna Julia con una gran dota chredete voi ch'el si potessi fare, maxime quando Madnna Adriana, con nostro Sigre facessi questa cosa?....
Risposi a S.a Revma Sigria che io chredevo che quando nostro Sigre avessi animo di chollocare questa figluola di Madnna Julia a quel Sigre, per mezo del Mgco Piero, che ancora che questo parentado fussi fatto con il Magco e che avessi a' ntrinsicharsi con esso speravo che Sa Magtia quando avessi auto animo di darli la figliuola, preporrebbe questa alla sua.... dicendoli queste parole, che io non chredevo che nostro Sigre avessi manco afetione in maritare questa puta che Madnna Luchretia, sua figlia, sujungendo queste parole, Monsigre, io non mi so fare intendere altrimenti, io chredo che nostro Sigre habbia a dare una sua figliuola a questo Signore perchè intendessi che io chredo che questa puta sia figlia del Papa, come Madnna Luchretia è nipote di S Revma Sigria....
E quando il Magco Piero ci si adirizassi chostei è pure figliuola del Papa, nipote di Cardinale e figliuola putativa del Sigre Orsino, al quale nostro Sigre darà anchora 3 o 4 chastella sono presso a Basanello. E dipoi il Cardle dice che quando il Sigre Angniolo non abbia figliuoli, che le loro chastella non saranno d'altri, e che questa puta, alla quale il Cardle vuole bene grandissimo, e digià pensa a questa cosa: e per questo mezo il Magco Piero si insignorirà del voto di questo Cardinale, che sarà obligho indisolabile....
[379]
E anche io spererei, achordandosi per mezo nostro tal cosa, che Madnna Adriana e Madnna Julia havessino a operare per me in otenere qualche buona chiesa......
Ammi conferito molte cose il prefato Cardinale da Farnese, le quali non sono però da conferirle a ongni huomo, per le quali ho cognosciuto che le parole mi disse il primo dì lo vidi, quando giunsi, non furno finte, sichè non se ne arà altro che commodità di S.a Sig.ria Piacemi non m'essere aposto in nella Maria per avere a restare bugiardo in Madnna Luchretia la quale desidero lo faccia maschio più che lei medesima e voi e in ongni modo buon prò li faccia. E salutate Meser Francesco e Andrea, per mia parte infinite volte.
Giannozo mio, hier sera vi schripsi quanto di sopra si contiene, dipoi oggi, ch'è la vigilia di Pasqua, cavalcai con Monsigor da Farnese a palazzo a Vespero papale, e inanzi nostro Sigre entrassi in capella andai in casa di Sa Ma in Portico a vedere Madnna Julia la quale trovai che s'era lavata il capo, e era insieme con Madnna Luchretia, figliuola di nostro Sigre, e Madnna Adriana allato al fuocho, e lei e Madnna Adriana mi vidano tanto volentieri, quanto si potessi dire, e Madnna Julia volse li sedessi allato, ringratiandomi dello avere condota Madnna Jeronima a casa e dicendomi: era necessario ch'io la conducessi anchora quà a volerla contentare: e Madnna Adriana mi sogiunse e disse: è il vero che ella non abbi licentia di venire più quà che a Capodimonte e Marta? Risposi non m'esser noto, e che a me bastava aver satisfatto a Madnna Julia in chondurla a chasa sua: perocchè per le sua lettere me aveva ricerco e che ora era in nelle forze loro lascerei la chura a epsa Madnna Julia, alla quale non manchava ingengno nelle cose sua de avere a trovarsi con lei, la quale apetiva di vedere Sa Sigria non manco che epsa dimostrava de apetire di vedere lei; al che Madnna Julia mi ringratiò assai dicendomi tenersi satisfatta da me, e io rachordandole li obblighi avevo con Sa Sigria per quello aveva operato per me, a' quali non potevo satisfare più che con avere achonpagnato Madnna Jeronima a casa, mi rispose: che non bisongnava la ringratiassi di si minima cosa perchè avere animo di compiacermi in molto magiore cosa e che, quando me ochoressi, ne facessi experientia. E Madnna Adriana replichò, ch'io fussi certo di questo che epsa Madnna Julia, e non Meser Antonio Cancelliere o sua imbasciate me avessino fatto otenere quelli benefiti. Mostrai crederlo per non chontradire e ringratiai ancora Sa Sig.ria dipoi Madnna Julia mi domandò di Meser Puccio molto strettamente e dissemi: noi lo fareno un dì venire quà, e se quando ci fu non lo potemmo otenere, benchè ne facessimo omne diligentia, ogi lo potreno fare sanza dificulta. E anche me acertò che il Cardle li aveva jiersera ragionato quello che [380] per la via havevamo insieme conferito, preghandomi che volessi schrivere, e che reputava però le cose si tratasino per la via vostra il Magco Piero le udissi volentieri. Sichè vedete ove le cose già son ite e volse ch'io vedesi la fanciulla la quale è già grande et, ut mihi videtur, est similis Pontifici, adeo ut vere ex ejus semine orta dici possit. E Madnna Julia è ingrassata e fatta una cosa bellissima, e in mia presenza si scapigliò e fecesi achonciare i chapelli e il capo, li quali li davano giù a piè che non vidi una (sic!) et ha i più belli, e uno ciuffione di rensa, e dipoi di sopra una certa rete come fummo con certi profili doro che 'nvero pareva uno sole; che arei paghato gran cosa fussi stato presente per chiarirvi di quello avete più volte desiderato; e aveva uno fodero indosso alla napoletana, e così Madnna Luchretia la quale andò dopo poco intervallo a chavarselo e tornò dipoi con una veste foderata, presso a tutta di raso pagonazzo. E finito il Vespero, che i Cardli partivano, partì da lei e andai dipoi di sopra e aspetai che Alesandrino usci fuora della sala del Papa e andai alla chamera sua....
Qui Lorenzo Pucci parla distesamente del discorso da lui tenuto con questo Cardinale di Alessandria. Egli lo pregò di assumere la parte di padrino presso Giannozzo, la cui moglie era prossima a sgravare:
E dopo qualche ragionamento li dissi: Monor mio io userò in questa prima mia visitation prosuntion di domandare una gratia speziale da Va Sigria Revma perchè la brevità del tempo non patisce la differischa in altro tempo; e questo è che Giannozo mio fratello, e servitore di Va Revma Sigria aspeta de avere figliuolo o figliuola fra 15 di del prossimo mese della donna sua, e desidera Va Revma Sigria si degni di volere fare uno prochuratore che in nome di quella batezi quello che sarà insieme con Monsigre di Parma e da Farnese e il Magco Piero....
Per questa non mi ochorre altro. Cristo vi conservi come desiderate.
Die 24 Dicembris 1493.
Lorenzo Pucci.
(L'originale nell'Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, filza 343.)
[381]
Roma, 12 settembre 1496.
Illme princeps et exme Dne: pr honorem.me per Miss. Jo. Carlo secretarº de V. S. con lrè credential ho inteso: quanto quella se congratula della mia venuta et le amorevole offerte che per suo nome mi ha facte. La ringratio del tutto súmaméte: offerendomi pari modo alla v. Illma S. paratissimo ad ogne suo Bnplacito. Ho facto el mio debito colla Ste de Nro. sre. In Ricomandarli V. S. quantuncha cognoscessi essere superfluo: per amar sua Beatne quella nò altramente che suo charmo et amatissimo figliolo: allaquale sempre mi ricommando. Dat. Rome ex palatio aplico die XIIª septembr. MCCCCLXXXXVI.
Filius Dux Gandie et suesse ac princeps theany.
Illmo principi et exmo Dno pri honmo Dno F. Marchioni
Mantuan. ac Illmi D. Venetor. Capitaneo Generali.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Si quis est heu nros casus miseratus acerbos
Siste gradum, et lachrimas funde per ossa tuas.
Respice si similis fuit unquam pena, dolorque;
Aut nostra hac fuerit mors miseranda magis.
Ille ego Gandie princeps: dominusque Suesse
Qui Beneventi agrum nuper adeptus eram
Qui modo vexillum duxi: validasque phalanges
Agmina intrepidus sedis apostolice
Qui Sesto sacroque fui de presule summo
Natus Alexandro. Qui modo tantus eram
Ecce vides gladio confossum, gutture secto
In Tyberim jactum, stare sub hoc lapide
Non Scyron: non Busyris: dirusque procustos
Nec fuit Orthe suis sevior hospitibus
Sevit ut in nostros certus maleficus amicus
Dum sibi credentem me tullit e medio
At tu quisquis eris, nimium ne crede, fides nam
Et pudor, et pietas deseruere viros.
(Liber Hartmanni Schedel: fol. 164.)
[382]
Carpentras, 10 luglio, 1497.
Beatme pr. ac clme Dne. post pedum oscula Beatorum. Hodie cum jam Iter Italicum versus cepissem Inter equitandum allatus est mihi tristis nuntius de obitu Ill. Dni. Ducis Candie, qui me profecto vehementer et graviter afflixit, non solum ex causa vre. Sanctis sed ex ipso atroci et crudeli genere mortis commisso in personam publicam et Capitaneum Ste romane Ecclesie ob quam rem ipsi sedi aplca Injuriam hujusmodi irrogatam fuisse nemo est qui dubitare possit. Itaque ex hoc tam acerbo, et miserabili casu tantum plane doloris et molestie cepi, quantum profecto cepissem, si ipse urbis prefectus germanus meus defunctus fuisset. Et ad hunc justum dolorem meum accedit is dolor per quem ex hujusmodi luctuoso casu Beatnem vram. affectam et exulceratam jure suo intueor, Nihilominus cognoscens summam in omnium rerum accidentia V. Stis constantiam et moderationem, et ejus sublime ac divinum ingenium, non dubito quin omnia que sunt humane fragilitatis forti, et equo animo ferat. Et se cum voluntate illius cujus vices in terris gerit conformet: ac plane dicat cum patientissimo illo Job. Dnus dedit. Dnus abstulit: sit nomen Dni benedictum, quare pluribus circa haec apud Stem vram immorari nugatorium sane et ineptum esse existimo; cum ea sit sola, a qua reliqui omnes exempla patientie petere debemus. Illud igitur unum altissimum precabor ut ipsam beatitudinem vram sue sancte Ecclesie diutissime felicem et incolumem conservet. Cujus sacratissimis pedibus me humillime commendo. Carpentorati die X Julij MCCCCLXXXXVII.
E. V. Sanctis
Humill. et devotiss. servus Jul. epus ostien.
Card. Sti P. ad vinla manu propria.
(Bibl. Marciana, Cod. Lat., Cl. X. CLXXV.)
10 giugno 1498.
Alexander Episcopus Servus Servorum Dei.
Ad Aeternam Rei memoriam.
Derivata in nos a Beato Petro Apostolo, celestis Regni clavigero et Domini Nostri Jesus Christi in terris Vicario, [383] ligandi atque solvendi potestas, nos inducit ut, juris temperato rigore, clavium potestate utamur prout ad scandala semovenda et pacem concordiamque servandam inter cunctos Christi fideles nostre cure commissos conspicimus in Domino salubriter expedire. Sane postquam dilecta in Christo filia nobilis mulier Lucretia de Borgia, Domicella Romana, olim per certos procuratores suos, ad id ab ea specialiter constitutos, cum dilecto Filio Nobili Viro Gaspare de Proscida Comite Almenare dilecti filii etiam Nobilis Viri Johannis Francisci Comitis Averse nato matrimonium legitime contraxerat; ipsique Gaspar et Lucretia qui nunquam illud carnali copula consumaverant, in dicto matrimonio ulterius progredi nollent, et quantum in eis fuit mutuo consensu se invicem a vinculo dicti matrimonii liberassent, prefata Lucretia nulla dicti matrimonii ad nova sponsalia contrahendum novasque nuptas celebrandas.... facta dissolutione nec aliqua dispensatione desuper obtenta sua quadam inconsulta facilitate sive alias per errorem inducta cum dilecto Filio Nobili Viro Johanni.... et pro romana Ecclesia in civitate nostra Pisauriensi in temporalibus Vicario matrimonium de facto contraxit et cum ad ejus.... permasisset, nullumque adhuc nuptiale ministerium intervenisset prout etiam dictus Johannes per certum procuratorem suum ad id ab eo specialiter.... re confessus fuit prefata Lucretia per definitivam sententiam per dilectos filios nostros Antoniotum Sancte Praxedis et Johannem Antonium sanctorum Nerei et.... Cardinales, judices et Commissarios a nobis deputatos rite latam obtinuit pretensum matrimonium inter predictos Johannem et Lucretiam contractum cum omnibus inde secutis esse nullum, ac nullas penitus vires obtinere, dictosque Johannem et Lucretiam nulliter et de facto sub pretextu matrimonii conjunctos ab invicem separandos et separari ac a mutua cohabitatione servitiis et obsequiis matrimonialibus absolvendos esse et absolvi debere declarari ipsosque separarunt, que quidem sententia nulla provocatione suspensa in rem transivit iudicatam ipsique Johannes et Lucretia veritatis conscii etiam illi aquieverunt. Nosque deinde de illis plenius informati sententiam predictam motu proprio et ex certa scientia approbavimus et confirmavimus, ac plenum firmitatis robur perpetuo obtinere decrevimus prout in nostris inde confectis litteris plenius continetur. Cum autem sicut exhibita nobis nuper pro parte dilecte Lucretie petitio continebat dictus Gaspar iam dudum etiam matrimonium cum alia muliere contraxerit illuque carnali copula consumaverit, ac exinde prolem procreaverit ipsaque Lucretia cupiat effici mater liberorum et ad scandala que exoriri possent evitanda matrimonium primum huiusmodi nunquam carnali copula inter eos consumatum [384] dissolvi pro parte ipsius Lucretie, nobis fuit humiliter supplicatum ut primum matrimonium predictum dissolvere aliasque in premissis opportune providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos igitur qui inter cunctos Christi fideles pacis amenitatem vigere et augeri nostris potissime temporibus supremis desideramus affectibus ac scandalis et dissensionibus ne eveniant quantum cum Deo possumus libenter obviamus prefatam Lucretiam a quibuscumque excommunicationis suspensionis et interdicti aliisque ecclesiasticis sententiis, censuris et penis a iure vel ab homine quavis occasione vel causa latis si quibus quomodolibet innodata existit ad effectum presentium dumtaxat consequendum, harum serie absolventes et absolutam fore censentes, nec non quodcumque juramentum per dictam Lucretiam seu ejus procuratores prefatos de huiusmodi primo matrimonio sicut prefertur contracto et non consumato observando seu consumando forsitan prestitum sibi relaxantes et quatenus propter secundum pretensum matrimonium sic contractum perjurii reatum incurrisset illam a reatu perjurii hujusmodi etiam absolventes, ac in pristinum et eum in quo antequam illud committeret quomodolibet existebat statum restituentes reponentes et plenarie reintegrantes omnemque inhabilitatis et infamie maculam sive notam per eam premissorum occasione contractam penitus abolentes; ex premissis et certis aliis nobis expositis et etiam notis causis huiusmodi supplicationibus inclinati matrimonium predictum inter eosdem Gasparem et Lucretiam sic contractum et nondum consumatum auctoritate apostolica et ex certa nostra scientia ac de apostolico potestatis plenitudine tenore presentium omnino dissolvimus, eos ab omni vinculo matrimonii penitus absolventes ac dicte Lucretie cum quocumque alio viro matrimonium libere et licite contrahendi, et in eo postquam contractum fuerit remanendi licentiam concedentes. Non obstantibus premissis ac constitutionibus et ordinationibus apostolicis ceterisque contrariis quibuscumque. Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre absolutionis restitutionis repositionis reintegrationis abolitionis dissolutionis et concessionis infringere, vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attemptare presumpserit indignationem omnipotentis Dei ac Beatorum Petri et Pauli Apostolorum ejus se noverit incursurum. Datum Rome apud Sanctum Petrum. Anno Incarnationis Dominice Millesimo quadrigentesimo nonagesimo octavo. Quarto Idus Junii, Pontificatus Nostri anno Sexto.
L. Podocatharus.
(L'originale nell'Archivio di Stato di Modena.)
[385]
20 giugno 1498.
Adsit propitius adjutor et fautor omnipotens et eternus deus cum suo unigenito filio dno nro Jesu Xpo ac individua spir. sanct. unitate in quor. nomine hec celebrantur.
Pateat oib. hoc psens pub. instrum. inspecturis qualiter anno salut. Mille CCCCLXXXXVIII pontif. Smi D. N. D. Alexandri div. prov. pp VI Jnd. pa mensis Junii die XXmo prefat. Sm d. n. ex una et Rmus ac Ill. D. Ascanius Sforza Vicecomes S. R. E. Dyacon. Card. ac Vicecancellar. et magci viri dnus Bernardus de Bernardo et Tomax' Regulanus de Neapoli sermi dni federici regis Sicilie etc. procuratores spetialr. deputati habentes ad hec plena et sufficientia mandata sicut ex public. docum. sigillis appositis dicti sermi Regis munitis in manib. mei not. traditis ac diligenter visis lectis et recognitis apparet et ipsius sermi dni Federici Regis nomine parte ex altera Concorditer devenerunt ad infrascr. pacta sponsalia et conventiones et capitula felicib. auspitiis inter eos tractata conclusa et firmata et inpresentia mei pubi. Not. et testium infrascr. ad ea convocator. et rogator, sollemniter celebrata videlicet.
Inprimis prefat. Sm. D. N. D. Alex. sext. Pont. M. soll. pactione et stipulatione interven. promisit se facturum et curaturum taliter et cum effectu quod ill. dna dna lucretia Borgia ejus neptis legit sponsalia et nuptias contrahet cum Ill. juvene dno Alfonso de Aragonia sermi quond. dni Alfonsi secundi Regis Sicilie filio ac ipsius sermi dni federici ejusd. in dic. Regno successoris nepoti et in ejus legit. matrimonium consentiet liberumq. consensum prestabit postq. personalit. pfatus Ill. dnus Alfonsus erit in urbe cum dote quatraginta milium duc. in urbe currentium ad computum decem carl. pro quolib. duc. cum infrascr. conditionib. conventionib. et modis persolvendorum.
Que quatraginta mil. duc. pref. Smus D. N. D. Alexander in opus et utilit. prefate Ill. dne lucretie dare solvere tradere et consignare promisit dicto Ill. D. Alfonso futuro marito deo concedente dicte Ill. D. Lucretie hoc modo vid. quatuormill. duc. pro dicta dote promissor. illico et incontinenti in pecunia numerata importantia pro redemptione cujusd. terre et oppidi Quarata vulgar. nuncupati quod sit et esse debeat dotalis fundus ipsius Ill. D. Lucretie dicto Ill. dno Alfonso realiter et effectualiter solvere trad. et consig. promisit.
[386]
Item alia sexdecim milia ducat. de dicta dote Idem Smus D. N. Alex. solvere et utiliter expendere et erogare promisit in emptione et comparatione alicujus status aliar. terrar. sive oppidor. sive in Regno et territorio Neapolitano sive in territorio urbis Rome vel alibi prout melius et habilius et certius poterit ad utilitatem dictor. Ill. dnorum Alfonsi et Lucretie et ad voluntat. prefati Smi dni Alexandri et Sermi Regis et Ill. D. Alfonsi prefati que oppida seu terre similiter sint et esse intelligantur dotalis fundus ejusd. ill. Dne Lucretie.
Item reliqua viginti milia ducator. usq. ad integram sum. dictor. quatraginta mil. duc. pro dicta dote promissor. dare trad. et consig. promisit id. Sm D. Alexander in gemmis lapidibq. pretiosis et anulis aureis margaritis monilib. unionib. vasis et lancib. argenteis ornamentis et vestib. tam aureis q. sericeis et aliis bonis et rebus mobilib. que secundum dignitatem et eminentiam personarum inter jocalia computari consueverunt ad dictam summam et quantit. viginti mil. similium ducator. secund. communem extimationem ascendentia.
Et ex converso prefatus Rmus et Illmus D. Cardinalis Ascanius una cum prenominatis dnis Bernardino et tomaxio procuratorib. et nuntiis per serum D. federicum Regem special destinatis et una cum pfato Rmo dno Cardle Ascanio ad hec peragendum deputati et procuratorio nomine prefati Sermi dni Regis sollemni pactione et stipul. interveniente promiserunt et convener. se facturos et curaturos realiter et cum effectu quod dict. Ill. D. Alfonsus Regis Alfonsi secundi fil. et ipsius Sermi dni federici Regis Nepos in dict. legit, matrimonium prefate Ill. dne lucretie parifirmiter consentiet cum dicta dote et pecuniis et reb. dotalib. ad dictam summam et quantitatem quatraginta milium ducator. ascendentib. ac legitimas nuptias cum ea contrahet secund. ritum et morem S. matris Ecclie.
Item dicto noie promiserunt et convener. quod ipse Sermus Rex Federicus constituet et dabit eid. Illmo dno Alfonso suo nepoti et suis futuris heredib. et successorib. per directam lineam masculinam descendentib. unum perpetuum statum cujus fruct. redit, et proventus ascendant ad valor. summar. et quantitatem octomilium ducator. similium.
Item pro implemento in parte promissor, dicto noie promiserunt et convenerunt quod dictus Sermus Rex ex nunc in ducatum eriget et constituet quandam civitatem vigiliarum latine nuncupatam et Vegelle vulgariter appellatam sitam etc. cum arce et fortellitiis ac omnib. et sing. introitib. et exitibus membris pertinentiis et adjacientiis et cum toto ejus territorio ac dominio potestate jurisdictione meroq. et mixto imperio et cum oib. usib. utilitatib. et commoditatib. intra se et extra se ad dictum oppid. ejusq. territorium spectantib. [387] et pertinentib. tam de jure quam de consuetudine et cum potestate latius extendendi.
Item promiserunt dicte Regie majestatis noie ante quam dicta sponsalia fiant dare trad. et consignare in manib. pfati Ill. D. Alfonsi sui Nepotis sollemnia et autentica privilegia et Regales lras concessionis dicti ducatus Vigelle in personam dicti Ill. D. Alfonsi cum sollenitatib. clausulis et cautelis solitis et consuetis ita quod per se et suos hrdes frui potiri et libere gauderi valeat et quod semper remaneant et sint obligata dicta oppida pro dotib. et dotalib. jurib. ipsius Ill. dne Lucretie.
Item promiserunt quod dicta sacra majest. Sermi Regis quam primum vacaverit in dicto ej. Regno Neapolitano aliquis status cuj. fructus redit, et proventus ascendant ad valor. mille aut duor. mil. vel trium aut quatuor milium ducator. computatis tamen fructibus dicti Ducatus Vigelle et Quarate illico conferre transferre et dare et consig. prefato Ill. D. Alfonso suo nepoti fruendum tenend. et fructificand. per se et suos heredes et successores et in perpetuum et similiter super his facere expediri autentica privilegia cum oib. sollennit. et cum oib. clausul. et cautelis consuetis. Et tam diu quamdiu dictum statum vel status non dederit promiserunt are eid. ac assignare et consig. in fructib. foculatione et satis usq. in summam dictor. quatuor milium ducator. si tanta quantitas deficiet in dictis reditib. et fructib. alias in ea summa et quantitate que sibi deficiet usq. ad integrum complementum redituum dictor. octomilium ducator.
Item promiserunt dicto nomine quod tempore sponsalium predictor. dict. Ill. dnus Alfonsus donabit propter nuptias pfate dne lucretie usq in summam quarte partis dotis predicte per ipsam viro premoriente si post consumatum matrimonium ipsam sine liberis ex eo matrimonio nascituris premori contigerit ad usum fructum et proprietatem et ad usufruendum tantum liberis coib. extantibus lucrandor. et acquirendor. secund. consuetudinem Romanam in urbe servari solitam.
