The Project Gutenberg eBook of Garibaldi, Vol. 1 (of 2) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Garibaldi, Vol. 1 (of 2) (1807-1859) Author: Giuseppe Guerzoni Release date: January 16, 2025 [eBook #75122] Language: Italian Original publication: Firenze: Barbera, 1889 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GARIBALDI, VOL. 1 (OF 2) *** GARIBALDI DI GIUSEPPE GUERZONI. Vol. I (1807-1859) CON DOCUMENTI EDITI E INEDITI, PIANTE TOPOGRAFICHE ED UN FAC-SIMILE. Terza edizione. FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. 1889. Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. ALLA VENERATA MEMORIA DI C. V. B. PRIMA ISPIRATRICE DI QUESTE PAGINE. PREFAZIONE. Amai Garibaldi con affetto di figlio e fedeltà di soldato: lo seguii nelle sue imprese da Varese a Milazzo, dal Volturno a Condino, da Aspromonte a Mentana; vissi con lui in Caprera circa nove mesi nella dolce intimità della vita domestica, ed ebbi l’immeritata fortuna di accompagnarlo nel suo gran Trionfo d’Inghilterra; fui sovente il depositario e l’interpetre de’ suoi più nascosi pensieri, e, onore anche più grande, non mi fu negato di fargli sentire, talvolta, i consigli di quella che a me pareva la Verità; subii, come tutti coloro che l’accostarono, il fascino della sua eroica bellezza; piegai, come i più, all’impero della sua grande anima dittatoria, ma, liber’uomo in faccia al Liberatore, ne sostenni i fulgori, e seppi scorgerne le ombre; e spero che tutte queste ragioni mi giustificheranno presso ogni discreto lettore dell’audacia di scriverne la vita. «Una delle mille!» esclamerà qualche frettoloso. Pur troppo! Anzi fra pochi giorni si potrà soggiungere: una delle migliaia! E in verità se non avessi dovuto ripensare ad altro che a quanto fu scritto in passato e si scriverà ancora in avvenire, nei secoli più lontani, intorno a Garibaldi, la tentazione di presentarmi anch’io a questo universale torneo di penne, non mi sarebbe passata pel capo. Soltanto non bisogna dimenticarsi che se la bibliografia di Garibaldi è già grande, e sarà tra poco immensa, Garibaldi lo è ancora più. Egli può dirsi, come il Shakespeare immaginato da Vittor Hugo: infinito come l’Oceano. Invadetelo da tutti i porti: navigatelo, corretelo, frugatelo in tutti i sensi, e vi resterà sempre qualche seno nascosto, qualche banco sottacqueo, qualche scogliera inavvertita, dove anche la navicella del più umile ingegno potrà ormeggiarsi e gettar lo scandaglio. Lo so! non correranno molti anni e ci sarà una _Letteratura Garibaldina_, come ci è una Letteratura Omerica, Dantesca, Shakespeariana e via dicendo; ma affinchè quella letteratura possa sorgere degna del suo grande tema, ed acquistare un valore reale nella storia della nostra patria e del nostro secolo, occorre anzitutto che il pubblico dei lettori e dei critici non guardi soltanto alla mole dei libri pubblicati sullo stesso soggetto, non li misuri tutti in fascio a occhio e croce, non faccia il viso dell’arme ad ogni libro nuovo, solo perchè viene ad ingrossare la catasta de’ vecchi. Abbiamo ed avremo la farraginosa compilazione indigesta, e l’utile compendio popolare; abbiamo ed avremo la pesante orazione accademica, e lo svelto bozzetto giornalistico; abbiamo ed avremo il partigiano panegirico tribunizio e la rabbiosa invettiva clericale; abbiamo ed avremo la scialba fotografia borghese o la pettegola cronica aneddotica, e la sintesi ardita coniata in bronzo, o la greca effigie incisa in cammeo: non abbiamo ancora, ma forse l’avremo un giorno, la Vita Plutarchiana, il Poema Omerico, o il Dramma Sofocleo; e confido che in questa mondiale biblioteca non si vorrà rifiutare l’entrata anche a questo mio modesto volume, che non è ancora, s’intende bene, la storia; ma che pure aspira, senza jattanza come senza ipocrisia, a tentarne il primo saggio ed a scriverne la prima sillaba. E forse con ciò ho già detto che questo non è un libro d’occasione. Egli segue di poche settimane la scomparsa dell’eroe; ma esso fu meditato e preparato da tempo. Frutto sudato di quasi tre anni di ricerche, di studi, di fatica, esso potrà meritare tutte le taccie fuorchè quelle della estemporaneità e della fretta. Il culto stesso, che tanto io quanto i miei giovani editori, professiamo alla memoria venerata del grande Patriotta, ci avrebbe sempre preservati da questo sacrilegio. Nè io avrei mai voluto deporre ai piedi della tomba recente di Caprera il vile tributo d’una compaginatura abborracciata, nè gli eredi dell’onorato nome di Gaspero Barbèra avrebbero mai consentito a prestar mano ad un’opera bastarda che, sfruttando una grande popolarità ed una grande sventura, mirasse soltanto ad occupare il già troppo stipato mercato librario e ad impaniare in una frasconaia di pagine rapinate il pubblico dabbene. Ben altro fu il mio scopo; ben altra è la mia speranza. Ripensando spesso, e come non pensarvi!, a Garibaldi; riguardando a quella nova e portentosa figura di gigante, rifacendo nel mio pensiero il poema di quell’epica vita, poscia leggendo o rammentando quanto si era scritto di lui in verso e in prosa, m’era accaduto, in più d’un caso, di consentire o d’ammirare; ma poi, riepilogando