Item solemni stipulatione et pactione interveniente convenerunt pfatus Smus D. Alexander et prenominati procuratores dicte Regie majestatis noie quod si casus mortis dicte Ill. dne Lucretie viro superstite et liberis non extantib. contingeret, quod dicta integra dos ad ipum Smum D. nrum dotantem si tunc supervixerit revertatur Alias cui ipsa Ill. dna Lucretia dederit vel commiserit.
Que quid. oia et sing. promiserunt et convenerunt mutuo et vicissim quam citius et celerius potuerint facere et adimplere et impleri et exequi et ad effectum deduci facere ad coem requisitionem et voluntatem dictar. partium vel alterius ipsar. sub obligatione et ypoteca omnium et singulor. bonor. [388] utriusq. partis et cujuslib. ipsar. mobilium et immobilium presentium et futuror. et sub fide pontificali et fide Regia et ita pref. Smus D. N. pp et Rmus D. Card. Ascanius ponendo dextras manus ad pectus in animam et conscientiam suam et in animam prefati Sermi Regis prefati autem dni Bernardinus et Tomasius procuratores layci tactis corporaliter sacris scripturis in manib. mei Notarii dicto nomine virtute dicti eor. mandati respective observare et observari facere promiserunt, et juraverunt Rogaveruntque me Notarium etc. et dederunt potextatem extendendi.
Acta fuerunt hec Rome in palatio apostolico in primo cubiculo post cameram papagalli presentib. Rdis in xpo prib. dno Luisio Epo caputaquens. et dno Johe Marades Epo tulensi et venerabili viro ano Fracº garzetto testib. ad premissa adhibitis et rogatis.
Seguono a' 21 luglio: Ratificatio pactorum et sponsalia de presenti inter Ill. dom. Alfonsum et dnam lucretiam ambo puberes, assistentib. ibid. Rmo dno Ascanio Card. et Vicecancellario et Jo. lopis Card. perusino et Jo. Borgia cardinali Valentiano in presentia mei Not.
Quindi lo stesso giorno: promissio et obligatio Rmi dni Card. Ascanii super observatione pactorum per ser. Regem. Acta fuerunt hec in palatio ap. in secunda camera nova post aulam pontificum psentib. Ris in xpo ptrib. dno Aloisio Epo caputaq. et Jo. Marades Epo Tullen. et dno (Manca il nome) Epo Interaranensi ac Magco et Excell. Armor. ductore dno Johe Cerbiglion pro testib. adhibitis, et aliis quam plurimis clarissimis personis ibidem abstantibus et predicta videntibus et audentibus.
Eodem instanti et loco et in mei notrii et testium supradictor. presentia feliciter celebrata fuerunt sollemnia sponsalia per verba vis volo legitimum consensum matrimonii importantia omnib. supranominatis adstantibus et in conspectu prefati Smi dni nri et Ror. dictor. cardinalium ensem super caput sponsi et sponse tenente prefato magco dno Johe Cerviglione milite et armor. ductore secund. ritum et antiquam consuetudinem Romanam et cum sollemni subarratione secund. consuet. Romanorum per immissionem anuli per sponsum in digito anulari imposit. me notario publico interrogante et solemniter stipulante etc. de quib. etc.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
[389]
19 dicembre 1498.
In n. D. omnip. Am. A. a. Nat. D. N. Jhu Xsti millesimo quadring. nonagesimo octavo die vero 19. mens. Dec. Ind. II. second. Rom. consuetudin. pontificatus sanct.mi D. N. D. Alexandri div. prov. ppe sexti anno septimo Constituti coram me notario et testib. infrascr. et in pntia Rmi Dni Cardlis Capuan. Honorabilis vir Dnus Alfonsus de Villaviel in leg. Baccalarius Ille dne Marie Enriques matris et tutricis Illmi dni Johannis Borgie filii pupilli quond. Illmi Dni Ducis Gandie procurator ex una, et dnus Ventura de Benassaiis clericus senen. sctimi dni nri familiaris parte ex altera concorditer asserentes secund. relat. factam per supradic. Rum D. Cardem Capuan. presentem et de speciali mandato prefati Smi D. n. ppe ut asseruit sic referentem qd. cum post casum inopinate mortis dicti Illmi dni ducis Gandie prefatus Smus d. n. pro custodia et conservatione bonor. ejusd. Ill. quond. ducis et ne ad alienas manus venirent aurum omne et argentum monilia et ornamenta et tapeta et tapezariam que reperta sunt in bonis ejusd. diligenter annotari et in inventario describi jusserit et dicta oia. bona in auro et argento et jocalibus consistentia per probos et peritos viros ponderari et estimari fecerit videl. per magistrum Bartolomeum Venetum et Ambrosium Mantica Genuen. Gioiellerios et per magistrum Sanctum Aurificem Romanum et reperta fuerunt oia secundum eor. peritiam valoris et cois extimationis ducat. auri in auro triginta milium computatis omnib. bonis etiam in tapezaria et in rebus aliis consistentib., que in totum faciunt et constituunt summam valoris Triginta mill. ducator. auri in auro de Camera, dictaq. oia et singula bona sic extimata prefatus sus D. n. ppa pro maiori utilitate dicti Illmi dni Johannis Borgie filii pupilli ac universalis heredis dicti Illi. quond. dni Ducis ne forte in aliqua parte consumerentur aut deteriorentur seu perderentur tradiderit et consignaverit pro dicto precio triginta milium duc. Rmo in xro pri dno Cesari tunc Carli Valentino patruo dicti pupilli et pro ipsius pupilli maiori utilitate et ut in comparatione bonorum stabilium vel aliis rebus utiliter convertantur in eundem transtulerit. Et postmodum pfata Ill. dna Maria Enriques Ducissa tutrix et mater dicti pupilli ad urben et Roman. Curiam et ad prefatum Sum D. n. Ppam destinavit prefatum dn. Alfonsum de Villaviel special. nuncium ac procuratorem ad negocia [390] dicti pupilli peragenda ac specialiter ad suscipiendam curam dictor. bonor. et inventarium faciend. et alia peragenda que in his necessaria fuerint et opportuna sicut apparet manu Ludovici erari publici Valent. Not. et sicut asseruit pro negociis necessariis dicti pupilli ad pns indigeat habere de dicta summa duc. quinque millia ad dictam matrem transmittendos. Idcirco prefat. Smus D. n. noie prefati dudum dni Carlis et nunc ducis Valentin. pro parte precii dictor. bonor. realiter et in prompta et numerata pecunia et in duc. auri in auro solvi tradi et consignari fecerit et mandaverit per man. prefati dni Venture de Benassaiis dictam summam quinque millium ducator. auri in auro de Cama destinandam per litteras cambii ad civitat. Valentin. et solvend. dicte Ill. dne marie tutrici ac curatorio noie dicti pupilli cum hac tamen conditione, qd oia gesta per dict. ejus procuratorem quo supra nomine ac dictam solutionem et receptionem dictor. 5000 ducat. auri in auro necnon et dictam bonor. extimation. et consignation, per smum D. n. factam et alia uti prefertur gesta in predictis et circa predicta ratificentur per ipsam Illam dnam tutricem et de dictor. 5000 ducat. parte precii triginta millium ducat. solutis et receptis plenam et generalem et specialem faciat quietantiam per acta procur. Notarii. Et Ideo dictus procurator confessus fuit et in veritate recognovit se habuisse et recepisse in prompta et numerata pecunia dictam integram summam dictor. 5000 ducator. ex causa supra expressa post quam quid. confessionem et realem solutionem et receptionem se ultra officium procurationis etiam principalit. obligando de rato et ratihabitione pro dicta Illma Dna Tutrice promisit se facturum etc.
Acta fuerunt hec Rome in palacio aplico in camera prope cameram papagalii presentibus Ris patrib. dnis Johanne Marades Epo segobricen. et Dno Francesco Epo Interamnien.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
2 aprile 1499.
Adsit propitius adjutor et fautor omnipotens et dominus deus noster et ad vota benignus descendat. Pateat oib. hoc instr... qualiter a. sal. 1499 Ind. scda die vero mens. aprilis II. pont. S. D. N. Dni Alex. div. prov. pape VI. magcus et generosus vir dnus Ursinus de Ursinis pater et legitimus administrator dne Laure ejus legitime et nalis filie etatis [391] septem annor. existentis presentis... cum assistentia Rmi dni Alexdri tti. S. Cosma et Dam. diaconi Carlis de Farnesio... avunculi dictae puellae... ex una parte, et Rdus pr dnus Paulus Petrus etiam de Farnesio sed. ap. protonotar. patruus et conjuncta persona magci ac generosi pueri dni Federici quond. exmi armor. ductoris dni Raimundi de Farnesio legitimi et naturalis filii in XIImo sue etatis anno constituti pro quo promisit quod infra mensem ratificabit contractum et instrumentum matrimonii... Acta fuer. hec in urbe in cam. paramentor. domus prefati Rmi dni Carlis Farnesii presentibus... his testib. vid. Rdº patre dno Laurentio de puccis sed. ap. proth.º et correctore bullar. et dno prospero de Gatteschis de Viterbio dno herculano petricotti de Marta Magro Jacobo Philippi alias cognominato Aristofalo medico phisico etiam viterbien. dno Jacobo Rufin. de Rufinis milite Jerosolimitano dno Vinantio de Brigidis et dno Cornelio benigno ambobus de viterbio ad pdicta specialiter vocatis rogatis et adhibitis.
Ego Camillus Beneimbene de premissis rogatus malus impeditus per alium michi fidum ac domesticum Notum scribi feci ac propria manu subscripsi pro fide premissorum.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
7 febbraio 1500.
J. C.
Cum sit quod ego Jacobus Caitanus Sermineti ad pres. detineor in castro Sti Angeli ed ut dicitur, seu ut pretenditur, sim ex pretensis delictis que per me commissa fuisse etiam dicitur seu pretenditur, condemnatus ut reus lese maj., et quod debeam tradi curie seculari; egoque sciam me innocentem saltem quoad penam hanc, sicque me plus quam injuste fuisse condemnatum. Et quia semper dixi me sperare in misericordia et clementia dni nri. Sanctmi, pro ut vere sperabam, quod attenta qualitate rei et justificationibus meis satis pro maxima pena me tenuisse in dicto castro per duos menses, eaque spe fretus non aliter me defenderim, sed putaverim ea lenitate verborum reducere Dnum N. Smum ad justitiam, eaque etiam spe fretus multa contra veritatem fuerim confessus, que ex metu carceris et tormentor. comminatorum immo mihi etiam datorum et per me passorum confiteri fui coactus. Ac etiam quia non videbam postquam eram statu et oibus bonis denudatus, quomodo potuissem [392] quoquomodo considerabiliter et cum effectu me juvare, consideratis etiam aliquibus, que nunc sum contentus silentio preterire, et que intendo latius suo tempore prosequi et specificare. Nuncque post hujusmodi pretensam sententiam idem nedum nullam esse clementiam in praefato D. Nro. Smo, immo me contra Deum et justitiam, ut dixi eo modo, quo supra, condemnatum consideremque etiam quod non alias appellare, et hujusmodi appellationem committi petere promptum periculum esset, ne contra Deum et justitiam in statu et contra statum causa non cognita ab initio facta exstitit, hinc est quod his oibus mature, et ut potui consideratis duxi consultius fore simpliciter in his scriptis, et ut infra potui appellare quam aliter agere: propterea igitur hodie scilicet die quarta Februarii 1500 oibus meliorib. formis viis et modis quib. melius et validius possumet debeo ab hujusmodi pretensa sententia et oibus inde sequutis, tam ad eumdem Dnum N. Smum et quatenus etiam opus sit ad futurum Pontem ad sacr. Concilium, si quod unquam fiet appello, deque predicte pretense sententie, totiusque processus desuper facti et habiti omniumq., et singulor., post et contra appellationem hujusmodi factorum, seu faciendorum, multiplici nullitate dico et protestor protestatione quod quamprimum dabitur facultas hujusmodi appellationem et nullitatem prosequendi, eam prosequar et nunc per presentem rogo te Joannem Stagliam, seu Jacobum Balduinum, separatim unum sine alio, quatenus his receptis coram Notario pubco et testib. hujusm. appellationem nomine meo interponas, ac de nullitate dicas cum totali insertione presentis cedule in instrumento desuerfaciendo. Et si hujusmodi appellatio seu de nullitate prpo testatio non est melius composita, non est quia non videam sententiam esse iniquissimam et nullissimam, easque prosequi sic suo tempore, ut dixi, intenderim, sed quia temeo, ut prefertur, et sum nedum sine notario et testibus, sed penitus sine alicujus consilio doque etiam uni ex supradictis per presentem facultatem sine tam prejudicio presentis appellationis et nullitatis protestationis. Iterum quatenus uni ex predictis videatur appellandi de nullitate dicendi, ac omnia agendi que in premissis et circha premissa, alteri ex supradictis videbuntur et opportuna cum plena et libera potestate.
Ego Petrus de Aretio habui in manib. presentem cedulam ista die settima mensis Februarii 1500 et ad memoriam me subscripsi manu propria.
Ego Ludovicus Zephyrus de Lugnano etc. habui presentem cedulam et legi ista die septima Febr. 1500 et ad memoriam me subscripsi manu ppa.
Die 7. Februarii.
Presentib. venerabil. viris dominis Jacobo Ruffino milite [393] Hierosol., ac Domº Petro de Aretio (coram procur. etc.) et Domº Ludovico Zephiro clerico Amerine dioces. testibus.
(Archivio di Casa Gaetani in Roma.)
Assisi, 21 marzo 1500.
Illme Princeps et Exme Dne frater honme Essendomi a questi giorni partita da Urbino e messomi in cammino per andare a Roma per conseguire el iubileo, come de questa mia andata ne ho advisata più giorni fa V. Exa Retrovandomi hogi ad Asisi ho receuta una lettera de quella per la qual havendo visto quanto la me scrive, mi persuade e stringe a volere desistere da questa andata existimando forsi quella che io anchor non mi fossi messa in camino, della qual cosa ne ho ricevuto grandissima displicentia et immenso affanno, volendo da un canto si in questa come in qualunque altra cosa cedere et essere hobedientisa ad ogni volere de V. Illma S. quale di continuo ho avuto et ho non altrimenti che in loco de honormo patre, non essendo mai stato mio animo ne pensiero se non de concurrere ad ogni sua voglia. Dalaltra parte retrovandomi come ho dicto in viaggio et gia fora del stato, et havendo per il mezzo del S. Fabritio et de Ma Agnesina mia hondda cognata et sorella provisto in Roma de casa et de ogni altra cosa necessaria a tal andata e certificatoli dovermi retrovare a Marino fra quattro giorni, e per questo venutosene el S. Fabritio in ante per farmi compagnia essendo etiam qualche fama de questa mia partita e andata non vedo con honore del S. mio e mio potermi ritrare da questa andata essendo la cosa tanto avanti et tanto maggiormente quanto ad ciò io so processa con bona conteza et volonta del S. mio predicto, havendo ben prima considerato ogni cosa, ne la S. V. deve de questa mia andata pigliare alcun affanno o suspitione de animo, perchè ad ciò la sia del tucto informata la intenderà come prima io me ne vo a Marino e deli poi me ne vo con la predta Ma Agnesina incognita a Roma per far la debita visitatione dele chiese ordinate a conseguire questo Sancto Jubileo, non havendo ademostrarmi ne pur parlare cum persona veruna stando alogiata per el tempo starò a Roma nela casa fo del Cardile Savello. Casa buona convenientissa questo mio desiderio e in mezo deli partegiani de Colonesi, benche [394] lanimo mio per la magior parte del tempo sia retornare e stare a Marino. Sicchè V. S. deve senza alcun dubio contentarsi de questa mia andata, ne di ciò pigliarne dispiacere alchuno, e quantunque tucte queste ragioni siano efficacissime ad indurmi non solo a continuare el mio viaggio, ma etiam a principiarlo quando io non fussi partita, tutavolta se io me ritrovasse de non essere partita non per verun dubio o disturbo che io cognosca poter nascere di epsa mia andata ma per satisfare al scrivere de V. S. la qual desidero in ogni cosa poter satisfare haveria revocato lanimo mio da tal andata, e non processo più ultra, ma ritrovandomi dove io so e veduto havera V. Exa questo mio scrivere so certa la resterà contenta delo andar mio, che così ne la pregho e supco la voglia contentarse, e perche io possa con più contentezza e satisfatione de animo pigliare questo jubileo significarmi per una sua directiva a Roma esser così che la se ne contenti. Altramente ne starò in continua agonia e affanno, et in bona gratia de V. Exa mi recomando. Asisij XXI. Martij 1500. De la S. V. minore sorella Elisabetta.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Roma, 24 maggio 1500.
Illme et Excellme Dne. tamquam fr. hon. Non con minore exultatione inteso havemo per lettere de V. Extia la desiderata et felice natività del suo Ill. figliolo: che se altretanto inteso havessamo de uno nro proprio; Como desiderosissimi de qualunque augmento et felice successo de quella per la strecta et fraterna benivolentia li portamo: volentieri adunque acceptamo desserne compatre: et ad tale effecto per la presente constituimo nro speciale procuratore: quello che la S. V. eligera deli soy conseglieri: el quale per nuy Intervenga ad levarlo de le sacre fonti: Pregamo N. Sor Dio cel conservi ad effecto de nri comuni desiderij: Et la Va Illma S. non se gravi congratularsene per nuy, conla Excellma sua Consorte: la quale speramo havera dato principio ad numerosa prole et perpetua posterita de ambidui si clarissimi et generosi Parenti. Rome in Palatio aplico XXIIII Maij MCCCCC.
Cesar Borgia de Francia Dux Valent. ac S. R. E. Confalonerius et capit. gnalis
Agapytus.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
[395]
P. quid mors seva petis. M. te. P. me quo jure. M. quod hora en properat. P. quid ais. M. parcaque fila secat.
P. heu mihi. M. quid luges? P. parum vixisse. M. videtur omnib. at nimium. P. cur rogo. M. quod malus es.
P. dic quid queso mali comisi? M. causa fuisti quod prede Gallis Itala Terra fiat. Non hoc parum. P. invitus feci non sponte: necesse sed fecisse fuit. M. Jam satis est morerer.
P. hoc numquid solum cogit me Tartara adire. M. non fas esse tibi quod scelus omne putas.
P. quod scelus heu miserum. M. solitus quod rendere cuncta per fas atque nephas. P. penitet. M. hoc nihil est.
P. seva nimis cur hoc nihil est. M. in funere quando haud prodest aliquem penituisse mali.
P. Julia me miserum cur non defendis: amavi si te corde magis. M. digna lenone satis. Nunc morerer et te non defendet Julia: neque enixa est utero terque quaterque tibi.
P. Da saltem ante obitum. M. Garris. P. concede rogatis hoc unum. M. insanis. P. hoc. M. citius morere.
P. hoc. M. cedo. P. ut peream illius susceptus in ulnis que modo ab hispania vecta puella mihi est.
M. hec est illa senem que te sine fine coegit insanire furor: non amor hem morere.
P. ergo mihi moriendum est. M. est. P. qua morte.
M. peribis febre gravi: qua nunc languida membra jacent.
P. febre cadam. M. sic est. P. fugias. M. cur. P. stulta putas ne ut qui non perii fulmine: febre cadam.
(Marin Sanuto, Diar., vol. III, fol. 209.)
1. Mandatum Substitutionis R.mi d.ni Cardinalis Ulisbonensis.
25 agosto 1500.
Il cardinale di Lisbona si presenta qual procurator Illi Dni Johannis de Ruvere urbis prefecti ac Illustris Dn [396] Francisci Marie ejus filii... certam habens scientiam de Instrumentis ratificationum factarum per ipsum Ill. Dn. prefectum pro se et filii nomine super contractu sponsalium contractorum inter ipsum R.um Car.lem ac egregium v. Jur. Doctorem Dn. Gabrielem de Gabrielis de Fano procuratores ejusd. Ill.i Dni prefecti pro se et filii nomine agentes ex una, et prefatum S. D. N. Papam ac Ill. D. Rodericum de Borgia germanum fratrem Illis D. Angele de Borgia et eo nomine agentes parte ex altera..... Non valens ipse R. D. Car.lis propter ejus egritudinem personaliter interesse... ad predicta omnia et singula explendum.... substituit h. v. D. Laurentium Burcarium civ. Romanum....
Acta fuerunt hec Rome in antecamera prefati R.mi D. Car.lis que est ad sinistram post aulam magnam presentibus D. Adoardo Borgia penitentiario et D. Luca de Scitt ad prescissa adhibitis et convocatis.
2. Sponsalia Ill. D. Francisci Marie prefecti orbis filii et D. Angele Borgie Neptis Dni Pape.
2 settembre 1500.
È una promessa solenne di matrimonio con la formola: vis, volo, mediante procura.
Acta fuerunt hec Rome in palatio Ap.co in secunda camera nova post aulam pontificum presentibus R.dis patrib. D. Roberto Giube Ep. Treiocen. D. Ludovico de villa nova et D. Trasu (sic!) xpian. Regis francor. oratoribus et procuratorib. D. Francisco Borgia Ep. Teanens. D. N. Pp. prefati Tesaurario D. Adriano clerico cam. ap. et secretario et D. Trocio ejusd. D. N. Camº testibus ad premissa et infrascripta adhibitis et rogatis.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene)
Bologna, 17 ottobre 1500.
Illme et exme Dne et cognate honme la Exa V. hara inteso como domenica matina el populo de pesaro per subornatione de quatro giotti se levo in arme: et fomi forza redurre in roccha, con pochi de li mei al meglio chio puote: Dove persentendo le gente nimiche vicinarse ad mi: e messer hercule bentivoglio quale era ad arimino farsi inanti: per non essere [397] serato drento: con consiglio: con opera: et con favore de Jacomo Albanese me parti la nocte de rocha: et son gioncto qua a salvamtu dopo una malissima via: et peximi passi: De che io ne ho obligo prima alla exa V. che me mando dicto Jacomo: et poi a luy che me haby si ben conducto ad salvamto: Jo non ho anche deliberato quello mi voglia fare: ma se fra quatro di non vengo da la Exa V. mandaro a quella el dicto Jacomo, quale gli dira el successo del tutto: et la mente mia: In questo mezo ho voluto che la sapii de la gionta mia ad salvamento: et ad quella me racomm. Bononie 17. Oct. 1500.
Ex. V. cognatus et sor Joannes sfortia de araga comes Cotignole, pisauri etc.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Pesaro, 29 ottobre 1500.
Illustrissimo Signor mio: Fui in dui di e mezzo in Pesaro, poichè parti da V. Sa Imperocchè Martedi circa le 24. hore gionxi. Et in quella hora appunto el Duca Valentino facea la intrata; et tutto il popolo era alla porta, e con una gran piova lo ricevettono, e li presentarono le chiave de la terra, et allogiò in corte ne la camera del quondam Sigr Giohanne. Fece la entrata molto solemne (per quanto mi riferirono questi mei che v'erano) e con grande ordine e numeroso de cavalli e de fanti della guardia sua. — Jo la sera medesima li feci intendere la venuta mia, expectando audientia ad ogni comodità de Sua Sigria. Circa due hore de nocte me mandò El Sr. Ramiro e el magiordomo a visitare e intendere con molto honorevole parole e se io era bene allogiato, e se me mancava cosa alcuna in tanta moltitudine con dirme ch'io posasse, chel di seguente me ascoltaria. Mercore matina a bona hora me mandò a presentare un gran sacco de orzo, una soma de vino, un castrone, 8. para de caponi e galline, due gran torce; due mazzi de' candelotti, et due scattole de confecti, con honorevole ambassata. Ne mi dette però audientia se bene mandasse a fare escusa, e chio non me maravigliasse. La casone fu perchè se leva de lecto a le 20. hore, e levato desina. Andò poi in Roccha, e li stette insino a nocte e tornò stracco per un tincone, overo Ango chel ha.
Hoggi commo hebbe desinato che era circa le 22. hore, me fece introdurre per el Sig. Ramiro; e con molta dimestichezza et optima cera, per la prima comenzò Sua Sigria a [398] fare excusa de non me havere potuto odire heri, per le occupatione in la roccha, e per la indispositione de quel suo tencone. Passati questi primi rasonamenti: havendo io restrecto l'ambassata mia, in recomandare, visitare, congratulare, ringratiare e offerire Sua Sa (quale veramente molto ben compone sue parole) a parte, a parte e comodissimamente respose: dicendo in summa, che cognosciuta la prudentia e bontà de Va. Sia. lui sempre ne ha amato et havuto desiderio haver pratica con Va. Exa. Et che quando Ella fu a Milano, Sua Sa ne hebbe voglia; ma quel tempo et quelle facende che alhora correvano, nol permisero. E che hora chel veniva a le bande de qua, seguitando pur questo suo desiderio, per un principio e demostratione del animo suo, e per demonstrarni che ve era figliolo, se era messo a scriverni quella lettera de progressi soi, tenendo certo che Sa Sa ne havesse ad haver piacere. Et chel simile faria anchor per lo advenire! perchè desiderava haver più intrinseca amicitia con la Exa. Va. Et a quella offeriva ogni sua facoltà e tutto quello poteva, et che in ogni occurrentia Va Sia ne vederia li effecti. Et che io lo raccomandassi assai a quella, perchè ve haveria per fratre. Rengratiando anchor Va. Sia. de la resposta haveti fatto per lettera, e del haver mandato homo a posta, dicendo che veramente non bisognava: che etiam senza questo lui havea per certissimo che Va. Sigria. dogni suo bene ne haveria vivo piacere. Infine ne migliori ne più acconce parole haria potuto dire, quanto dixe: Sempre nominando Vuj per fratre et se per figliolo.
Et io per mi raccogliendo la cosa e le parole sue tutte, comprendo chel haria charo havere qualche pratica con Va. Sa. et haver bona amicitia. Credo bene ali soi propositi: Tuttavia io non so raccogliere altro che bene. — Questa mandata che ha facto V. Sa. de un suo homo li e stata acceptissima e son informato chello lha scripta al Papa: e con questi soi ne ha parlato in modo che ha dimostrato farne gran caso et extimarla assai. — Dopo alcune breve risposte e repliche hincinde, per le quali io li diceva che non sapea se non commendar la prudentia de Sua Signoria a tenere questa via con Va. Exa. per le conditioni nostre e del stato nostro, le quali cose non poteano se non essere a proposito suo, me lo confirmava molto efficacemente; demonstrando intenderlo molto bene; e così in rasonamenti spezzati intrammo a parlare di Faenza: Sua Sigia. me dixe. Io non so quello vorrà fare Faenza: hella ce vorrà dar poca faticha, come han fatto queste altre! opure vorrà far prova de tenerse. Li dixi chio credeva che feria como queste altre; pur quando non lo facesse, non era se non ad honore de Sua Sigia che daria occasione de poter mostrare la Virtu et Valor suo nell'expugnarla. [399] Demonstrò haverlo caro; con opinione de combatterla aspramente. De Bologna non accadette rasonamento. Hebbe care le ambassate de recomandatione chio feci de Vostri de parte del Sig. Don Alfonso e del Cardinale, e sopra tutto del Cardinale del quale dixe tanto bene, e mostrò amarlo tanto che non potea satiar de dirne.
Così stati inseme una grossa mezza hora, tolsi licentia, et Sua Sigia montò a cavallo et essi levato de qui: va questa sera a Gradara: Domane andarà ad Arimino, e seguitarà el suo viaggio, et ha tutta la gente et artiglieria con se. Et per altro non va così lenta (la qual cosa anchor lui me dixe) se non perchè non vol partirse dal artiglieria.
In questa terra sonno alloggiate 2 m. persone o più: non han facto damno notabile. El contà è stato tutto pieno de soldati: non sapemo ancor se ha facto gran damno. A la terra non ha concesso privilegio ne exemptione alcuna: Glie lassa un doctor Forlivese locotenente. De la Rocca ha levato 70. pezzi de artiglieria; ne li ha lassato gran guardia.
Dirò una cosa a V. Sia de la quale ho più riscontri: ma per expressa me lha dicta un Cavaliere portugalese soldato del Duca Valentino, che è alloggiato qui in casa ove son io de mio genero con 15. cavalli, et è homo molto da bene, et amico del Sigr Don Ferrando nostro, perchè stette col Re Carlo: Dicono che questa terra el papa la dà per dote a Madonna Lucretia; et dalli marito uno Italiano che serà sempre bono amico de Valenza. Sel sia vero non so: cosi se tene.
De Phano; el Duca non lha havuto: gliè stato dentro cinque di: Lui non l'ha domandato! ne li citadini gliel hanno dato: Suo è, e suo sarà se lo vorrà: Dicono loro, chel Papa li commisse, che de Phano non se impacciasse se li cittadini proprij non lo dimandavano: così son rimasti nel stato che erano.
Omissis.
La vita del Duca è questa: Va a lecto a 8. 9. e 10. hore de nocte: l'altro di poi, le 18. hore son l'alba, le 19. el levar del sole; le 20. son di facto: Levato subito va a tavola: et li e depoi fa facende: Tenuto animoso, e gagliardo e liberale: et che tenga bon conto de homini da bene. Aspro in le vendette: cosi ho informatione da molti. Animo vasto et cerca grandezza e fama, par che curi più lo acquistar de stati, che stabilirli e ordinarli.
Omissis.
Pisauri die Jovis 29. Octobris hora 6. noctis 1500.
Illustrissime Ducalis Dominationis Vestre
Servus Pandulphus.
[400]
Compagnia del Duca
Bartholomeo de Capranica Maestro del Campo | Tutti Gentilhomini Romani |
Piero Sancta Croce | |
Julio Alberino | |
Mario don Marian de Stephano | |
Un suo fratello | |
Monico Sanguigni | |
Jo. Baptista Mancini | |
Dorio Savello |
In Casa del Duca homini de Conto.
Vescovo di Elna | Spagnoli. |
Vescovo di Sancta Sista | |
Vescovo di Trani, Italiano. | |
Un Abbate Napoletano. | |
El Sigr. Ramiro del Orca Governatore. Questo fa tutto. | |
Don Hieronymo Portugallese. | |
Messer Agabito da Amelia Secretario. | |
Mesr. Alexandro Spannocchia Thesaurero, quale ha dicto chel Duca ha de spesa ordinaria fin qui 1800. Ducati el di, poichè partì da Roma. |
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 13 luglio 1501.
Dilecti filii Salutem et ap. ben. Proficiscitur isthuc dilecta in Ch. filia, nobilis mulier Catherina Sfortia: quam cum aliquandiu, ut nostis, ex certis rationabilibus causis detineri fecerimus, gratiose postea liberavimus, et quia pro nra consuetudine et pastorali officio non solum cum eadem Catherina clementia usi sumus, sed quantum cum Deo possumus ipsius etiam commodis paterna benignitate consulere cupimus, scribendum vobis duximus, ipsam Catharinam devotioni vre non mediocriter commendantes: ut sicut ipsa benevolentia nra summopere freta, isthuc tamquam in propriam patriam se recipit, sua spe nris etiam additis commendationibus non frustretur. Erit igitur nobis gratissimum, si intellexerimus illam pro ejus erga istam civitatem observantiam, nro etiam intuitu benigne a vobis susceptam et tractam esse. Dat. Rome ap. S. Petr. sub anulo Piscatoris die XIII. Julii MCCCCCI. Pont. nri. a. nono.
Hadrianus.
(Archiv. Florent. Reform. Atti pubblici, n. 237.)
[401]
1º settembre 1501.
Alexander Episcopus Servus Servorum Dei Dilecto Filio Nobili Joanni de Borgia Infanti Romano Salutem et Apostolicam Benedictionem.
Illegitime genitos ex quorum verisimilibus infantilis etatis inditiis spes concipi potest quod succedentibus annis se in viros debeant producere virtuosos quosque progenitorum suorum preclara merita et ortus generosa propago decorant, nature vicium minime decolorat, quia decus virtutum geniture maculam abstergit in filiis et pudicitia morum pudor originis aboletur. Attendentes igitur quod sicut indubie credimus et habet fide dignorum assertio tu qui ut creditur defectum natalium pateris de dilecto filio nobili viro Cesare Borgia de Francia Romandiole et Valentie Duce soluto ad presens gentium nostrarum et Sancte Romane Ecclesie Armigerarum Capitaneo et Confalonerio generali genitus et soluta et in tertio vel circa tue etatis anno constitutus existis defectum predictum succedentibus tibi annis honestate morum et vite aliisque probitatis et virtutum meritis multipliciter recompensabis redimens favore virtutum quod in te ortus odiosus ademit, et propterea volentes te premissorum intuitu favore prosequi gratie spetialis motu proprio non ad tuam vel alterius pro te nobis super hoc oblate petitionis instantiam, sed de nostra mera liberalitate et ex certa scientia ac de apostolice potestatis plenitudine tecum ut in quibuscunque Civitatibus, Dominiis, Ducatibus, Comitatibus, Baroniis, Terris Castris, Oppidis, Locis, Palatiis, domibus, possessionibus aliisve bonis ac juribus omnibus prefati Cesaris Ducis eiusque fratris et sororis, ac parentum, agnatorum cognatorum consanguineorum affinium tuorum et aliorum quorumcumque cuiuscumque qualitatis quantitatis denominationis valoris et pretii etiam quantumcumque notabilis et maximi fuerint etiamsi eisdem Cesari Duci fratri sorori suis parentibus, agnatis, consanguineis et affinibus vel eorum progenitoribus et aliis quibuscumque pro se et descendentibus legitimis et naturalibus in perpetuum vel ad tempus aut in certam generationem a Romana vel aliis Ecclesiis Monasteriis locis ac personis Ecclesiasticis secularibus vel regularibus in vicariatum feudum censuale seu nobile antiquum paternum et avitum seu retrofeudum, vel in emphiteosim aut livellum locationem seu censum aut alias quomodolibet concessa forent et in posterum [402] concederentur aut a progenitoribus prefatis eisdem Cesari Duci fratri sorori suis parentibus agnatis cognatis consanguineis, et affinibus ac aliis quibuscumque donata relicta vel legata aut alias concessa seu hereditate fideicommisse vel alio quovis titulo in eos etiam cum prohibitione quod ad illegitimos devenire non possint translata existerent et transferentur seu concederentur in futurum tam ex testamento quam ab intestato absque tamen preiuditio illorum qui si Cesar Dux frater soror eius parentes, agnati cognati consanguinei et affines predicti intestati decederent succedere deberent succedere (sic), et ad illa ac quocumque alia similia vel dissimilia fideicommisse legati donationis inter vivos causa mortis aut quovis alio titulo quo etiam a nobis et sede apostolica in posterum illa tibi concedi, dari et donari quovis modo contigerit devenire eaque recipere consequi habere possidere et retinere ac in eisdem civitatibus dominiis Ducatibus Comitatibus Baroniis Terris Castris Oppidis atque locis Vicarii feudatarii et superioris in illis nomine jurisdictione imperio preeminentia honore et auctoritate fungi et potiri ac de eisdem civitatibus dominiis Ducatibus Comitatibus Baroniis Castris Oppidis Terris locis iuribus palatiis domibus possessionibus atque bonis disponere et in illis successores et heredes habere, ac ad honores dignitates Magistratus et offitia quecumque secularia publica et privata eligi recipi et assumi illaque et quoscumque actus legitimos cuiuscumque qualitatis et denominationis fuerint gerere et exercere ac de agnatione Cesaris Ducis et de familia de Borgia huiusmodi esse censeri et nominari ac nobilitate insignibus armis privilegiis concessionibus iuribus indultis libertatibus prerogativis et preeminentiis quibus legitime geniti de familia predicta utuntur potiuntur et gaudent ac uti potiri et gaudere poterunt quomodolibet in futurum utri potiri et gaudere libere ac licite ac efficaciter possis et debeas, tuque et Cesar Dux frater soror eius agnati cognati consanguinei et affines prefati invicem agnati cognati consanguinei et affines vere et omni prorsus fictione cessante quoad omnes iuris comunis et municipalis concessionumque predictarum, et alias quoscumque plenissimos effectus sitis in omnibus et per omnia et sine ulla prorsus differentia perinde ac si de legitimo Thoro procreatus fores auctoritate Apostolica tenore presentium de spetialis dono gratie dispensamus tibique pariter indulgemus teque quoad premissa omnia et quecumque ac qualiacumque alia eisdem motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine legitimamus ac vere ingenuitati et justis natalibus plenissime et etiam efficacissime motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine similibus omnino restituimus et reintegramus ac legitimatum et vere ingenuitati justisque natalibus huiusmodi plenissime et etiam efficacissime [403] omnino restitutam et reintegratum decernimus ac nuntiamus per presentes tibique ut in omnibus et singulis per te de cetero a nobis et sede predicta et Legatis eiusdem seu alias quomodolibet impetrationibus indultis gratiis concessionibus privilegiis libertatibus immunitatibus exemptionibus dispensationibus et litteris obtinendis seu alias concedendis gratiam et justitiam aut utrumque mixtim concernentibus nullam de defectu et dispensatione huiusmodi mentionem facere tenearis nec gratie et litere desuper conficiende propterea de surreptionis obreptionis et nullitatis vitio aut intentionis defectu notari possint sed perinde valeant plenamque roboris firmitatem obtineant et tibi suffragentur in omnibus et per omnia ac si de defectu et dispensatione predictis plena et expressa mentio facta fuisset eisdem motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine concedimus. Et nihilominus Cesari Duci fratri sorori suis agnatis cognatis consanguineis affinibus et aliis quibuscumque de Civitatibus Dominiis Ducatibus Comitatibus Baroniis Terris Castris oppidis et locis iuribus Palatiis domibus possessionibus ac bonis omnibus ad eos ex successione parentum, agnatorum, consanguineorum et affinium suorum ac alias quomodolibet legitime nunc et pro tempora pertinentibus in favorem tui testandi et de illis alias pro eorum libito voluntatis disponendi, illaque inter vivos et causa mortis tibi donandi ac alias prout eis videbitur et placebit concedendi paribus motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine plenam liberam et omnimodam licentiam potestatem et facultatem elargimur decernentes quas fieri contigerit tibi donationes huiusmodi de predictis omnibus et quibuslibet aliis bonis tam a Cesare Duce fratre sorore suis agnatis cognatis consanguineis et affinibus prefatis quam aliis quibuscumque etiam a nobis et sede prefata que de iure aut ex forma statutorum Urbis aut aliorum locorum insinuationum seu aliam solemnitatem per statuta ipsa ultra iuris formam adinventam exigerent absque insinuatione et solemnitate huiusmodi validas et efficaces fore et observari debere in omnibus et per omnia perinde ac si donationes ipse insinuatione et solemnitatibus debitis et requisitis intervenientibus et alias legitime fierent et facta fuissent ac presentes si ullo unquam tempore forsan dubitari et tibi opponi contingeret te forsan dictum defectum de alio quam Duce prefato pati quem etiam quocumque modo et quacumque alia persona ecclesiastica vel seculari etiam cuiuscumque dignitatis et excellentie mundane vel Ecclesiastice etiam supreme, etiam tali quod de illa spetialis specifica et expressa mentio habenda illaque omnino speciali nota digna foret alioquin presentium totaliter periret effectus, illum patiaris vel pati dici posses ad omne dubium submovendum ac cavillationes evitandas quietique tue consulendum [404] eisdem motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine haberi volumus pro plenissime et sufficienter expresso eam vim eumdemque vigorem et effectum omnino consequi et sortiri tibique suffragari debere ac si dictus defectus quicumque fuerit et esse dici posset alias specifice et plenissime expressus fuisset ipsasque presentes ad probandum etiam plenissime defectum predictum quomodocumque et undecumque proveniat ut prefertur in judicio et extra ac alias ubilibet etiam plenissime sufficere, nec ad id probationis alterius adminiculum requiri. Sicque per quoscumque Judices et Commissarios etiam Sancte Romane Ecclesie Cardinales ac causarum Palatii Apostolici Auditores in quacumque instantia sublata eis et cuilibet eorum quavis alia interpretandi facultate sententiari deffiniri et judicari debere irritum quoque et inane si secus super hiis a quoquam quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigerit attemptari. Non ostantibus defectu et aliis premissis ac constitutionibus et ordinationibus Apostolicis legibus quoque Imperialibus et dicte urbis nec non Civitatum et locorum aliorum municipalibus statutis et consuetudinibus etiam iuramento confirmatione Apostolica vel quavis firmitate alia roboratis editis et edendis etiam insinuationem et alias solemnitates huiusmodi exigentibus et quibus caveretur expresse quod illegitimi succedere non possent et que etiam Cesar Dux frater soror sui agnati cognati consanguinei et affines prefati observare iurassent et iurarent in posterum que quidem iuramenta eis quoad hoc relaxamus nec non textatorum et donantium ac aliorum quorumlibet prohibitionibus quodque Vicariatuum Feudorum in emphiteosim censum locationem et livellum concessiones huiusmodi pro vere et non ficte legitime descendentibus et genitis dumtaxat emanaverint atque processerint ac emanarent et procederent in futurum, quibus omnibus etiam si de illis eorumque totis tenoribus pro illorum sufficienti derogatione spetialis specifica expressa individua ac de verbo ad verbum non autem per generales clausulas et importantes mentio seu quevis alia expressio habenda foret et in eis caveretur expresse quod illis nullatenus posset derogari tenores huiusmodi presentibus pro sufficienter ac de verbo ad verbum expressis et insertis habentes illis alias in suo robore permansuris quoad premissa eisdem motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine spetialiter et expresse omnino derogamus et derogatum esse volumus ceterisque contrariis quibuscumque. Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre dispensationis indulti legitimationis restitutionis reintegrationis nuntiationis concessionis elargitionis decreti voluntatis relaxationis et derogationis infringere vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attemptare presumpserit indignationem omnipotentis [405] Dei ac Beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum. Datum Rome apud Sanctum Petrum anno Incarnationis Dominice Millesimo quingentesimo primo Kalendas Septembris Pontificatus nostri Anno Decimo.
Hadrianus.
(a tergo = duplicata)
(Archivio di Stato in Modena.)
1º settembre 1501.
Alexander Episcopus Servus Servorum Dei Dilecto Filio Nobili Johanni de Borgia Infanti Romano Salutem et Apostolicam Benedictionem.
Spes future probitatis que ex verisimilibus tue infantilis etatis inditiis concipi potest quod succedentibus annis te in virum debeas producere virtuosum, merito nos inducit ut te spetialibus favoribus et gratiis prosequamur. Hodie si quidem tecum in tertio vel circa tue etatis anno constituto ut non obstante defectu natalium quem te de dilecto filio Nobili Viro Cesare Borgia de Francia, Romandiole et Valentie Duce conjugato nostrarum et Sancte Romane Ecclesie gentium Armigerarum Capitaneo et Confalonerio Generali genitum et soluta pati expressum fuit ut in quibuscumque Civitatibus Dominiis Ducatibus, Comitatibus, Baroniis, Terris, Castris, Oppidis, Locis Palatiis domibus possessionibus aliisve bonis ac juribus omnibus prefati Cesaris Ducis ejusque fratris et sororis ac parentum Agnatorum Cognatorum, consanguineorum affinium tuorum et aliorum quorumcumque cujuscumque qualitatis quantitatis denominationis, valoris, et pretii etiam quantumcumque notabilis et maximi forent etiam si eisdem Cesari Duci fratri sorori suis parentibus Agnatis Cognatis consanguineis et affinibus vel eorum progenitoribus et aliis quibuscumque pro se et descendentibus legitimis et naturalibus in perpetuum vel ad tempus aut in certam generationem a Romanis vel aliis ecclesiis, monasteriis locis ac personis Ecclesiasticis secularibus vel regularibus in vicariatum feudum censuale seu nobile antiquum paternum et avitum seu Retrofeudum vel in Emphiteosim aut livellum locationem seu censum aut alias quomodolibet concessa et in eos translata forent et in posterum concederentur ac transferentur tam ex testamento quam ab intestato absque tamen prejuditio illorum qui si Cesar Dux et [406] alii predicti intestati decederent succedere deberent succedere (sic), et ad illa ac quecumque alia similia vel dissimilia quovis titulo quo etiam a nobis et sede Apostolica illa tibi in posterum concedi dari et donari quovismodo contigerit devenire in eaque recipere consequi habere possidere et retinere ac de illis disponere et in eis successores ac heredes habere et ad honores dignitates magistratus et offitia quecumque secularia publica et privata eligi recipi et assumi illaque et quoscumque actus legitimos cujuscumque qualitatis et denominationis fuerint gerere exercere ac de agnatione et de familia de Borgia huiusmodi esse censeri et nominari ac nobilitate insignibus armis privilegiis concessionibus juribus indultis libertatibus prerogativis et preeminentiis quibus legitime geniti de familia predicta utuntur potiuntur et gaudent, ac uti potiri et gaudere poterunt quomodolibet in futurum uti potiri et gaudere libere licite et efficaciter posses ac deberes motu proprio et ex certa scientia ac de Apostolice potestatis plenitudine auctoritate apostolica dispensavimus tibique pariter indulsimus teque quo ad premissa omnia et quecumque ac qualiacumque alia legitimavimus ac vere ingenuitati et justis natalibus plenissime et efficacissime omnino restituimus et reintegravimus ac alia fecimus concessimus et decrevimus prout in aliis nostris desuper confectis litteris quorum tenores ac si de verbo ad verbum presentibus insererentur haberi voluimus pro sufficienter expressis et insertis ac quarum plenissimam scientiam et notitiam habemus, plenius continetur. Cum autem tu defectum predictum non de prefato Duce sed de Nobis et dicta muliere soluta patiaris, quod bono respectu, in litteris predictis specifice exprimere noluimus Nos ne ullo unquam tempore contigat litteras predictas de intentionis defectu et nullitatis vitio notari teque desuper molestari tempore procedente debite providere ac te gratioso favore prosequi volentes motu simili non ad tuam vel alterius pro te nobis super hoc oblate petitionis instantiam sed de nostra mera liberalitate ac deliberatione eisdem scientia potestatis plenitudine et auctoritate tenore presentium volumus tibique concedimus quod littere dispensatio legitimatio restitutio reintegratio concessio indultum et decretum predicta omniaque et singula in eisdem litteris contenta concessa et expressa ac pro tempore inde secuta valeant plenamque roboris firmitatem obtineant et tibi suffragentur in omnibus et per omnia etiam tam quo ad successionem quam omnia et singula alia in illis expressa concessa et contenta hujusmodi perinde ac si in eisdem litteris quod dictum defectum de nobis ac dicta muliere soluta patiebaris expressum fuisset. Et nihilominus si contigerit te tempore procedente in quibuscumque litteris scripturis et instrumentis cuiuscumque qualitatis et conditionis ac donationibus et concessionibus [407] etiam quantumcumque maximis etiam a nobis et sede predicta ac prefatis Duce fratre et sorore suis et aliis quibuscumque personis tibi faciendis litterisque Apostolicis desuper concedendis prefati Ducis filium dici et nominari ac quoscumque alios actus sub dicta nominatione quovis modo gerere et exercere ac insignibus et armis prefati Cesaris Ducis etiam publice quomodolibet uti motu scientia potestatis plenitudine et auctoritate similibus declaramus nullum propterea tibi preiuditium quomodolibet afferi nec presentibus aliquo derogatum censeri, sed omnia a nobis et sede predicta Duce fratre sororis suis prefatis et aliis quibuscumque personis in tui favorem et comodum pro tempore concessa et per te etiam pro tempore gesta et facta in quibus prefati Ducis natus fueris nominatus eam vim eum vigorem eumdemque effectum in omnibus et per omnia sortiri ac operari posse sive debere quos operarentur et sortirentur si in illis noster et non prefati Ducis natus nominatus fores et nominaveris nec ullo unquam tempore illis quovis quesito colore via causa modo forma de iure vel de facto in iuditio vel extra de nullitatis ac surreptionis et obreptionis vitio nec non intentionis defectu opponi seu obici posse quomodocumque supplentes eisdem motu scientia auctoritate et potestatis plenitudine omnes et singulos tam iuris quam facti defectus si qui forsan premissorum occasione intervenire pretendi possent in eisdem ac decernentes sic per quoscumque Judices et Commissarios etiam causarum Palatii Apostolici Auditores ac Sancte Romane Ecclesie Cardinales in quacumque instantia sublata eis et cuilibet eorum quavis alia interpretandi facultate sententiari deffiniri et iudicari debere irritum quoque et innane si secus super his a quoquam quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigerit attemptari. Non obstantibus premissis ac costitutionibus et ordinationibus Apostolicis Legibus quoque Imperialibus nec non omnibus illis que in litteris predictis voluimus non obstare ceterisque contrariis quibuscumque. Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre voluntatis concessionis declarationis suppletionis et decreti infringere vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attemptare presumpserit indignationem Omnipotentis Dei ac Beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum.
Datum Rome apud Sanctum Petrum Anno Incarnationis Dominice Millesimo quingentesimo primo Kalendas septembris Pontificatus Nostri Anno Decimo
Hadrianus
S. Pinzonus.
(Archivio di Stato in Modena.)
[408]
Roma, 23 settembre 1501.
Illustrissimo Principe et excellentissimo Signore Nostro singularissimo. Monstrando la Santita del Nostro Signore haver condegno respecto a quelle cose, che verisimilmente potriano parturire qualchi displicentia ne la mente non solo de la Excellentia Vostra et de lo Illmo Don Alfonso, ma etiam de la Illma Madama Duchessa, Il che etiam non potria passar senza qualche suo fastidio, Ce ha admoniti che vogliamo scrivere a la Excellentia Vostra et advertirla che al tempo de le noze operi talmente che lo Signore Joanne da Pesaro lo quale Sua Santità disse havere ad viso essere a Mantoa, non se ritrovasse a Ferrara; perche se bene quella separatione che fra luy et la predetta Illma Madama seguite iustissimamente, et cun la pura et mera verita como publice consta non solum per lo processo facto in questa causa, sed etiam per la libera confessione de ipso Sign. Joanne. Tamen non è che qualche reliquia de malo animo forsi non le sia restato etiam da ogni canto; per il che quando se ritrovasse in loco ove verisimilmente la predetta Signora potesse da lui essere veduta; saria Sua Excellentia necessitata sequestrarsi in qualche Camera per non se representar a la mente le cose passate, exhortando la Excellentia Vostra cun la solita sua prudentia proveder ad questo: et intrata poi Sua Santita ne le cose del Sign. Marchese de Mantova, damnoe assai Sua Signoria che sola ley fosse acceptaculo de Gente falita, e che fussero in Contumacia non solo sua ma etiam del Cristianissimo Re, et se bene nui se sforzassemo de escusar il predetto Signor Marchese, dicendoli ch'essendo liberalissimo como è se vergognaria a prohibire l'addito in le terre sue a chi li va, maxime a Signori: usando circa tale excusatione tute quelle più accomodate parole che se servitero in proposito. Tamen de tale nostra excusatione non parve restar Sua Santita ben satisfacta si che Vostra Excellentia intende il tuto quella como prudentissima ordini quanto li pare expediente et al proposito et in bona gratia de Vostra Excellentia humiliter ce raccomandiamo. — Rome die XXIII. Septembris 1501.
Et Excellentissime Ducalis Dominationis Vestre
Servuli Gerardus Saracenus. Hector Belingerius.
(Foris) Illmo Principi et excellentissimo Domino nostro singularissimo Domino Herculi Estensi Duci Ferrarie
Ferrarie.
(Archivio di Stato in Modena.)
[409]
Roma, 26 ottobre 1501.
Illustrissime Princeps etc. Fussimo heri sira hector et io a visitare la Santità del Nostro Signore, richiesti perho da quella; la quale ne inpose facessemo intendere a Vostra Excellentia quella pocha di disvisa havea havuta, per il che se gli era causato un puocho di dolore in una orecchia et gli era caschato uno dente, perche Sua Santita havea havuta la precedente nocte cativa, et come anche per la gratia di Dio era molto migliorata et existimava serria niente. Et che questo Sua Santita ne imponeva acciò non accadesse che forse a Vostra Excellentia da altro loco avisata non fosse facto la cosa più grave; et Vostra Excellentia ne ricevesse dispiacere subiungendo che quando Vostra Excellentia fusse presente non resteria, benche havesse un puoco fasata la masella, de invitarla a cacciare uno porco, bisognara Sua Santita se astegni da partirse inanti di, et dal ritornare di nocte, maxime havendo questo difecto come amorevolmente li fu ricordato.
Omissis.
Ordino etiam Sua Sanctità se havesse una copia di una littera scrive la Maesta del Cristianissimo Re a la Illma Duchessa, infine de la quale erano due litere di mano propria di Sua Maesta, credo perche Vostra Excellentia cognosca como amorevolmente scrive epsa Maestà, la quale parimente se manda in lingua franzese.
Sua Santita poi ne disse volessimo scrivere a Vostra Excellentia, che volesse sollecitare la traductione de la prefata Duchessa, perche altramente se andaria in lo inverno, ricerchandoni se havevamo scripto quello fu raggionato circa il trovare modo a calculare le intrate di romagna. Respuosi che existimava non si potesse più fare dicta traductione senza essere in lo inverno: et che tuto quello se era raggionato cun Sua Sanctita se era scripto a Vostra excellentia et che se expectava rispuosta: non li gustò molto questo mio dire, perche voleva Sua Santita che quella raggione de lo inverno fusse buona, li subiunsi perho che se daria notitia a Vostra excellentia de questo suo desiderio et di questo anche heri mattina me ne havea parlato Monsignore Reverendissimo di Modena, confortandomi a tale traductione, cun dirmi che quando epsa Duchessa sara a Ferrara, il papa faria più di quello fusse convenuto, et rispondendoli io che era per tractare la expeditione de le castella per una via on l'altra, et che prima non sapeva confortare Vostra Excellentia aducendogli la dificulta [410] et de la bolla et de li Ducati: ne anche la sua raggione mi pare bona sebbene non ge lo dissi: me disse che cosi me havea dicto perche havea promesso al Papa di dirlo, et cusi quando se raggionava de questo havendo Sua Sanctita facto chiamare epso Cardinale, perche se ritrovasse a tale parlamento Sua Signoria Reverendissima disse che me havea confortato la matina, et non parlò più circa questo molto: non credo perho sii più di Vostra Excellentia che del Papa: Et in questo parlare Sua Santità disse incidenter, che la comitiva mandara Vostra Excellentia non potera stare in Roma mancho di quatro on cinque dì....
Omissis.
Sua etiam Sanctita me disse di quello havea scripto Vostra Excellentia circa la venuta del magnifico messer Annibale (Bentivoglio) replicando ch'havea a caro la sua venuta, et che lo amava per rispecto del Patre, et più per amore de Vostra Excellentia, et che quando Vostra excellentia mandasse turchi perfare tale traductione, che sarebbero ben visti.
Omissis.
Rome 26. Octobris.
Et Illme et Excellentissime Dominationis Vestre
Servus Gerardus.
Ultimamente si parlo de lo Illmo Signor don Alfonso et di la sua età, natura dispositione et qualità et parimente de la prefata Illma Duchessa la quale molto fu comendata et laudata da sua Santita et di bellezza et di prudentia, adducendo molte comparatione et di la Illma Marchesana di Mantoa, et di la Duchessa de Urbino; facendoci intendere ch'epsa Duchessa e di età di anni ventidui li quali finiranno a questo Aprile: in el qual tempo anche lo Illmo Duca di Romagna fornira anni ventisei.
Omissis.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 23 dicembre 1501.
Illustrissimo Principi et Excellentissimo Domino Domino meo Singolari, Domino Duci Ferrarie.
Illustrissimo Signor mio Observantissimo. Questa sira dipoi che ebbi cenato fui con la Illustrissima Madonna Lucretia insieme con Messer Girardo (Saraceno) per visitarla per [411] parte de Vostra Excellentia et del Illustrissimo don Alfonso: et con questa occasione venissemo in longo ragionamento de diverse cose; nel quale veramente lho cognosciuta molto prudente et discreta, amorevole, et di bona natura et de grandissima observantia verso Vostra Excellentia et il prefato Illustrissimo don Alfonso, per modo che si può fare judicio che Vostra Celsitudine et cusi il Signor Don Alfonso ne haverano bona satisfactione, oltre che lha optima gratia in ogni cosa cum modestia venusta et honesta, non meno e catholica, mostra temere dio, et domane si confessa con intentione de comunicarse il di de la Nativita del Signore. La e di bellezza competente, ma li boni gesti et modi suoi con la buona ciera et gratia, laugumentano et fano parere mazore: et in conclusione mi pare talmente qualificata, che di lei non se debia ne possi suspicare alchuna cosa sinistra: ma e da presumerni, credere et sperarne sempre optime operationi. Del che mi e parso conveniente per la verita farni testimonio con questa mia a Vostra Celsitudine; la quale sia certa che come scrivo senza passione il vero, secondo il debito et istituto mio: cusi per la servitu che porto a Vostra Excellentia ni ho phresa singulare letitia et consolatione. Et in bona gratia de Vostra Celsitudine mi raccomando. Roma XXIII decembris hora sexta noctis 1501.
Excellentia Vostra
Servus Joannes Lucas.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 28 dicembre 1501.
Invocato divino Numine Anno nativitatis dni Millesimo Quingentesimo secundo Pont. Smi in xpo patris et D. N. D. Alexandri div. prov. pp VI Ind. vta mens. Dec. die XXVIII. Pateat oib. hoc pns documentum inspecturis quod cum inter Ill. D. Alfonsum Illmi et Exc. principis dni Herculis Ducis ferrarie primogenitum legitimo patris accedente consensu et auctoritate ex una ac legitimos procuratores Ill. dne Lucretie Borgie Biselli ducisse Illmi et excellmi dni Cesaris Borgie de francia Romandiole ac Valentie Ducis S. R. E. Gonfalonerii et Capitanei generalis germane sororis plenum ac speciale mandatum ad id habentes de quo manto constat manu mei not. infrascripti parte ex altera Contracte fuerunt sollemnia [412] sponsalia in Civitate ferrarie secund. ritum patrie per verba de presenti vis volo legit. consensum inducentia et importantia In quid. non intervenerunt quedam sollemnia que secund. ritum tam urbis Rome quam dicte civitatis ferrarie servantur vid. immissionis anuli in digito sponse que tunc pres. non erat: Et cum ad pres. personaliter ad urbem se contulerint Ill. dni Ferdinandus et Sigismunds prefati Ill. dni Ducis ferrarie nati ac prefati Ill. dni sponsi germani fratres cum magno Heroum procerumq. comitatu causa ducendi ferrariam prefatam Ill. d. Lucretiam et in familiam viri transferendi, prefat. Ill. dnus Ferdinandus dicti Ill. dni sponsi frater et procurator ad hoc spalr. destinatus ad effectum ut nulla dimittatur sollemnitas in dictis nuptiis celebrandis consuete ad abundantiorem licet non necessariam cautelam et ut quanto maiori cum dignit. et sollemnit. dicte nuptie celebrantur tanto firmiores existant habens ad hoc plenum sufficiens et speciale mandantum sicut constat puco documto manu dni Thebaldi filii speclis viri malateste de Thebaldis imp. aucte. notarij puci ferrariensis ac prelibati Ill. d. Ducis secretarii sub dato anni mill. quingent. primi ind. IVta die ottavo mens. Dec. ferrarie in palatio residentie prefati Illmi dni Ducis ferrarie presentib. magco et clarmo jur. conto dno Jo. Luca de pontremulo ducali consiliario Magco et generoso equite dno Antº de Constabilis etiam ducali consiliario spectli Phlippo de bonleis ducali architriclino generali testib. adhibitis et sicut de eis fide et legalitate constat ex lris testimonialib. Potestatis dicte civitatis ferrarie sigillo dicte civitatis munitis, publice et palam exhibito et recognito ac lecto: Volens exequi negocium sibi demandatum astantib. Rmis dnis Cardbus Ursino A. S. Crucis Sancte prasedis Alexandrino Alboren. Card. Cusentin. Card. Mutinen. Card. Salernitan. Card. de Farnesio. Card. Cesarino. Card. Capuense Card. S. Severini Card. de ferraria cum potestate specificandi nomina et titulos singulorum ac prefato Illmo dno Cesare Duce: Nec non et Rdo pre dn. Nicolao Maria epo Adrien. ac magcis et insignib. dnis dno Gerardo Saraceno oratore ducali D. Jo. luca de pontremulo etiam ducali consiliario secreto Dno Nicolao Corrigio Dno Hanibale Bentivolio D. Federico de amirandulo D. Ugotio de contrariis D. Antonio bevilacqua Rdo d. Raynaldo asareto D. Beltrando constabili Dno Camillo constabili Dno Gerardo rangone Dno Ludovico Valer' et ante conspectum et present. S. D. N. prefati ac in pres. mei pub. not. et testium infrascriptor. Repetitoq. divino suffragio non recedendo a dictis sponsalib. per verba vis volo et a conventionib. et pactis inter dictas partes initis et factis de quib. constat ex dicto pu.co docum. manu dicti dni Thebaldi confecto: sed predicta sponsalia et omnia alia pacta predicta sic sollemniter in dicta [413] civ. ferrarie ut prefertur contracta quats expediat mutuo ac viciss. ac concordib. animis etiam nomine quo supra respective hinc inde approbantes emologantes et confirmantes et pro approbatis emologatis et confirmatis omni meliori modo via jure causa et forma haberi volentes dicta sponsalia reiterando prefata Illa dna Lucretia interrogata a prefato Ill. d. Ferdinando germano fre et procurat. antefati Ill. dni Alfonsi si consensit et denuo consentire vult in legit. matrimonium dicti Ill. dni Alfonsi Illmi princip. et Ducis ferrarie filii: et ipsum accipere et habere et tenere in legim. sponsum et maritum justa et secund. precepta et formam S. Matris Ecc., ad hec omnia interrogata prefata Ill d. Lucretia respondit: se consensisse et consentire de presenti habere et recipere prefatum Ill. d. Alfonsum in ejus legm. sponsum ac maritum et sic mutuo consensu per verba vis volo dictus procurator quo supra nomine et prefata Ill. dna Lucretia sponsalia reiteraverunt: Deinde incontinenti apprensa per ipsum Ill. dnum Ferdinandum dicte sponse manu sponsalitium anulum in anulari digito ejusdem in signum maritalis perfectique conjugii quo supra nomine immisit: proferens et dicens hec verba vid. hunc anulum sponsalitium Ill. dnus Alfonsus sponsus tuus tibi Ill. dne Lucretie sua sponte largiendum misit eoq. nomine tibi elargior: quo recepto prefata Ill. dna Lucretia respondit et Ita sponte et libere accipio me notº puca persona presente et legº stipulante pro dictis partibus tam presentib. quam absentib. omnibusque quorum interest vel intererit in futur.: de quib. omnib. et sing. Rogatus fui a dictis partib. ut pu.cum conficerem instrum. unum vel plura et totiens quotiens fuerim requisitus.
Acta fuerunt hec Rome in palº apco in prima camera lovii novi presentibus oratore Veneto Epo elnen. Adriano Tesaurario ac secretario Ventura epo Massanen. et aliis quamplurib. testib.
Ego Camillus Beneimbene Notarius, malus impeditus per alium michi fidum scribi feci et ipse dictavi.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
28 dicembre 1501.
Dilectis filiis Prioribus et Comuni n. Nepesine.
Alex. P. VI. Dilecti filii sal. et ap. ben. Quoniam in transitu dil. in xpo. filie nobilis mulieris Lucrezie de Borgia [414] Ducisse, que hinc die lune proximo ad dil. fil. nob. vir. Alfonsum Ferrarie Ducalem Primogenitum consortem suum cum magna nobilum comitiva traducetur, ducenti equites ad vos divertent volumus, et vobis mandamus pro quanto gratiam nram caram habetis, et indignationem cupitis evitare, ut dictos 200 equites pro una die, et duabus noctibus apud vos mansuros recipiatis, eosque honorifice tractetis, ita ut de promptitudine vestra possetis apud nos non immerito commendari. Datum Rome apud S. Petrum sub anulo Pont. Die XXVIII. Decembris 1501. Pontif. N. A. X.
Hadrianus.
(Archivio della Casa Comunale di Nepi.)
Roma, 2 gennaio 1502.
Illustrissimo et excellentissimo Signor Nostro observandissimo hogi suxo la Piaza del Palazzo alcuni Zaneteri cun Cavalli leggieri et peduni: hanno fatto la cacia de li tori senza cani, perchè havevano incluso circa X tori in uno stecato et mandati fora ad uno ad uno li assaltavano, ferivano et amazavano; ma due o tri de' dicti cavalli furono feriti.
Tra heri et hogi sono stati numerati circa XXVII Ducati a Zoanne Ziliolo thesoriero: Domane credemo havere tutto l'resto: excepto cinque milia ducati li quali per mano deli Ginucij ni pagano in Ferrara, senza perdita alcuna e inanti che siamo giunti a Ferrara; et di questo se obligheranno a nui dicti Genucii in bona forma.
Questa nocte in la Camera de Nostro Signore è stata recitata la comedia del Menechino et con bona de quellui ch'havea la persona del servo, et del parasito, et similmente del scorto, et de la dona de Menechino, ma li menechini non dixero cun multa gratia, erano senza maschare, et non gli era scena alcuna: perche la Camera non era capace: et in quello loco dove Menechino fu preso per ordine del socero credendo chel fosse impacito cridando che li fosse facto violentia, dixe essere maraviglia, che se usassero tale violentie sospite Cesare, Jove propitio, et votivo Hercule, inanti a la recitatione de la comedia fu facta questa representatione, che prima comparse uno puto vestito da donna representante la Virtù, et un altro representante la fortuna: et facta contentione fra epse, quale fosse superiore sopraggionse la gloria sopra un carro trionfale, la quale havea il mondo sotto li piedi [415] et gli erano scripte queste parole: Gloria Domus Borgie. La gloria, la quale etiam se chiamava luce preferite la virtù ala fortuna: dicendo che Cesare et Hercole haveano con virtù superata la fortuna: referendo multi nobili facti de lo Illmo Signor Duca De Romagna: poi comparse hercule vestito de la Pelle del Leone, et cun la clava contra del quale Junone mandoe la fortuna, et combatendo hercule cun la fortuna, la vinse, prese et ligete: et venuta Junone a pregare hercule per la liberatione de la fortuna, Lui come clemente et magnanimo, la concesse a Junone cun questa lege, che ne l'una ne l'altra mai facesse contra la Casa d'Hercule, ne contra la Casa Borgia de Cesaro: et cussi promiseno, et piu ultra promise Junone de favorire il matrimonio contracto tra dicte Case: di poi vene Roma suxo uno Carro trionfale, et si dolse che Alexandro che tene il loco de Jove, ge facesse questa iniuria de levarli la Illma Madona Lucretia commendandola grandemente, et demonstrando che la fusse il refugio de tuta Roma. Apresso vene Ferrara senza carro trionfale la quale allegava, che Madona Lucretia non andava in loco degenere, e che Roma non la perdeva: sopragionse Mercurio, mandato da li Dei e fosse concordia tra Roma e Ferrara, concludendo la volontà degli Dei essere che Madona Lucretia venisse a Ferrara, e fece ascendere Ferrara suxo uno carro triunfale a la parte più digna. — Tute queste cose furono recitate in verso heroico multo elegante — Celebrando sempre multo la coniunctione tra Cesare et hercule. Cun voler anche manifestamente inferire che inseme dovessero far gran facti contra li inimici de hercule per modo che se li effecti respondesseno a questi pronostici le cose nostre veniriano a multo bon termine: Et in bona gratia de Vostra Excellentia ne recomandiamo. Rome ji Januarji 1502.
Celsitudinis vestre
Servi Joannes Lucas.
Gerardus Saracenus.
(Foris) Illmo Principi et Excellentissimo Domino Domino Nostro observandissimo Domino Duci Ferrarie
Ferrarie.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 2 gennaio 1502.
Illma Madama, Hozi che è el pº di de lanno se fato uno stechato in su la piaza de S. Pietro e intorno si sono fate de [416] molti tribunali circha ale ore 20 sono venuti tredici carri triunfali accompagnati da multa zente armata a pede e a cavallo numero forsi di un milio che fu bel spetaculo con soni asai e se porto el stendardo romano questa festa si domanda dagone questa monstra durò hore 4 se recitorno versi da non se potevano intendere, la Santà de Nº Sigre, el nostro Cardle erano a una fenestra li altri in za e in la, madama Lucretia stava ala sua stanza fornito questo acto la Santtà del papa mandò a dire al Sigr dn Ferando che facesse restare li zentilhomeni perchè se volevano recetare certe comedie: a hore 4 el mandò a domandarli e cosi se andò dove trovasemo sua Santtà in la camera del papagallo in sedia acompagnato da deci cardinali subito como fusome intrati el venne la Illma Madma Lucretia accompagnata da molti spagnoli e dale sue donne, sua Sigia aveva in capo quella scofia de zove mandata da Ferrara senza lenza el trinzato de seta bianca listato doro el pede de la treza ligato de incarnato la camora de veluto morello con certi frisi fati al telaro listate, le maniche ala francesca non troppo grande e curte listate de uno lavoro che sono perle 4 e uno balasso per longo e denanze al collo una canacha de zoie una sbernia de borlato doro coperta de raso leonato tuto talgiato con uno lavoro intorno uno cinto bello e fiochi bianchi, in questa sira sono comparse sei dele sue donzelle vestite molto pomposamente camore de veluto cremesino e brochato doro sbernie de seta di varij colori e doro, Asetate le brigate madama a man dritta del papa a basso so cosino, vene certi pastori che recetorno una comedia anzi egloga tuta in laude de questa signora, fornita questa el papa fece levare madama Lucretia e mandola in la salla di papi questa sala era aparata de coltrine doro molte belle facte per papa Inocentio e in mezo li stava la sedia papale alicontro el gera uno tribunale basso e streto adobato de frasche conze galantemente con torze venti bianche atachate al solaro asetate che furon le donne el papa e tuti li cardinali andeno con tanta furia e strele de uso, io avea fredo e sudava asetati chi in banche chi in terra el paron mio questa sera per due volte fu carezato dal papa e chiamolo lui e fecelo asetare ali soi pede se recetò una egloga el significato non lo intendo, fornita questa venne uno vestito da dona cum una zipa de incarnato e veluto morello facendo la morescha molto bene e cosi balando la tirava fora certi animali longi braza sei e tanti colti coperti de seta ala dovisa et erano novi, l'ultimo fu el duca el suo animale era coperto de borcato doro e veluto morello de liste larghe uno dito molto pomposo, uscito che furno tuti questa donna balando in morescha li cavò fori tuti, cosi se comenzò una richa danza con tamburini, queste erano veste de borchato morello e zallo non se vedeva se non oro [417] talgiato el duca pure cosi ma più pomposo se cognosceva fra li altri con maschare al volto, fornito questa morescha sonaro li trombeti una altra morescha in suso uno arboro vera uno puto che si fe fora e dise certi versi, feniti butò novi cordoni de seta ala dovisa grossi uno dito questi ne pigliarono uno per uno e balando ne facevano una cordella e quello puto la teseva, in vero la fu una bella cosa, fornita questa che erano dele ore undeci el papa comandò a madonna Lucretia che facesse una danza e così ballò con quella valentia dreto poi ballono quelli dala morescha una copia per volta, el S.r mio li steti in fino a questa hora perchi siame logiati longo dala corte due miglia se ne veneseno a casa, intesi la matina chel non se fece altro.
In suso queste feste ve erano de le donne assai stravestite, el secondo dì de lanno se fece la cazia de tori dove el Duca uscito in campo con li soy compagni che erano novi a cavallo in suso le zaneti molti bene adobati con zanete in mano subito furo lassati dui tori, il duca se messo dreto a uno feroze e conduselo a morto con qualche pericolo se levò del stecato lui solo ne furno lassati de li altri e così li compagni li amazarno, vene el Duca poi a pede in zupone con dece compagni e zanete in mane e li tuti in sieme ne amazorno un altro, se partì, io non lo viti più ma questa festa durò in sino a lavemaria se amazorno deci tori e una buffala io non viti madama Lucretia per quello dì se ne stava ala sua stantia, in questa sera se fato una comedia latina el S.r per esser cose lonze non li e restato, la S. V. sa mo per questa fin qui quello e successo e ala bona gratia de quella me raccomdo se rasona che possodomani se debiame partire ma nol credo perche se va molto adasio. Ex Urbe die 2 Jann.i 1502.
S. El Prete.
Ala mia Illma Madama la Marchesa de Mantova.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Roma, 9 gennaio 1502.
Illustrissime Princeps et Exellentissime Domine Domine mi Observandissime Post commendationem. — Il vene a Vostra Ducal Excellentia et all'Illustrissimo Signore Don Alphonso suo primogenito la Illustrissima Signora Madama Lucretia Duchessa de Biselli consorte del prefato Signore Don Alphonso: Et ben che sia certissimo che la Excellentia [418] vostra ed il prefato Signor Don Alphonso lhabiano a tratar como certamente meritano le sue excellenti virtu e li suoi boni portamenti in dies meglio meritarano. Niente dimeno per essere io subdito de Vostra Excellentia e a quella e a tutta sua Illustrissima Casa affectionatissimo me Parso mio debito per questa mia ricordare ad epsa vostra Excellentia che ne voglia fare quelli debiti portamenti che se aspectano da la prefata Excellentia Vostra e dicto Signore Don Alphonso, perchè non dubito se contentarano ogni giorno più de le singular sue virtu e meriti: Et ultra le gratie già riportate da la Santità de Nostro Signore che invero sono grandissime e facto de bon core e animo ne potrà sperar de le altre per la grandissima affectione ha pigliato Sua Santità al Excellentia Vostra e al prefato Signore Don Alphonso e a tutta la sua Illustrissima Casa. Et tutto quello se fara in persona de la prefata Signora Duchessa non sara manco accepto di qua che se fusse facto in la persona de la prefata Santità. Me parso offitio mio de dar questo adviso a Vostra Excellentia benche puo esser superfluo considerata la prudentia et circumspetione de quella a la qual sempre me riccomando Rome in Palatio Apostolico VIIIJ Januarij MDIJ. La Santità Sua scrive de sua propria mano a Vostra Excellentia.
Et Vestre Illustrissime Ducalis Excellente
Deditus Johannes Cardinalis Capuanus et Mutinensis manu propria.
(Archivio di Stato in Modena.)
Foligno, 13 gennaio 1502.
Illustrissimo et Excellentissimo Signor Nostro observandissimo. Benche da Narnia scrivessimo alla Excellentia Vostra per la via de Roma e de le poste che veniressimo da Terni a Spoleti, et da Spoleti qui a giornate continuate, nondimeno: Ritrovandosse la Illustrissima Duchessa e le sue done multo affaticate a Spoleti delibero riposarse un giorno integro a Spoleti, e un altro qui in modo che non partemo de qui se non domane, et non arivaremo ad Urbino prima che martidi proximo che sera a li 18. del presente: perche doman andaremo a Nocera: Sabato a Gualdo: Dominica ad [419] Eugubio: Luni a Caglio: Marti ad Urbino: dove dimoraremo anchora un giorno integro cioè tutol mercori, et de lie se andara à Pesaro a li XX: poi de Citade in citade secundo che per le altre è stato scripto a la Excellentia Vostra. Ma siamo certi che la prefata Duchessa se riposera multi di integri in multe de dicte Citade talmente che senza dubio, non arrivaremo prima a Ferrara ch'a lultimo del presente: on primo del futuro; et forsi al secundo o terzo. Dilche ni è parso conveniente dare noticia de qui ala Celsitudine Vostra: acciocche la intenda dove siamo, et quello che stimamo dovere essere, et che la possi ordinare, quello che meglio gli pare, perche se gli piace che se differisca al secundo o terzo di Febraro la gionta a Ferrara, credemo sia per succedere facilmente: se anche gli piacesse più ch'arivassimo a lultimo di questo o al primo di Febraro: la ni potera advisare; perche solicitaremo cussi come in sin qui havemo procurato lo andare riposato: la causa che ni move a credere quanto di sopra è perche la Illma Madama Lucretia e de complexione delicata; et non assueta al cavalcare: e manco sono le done sue, etcognoscemo, che la non vorria essere sbatuta, ne conquassata dal viaggio quando la giongera a Ferrara.
Per tuti li lochi per li quali Soa Signoria è passata è stata ben veduta e amorevolmente ricolta et cum grande Reverentia: et apresentata etiam da le done cun tale dimonstratione che tuto pareva essere facto a Sua Signoria, et per sua contemplatione: tanto universalmente e ben voluta in questi paesi, ne li quali per essere stata già in la Legatione de Spoleti è multo ben cognosciuta. Qui gli è stato facto maiore recoglientie, et maiori signi de leticia, che in altri lochi fori di Roma: perche ultra che li Signori di questo loco cussi chiamati per essere presidenti a la Republica cun li Capuzzi et mantelli de rossato la incontrasseno insino a la porta, essendo tuti a piedi: et cussi la accompagnassano insino alo alloggiamento suxo la piaza: fu incontrata vicina a la porta da uno tropheo sopra il quale era una persona representante Lucretia Romana cun uno pugnale in mano: la quale dixe alcuni versi di questa importantia, come essendo Lei in questo loco: sopragiogendo Soa Signoria, da la quale di pudicitia di modestia, di prudentia et di Constantia era superata, gli dava loco e cedeva: poi apresso la Piazza gli era uno carro triunfale inanti al quale era uno cupidine, e sopral carro era Paris col pomo aureo in mano, il quale dixe alcune rime di questo effecto: come già haveva dato per sententia il pomo a Venere, la quale solamente excedeva de belleze Junone et Pallade: ma hora rivocava dicta Sententia, et donava il pomo a Sua Signoria come a quella che superava tute tre quelle dee attento che in Lei era belleza: sapientia, e richezza, [420] overo potentia maiore, che in tute tre quelle dee: ultimamente suxo la piaza ritrovassimo una Galea armata de turchi a la Turchescha: la quale gli vene incontra oltra la mitade de la piaza; et uno de epsi stante suxo la prora dixe alcuni versi in Rima, di questa sustantia: Come sapendo il suo gran Re quanto Lei poteva in Italia; et quanto la potesse essere bona mediatrice a la pace: la mandava a visitare et offerir gli la restitutione de quello, che lui teneva del Paese christiano: non siamo curati de havere le parole de dicti versi; perche non sono di quelli del Petrarcha: ne anche la representatione de questa nave ni pare essere de grande importantia: ni multo al proposito. Non pretermettemo che lungi da Foligno 4 miglia la fu incontrata da tuti li Baglioni, che sono in Stato li quali erano venuti e da Perosa, e da le sue Castelle; et per farli reverentia, et per invitarla a Perosa. Sua Signoria persiste pure in desiderio de venire per aqua da Bologna a Ferrara, per fugire la incomodità del cavalcar et de la via terrestre; come per le nostre date a Narnia Vostra Excellentia fu advisata.
La Santità de Nostro Signoro tene tanta cura de Soa Signoria che ogni di, e ogni hora vole intendere de li progressi soi et è necessario, che Lei di sua mano de ogni terra scriva a Soa Santita del suo ben stare: che confirma quanto è stato scripto a Vostra Excellentia altre volte che Soa Santita la ami più che alcuna altra persona del Sangue suo.
Se haveremo il modo de tenir advisata Vostra Excellentia de di in di de questo viagio, et de le cose che accederanno non seremo negligenti.
Essendo tra Terni e Spoleti in Valle de Strectura uno Stafiero de lo Illustre Don Sigismondo vene a parole rixose cum uno Stafiero de Stefano di Fabij nobile Romano, quale è in la comitiva de la Predicta Duchessa per causa assai leve de certi turdi: et havendo l'uno et l'altro posto la mano a le arme: sopragionse uno Pizaguerra a Cavallo pur de quelli de lo Illustre Don Sigismondo, il quale ferete suxo la testa il Stafiero de dicto Stefano: de la qual cosa Stefano di natura impatiente: Collerico et insolente tanto si commosse et si dolse, che mostrava, non volere venire più avanti, et essendo gionto in la Rocha de Spoleti passo a lato ali illustri Don Ferrante e Don Sigismondo senza salutarli ne diferirgli: tutavia intesa bene la natura de la cosa, che fu inopinata et casuale, et come tuti nui seni eramo grandemente doluti: et che pizaguerra era fugito, et anche il dicto Stafiero de Don Sigismondo per modo che non se ni poteva fare alcuna dimostratione: fu dato il torto a Stefano per il Reverendissimo de Cosenza, e per la Illustrissima madama Lucretia et per tuti; et Stefano se' acquitato et pacificato, e vene cun li altri. In [421] bona gratia de Vostra Celsitudine ne recomendiamo. Ex fulgineo XIII Januarij 1502.
Celsitudinis Vestre.
Il Reverendissimo Cardinale de Cosenza per quanto intendemo sin qui non ha a passare le terre de lo Illustrissimo Signor Duca de Urbino
Servi Joannes Lucas et Gerardus Saracenus.
(Foris) Illustrissimo Principi et excellentissimo Domino Domino nostro observandissimo Domino Herculi, Duci Ferrarie.
Ferrarie cito cito.
(Archivio di Stato in Modena.)
Ferrara, 14 febbraio 1502.
Ad Summum Pontificem.
Sanctme ac beatme pr. et Dne, dne mi colenme humillima post beatorum pedum oscula commendatione exhibita. Inanti che giongesse qua la Ill. Duchessa nra comune Figliola, Mia firma intentione era de accarezarla et honorarla, sicome se conviene et de non manchare in cosa alcuna pertinente a singulare dilectione: Essendo mo sua Sria gionta qua, la mi ha talmente satisfacto, per le vertute et digne qualitade che ritrovo in ipsa, che non solo sum confirmato in questa bona dispositione, ma, e, grandemente cresciuto in me il desiderio et animo di cussi fare: et tanto piu quanto che vedo la Sta V. per uno Breve de sua mano amorevolmente farmi questo ricordo. Siche stia de bona voglia la Sta Vra per che verso la la pta Duchessa usaro tali termini, che la Bne V. cognosca, che Io tengo sua Sria per la più cara cosa che Io habia al mondo.
Ben prego et supplico V. Stà che se degni farmi gratia speciale de la promotioni de M. Jo. Luca mio a cardinalato in queste tempore proxime, come expecto cum granmo desiderio, secundo che anche el mio Ambe gli significara più diffusamente: et in bona gratia de la Sta V. humilmente me recomando.
Ferrarie 14. Febr. 1502.
(Archivio di Stato in Modena.)
[422]
Mantova, 18 febbraio 1502.
Dne Lucretie Borgie.
Illma S. Lo amore chio porto a la S. V. et lo desyderio chio ho de intender che la persevera in quella bona valetudine dove la si ritrovava al partire mio fa che credi che lei anchora sii in la medesima expectatione di me et perho sperando farli cosa grata gli significo como luni gionsi in questa terra sana et salva, havendo ritrovato lo Illmo Sre mio consorte in optima convalescentia: Resta che da la S. V. intendi parimente il successo suo acciò possi pigliarne piacere, como di sorella cordialissima: Et benche reputi superfluo offerirle le cose sue: non dimeno per una volta ho voluto ricordarli che la puo de la persona et mie facultà disponere non altrimente che de le sue proprie, et a lei sempre, mi raccdo pregandola vogli racme a lo Illmo Sre suo consorte mio honmo fratello: Mantue XVIII Februarij 1502.
(Archivio Gonzaga in Mantova).
Mantova, 18 febbraio 1502.
Dne Hadriane Ursine.
Ma Hadriana: Non havendo posto in oblivione le comendatione che ne fece la s. v. in nome suo, et de ma Julia, subito gionte che siamo state a Mantua havemo facto intendere al amico suo, quanto ne parlo v. s. in suo favore, offerendoli per rispecto de quella, et de Ma Julia la protectione et suffragio nro in tutte le occurrentie sue: ne le quale procederemo a li effecti omne volta che possiamo gratificarlo in modo chel cognoscera che tenemo bon conto de la s. v. per la quale potendo qualche altra cosa serimo sempre disposte a compiacerla: Nui siamo gionte qua ad salvamento, et desideramo intendere che la Illma ma nra cognata et sorella continui insieme cum v. s. in buona valetudine: a la quale non agravara raccomandarne. Mantua XVIII Februarij 1502.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
[423]
Urbino, 20 luglio 1502.
Illma et Exma Signora Germana nra Charma. Tenendo per certo che nulla più efficace et salubre Medicina essere po A la pnté indispositione de La Extia vra che sentire bone et felici novelle, Li facemo Intendere che in questo ponto havemo hauta nova et certezza de la presa de Camerino Pregamo quella voglia fare honore ad questa nova con evidente effecto de miglioramento et farcelo intendere, Imperoche con la sua infirmita Ne de questa ne de altre possemo sentire piacere alcuno. Pregandola anchora che la presente voglia participarla A lo Ill. Sr Don Alfonso suo Consorte et nro Cognato come Fré Amantissimo Al quale per la pnté non scrivemo per la prescia. De Virbino adi XX de Juglio MDII.
De V. Illma S. fratello q'como si medesmo lama
Cesar.
Agapytus.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 1º settembre 1502.
Illma Sra questa facio solo adcio che Sebastiano non Torne senza mia lra ad V. Excia ala quale per averli dato longo aviso per un altra mia per questa non scrivo altro si no che la sra princessa qual sta un poco mal et la ho facta visitar da Sebastiano, basa le mano de V. S. Illma, faccio continuo scriver el libro in bona lra et lo mandaro presto non ly mando mo per che voglio far scriver alchune altre asé bene: suplico V. Excia se degne mandarne li sonetti che me promisse, et se in alchuna cosa la posso servire quella me commande che son desideroso servirla ala qual baso le mani di roma lo primo de setembro.
D. V. excia
humil servitor Fraco Trocche.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
[424]
Roma, 5 ottobre 1502.
Illma mia Sra per brognolo ho receputo una lra la qual insieme con li quatro sonetti quella se he degnata mandarme dela qual humanita infinite volte la rengratio significandole che quantunche in prima ly fosse deditissimo servitore hora cum questo mha in perpetuo obligato come è ragione et non desidero altro che poterlo cum qualche opera et effecto dimostrare Et perche me seria impossibile per lettere ne parolle esprimerlo ho pregato lo presente portator brognolo col qual diffusamente ho parlato alcune cose, lo voglia dir et far intendere a V. S. Illma alaqual humillmente me recomando et baso le sue mane, de Roma a V. de Octobre.
D. V. Illa S.
humile servitor
F. trocche prothº apco manu pp.
Con suggello con tre pesci.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
15 gennaio 1503.
Dno. Duci Valentie.
Illme etc. De li felici progressi de V. Ex. quali cum una amorevole lra ce ha significati, ne havemo preso quello piacere et contento che si conviene a la mutua amicitia et benivolentia che è fra lei et lo Illmo s. nro. consorte et nuy, et cossi in nome suo et nro ne congratulamo seco de omne secureza et prosperità sua et ringraciamola de la participatione et offerta ce ha facta di tenerni avisate de li successi: del che la pregamo ad volere per humanita sua continuare: perche amandola como facemo desyderamo sentire spesso li andamenti suoi per puoter insieme cum ley alligrarmi del bene et exaltatione de V. Ex. et perche credemo che doppo li strachi et fatiche che la patisse in queste sue gloriose imprese voglia anche ritrovare loco de recrearsi me parso mandarli per Joane nro staffero cento maschare: non perche non lo cognosciamo vile dono ala grandeza de li meriti de V. Ex. et de lanimo [425] nro; ma per una testimonianza che quando in questo nro paese fusse cosa più degna et conveniente piu volentieri glila mandarissimo. Se anchora le maschare mancharano de la bellezza che se gli conveneria V. Celne imputara li maestri de Ferrara: quali per la prohibitione che già molti anni e in quella citta de maschararsi in publico hanno desimparato a fare acceptando per supplimento la sincera volunta et affectione nra versa V. Ex.: Circa ala pratica nra: non accade replicare altro, finche non intendiamo da V. S. Illma la resolutione de la Sta de N. S. circa il caso de la securta che gli facessimo explicare di visa per il Brognolo che cossi stiamo in expectatione per potere venire a la conclusione etc. a lei ne offerimo et raccommandamo XV. Jan. 1503.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Acquapendente, 1º febbraio 1503.
Illma Exma signora Comatre et sorella nra hon'. Havemo receputo el dono de la Extia vra de le cento Mascare, per la multiplice varieta et singulare bellezza desse ad me molto accepte, et assai piu per essere sopreionte ad tempo et loco che piu al proposito essere non seria stato possibile Come se la vra Extia ce havesse prefixa lege et ordine de le imprese et de la tornata nra ad Roma, Dopo l'acquisto per nui facto in uno medesimo di de citta et contado de senegaglia con le forteze et justa punitione delli perfidi tradimenti de li adversarii nri, et dipo anchora liberate da Tyrannia et reducte a la obedientia de la sanctita de Nro Sre la citta de Castello, Fermo, Cisterna, Montone et Perosa: Et hora al ultimo deposito del Tyrannico Dominio se haveva occupato in Siena Pandolfo Petrucci, demustratosi contra de nui tanto atroce inimico Et sopre tutto ce sonno decte Mascare acceptissime per essere procedute da la fraterna et singulare benevolentia, la quale semo certissimi che quella conformemente con lo Illmo Sre suo consorte ce porta, et per ogni altro effecto ce demustra, et ha demustrato per la Amorevolissima lra che con esso presente ce ha mandata, de le qual cose tutte insieme haveriamo da rengratiarla infinite volte per lre se la grandeza de li meriti soi et di lo Illmo Sre consorte prefato verso de nui, non refutassero le demustrationi de parole, recercando pieni effecti, usarimo le decte Mascare, et la loro perfecta belleza, ce toglira cura de ogni altro ornamento, Ad effecto de la commune parentela [426] perseveramo tutta via essere piu caldi, in questa andata nra ad Roma adoperarimo che per la Sta de Nro signore se li dia pienissimo effecto Del prescione che la vra Extia ce recerca faciamo liberare, scrivendo ce sia mandato subito piena informatione, et quella hauta non restarimo respondere ad essa Illma Sria vra. con sua satisfactione Ala quale ce recomandamo Ex Pontificiis Castris ad Aquampendentem primo Februarii MDIII.
De V. Extia Compare et fratello el Duca de Romagna etc.
Cesar
Agapytus.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Belriguardo, 24 agosto 1503.
Dux Ferrarie etc.
Zanzorzo — Per chiarirte de quello che da multi te è dimandato, se stamo de malavoglia de la morte del Papa, te certificamo che per niun capo la ni e' dispiaciuta: anci per l'honore de nostro Signore Dio, et per la universale utilità de la christianita, habiamo più di sono desiderato, che la divina bonta e providentia facesse provisione de uno bono et exemplare pastore, et che de la chiesia soa se levasse tanto scandalo: Ne la nostra particularita ni poteria fare desiderare altramente: perche l'honore de Dio et del bene universale prepondera apresso Nui: ma piu te dicemo che non fu mai papa dal quale non havessimo più gratia, et più al piacere che da questo, etiam dopo la affinità contracta cum lui: solamente havessimo et a pena quello de che il se era obligato, del quale non staessimo ala fede soa: Ma in niuna altra cosa ne grande ne mediocre ne picola siamo stati compiaciuti da lui: che credemo procedesse in grande parte per colpa del Duca de Romagna: Il quale per non havere potuto fare di Nui quello che haveria voluto se è governato cum Nui da extraneo, ne mai sè allargato cum Nui, ni comunicato li soi andamenti: Ne nui habiamo comunicato li nostri cum Lui: et ultimamente per inclinare Lui a Spagnoli, et vederni Nui boni francesi, non havevemo mai da sperare ni dal Papa, ni da Soa Signoria apiacere alcuno: Però non ni è despiaciuta questa morte non expectando se non male de la Grandeza el predicto Signor Duca. Volemo che tu communichi questo [427] nostro Secreto punctalmente al predicto Signor granmastro a la cui Signoria non volemo che sia celato lo animo nostro: ma cum altri parlane sobriamente: et remetterai poi questa indrieto al Reverendo messer Gianluca (Pozzi) nostro Consigliero.
Belriguardi 24. Augusti 1503.
N. Bendedeus.
(Foris) Spectabili Secretario nostro delectissimo Joanni Georgio Seregnio
Mediolani — Cita.
(Archivio di Stato in Modena.)
Mantova, 25 agosto 1503.
Illme et Exme Dne et Cognate honorme Ringratio la Ex. V. de la bona nova che per sue lettere la se dignata de darme del essere del Valentino, per che ne ho hauto tanta alegreza ch'io spero de dare repulsa al mio male: certeficandola che quando io reintra in stato, gli habia ad stare come factura e V. E. p.ta per esser lei patrone del tuto, et de la mia persona propria: pregandola se altro la intende del dicto Valentino, che pur el sii morto ad volermene dare qualche adviso, che la me fara sing.re apiacere: a la quale sempre ex corde me recomando.
Dat Mantue die 25. Augusti 1503.
Illme V. D. Servitor Joannes Sfor. pisauri etc.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Nepi, 18 settembre 1503.
Illme ac Exme Dne et maior Honorande. M. Ruberto de bisenzo: M. Hieronimo de alexandria: M. Culpino da verona: Andrea da benevento: Francescho da bologna et Mattheo da benevento: Gentil homini e soldati della Ex. del signor duca di romagna nro Honorevol fratello: et alcuni nri: per esser tucti habitanti in monte fiascono co' loro mugliere et robe dicano essere stati saccheggiato domenicha immane et anche [428] morto alcun de lor fratelli in montefiaschone de certa fantaria della Xa Mta: per el che ad esse e incurso grandissimo danno: et perdita de lor robe: vi pregamo vogliate esse et tucti i danni passi siano satisfacti de tucto quello sia possibili recuperare: el che al prefato Illmo S. Ducha serra inpiacere assai: e ad noi el reputiremo ad adceptissimo servitio da V. Illma S. al piacere della quali ne offerimo paratissimi Ex Nepe die XVIII. septenbris MDIII
D. V. Illma Sigria
Como minor fratello
El principe de Squillace.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Isola degli Orsini, 22 settembre 1503.
Ill.ma D.na Conjunx nos.a amatisma Acio che la S. V. sia informata come noi del passaggio de la san.a memoria del papa Alessan.º VI.º gli significamo, come essendo infirmato, cominciò a parlare in forma che chi non intendeva il suo proposito, credeva chel vacillasse, ancor chel ragionasse cum gran sentimento, le parole sue erano, io veniro, l'e ragione, expecta anchor un pocho, e da quelli che intendevano il suo secreto, è scoperto, che dopo la morte di Innocentio ritrovandosi in conclave, el patuì col diavolo comprando il papato con l'anima sua, e tra li altri pacti fu chel dovesse vivere in sedia dodeci anni, il che gli è stato atteso cum quattro di de giunta, gli è ancor chi afferma haver visti sette diavoli nel punto del respiro in sua camera, morto chel fu, il corpo cominciò a boglire, e la bocca a spumare come faria uno caldaro al focho, assi perseverò mentre che fu sopra terra: divenne anchor ultra modo grosso in tanto che in lui non apparea forma di corpo humano, ne dala larghezza ala lunghezza del corpo suo era differenzia alcuna: ala sepoltura fu portato senza molto honore, e dil cattaleto fu trascinato per un facchino, cum una corda ligata al pede, al loco di la sepoltura per non trovarsi alcuno che lo volesse tocare, fulli facto uno deposito tanto misero che la nana moglie del zoppo lha li a Mantova piu honorevole: e per ultima sua fama ogni giorno se gli trovano attacchati li piu vituperosi epitaphij del mondo:
Hora è venuta nova come il Siena è creato papa: reputato persona neutrale e senza passione ne parte: Alla S. V. [429] tutto ne donamo basando pur assai Federico: Havemo mandato a dimandare il passo e victualie per meggia Roma non si essendo facto il ponte fora come era stato promisso non sapemo che risposta haveremo, sapemo ben che li nemici sono a Genezano e ni vengono incontra Monr Tremoglia aggravato, è forciato ritornare a dreto: saremo soli al regimento del campo. Benevaleat D. V. Ex Insula XXII septembris MDIII.
Conjunx Marchio Mantue etc.a Xmi Regis Locumts Generalis.
Illme dne Conjugi Nostre amatissme Dne Isabelle Marchionisse Mantue.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Codegori, 4 ottobre 1503.
Illustrissima et Excellentissima Domina Nurus et filia nostra dilettissima: Havemo avuto la lettera de la Signoria Vostra, inseme cum quella de Mons. Reverendissimo Cardinale de Cosenza a lei directiva che la ni ha mandato, la quale ge remettemo cum questa nostra, et la quale non è stà lecta per persona alcuna se non per Noi, et havemo notato il prudentissimo scrivere de epsa Vostra Signoria, et del predicto Reverendissimo Cardinale, quale Le mone cum tante bone ragione, che non se po judicare, senon chel sia amorevole et savio: Unde havendo Noi pensato al tuto, ni pare che la Signoria Vostra possa et debia acconsentire a quanto propone de volere fare il predicto Monsignor Reverendissimo; al quale ni pare ora che Vostra Signoria habia ad havere qualche obligatione, per la demonstratione cun effecto de tanto cordiale amore chel mostra portare a quella et al Illustrissimo Don Rodorico suo figliolo, che se poterà dire, essere stato preservato in vita per sua opera et se bene epso Don Rodorico sera alquanto largato da epsa Vostra Signoria; meglio è stare così lontano et securo che vicino cun periculo come il demostra che seria; et non se diminuira per questa distantia puncto lo amore fra voi. Et quando el sera Grande Il potera secundo le condicione de tempi pigliare partito al facto suo on de retornare in Italia on de restare, et è bona provisione quella che dice epso Monsignore Cardinale de vendere [430] quelle cose mobile, et acquistare lie per supplire al vivere suo, augumentandose le intrate, come il dice che fara unde per ogni respecto, come havemo dicto, ni pare chel sia bene ad acconsentire a la sua voluntade. Non dimanco se ala Signoria Vostra che è prudentissima paresse altramente, se ne remettemo a lei. Que bene valeat Codegorij iiij octobris 1503.
Hercules Dux Ferrarie.
(Archivio di Stato in Modena.)
Reggio, 18 agosto 1505.
Ill.me et Ex.me D.ne Cognate et fra.r nos.r hon.me Havendo sempre cognosciuta V. Ex.cia per ogni fortuna portare singulare amore all'Illmo S. Duca mio fratello et esser bene disposita a tutte le cose che gli sieno di honore et comodo non altrimenti che se la gli fusse carnale fratello: con ogni fiducia al presente ricorro al favore suo per la liberatione de Sua Ex.cia per la quale etiam per opera et diligentia mia si prattica al presente in Roma de mandare ala Cat.ca M.tà lo Rev.mo Card.le Regino cum licentia et favore de la S.tà de N. S. et essendosi pregato Sua R.ma S.ia che li vogli andare voluntieri, ha gratiosamente resposto esserne molto contento: Resta la licentia et il favore del papa: Unde sapendo lo amore che sua Beat.ne porta a V. E. la priego quanto più posso che li piacia scrivere a S. Beat.ne pregandola grandem.te che la vogli dignarsi prestare dicta licentia ad esso Card.le et scrivere cum tale efficacia ala pred.ta Cath.ca M.tà che dicto S. Duca sia liberato, perchè si tiene per indubitato che serà facto quanto S.a S.ta vorrà, et quando lo Ill.mo S. Duca de Urbino fusse a Roma prego V. S.ia che li vogli scrivere opportunam.te sopra ciò, perche Sua Ill.ma S.ia tenga ben disposta la pred.ta Beat.ne a lo effecto predicto: Et non gravarà a V. Ex.cia mandarme epse lett.e per questo cavallaro che li mando a posta: a ciò lo possi cum le mie mandare al suo viaggio, et se anche paresse a quella oltra di questo, scrivere a qualche suo in Roma che etiam ne parli ala S.tà de N.º S.re et solleciti, la poterà fare quanto li parerà, et lo Illmo S.r mio fratello et io de ogni suo favore gli ne restaremo obligat.mi ne seremo immemori [431] del beneficio: Offerendomi et raccomandandomi a V.a Ex.cia que bene valeat. Regii XVIII. Aug.ti 1505.
Lucretia Ducissa Ferrarie etc.
N. Bendede'.
Ex.mo Cognato et fratri meo hon. D.º Francisco Marchioni Mantue. Mantue subito.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Novembre 1505.
In n. D. D. nri J. Ch. Anno a nat. ejusd. Millº Quingentesimo Vto pont. S. D. N. dni Julii div. prov. pp II. Ind. VIIII sec. mor. Rom. mens. nov. die vero.... Constituti ante pedes et sac. consp. pfati Smi dni nri pp Adstantib. ibid. et assistentibus Rmis in xpo patrib. Hyeronimo epo Sabin. Card. Racanaten. vulg. nuncupato Raffaele S. Georgii epo Albanen. S. R. E. Camº Rmo d. Jo. Antº Tusculan. epo Card. Alexandrino Antº S. Anastasie card. Cumano Francº S. Susanne Card. Volterrano Jo. S. Marie in Equirio Card. de Colunna vulg. nuncupato. In mei Not. pub. et test. infrascr. presentia Magcus Adolescens dnus Nicolaus de Ruvere pfati S. D. N. pape Nepos ac Nmi in xpo pris Dni Galeotti tti S. Petri ad Vincula Carlis ac S. R. E. Vicecancellarii germ. frater cum presentia et assistentia ejusd. ex una et magca et generosa dna Julia de farnesio vidua relicta quond. magci viri dni Ursini de Ursinis Mater et dudum Tutrix et nunc Curatrix magce puelle adulte dne LAURE sue et dicti qd. dni Ursini legitime et nat. filie et universalis heredis et ipsa Magca dna laura cum presentia et auct. dicte sue matris ac Tutricis dudum et nunc curatricis et legit. administratricis et cum pres. et assist. Rmi in xpo patris Alexandri tti S. Eustachii Cardis de Farnesio vulg. nuncup. Avunculi prefate dne laure sue germane sororis filie Ad interrogat. mei pub. Not. presentis et primo solemnit. interrogantis prefatum Magcum d. Nicolaum present. et intellig. si vult habere et recipere in suam legitim. sponsam et uxor. pfatam magcam d. lauram cum dote et fundis dotalib. jocalib. et mobilib. et paraferno secund. tractatus habitos conclusos et firmatos inter pfatos Rmos dnos Carles de farnesio et vicecan. in totum adscendentes ad valor. et existimat. concorditer fact. triginta milium ducator. de Carlenis veterib. decem pro quolib. ducat. et legitimas nuptias cum ea contrahere et copulare et ipsam [432] habere et tenere pro legit. sponsa et uxore secund. Mandata et ritum S. E. dei Ad quam quid. interrog. per me Not. pub. sic ut prefertur solemnit. factam sponte ac deliberato animo et ex certa sua scientia pfat. magcus D. Nicolaus respondendo dixit Volo et ita consentit. Subsequenter vero per me eund. Not. interrogata pfata Magca D. Laura etatis nubilis sicut ex aspectu apparet existens si habere et recipere vult in suum legit. sponsum et maritum pfat. magm D. Nicolaum presentem cum dote et jocal. et paraferno predictis sicut tractatum firmat. et conclus. fuit inter ipsos Ros dnos Carles et in legitm matrimon. ejusd. consentire similiter sponte ac libere ac deliberato animo et ex certa sua scientia respondit, dixit volo et ita consentio Me Mot. ut pub. pers. etiam stipulante pro eis et eor. et cujuscq. ipsor. nomine == Postque incontinenti prefata mgca d. Julia mater et curatrix et legit. administratrix pfate D. Laure sue filie et curatorio et administratorio nomine ipsius Cum presentia et assist. dicti Rmi D. Carlis de farnesio sui germani fratris et ipsa mgca D. Laura adulta cum auctoritate dicte sue matris et curatricis et cum pres. et assist. dicti Rmi d. Card. avunculi sui Constituerunt dederunt cesser. concesser. transtuler. mandaverunt pfato M. D. Nicolao presenti et recip. et michi Not. etc. Quodam paternum Castrum vulgar. nuncupatum Bassanellum cum duob. casalib. et eor. tenimentis eid. anexis et incorporatis vid. Cerqueto et palazola vulg. nuncup. et cum toto dicti castri territorio dominio et vassallaggio ac mero et mixto imperio et cum fortellitiis et terris, Quod totum castrum cum suo territorio et casalibus situm est in dyocesi Ortana Censuatum R. Eccle cum onere census unius libre Cere annuatim Cui ab uno territorium civitatis Orte ab alio castri Gallesii ab alio castrum Suriani ab alio castrum Julianelli Extimatum concordit. et de comuni partium consensu valoris et comuni exstimationis quatuordecime milium ducator ad computum X carl. veterum pro quol. ducat.
Item similr. in dotem et pro fiendo dotali ejusd. constituerunt deder. et concesser. transtuler. et mandaverunt omnia et sing. jura nomina et actiones que et quas habet pfata D. laura in quod. palatio et domib. et apotecis simul junctis quod et que situm et sita sunt Rome in Rne pontis jux. plateam Montis Jordani quib. undique a trib. laterib. sunt vie pubce a quarto vero latere sunt res. . . . . . . . vel si qui sunt plures aut verior. confines seu vocabula veriora.
················
Amplius etiam pro jocalib. et acconcio et ornatu ipsius d. laure secund. ritum et morem Roman. tempore quo div. fav. gratia domum et familiam dicti sui sponsi transferetur promiserunt deferre et deferri facere et quod ipsa D. laura [433] secum deferet tot et tanta bona in jocalib. monilib. unionibus perlarum collanis aureis vestib. sericeis et in broccat. vasis argenteis et aliis reb. et bonis mobilib. et suppellectib. valoris et extimat. altror. trium mil. ducat.
················
Acta fuerunt hec in palatio apostolico aput S. Petr. in Aula pontific. psentib. infrascriptis testibus vd. Bro do. Jacº epo Caiacen. dno epo Millepoten. dno epo Ortano dno epo Eugubien. dno herig. Archiepo tarentino et Ill. dno Constantino capitaneo ad custod. palatin. et principis qui ensem tenuit secund. ritum Romanor. in stipulatione sponsalium sollemnit. celebratarum inter dictos magcos sponsum et sponsam omnibus ad predicta adhibitis et convocatis.
(Protocollo del Notaio Camillo Beneimbene.)
Pamplona, 7 dicembre 1506.
Illme Princeps et Exme Dne. Compater et tanquam fr. hon. Comm: Aviso V. Extia como depoi tanti travagli ha piaciuto ad N. Sr Dio liberarme et cavarme de prescione nel modo che da Federico mio secretario exhibitor de questa intendera, piaccia alla infinita sua clementia che sia per maiur suo servitio: Al presente me retrovo in Pampilona col sermo Re et Regina de Navarra, dove arrivai alli tre de Decembre, como de questo et de ogni altra cosa dal prefato Federico V. Illma Sria ad pieno intendera, al quale piaccia de quanto dirà in mio nome prestar quella piena fede che faria alla mia propria persona. Alla Extia V. sempre me recommando. Ex Pampilona VII. Decembris MDVI.
de vra S. compatre e minor fratello
Cesar.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Ferrara, 28 dicembre 1506.
Ill.me et Exme D.ne Cognate et fr. hon. Lo exhibitore presente serà un servitore del Ill.mo S. Duca mio fratello che expectandosi da sua Ex.cia ha portato lettere di quella, significando la nova de la sua certa liberatione, et il loco dove [434] per Dio gratia la si trova sana et di bona voglia, che è in confermatione di quanto si haveva per advisi da diversi bande. Il viene a V.a Ill.ma S.ria cum sue lett.e sum certa che la si alegrarà et pigliarà quello contento che faria el pred.to S.r Duca et io dogni suo prospero et felice successo amandolo, come la fa da fratello. Non ho voluto chel dicto venga senza questa mia per la quale non me extenderò altramente in narrarli come è passata dicta liberatione perche da lui come instructo del tutto ge la exponerà diffusamente. Et a V.a Ex.ia sempre me ricomando.
Ferrara XXVIII. Decembre 1506.
De V.a S.ia obedientis.ma Sorella
La Duchessa de Ferrara.
N. Bendede'.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Ferrara, 15 gennaio 1507.
Ill.me et Ex.me D.ne Cognate et fr.r hon. Hora ho inteso che per commissione de la S.ia de N.º S.re è stato preso in Bologna Federico cancelliero del S.re Duca mio fratello: et perchè sum certis.a Chel non si trovarà in manchamento alcuno per non essere venuto per fare ni dire cosa alcuna che possa despiacere ni essere molesta a sua Beat.ne perchè sua Ex.ia non pensaria ni ardiria fare simil cosa verso sua S.ta et costui sel havesse commissione alcuna melhaveria prima comunicata, et io non haveria tollerato ne tollerarla che se ne facesse un tristo pensiero per essere devotiss.ma et fidelissima serva de S. Beat.ne insieme cum lo Ill.mo S.r mio consorte. Ma non trovo ne so chel sia venuto per altro se non per portare la nova de la sua liberatione. Et cussi tengo per indubitato chel non si trovarà in mancamento. Et perchè questa detentione io la estimo grandemente maxime per il smachamento che po essere per questo al p.to S.r Duca mio fratello che non sia in gratia de sua Beat.ne anche a me: priego quanto più so et posso V.a Ex.ia che per quanto amore la mi porta, la vogli in ogni modo operare cum la p.ta S.tà che presto el sia relaxato come spierò in la benignità sua et in la efficacia et intercessione de V.a Ex.ia che per un singulare piacere et beneficio al presente da V.a Ill.ma Sig.ia non potria recevere il magiore ni de che più ge ne restasse obligata et per l'honore et per ogni respecto, si chè de novo ge ricommando [435] questo caso de tutto core, et a lei mi offero et ricomando.
Ferrarie XV. Januarij 1507.
De V.a S.ia sorella e servitrice la Duchessa
de Ferrara.
N. Bendede'.
Allo Illmo et Ex.mo S.re mio cognato et fratello hon.mo el Sig.r Marchese de Mantova. Bononie.
(Archivio Gonzaga in Mantova.)
Roma, febbraio 1515.
Alla Illustrissima et Excellentissima Signora et Figliuola mia observandissima la Signora Duchessa di Ferrara.
Illustrissima et Excellentissima Signora mia observandissima Commendatissima Per la lettera di Vostra Excellentia quale ho ricevuto a questi di, ho inteso quanto quella habbia facto nella causa mia con Paulo Pagnano, et benchè lui habbia usate buone parole col Conte Lorenzo delle quali io non mi fido punto, perciocchè molto prima di mo a me e notissima la sua malignità, et so che non pensa in altro che in darmi qualche fastidio et tribularmi sinchè io vivo, però prego la Excellentia Vostra con ogni efficacia possibile che voglia essere contenta de fare opera che io una volta sia liberata de tal molestia, et pigliare qualche expediente che io non stia più in questo timore, che certo saria causa della total ruina della persona, et de quelle poche facultate che io ho. Il bisogno mio saria che Vostra Excellentia insieme col Illustrissimo Signor Duca suo Consorte mandassino un loro servitore che fosse persona discreta, et amorevole, al Illustrissimo Signor Duca de Milano con lettere loro di buon tenor, con le quali si pregassi la Sua Excellentia ad dovere interponere l'autoritate sua col decto paulo et indicergli un perpetuo silentio et infine commandargli che attente le buone ragioni mei non debbia più molestarmi, maxime havendo lui da possersi revalere per altra via che per la mia ma lui come homo poco respectivo ha sempre voluto agitar contra di me, come se io fussi la piu vile persona del mondo, pensando forsi che io fussi abandonata et derelitta de ogni aiuto et favore, [436] et che non si trovassi homo che parlassi per me, ma io rengratio lo onnipotente dio, che alla ragione ne la Sacra divina Maestà ne li homini de (questo) mondo me hanno abandonata, et così di nuovo prego et strengo con tutta la efficacia del cuor mio la Excellentia Vostra che non voglia mancarmi del suo aiuto, et favore, et per questa provisione che di sopra ho decto, et mandar questo loro servitore a fare questo effecto devotamente la certifico che mai ne vedrò fine si che per amor di dio non vogliate abandonarmi. Altro non voglio per ora dirgli se non che a Lei et al Illustrissimo Signor Duca suo Consorte et a li Signori Suoi Figliuoli mi raccomando, et continuo prego per la salute di tucti
In Roma............ di Febraro MDXV.
La Felice et Infelice Madre Vannoza Borgia.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 14 settembre 1515.
Illustrissimo et Reverendissimo como figlolo observandissimo. Da poi humili benedictione etc. havemo riceputa una gratiotissima letera de Vostra Signoria Reverendissima iamdiu (per) la quale referemo infinite gratie di tanto amori e carità ne portate maxime in questi nostri negotij. Cum lingua non si poteria dare tante gratie si non che lo Altissimo sia prhegato voglia conservare in quello stato quali il cori nostro desia. Si che Signor mio Reverendissimo et Illustrissimo si posibile est dixe Cristo che Vostra Signoria metesi tale effetto a questo pagnano secondo parira a quella che prudenti non ne habia a distratiarne al modo che fa. Juro a Dio che pegio la vergogna pyu che il danno che uno Mercadante uxurario ne voglia straciarne a questo partito. Savio he prudenti siti solo, in Vostra Signoria mi confido che al tuto provedereti. Non altro quanto a questa parte. Si non avixo Vostra Signoria che al nostro giardino havemo trovato doe Colone de mistito e havemo inteso che Vostra Signoria fa lavorare a Ferrara per tanto Signor mio de queste ve ne fatio un presente et de altre cose che se troverano. Supplico a Vostra Signoria che dia avixo de la receputa quando sarano azonte perche Signor ho molti cani allorichia sopra questa materia, he non me fido, però havemo saputo che lo advocato di lo adversario nostro voleva scrivere li a Ferrara ad Monsignor Reverendissimo daragona che li dovesi domandare a Vostra Signoria benche [437] son certa che si sua Signoria Reverendissima sapessi che questo fusi nostro adversario faria piutosto per noi che per simili. Si che Signor Mio epsa scriva a Messer — Iheronimo Sacrato li dia recapito de mandarli inanti che li tempi si guasti. A Vostra Signoria Reverendissima et Illustrissima se ne aricomandiamo. Prhegamo a dio di continuo ve conservi in sanità et augumento di stato. Rome die 14 septembris 1515.
De Vostra Signoria Reverendissima et Illustrissima
La felice et infelice quanto Matre
Vanotia Borgia de Cathaneis.
(Archivio di Stato in Modena.)
Roma, 19 dicembre 1515.
Illustrissime Domine Domine Lucretie. Ferrarie Ducisse etc. Domine Colendissime
Ferrarie
Illustrissima Domina salutem et commendationem. La Excellentia nostra se deve ben ricordare la servitu della bona memoria de Messer Agapyto de Amelia verso la Excellentia già del Duca nostro et lo amore et affectione sempre porto ad Noi in spetie: Per il che non solo in una minima cosa: ma in ogne altra de qualunque sorte fusse adiutare et favorire i soi: Per questo occurre che avante el morisse renuntio in favor de soi Nepoti ad Messer Johan Baptista del Aquila tucti soi benefitij, tra li quali ce sono certi de poca valuta in lo Archivescovato de Capua: et questo fece la bona memoria per più favore de Soi Nepoti non possendo mai pensare che dal Reverendissimo et Illustrissimo Segnor Cardinale Vostro Arcivescovo prefato havessero da esser molestati. Impero se la Excellentia Vostra desidera farme cosa grata, la prego se degni per tucti li decti respecti favorire li prenominati Nepoti ad presso de sua Signoria Reverendissima et Illustrissima como piu ad pieno del bisogno della cosa la Excellentia Vostra sera informata da Nicola presente exhibitore pure Nepote del dicto Messer Agapito. Et bene valeat Excellentia Vostra cui etiam me commendo. — Rome Die XVIIIJ Decembris MDXV.
Post scripta la Excellentia Vostra fara in questo quello ad quella parera che questo ho scripto me e stato forza: per questo non se faccia se non quello sia honore ad Monsignor [438] Reverendissimo: Et per lo presente quella dara risposta ad quella parera....
Di Vostra Illustrissima Signoria
Perpetua oratrice Vannozza.
(Archivio di Stato in Modena.)
Ferrara, 22 giugno 1519.
Sanctissimo Patre et Beatissimo Signor mio Colendissimo.
Con ogni possibile reverentia d'animo basio li Santi pedi de Vostra Beatitudine, et humilmente me raccomando in La sua Santa gratia. Havendo io per una difficile gravidanza patito gran male più di duo mesi; come a Dio piacque a XIIIJ del presente in aurora hebbi una figliola: e sperava essendo scaricata del parto che mal mio anche si dovesse alleviare: ma è successo il contrario: in modo che mi è forza concedere alla natura: E tanto di dono mha fatto il Clementissimo nostro Creatore, che io cognosco il fine de la mia vita, e sento che fra poche hore ne saro fuori, havendo pero prima ricevuti tutti li Santi Sacramenti de la Chiesa: Et in questo punto come christiana benchè peccatrice mi sono racordata de supplicar a Vostra Beatitudine, che per sua benignita si degni dare del thesoro spirituale qualche suffragio con la Sua Santa benedictione allanima mia: e così devotamente la prego. Et in Sua Santa gratia raccomando il signor Consorte et figlioli mei tutti servitorj di predicta Vostra Beatitudine. In ferrara adi XXIJ de zugno 1519 a hore XIIIJ.
De Vostra Beatitudine
Humil Serva
Lucretia da este.
(Archivio di Stato in Modena.)
FINE.
[439]
A Don Michelangelo Gaetani, duca di Sermoneta | Pag. I |
Introduzione | V |
Libro primo — Lucrezia Borgia in Roma | 4 |
Libro secondo — Lucrezia Borgia a Ferrara | 217 |
Indice dei Documenti | 349 |
Documenti | 353 |
Errata-Corrige.
Pag. | linea | ||
20 | 9 | Croee | Croce |
» | 26 | mantova | Mantova |
23 nota | 4 | nato | noto |
65 | 20 | imprudenza | impudenza |
256 | 34 | quella, | quella. |
1. Zurita, Annales de Aragon, V, 36.
3. Zurita (IV, 55) afferma, che morì sin dexar ninguna succession. L. N. Cittadella, senza badare a ciò, nel suo Saggio di Albero genealogico e di memorie su la famiglia Borgia (Torino, 1872), gli dà due figliuoli, Silvia e il cardinale Giovanni Borgia juniore.
4. Raynald, su questo anno, n. 31.
5. Statura procerus, colore medio, nigris oculis, ore paululum pleniore: Hieron. Portius, Commentarius, edizione rara del 1493: nella Casanatense in Roma.
8. Giannandrea Boccaccio al duca, Roma, 25 febbraio, 11 marzo 1493; e su questi dispacci ritorneremo più oltre. Archivio di Stato di Modena.
9. Marin Sanudo, Diario, vol. I, fol. 258.
10. Devo avvertire che nel rendere qui le corrispondenze e i documenti italiani, mi son deciso, dopo matura considerazione, a ridurli a lezione moderna, prestando loro forma e linguaggio più rispondenti a quelli dell'oggi. Ho sempre però tenuti presenti e scrupolosamente seguiti i testi originali. Mi son quindi rimasto fedele al concetto, non senz'anco, ov'era possibile, conservare l'espressione e sin le parole. Documenti e corrispondenze del tempo occorrono in questa storia frequenti troppo e numerosi. E riprodurre le une e gli altri testualmente nella lingua genuina e nella forma primitiva ancora e molto rozza, sarebbe stato come far del libro una specie di centone goffo e fastidiosissimo alla lettura. Niuno, per poco famigliare che sia con le scritture del tempo, di cui qui si discorre, vorrà per ciò muovermi rimprovero. Anzi, mi confido, approverà il modo usato. Chè, del resto, provvedendo così all'unità di stile e all'armonia di forma, non s'è defraudato alcuno d'alcuna cosa. Il lettore curioso e diligente troverà alla fine del volume, in Appendice, riprodotti originalmente i documenti più importanti e tuttora inediti, quelli che l'Autore stesso ha creduto dover pubblicare. (Nota del Traduttore.)
13. Un estratto delle tavole nuziali è nell'Archivio del Campidoglio, Cred. XIV, t. 72. Da un istrumento del notaro Agostino Martini.
14. Vedi in proposito le notizie da me tolte dall'Adinolfi nella mia Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, 2 Aufl., VII, 312.
15. La lettera con l'indirizzo: A messer Carlo Canale, si trova nell'edizione: Le Stanze e l'Orfeo ed altre poesie di Angelo Poliziano. Milano, 1808.
16. Nell'Archivio di Mantova trovasi una lettera della marchesa Isabella a Carlo Canale del 4 dicembre 1499.
17. Tutto questo intorno al Canale nella prefazione all'Orfeo di Ireneo Affò, messa nella citata edizione di Milano, specialmente nelle note.
19. Ludovico Gonzaga a Bartolomeo Erba: Siamo contenti contrahi in nome nro. compaternità cum M. Carolo Canale et cussì per questa nostra ti commettiamo e constituimo nostro Procuratore... Nota dell'Affò nella sua prefazione all'Orfeo, pag. 113.
20. Ma. Adriana Ursina, la quale è socera de la dicta madona Julia (Farnese), che ha sempre governata essa sposa (Lucrezia) in casa propria per esser in loco de nepote del Pontifice, la fu figliuola de messer Piedro de Milla, noto a V. Ema. Sigria, cusino carnale del Papa. — Dispaccio ad Ercole, del 13 giugno 1493, nell'Archivio di Stato di Modena. E in un altro dispaccio del 6 maggio 1493 lo stesso la chiama: Madona Adriana Ursina soa governatrice figliola che fu del quondam messer Pietro del Mila.
21. Altro vocabolo, che più s'accosti al tedesco Blaustrumpf, non mi sovviene, e forse non v'è. Gl'Inglesi hanno l'equivalente bleu-stocking, e i Francesi bas-bleu. Nella nostra lingua espressione più specifica e viva manca, perche prima, come ben dice l'Autore, ce ne mancò il concetto, e poi la cosa. Dico ci mancò, non ci manca, perche timidamente sì, ma oramai comincia anche tra noi a mostrarsi. Del resto quel che importa è comprendere il valore intrinseco della parola tedesca. Blaustrumpf vocabolo composto, letteralmente indica persona dalle calze cilestri. Si adopera al traslato ironico, e vuol dire donna che ha messo calze maschili, dandosi aria e pretensioni gravi di uomo. Risponde estrinsecamente un po' a quel che noi si vuol significare con donna coi calzoni. Questo però va inteso più nel senso di donna di spirito libero. Per tanto ho preferito dottoressa, che, come il Fanfani nota, è usato per indicar donna sacciuta e salamistra. (Nota del Traduttore.)
22. Jacobus Bergomensis, De claris mulieribus. Paris, 1521.
25. Accedit studium illud tuum et perquam fertile bonarum litterarum in quo hac in state seris.... Non deerit surgenti tuae virtuti commodus aliquando et idoneus praeco. — At tu Caesar profecto non parum laudandus es; qui in hac aetate tam facile senem agis. Perge nostri temporis Borgiae familiae spes et decus. — Prefazione alla Syllabica, edizione romana del 1488: nell'edizione del Gennarelli del Diario di Burcard.
27. Sullo studio di Cesare in Pisa: Angelo Fabroni, Hist. Acad. Pisan., I, 160, 201.
28. Appendice di documenti, n. 4. — Il 16 giugno 1491 furono fatte alcune mutazioni al contratto, le quali Beneimbene ha registrate nello stesso protocollo.
29. Tutto ciò apparisce dallo scioglimento del contratto matrimoniale con Don Gasparo: Appendice di documenti, n. 7.
30. Cum simonia et mille ribalderie et inhonestate si è venduto il Pontificato che è cosa ignominiosa et detestabile.... Dispaccio dell'ambasciatore ferrarese in Milano, Giacomo Trotti, al duca Ercole. Milano, 28 agosto 1492: nell'Archivio di Modena.
31. Compose i distici Jeronimo Porcio, che gli pose nel Hieronymus Porcius Patritius Romanus Rotae Primarius Auditor.... Commentarius. Edizione rara di Eucario Silber in Roma, 18 settembre 1498. — Altri distici di Michele Ferno di Milano finiscono:
Borgia stirps: bos: atque Ceres trascendit Olympo,
Cantabunt nomen saecula cuncta suum;
il che è stato una vera profezia. Vedi: Michael Firnus, Historia nova Alexandri VI ab Inocentii obitu VIII. Edizione similmente rara dello stesso Eucario Silber, anno 1493.
32. Ex arce Spoletina, die V Oct. (di propria mano) Vr. uti fr. Cesar de Borja Elect. Valentin. Pubblicato dal Reumont nell'Archiv. Stor. Ital., serie 3ª, tomo XVII, 1873, 3ª dispensa.
33. Era venuto il primo marito de la dicta nepote, qual fu rimesso a Napoli, non visto da niuno... Dispaccio di Giannandrea Boccaccio, vescovo di Modena, Roma, 2 novembre 1492, e i seguenti del 5 e 9 novembre, nell'Archivio di Modena.
35. Dispaccio nell'Archivio di Mantova. Ne' rapporti officiali la Lucrezia era a volte chiamata anche Nipote del Papa.
36. Giannandrea Boccaccio al duca Ercole. Roma, 25 febbraio 1493.
38. Memorie manoscritte di Pesaro, di Pietro Marzetti e di Lodovico Zacconi, nella Biblioteca Oliveriana di quella città.
40. Dispacci del Boccaccio. Roma, 25 febbraio e 11 marzo 1493.
41. Magni et excellentis ingenii et praeclare indolis; prae se fert speciem filii magni Principis, et super omnia clarus et iocundus, e tutto festa: cum magna siquidem modestia est longe melioris et praestantioris aspectus quam sit dux Candie germanus suus. Anchora lui è dotato di bone parte. — Dispaccio del 19 marzo 1493.
42. Mai fu visto il più carnale homo; l'hama questa madona Lucrezia in superlativo gradu. Dispaccio del Boccaccio, Roma, 4 aprile 1493. L'espressione carnale è da prendere solo nel senso del nepotismo: così l'ambasciatore stesso l'adopera anche in altro luogo in modo chiaro e che non ammette dubbio.
43. Se ne vegga la descrizione nella mia Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter.
45. Cod. Aragon., II, 2, 67. Edizione Trinchera.
46. Carte Strozziane, filza 343. Archivio di Firenze.
47. Il 13 gennaio 1494, Lelia Ursina de Farnesio si congratula con lui della nomina. Ibidem.
50. Atti e Memorie di Storia patria per le provincie Modenesi e Parmensi. Modena, 1863, vol. I, pag. 443.
51. Dispacci di Giorgio Brognolo al marchese. Roma, 6 e 15 maggio 1494. Archivio di Mantova.
52. Dispaccio di Giacomo Trotti al duca Ercole. Milano, 11 giugno 1494. — Le donne il 1º maggio erano ancora in Roma, avendo in tal giorno madonna Adriana scritto alla marchesa di Mantova, per raccomandarle un'amica. — Lettera nell'Archivio di Mantova.
53. Questo Breve trovasi nella Storia de' Conti e Duchi d'Urbino dell'Ugolini, II: docum. n. 13. Vedi l'originale nell'Archivio di Stato di Firenze: solo la firma è di mano d'Alessandro; il rimanente è del datario Giovanni Lopez, che si sottoscrive: Io Datarius.
54. Memorie di Tommaso Diplovatazio, Patrizio Costantinopolitano e Pesarese, di Annibale Olivieri. Pesaro, 1771.
55. Su Collenuccio vedi lo scritto del suo concittadino Giulio Perticari, nelle Opere di costui. Bologna, 1837, vol. II, pag. 52 e segg.
56. Questa notizia la dà Marin Sanudo, Venuta di Carlo VIII in Italia. L'originale è nella Biblioteca di Parigi, ma ultimamente riprodotto in copia nella Marciana. Egli chiama Giulia favorita del Pontefice, di età giovane, et bellissima, savia, accorta e mansueta.
57. Secondo un dispaccio di Brognolo, nell'Archivio di Mantova, Giulia e Adriana tornarono il primo dicembre. In quel giorno Pandolfo Collenuccio, che trovavasi allora in Roma, scriveva: Una optima novella ce è per alcuno. Che M. Julia si è recuperata, et andò Messer Joan Marrades per Lei. Et è venuta in Roma: e dicesi, che Domenica de nocte allogiò in Palazzo. — Archivio di Modena.
58. Dispaccio di Giacomo Trotti. Milano, 21 dicembre 1494. — Archivio di Modena.
59. Che li pareva ogni hora vedere Messer Bartolomeo da Calcho a Sua Eccellenzia cum una staffetta, chel Papa fosse preso, e li fosse taliata la testa.
60. Trotti al duca di Ferrara. Milano, 24 dicembre 1494.
61. Queste date le porge Marin Sanudo nella sua storia manoscritta dell'invasione di Carlo VIII, fol. 470.
62. Queste date sono tolte dalle notizie di Marin Sanudo, Diario, vol. I, fol. 55, 58, 85.
63. Il dì de S. Laurentio il Duca de Gandia, figliuolo del Papa, intrò in Roma accompagnato dal Cardinale di Valenzia, et tutta la Corte con grandissima pompa. Dispaccio di Lodovico Carissimi al duca di Ferrara. Roma, 15 agosto 1496. Archivio di Modena. — Il 12 settembre il Gandia scrisse una lettera al marchese Gonzaga, che è riprodotta nell'Appendice di n. 12, affinchè si abbia anche una lettera di questo Borgia.
64. Il Boccaccio ad Ercole, 24 maggio 1495.
65. La Civiltà Cattolica (fascicolo del 15 marzo 1873, pag. 727) dà un estratto della notizia del Diario di Marin Sanudo, vol. I, 258. Essa suona così: Da Roma per le lettere del orator nostro se intese et etiam de private persone cossa assai abominevole in la chiesa di Dio che al papa erra nato un fiolo di una dona romana maridata, ch'el padre l'havea rufianata e di questa il marito invitò il suocero ala vigna e lo uccise tagliandogli el capo ponendo quello sopra uno legno con letere che diceva questo e il capo de mio suocero che a rufianato sua fiola al papa et che inteso questo il papa fece metter el dito in exilio di Roma con taglia. Questa nova vene per letere particular etiam si godea con la sua spagnola menatali di Spagna per suo fiol duca di Gandia novamente lì venuto.
66. Epitaphia clarissimarum mulierum quae virtute: arte: aut aliqua nota claruerunt. Codice di Hartmann Schedel nella Biblioteca Nazionale di Monaco.
67. Lod. Zacconi, Hist. di Pesaro, manoscritto nella Biblioteca Oliveriana; e così pure Pietro Marzetti.
68. Le lettere sono nell'Archivio Gonzaga a Mantova.
69. Battista Almerici, I, e Pietro Marzetti, Memorie di Pesaro. Il manoscritto è nella Oliveriana. Queste cronache non sono esatte nelle date e spesso sono piene d'errori.
70. Marin Sanudo, Diario, vol. I, fol. 410, marzo 1497.
71. Nell'Appendice di documenti, n. 14, v'è la lettera di condoglianza del cardinale Giuliano Della Rovere.
72. Quest'atto è dato in sunto dall'Amati nel Periodico di Numismatica dello Strozzi, anno III, fasc. II, pag. 73.
74. Nell'Archivio di Modena fra le Lettere di Donato Aretino da Roma.
75. Lettera di Lodovico Carissimi. Roma, 8 agosto 1497. — Archivio di Modena.
76. Et mancho se è curato de fare prova de se qua con Done per poterne chiarire el Rev. Legato che era qua, sebbene Sua Excellentia tastandolo sopra ciò gli ne abia facto offerta. Dispaccio dell'ambasciatore ferrarese a Milano, Antonio Costabili, al duca Ercole. Milano, 23 giugno 1497. — Archivio di Modena.
77. Di ciò Pandolfo Collenuccio, che era in Roma al seguito del cardinale Ippolito, scrive al duca di Ferrara il 25 dicembre 1498 (1497). La lettera autografa è nell'Archivio di Modena: El S. de Pesaro ha scripto qua de sua mano: non haverla mai cognosciuta.... et esser impotente, alias la sententia non se potea dare.... El prefato S. dice però haver scripto così per obedire el Duca de Milano et Aschanio.
78. Nello stesso dispaccio da Milano del 23 giugno 1497, l'ambasciatore ferrarese Costabili scriveva, Giovanni Sforza aver detto al duca Ludovico: Anzi haverla conosciuta infinite volte, ma chel Papa non gelha tolta per altro se non per usare con lei. Extendendose molto a carico di Sua Beatitudine.
79. L'originale del Breve si trova nell'Archivio di Modena: proviene dalla Cancelleria di Lucrezia. — Appendice di documenti, n. 15.
80. Appendice di documenti, n. 16. — Il Ducato di Bisceglie, città oggi di 19,000 abitanti, cui mena la strada ferrata di Foggia. Si diceva e scriveva allora anche Biseglia o Biselli.
81. Dispaccio di Giovanni Lucido Cataneo. Roma, 8 agosto 1498. — Archivio Gonzaga.
82. I Brevi sono nell'Archivio di Stato di Venezia.
83. L'istrumento è nel protocollo di Beneimbene. Vedine l'estratto nell'Appendice di documenti, n. 18.
84. Nel protocollo di Beneimbene.
86. La notizia è nel Diario di Marin Sanudo, II, 751.
87. Il Breve è nell'Archivio di Stato di Spoleto.
88. La Bolla d'investitura su pergamena è datata da Roma 1499 Non. (il mese manca). È un'ampia donazione. — Dalla Cancelleria di Lucrezia nell'Archivio di Modena.
89. I due Brevi sono nell'Archivio della Casa comunale di Nepi.
90. Gli atti relativi alla vendita, dagli 11 al 15 febbraio 1500, sono nell'Archivio di Modena.
93. Manoscritto nella Vaticana, n. 5205.
94. Collocutores itinerantes Tuscus et Remus, Romae in Campo Florae, 1497. Un altro scritto, del quale Jeronimo si vanta, De gentilicium nuptiarum ritu libellus, non m'è riuscito vederlo.
98. Vedi il mio scritto: Das Archiv der Notare des Capitols in Rom und das Protocollbuch des Notars Camillus de Beneimbene von 1457 bis 1505. Resoconto di una tornata della Reale Accademia Bavarese delle Scienze a Monaco, 1872, fascic. IV.
99. Nel Codice di Hartmann Schedel, nella Biblioteca Nazionale di Monaco.
100. Nell'Archivio Gonzaga.
101. In questa mattina ho hauto lo adviso de la morte del Rmo Card. Borgia MIO FRATRE passato de questa vita in Urbino. Forlì, 16 Ian. 1500. — Archivio di Modena.
102. A. 1500 22 gennaio (la data è sbagliata) morì il Card. Borgia, fiolo del Papa Alexº a Orbino. Silva Cronicarum Bernardini Zambotti. — Manoscritto nella Biblioteca di Ferrara.
103. La bona memoria del Cardinale Borgia mio fratre. Roma, 30 luglio 1500 — Archivio Gonzaga.
104. È erroneo ciò che crede il Cittadella, che Giovanni Borgia iunior sia stato un figlio di Pierluigi, il fratello di Alessandro.
105. Femina quasi virago crudelissima et di gran animo. — Venuta di Carlo VIII, pag. 811. Manoscritto. Qui Virago non sta nel senso indicato innanti a pag. 28, ma nell'altro di donna di tempra virile — Mannweib.
106. O bona Madonna, hora non te mancherà da.... Dispaccio dell'ambasciatore ferrarese Giorgio Seregni al duca Ercole. Milano, 15 gennaio 1500. — Archivio di Modena.
110. Sulla facciata di Porta Romana e sui bastioni si veggono ancora le armi colossali in pietra di Paolo III, e quelle di suo figlio. Un'iscrizione dice: «P. Aloisius Farnesius Dux i Castri et Nepete Munimentum hoc ad tutelam civitatis exstruxit, mdxl.»
111. Corrispondenza di lui col Gonzaga conservata nell'Archivio di Mantova.
112. Ad Pisaurenses: Guidi Posthumi Silvestris Pisaurensis Elegiarum, Libri II, pag. 33. Bonon., 1624.
114. Pietro Marzetti, Memorie di Pesaro. Manoscritto nella Oliveriana.
116. Il cardinal Ferrari al duca Ercole. Roma, 18 febbraio 1501. Prima lettera, tra quelle esistenti nell'Archivio di Modena, relativa a questo affare.
117. Lettera di Ercole al suo inviato Manfredo Manfredi in Firenze, 25 aprile 1501. — Archivio di Modena.
118. Il Ferrari a Ercole, 1 maggio 1501.
119. Girolamo Sacrati a Ercole. Roma, 8 maggio 1501.
120. Bartolommeo dei Cavallieri, inviato ferrarese in Francia, a Ercole. Châlons, 26 maggio 1501.
121. Bartolommeo dei Cavallieri. Lione, 22 giugno 1501.
122. Ercole a Giovanni Valla, 8 luglio 1501. Ercole al cardinale di Rouen, 8 luglio 1501.
123. Dispaccio di Bartolommeo Cavallieri, inviato di Ferrara presso la Corte di Francia, a Ercole, 10, 14, 21 luglio 1501.
124. Dispacci dello stesso senza data.
125. Il duca Ercole a Giovanni Valla, suo ambasciatore presso il cardinale di Rouen in Milano, 21 e 26 luglio 1501.
126. Da Roma accertasi, che la figliola del Papa ha partorito.... Gio. Alberto della Pigna al duca. Venezia, 15 marzo 1498. — Archivio di Modena.
127. Uno dei primi ad annunziare che Cesare fosse stato l'uccisore del fratello, fu un inviato ferrarese a Venezia. De novo ho inteso, come de la morte del Duca di Candia fo causa el Cardinale suo fratello. Dispaccio del Pigna ad Ercole, Venezia, 22 febbraio 1498.
128. Si paragoni l'epitaffio di Alessandro VI del Sannazzaro con l'epigramma di Guido Postumo: In Tumulum Sexti.
129. Nella lettera presso il Malipiero (Arch. Stor. Ital., VII, I, 499) è detto: Si dice che il signor Giovanni Sforza ha fatto questo effetto (l'uccisione di Gandia), perchè il Duca di Gandia usava con la sorella, sua consorte, la quale è fiola del Papa, ma d'un'altra madre: il che è positivamente falso. L'ambasciatore veneziano Polo Capello accenna a quel rumore con un SI DICE nella sua conosciuta Relazione del settembre 1500.
130. Il Cavallieri ad Ercole: Lione, S agosto 1501. Informa avere il Papa scritto al suo nunzio di accettare le domande del duca per concludere il matrimonio, il quale sarebbe straordinariamente vantaggioso per quest'ultimo e pel duca di Romagna.
131. Dispacci dell'inviato ferrarese Bartolommeo Cartari da Venezia: 25 giugno, 28 luglio, 2 agosto 1501. — Archivio di Modena.
132. Lettera di Ercole al Pozzi in Ferrara, 25 agosto 1501. Le lettere di Massimiliano non si trovano nell'Archivio d'Este, nè a Vienna.
133. Il contratto del 26 agosto 1501 fu ricevuto dal Beneimbene. Tanto questo, quanto l'altro contratto stipulato a Ferrara il primo settembre 1501 in Belfiore, allegato in copia nel protocollo del Beneimbene, non sono riprodotti nell'Appendice, perchè troppo lunghi.
134. Il cardinal Ferrari ad Ercole. Roma, 27 agosto 1501.
135. Minute ducali, primo settembre 1501.
136. La lettera è stampata nella Lucrezia Borgia duchessa di Ferrara, del Zucchetti. Milano, 1869.
137. Ed altre cose che egli disse per maggiormente magnificare il fatto. Matteo Canali al duca di Ferrara. Roma, 11 settembre 1501.
138. Quale mi pare già essere optima Ferrarese. Dispaccio da Roma del 15 settembre.
139. Che voleva havessimo veduto che la Duchessa non era zoppa. Il Saraceni a Ercole. Roma, 16 settembre.
140. Saraceni. Roma, 23 settembre.
141. Dispaccio del 25 settembre.
142. Appendice di documenti, n. 29. Ercole fece rispondere in modo da calmare i timori. Lettera a' suoi due oratori in Roma, 30 settembre 1501.
143. Dispaccio di Matteo Canali ad Ercole. Roma, 18 settembre 1501.
144. Vedi le Bolle nell'Appendice di documenti, n. 27 e 28. Entrambe sono nell'Archivio di Modena. La prima è un duplicato, la seconda originale. Manca il suggello di piombo; ma rimane ancora il filo di seta rossa e gialla, cui era sospeso. Lo stesso m'accadde incontrare in un manoscritto della Barberiniana in Roma, che diedi già nella Storia della città di Roma nel Medio Evo.
145. In un mandato del Papa, relativo a certi balzelli, del 21 luglio 1501, si dice: Nobili Infanti Johanni Borgia nostro secundum carnem nepoti. Anche in un Breve del 12 giugno 1502 alla Comunità di Gallese: Dil. filii nobilis infantis Johannis Borgia ducis Nepesini dilecti filii nobilis viri Caesaris Borgia de Francia, etc. — Archivio di Modena.
146. Il Saraceni ad Ercole. Roma, 28 settembre.
147. Datum in civitate Hispali, 7 gennaio 1502. Yo el Rey. — Archivio di Modena, nel Liber Arrendamentorun Terrarum ad Illmos Dnos Rodericum Bor. de Aragonia Sermoneti et Jo. de bor. Nepesin. Duces infantes spectantium alearq. scripturar. status eorundem tangentium. Biselli, 1502.
148. Lucrezia ad Ercole, 18 ottobre. Ercole a Lucrezia, 23 ottobre.
149. Gerardo Saraceni ad Ercole, 15 ottobre 1501.
150. Ercole a Don Francesco Roxas, 24 ottobre 1501.
151. Gerardo Saraceni ad Ercole. Roma, 26 ottobre 1501.
152. Il Saraceni ad Ercole, 26 ottobre 1501.
153. L'oratore Manfredo Manfredi ad Ercole. Firenze, 22 e 24 novembre 1601.
154. Il duca a' suoi due ambasciatori in Roma, 7 ottobre 1501.
155. Ercole a Gerardo Saraceni, 24 novembre 1501, e altre sue lettere dello stesso tenore a' suoi ambasciatori.
156. Ercole a Gerardo Saraceni in Roma, 11 ottobre 1501.
157. Dispaccio dell'inviato Ferrarese ad Ercole. Roma, 31 ottobre 1501.
158. Il qual mal effecto volendo nui fugire, seamo condescesani a contrahere la affinità cum soa Santità. Responsum ill.mi Dni ducis Ferrarie D. Angustino Semetic Ces. M.tis secretario. Ferrara, 22 novembre 1501.
159. Che il procedere del Duca era un procedere da mercatante. Ercole a Gerardo Saraceni, 1º dicembre 1501.
160. Ercole ad Alessandro VI, 1º dicembre 1501.
161. Dispaccio di Giovanni Lucido, nell'Archivio di Mantova.
162. La relazione di questo Reporter, che si segna El Prete, si conserva nell'Archivio di Mantova.
164. Dispaccio di Gianluca Pozzi ad Ercole. Roma, 25 dicembre 1501.
165. Gianluca Pozzi ad Ercole. Roma, 25 dicembre 1501.
166. Fu necessario che la abreviasse. Gianluca e Gerardo ad Ercole. Roma, 30 dicembre 1501.
167. E ciò nello scopo, che se mancasse essa Duchessa verso lo ill.mo Don Alfonso non fosse più obbligato di quanto voleva esserlo circa dette gioie. Ercole al cardinale Ippolito, 2 dicembre 1501. Della stessa data sul medesimo oggetto è pure la lettera di Ercole a Gianluca Pozzi.
168. Il Pozzi a Ercole, 1º gennaio 1501. — Archivio di Modena.
171. Pozzi al duca Ercole. Roma, 28 dicembre 1501.
172. Pozzi e Saraceni. Roma, 28 dicembre 1501.
174. Pozzi e Saraceni ad Ercole. Roma, 6 gennaio 1502.
175. Nell'Archivio comunale di Nepi, dove lo copiai dal Libro de' Brevi, ec. Appendice di documenti, n. 33. — Con la stessa formola e sotto la medesima data, un altro Breve alla Comunità di Trevi trovasi nell'Archivio di questa città, ed è stato stampato nell'Arte Cristiana: Passeggiate nell'Umbria, 1866, pag. 358, di Tullio Dandolo.
176. Beltrando Costabili al duca Ercole. Roma, 6 gennaio 1502.
178. I colori della Lucrezia erano giallo e nero bruno (morello aperto), e quelli di Alessandro giallo e nero.
179. Spogli di Giambattista Almerici, I, 284. Manoscritto nell'Oliveriana di Pesaro.
180. Dispaccio da Rimini, 22 gennaio 1502.
181. Ferrante ad Ercole. Rimini, 23 gennaio 1502.
182. L'espressione tecnica è: lavarsi il capo.
183. Ferrante ad Ercole. Imola, 27 gennaio 1502.
184. Gianluca al duca Ercole. Bentivoglio, 31 gennaio 1502.
185. Bernardino Zambotto. Vedi lo scritto di monsignor Giuseppe Antonelli: Lucrezia Borgia in Ferrara, sposa a Don Alfonso d'Este. Memorie storiche.... Ferrara, 1867.
186. L'ambasciatore Beltrando Costabili al duca Ercole. Roma, 7 gennaio 1502.
187. Il duca al suo ambasciatore in Roma. Ferrara, 22 gennaio 1502, nelle Minute Ducali a Costabili Beltrando Oratore a Roma.
188. Il signor Cittadella, il più grande conoscitore della sua città natale, mi fu guida in quel luogo, e devo la cognizione, che ne acquistai, ai dati, alle indicazioni e alle antiche carte da lui fornitimi.
189. Lo dice egli stesso in una lettera al suo ambasciatore Beltrando Costabili a Roma. Ferrara, 3 febbraio 1502.
190. Isabella Gonzaga, che stava a vedere il corteggio dalla finestra di un palazzo, dà espressamente questo posto al duca. Lettera a suo marito: Ferrara, 2 febbraio, nell'Archiv. Stor. Ital., App. II, 305. Le notizie di lei furono in gran parte inserite nelle descrizioni di Marin Sanudo (Diario, vol. IV, fol. 104 e seg., sotto il titolo: Ordine di le pompe e spectaculi di le noze de mad. Lucretia Borgia). Rawdon Brown le ha già pubblicate nel suo Ragguaglio su la vita e le opere di M. Sanudo, II, 197 e seg.
191. Da Roma egli scriveva a Lucrezia il 16 gennaio, essere stato a visitare il figlio Rodrigo e averlo trovato che dormiva il più placido sonno che mai. Il 9 febbraio lo stesso cardinale scrive, il Papa averlo invitato per la sera insieme con Cesare, il cardinal Borgia e la signora principessa, che probabilmente era Sancia. Lettere nell'Archivio di Modena.
192. Così la dice la stessa Isabella Gonzaga. La Relazione del Cagnolo nomina invece un'altra Adriana, come moglie di Francesco (Colonna) di Palestrina.
193. Cronica manoscritta di Mario Equicola nella Biblioteca di Ferrara, nel Palazzo dell'Università, altra volta Paradiso.
194. Paolo Zerbinati, Memorie manoscritte, nella Biblioteca di Ferrara, pag. 3.
195. Il manoscritto è nella Biblioteca di Ferrara: Nicolai Marii Paniciati ferrariensis Borgias. Ad Excell. D. Lucretiam Borgiam III Alphonsi Estensis Sponsam celeber, MDII — Uno degli epigrammi suona così:
Tyndaridem jactant Heroica saecula cujus
Armavit varios forma superba Duces.
Haec collata tibi, merito, Lucretia, cedit,
Nam tuus omne Helenes lumen obumbrat honor.
Illa neces populis, diuturnaque bella paravit:
Tu bona tranquillae pacis opima refers.
Moribus illa suis speciem temeravit honestam:
Innumeris speciem dotibus ipsa colis;
Ore deam praestas: virtute venustior alma:
Foeda Helenae facies aequiparata tuae.
196. Caelii Calcagnini ferrariensis. In Illustriss. Divi Alphonsi Primogeniti Herculis Ducis Ferr. ac Divae Lucretiae Borgiae Nuptias Epithalamium. Laurentius de Valentia Imprimebat, Ferrariae Deo, Opt. Max. Favente Calend. Febr. MDII.
197. Egli dice pure:
Est levis haec jactura tamen, ruat hoc quoque quicquid
Est reliquum, juvet et nudis habitare sub antris,
Vivere dum liceat tecum pulcherrima virgo.
Ludovici Areosti ferrariensis Epithalamion, nel vol. I de' Carmina Illustrium Poetarum Italorum, pag. 342-46.
198. Vedi il passo in Lucrezia Borgia in Ferrara. Ferrara, 1867, pag. 20.
199. Vedi il passo in Lucrezia Borgia in Ferrara. Ferrara, 1867, pag. 39.
200. Agnolo Firenzuola, Della perfetta bellezza di una donna, vol. I.
201. Fu essa Lucrezia di venusto e mansueto aspetto, prudente, di gratissime maniere negli atti, e nel parlare di molta grazia e allegrezza. — Così il segretario intimo di Alfonso, Bonaventura Pistofilo, nella Vita di Alfonso I d'Este. Tutti i contemporanei le danno della venusta, gentile, graziosa, amabile.
202. Queste rappresentazioni cominciarono il 13 febbraio: vi furon anche delle moresche. — Cronica manoscritta dello Zambotto nella Biblioteca di Ferrara.
203. Le notevoli lettere d'Isabella sulle feste nuziali in Ferrara sono pubblicate nelle Notizie di Isabella Estense, di Carlo d'Arco (Archiv. Stor. Ital., App. II, 223 e seg.). La lettera della marchesana di Cotrone, del 1º febbraio, è nella Biblioteca di Mantova, e nell'Archivio poi sono parecchie altre lettere della stessa al Gonzaga a proposito delle feste.
204. Qual Madonna sposa danzò molte danze, al suono delli suoi Tamburini alla Romanesca e Spagnuola. — Relazione di Niccolò Cagnolo di Parma, che aveva accompagnato a Ferrara l'ambasciatore francese. Questa descrizione delle feste nuziali fu inserita dallo Zambotto nella sua Cronica; sicchè è pubblicata nel piccolo scritto già citato: Lucrezia Borgia in Ferrara, ec. (1867).
205. La Cassaria fu rappresentata la prima volta nel 1508, i Suppositi nel 1509. Giuseppe Campori, Notizie per la vita di Lodovico Ariosto, seconda ediz. Modena, 1871, pag. 67.
206. Dispaccio dell'inviato ferrarese Bartolomeo Cartari ad Ercole. Venezia, 25 gennaio 1502. — Archivio di Modena.
207. Nel dispaccio stesso il Cartari dice, che le vesti da lui descritte erano state destinate per servire di regalo. — Li Ambasciatori veneziani le presentarono due vesti grandi in forma di patii di velluto Cremesino foderati di ermelini, quali levatesi di sopra loro le presentarono: Cagnolo.
208. Ano dato materia di ridere ad hogni homo cum suo presente: La marchesana di Cotrone al marchese di Mantova. Ferrara, 8 febbraio 1502.
209. Violas arcu pulsantes.... Cesare Borgia ad Ercole. Roma, 3 settembre 1498.
210. Vedi le lettere di Isabella del 3 e 5 febbraio.
212. La lettera è pubblicata dallo Zucchetti, pag. 12.
214. P. S. Li gentilhomini de lo illustrissimo signor Duca di Romagna, poichè sono stati qui dodici giorni, sono stati da me licenziati per essere impertinente e senza fructo alcuno a la Santità de N. S. et allo illustrissimo signor Duca de Romagna. — A Beltrando Costabili, nelle Minute Ducali, 14 febbraio 1502.
216. Il Cittadella (Guida del forestiere in Ferrara. Ferrara, 1873) ride pello specchio che avrebbe tradito l'amore di Ugo e Parisina. Vedi il Castello di Ferrara (Torino, 1873) dello stesso, e la descrizione del castello nelle Notizie storico-artistiche sui primarii palazzi d'Italia. Firenze, Cennini, 1871.
217. Il primo tipografo in Ferrara nel 1471 fu il francese Andreas, nominato Belforte. Luigi Napoleone Cittadella, La stampa in Ferrara. Ferrara, 1873.
218. Vedi le prime pagine della nota Biografia del Savonarola, di Pasquale Villari.
219. Maxime intendendo che continuano dormire insieme la notte. Se ben intende ch'el signor Don Alfonso el dì va a piacere in diversi loci come giovane; il quale, dice Sua Santità, fa molto bene. — Beltrando Costabili al duca. Roma, 1º aprile 1502.
221. Carlino d'argento con la scritta: Joannes Bor. Dux. Camerini; il bove, arme de' Borgia, circondato di gigli, e le strisce de' Lançol. Sul rovescio: San. Venantius. De. Cameri. Tali monete sono illustrate nel Periodico di Numismatica e Sfragistica per la storia d'Italia, diretto dal marchese C. Strozzi (Firenze, 1870, A. III., fascic. II, pag. 70-77); da G. Amati, e poi (A. IV, fascic. VI, pag. 259-265) da M. Santoni. Gl'illustratori cadono entrambi nell'errore di tener Gio. Borgia per un figlio del duca di Gandia; e l'Amati scambia pure Valenza (Valence) nel Delfinato, con Valenza (Valencia) nella Spagna.
222. Le date delle due visite di Cesare sono nella Cronaca Estense di F. Paolo da Rignano. — Manoscritto nell'Archivio di Stato degli Este.
223. Il duca al suo ambasciatore Costabili a Roma, 9 e 23 ottobre 1502.
226. Dispaccio di Bartolomeo Cavalieri ad Ercole. Macon, 8 settembre 1503.
229. Bembo, Opere, vol. III, pag. 309.
230. A Beltrando Costabili, nelle Minute Ducali. Ferrara, 28 agosto 1503.
232. La medaglia è nel Gabinetto numismatico della Biblioteca Olivieriana di Pesaro. È stata riprodotta nella Nuova raccolta delle Monete e Zecche d'Italia, di Guidantonio Zannetti, pag. 1.
233. Vedi Giulio Perticari, Opere. Bologna, 1839, vol. II: Intorno la morte di Pandolfo Collenuccio. Il giudizio del Perticari è troppo parziale ed entusiastico. L'inno bellissimo sulla morte, composto dal Collenuccio poco innanzi di morire, deve essere stato, senza dubbio, fatto in altro e meno terribile momento.
235. Il diploma è nell'Archivio d'Este.
236. È un registro intitolato: Liber arrendamentorum terrarum ad illustrissimos Dominos Rodericum Borgiam de Aragonia, Sermoneti etc., et Johannem Borgiam Nepesini Duces, infantes spectantium aliarumque scripturarum status eorundem tangentium. Biselli, 1502.
238. Ercole al suo ambasciatore in Roma, 31 dicembre 1503.
239. Dispaccio di Manfredo Manfredi ad Ercole. Firenze, 20 agosto 1504.
240. Perchè la Mogliera del Duca di Candia, che fu morto dal Duca Valentino, ha procurato questo acto de tencione et vendicta, et che Lei è parente del Re di Spagna. — Lettera di Giovanni Alberto della Pigna a Ercole. Venezia, 18 giugno 1504.
241. Dispaccio del Costabili al duca. Roma, 27 ottobre 1504.
242. Contratto nel Protocollo di Beneimbene.
244. Dissertazione del sig. Dottor Baldassare Oltrocchi sopra i primi amori di Pietro Bembo, indirizzata al sig. conte Giammaria Massucchelli Bresciano. — Nella Nuova Raccolta d'Opuscoli scientifici del Calogerà, tomo IV. — Lettere di Lucrezia Borgia a Messer Pietro Bembo, dagli autografi conservati in un Codice della Biblioteca Ambrosiana. Milano, coi tipi dell'Ambrosiana, 1859.
245.
Laeto nata solo, dextra, rosa, pollice carpta;
Unde tibi solito pulcrior, unde color?
Num te iterum tinxit Venus? sin potius tibi tantum
Borgia purpureo praebuit ore decus?
246. «Ad Bembum de Lucretia:»
Si mutatur in X. C. tertia nominis hujus
Littera LUX fiet, quod modo LUC fuerat.
Retia subsequitur, cui tu haec subiunge paratque,
Subscribens lux haec retia, Bembe, parat.
247.
La prima inscrizion ch'agli occhi occorre
Con lungo onor Lucrezia Borgia noma,
La cui bellezza ed onestà preporre
Debbe all'antiqua la sua patria Roma.
I duo che voluto han sopra sè torre
Tanto eccellente ed onorata soma,
Noma lo scritto: Antonio Tebaldeo,
Ercole Strozza: un Lino, e un Orfeo.
248. Vedi lo scritto del marchese Giuseppe Campori: Una vittima della storia (Lucrezia Borgia), nella Nuova Antologia del settembre 1866.
249. Vedi il Frizzi, Storia di Ferrara, vol. IV, pag. 205.
250. Cose tutte che sono in onta del vero, dice in proposito Antonio Cappelli nella Prefazione (pag. XXXIII e seg.) alla sua edizione delle Lettere di Ludovico Ariosto: Bologna, 1866. L'egloga si trova nelle Opere minori dell'Ariosto, vol. I, pag. 267. Angela Borgia è nominata nella quarta ottava dell'ultimo canto dell'Orlando Furioso.
252. La Bolla è nell'Archivio di casa Gaetani.
253. Vedi Fioravante Martinelli, Carbognano illustrato. Roma, 1644.
257. Dispacci dell'ambasciatore ferrarese in Francia, Manfredo Manfredi, al duca Alfonso, gennaio 1507.
258. Lettere di Jeronimo Magnanini al suo signore Alfonso. Ferrara, dagli 11 al 22 aprile, nell'Archivio Este.
259. Cæsaris Borgia Ducis Epicedium per Herculem Strozzam ad Divam Lucretiam Borgiam Ferrariæ Ducem. Nello Strozii Poetæ Pater et Filius. Parigi, 1530.
260. Vedi Genealogia della Casa Borgia, del Cittadella.
261. Lettera di Giulio Alvarotti dalla Francia, del 14 febbraio 1550. — Archivio di Modena.
262. Campori, Una vittima della storia; Antonio Cappelli, Lettere di L. Ariosto, prefazione, pag. LXI. Vedi anche W. Gilbert, Lucrezia Borgia Duchess of Ferrara, vol. II, pag. 240 e seg.
263. Di ciò egli diede nuova al marchese Gonzaga con lettera da Pesaro, 4 novembre 1505. — Archivio di Mantova.
264. Gli Atti relativi a questi ultimi Sforza di Pesaro sono in copia nell'Archivio di Stato di Firenze: testamento di Giovanni Sforza del 24 luglio 1510; trattato di Galeazzo col legato papale del 30 ottobre 1512; testamento di Galeazzo del 23 marzo 1515; in Pesaro poi le tavole nuziali d'Isabella del 29 settembre 1520.
265. «J'ose dire que, de son temps, ni beaucoup avant, il ne s'est point trouvé de plus triomphante princesse, car elle était belle, bonne, douce et courtoise à toutes gens.» Le Loyal serviteur, Histoire du bon Chevalier, le seigneur De Bayard, chap. 45.
266. Il dispaccio dell'agente è nell'Archivio di Mantova.
267. Gl'istrumenti nel Liber Arrendamentorum, già citato, provengono dalla Cancelleria di Lucrezia.
268. Vedi Cittadella, Genealogia della famiglia Borgia, pag. 41 e seg.
269. Pubblicate nell'edizione italiana della Vita di Leon X del Roscoe, cap. VII, pag. 300 e seg.
270. Cittadella, Albero genealogico, n. XXXI.
271. Trovai gli Atti nell'Archivio di Stato di Firenze, fra le carte di Urbino, cl. I, div. C, fil. 14. — Giulia Varano nel 1534 sposò Guidobaldo II di Urbino, cui portò in dote Camerino. Ma colui dovette nel 1539 cederlo a Paolo III, che lo diede al nipote Ottavio Farnese.
273. Il dispaccio del Costabili è uno degli ultimi citati in questa storia. Dispacci e relazioni officiali di oratori, agenti, inviati e ambasciatori della Repubblica di Venezia, delle Corti di Ferrara e di Mantova, incontrammo sin qui ad ogni passo. I nomi dei Capello e Zorzi; dei Pozzi, Trotti, Manfredi, Seregni, Sacrato, Cartari, Saraceni, Bellingeri, Boccaccio, Carissimi e Costabili; dei Brognolo, Cataneo e Carola, e per la molta attività che spiegavano, e per la intera fiducia che meritamente godevano, hanno dovuto lasciare nel lettore gradita impressione. Quanto a noi, procedendo nella traduzione di questo libro, in verità ci parve mano mano formassero il più spiccato e più nobile contrapposto a un mondo ricchissimo e splendidissimo, senza dubbio, nelle forme, ma guasto nelle intime essenzialità della vita; a un mondo, ove ogni cosa, per sacra che fosse, cedeva spesso alla passione e all'interesse brutale, e ogni idea di moralità sembrava quasi del tutto ottenebrata, e carattere proprio degl'uomini pubblici era quello di non averne alcuno. Rimpetto a quel mondo sì profondamente commosso e tutto pieno d'instabilità negl'animi e in qualsiasi umana relazione, splende davvero di bella luce quella pleiade di uomini seriamente e costantemente devoti al dover loro e ai loro Stati, scrupolosi nel loro ufficio, fedeli ai Principi loro, cauti, oculati, attenti sempre, quanto alacri, abili ed esperti! E come quei che gli si affidarono, dovettero esser contenti de' segnalati servizii che n'ebbero e del modo onde furon resi! Nel dividerci da essi sia lecita questa parola che ne onori la memoria. Valga la fama di quegli uomini egregii a riabilitare, non fosse che in parte, il nome italiano in quell'epoca floridissima e tristissima insieme. Nè, da un altro lato, l'operosità e svegliatezza, onde fecero mostra, avrà forse contribuito poco a fondare quella reputazione di sagacia e d'avvedutezza che l'ingegno diplomatico degl'Italiani s'è acquistata. (Nota del Traduttore.)
274. Documento nell'Archivio Sancta Sanctorum, armadio IV, mazzo VI, n. 7.
275. Atto del 4 dicembre 1503, nell'Archivio suddetto.
276. Archivio Sancta Sanctorum: istrumento del 1º aprile 1504.
277. Archivio Sancta Sanctorum, armadio IV, mazzo VI, n. 5.
278. Archivio Sancta Sanctorum, armadio VI, mazzo VI, n. 7.
280. Testamento di Vannozza nell'Archivio del Campidoglio, cred. XIV, T. 72, pag. 305, negli Atti del notaio Andrea Carosi.
281. Presso Marin Sanudo, Diario, vol. XXVI, fol. 135.
282. Pubblicata nella Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, dello Zucchetti, pag. 21.
284. Edita dallo Zucchetti, pag. 23.
285. Edita dallo Zucchetti, pag. 23. Lo Zucchetti crede che il cilizio di Lucrezia non fosse la veste di crini, ma quel cordone che sogliono portare stretto e nascosto sotto gli abiti gli ascritti al Terziarato di San Francesco. Anche Dante deve averlo portato siffatto cordone.
286. Devo alla bontà del signor Giulio Friedländer, direttore del Gabinetto numismatico di Berlino, una copia in gesso della medaglia colà esistente, e che è l'esemplare più perfetto tra quelli che se ne trovano (in Ferrara, Modena e Bologna). L'incisione è presa dal rame stesso, che il signor Friedländer fece disegnare pel suo scritto sulla medaglia di Lucrezia: Eine Schaumünze der Lucrezia Borgia von Filippino Lippi, ne' Berliner Blätter für Munz = Siegel= und Wappen = Kunde. Bd. III, Berlin, 1806. In quello scritto il lettore può vedere ciò che l'esimio Numismatico ha detto a proposito della medaglia e del tempo dell'impressione. Egli pensa che nel gennaio 1502 ne fu fatto in Bologna il modello in cera, che non venne poi eseguito che nel 1505, quando Lucrezia era divenuta di fatto duchessa di Ferrara.
287. Le due medaglie si trovano nel Trésor de Numismatique et de Glyptique, II, pl. XXV, 2, e II, pl. XXIV, 1.
288. Vedi Ugolini, Storia dei Duchi d'Urbino, cap. II, pag. 248.
289. J. M. S. Daurignac, Histoire de S. Francois de Borgia, duc de Gandie, troisième General de la Compagnie de Jésus. Paris, 1863.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 439 (Errata-Corrige) sono state riportate nel testo.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.