le cose lette e confrontando il Garibaldi del mio pensiero con quello stampato fin allora ne’ libri, chinavo il capo con un senso di scontentezza e conchiudevo: Eppure in tutti questi volumi c’è del bello e del buono, ma il Garibaldi vero, il Garibaldi della storia, non del romanzo; della patria, non della parte; dell’amore, non dell’idolatria, è molto, ma molto lontano di qui. E va da sè ch’io non m’impanco in alcun modo a censore di coloro che mi precedettero in questa medesima impresa, ed a molti dei quali io stesso vado debitore di non pochi ed utilissimi sussidi. Incitati dall’occasione, incalzati dall’ora, preoccupati principalmente di portare, come corre il detto, il loro «sasso all’edificio,» lavorarono co’ primi materiali che loro caddero sotto mano, scrissero come l’amore dettava, e sarebbe davvero imperdonabile indiscretezza il chieder loro di più. L’ingratitudine di chi viene ultimo non sarà certo, per parte mia, il compenso di chi ebbe il merito di essere primo. Soltanto non è far torto a chicchessia il dire che per ragioni affatto indipendenti dalla volontà e dall’ingegno degli scrittori anteriori, i falli trascorsi e i vuoti rimasti ne’ loro libri sono ancora sì numerosi ed importanti, che diventa impossibile accettar quelle opere per fondamento certo e per modello compito d’una vera storia critica e ragionata dell’uomo che hanno rappresentato. E rinviando al testo ed alle sue note l’esame dei particolari, ecco in riassunto i difetti capitali e le lacune più evidenti che scòrsi in quelle opere e più vivamente mi colpirono: Una trascuranza ingiustificata dell’ambiente in cui Garibaldi crebbe e si sviluppò; quindi un esame molto leggero ed una rassegna molto affrettata di tutti quegli elementi domestici, sociali e politici, che dall’arte paterna all’educazione materna, dai primi suoi amici ai primi suoi viaggi, dalle sue lunghe consuetudini colla sconfinata libertà del mare alla sua dimora decenne tra le solitudini della pampa, contribuirono a svolgere il germe della sua vita eroica ed a plasmare il suo carattere; Una conoscenza scarsa ed una esposizione inadeguata della storia e delle costumanze, delle fazioni e delle rivoluzioni appunto di quei due Stati dell’America meridionale, il Rio-Grande e l’Uruguay, tra i quali Garibaldi si formò; epperò una rappresentazione troppo vaga e fantastica della parte che egli vi ebbe, degli influssi che vi subì, del patrimonio di idee e di abitudini che ne riportò; Un’analisi troppo superficiale od una sintesi poco fedele di tutte quelle antinomie, quelle contraddizioni, quelle mutazioni rapide ed assidue che frastagliano come fasci di vapori nembosi la serena splendidezza del suo volto, e lo convertirebbero in una specie di Proteo mostruoso, se allo storico armato della fiaccola della filosofia mancasse l’ardire di scendere fino all’ultimo fondo gli abissi di quell’anima, e scrutarne l’alto mistero; Una narrazione delle sue imprese dal 1859 al 1870, specie delle maggiori, di Marsala, Aspromonte e Mentana, veridica e piena nel suo complesso; ma in molti particolari scarsa, in molte affermazioni gratuita, in molti giudizi erronea, e che svisando alcuno dei tratti più caratteristici dell’Eroe nelle tre azioni più importanti della sua vita, svisano insieme ne’ suoi aspetti più solenni la storia del nostro Risorgimento; Infine, ed è forse il più, una narrazione parziale ed angusta delle sue gesta militari, ed una sconoscenza o grossolana o meschina delle sue doti geniali di vero e grande Capitano; parzialità, angustia e sconoscenza che traggono origine in gran parte dai pregiudizi e dalle gelosie della vecchia scolastica militare, che questo mio libro non riuscirà certamente a debellare, ma che forse sforzerà ad ammutolire od a provare il contrario. Ora, scemare, per quanto sia da me, questi difetti e colmare, fin dove possa, queste lacune; tentare la prima prova di una storia ragionata e documentata di Garibaldi, nè frigida nè passionata, nè piazzaiola nè scolastica, che prepari almeno le fondamenta della storia futura e cominci il giudizio della posterità; ricostruire al lume della critica e della ragione tutta intera la maravigliosa figura del gigante, rifondendola coi frammenti più preziosi offerti dalle opere precedenti e rassodandola sul suo eccelso piedestallo, col sussidio dei documenti più autentici e delle testimonianze più autorevoli che mi fosse dato raccogliere; rimontare fino alle origini della sua grandezza, cercandone nei primi ambienti in cui si svolse la sua gioventù, le cause ed i fattori; rifare con maggiore ampiezza e precisione la sua vita di marinaio e cospiratore; correggere, per ingrandirla e nobilitarla, la sua leggendaria odissea d’America, rifacendogli d’attorno, in una storia più veridica ed accurata di quel paese, una scena più pittoresca e più viva; difenderlo dalle partigiane contumelie, difenderlo ancora più dalle cortigiane piacenterie; cingere, se fosse possibile, d’aureola più luminosa il suo volto, ma segnarne al tempo stesso i chiaroscuri, notarne le disarmonie, confessarne le imperfezioni; affrontare, trepido ma non sgomento, l’enigma forte della sua anima, e senza lasciarmi intimidire dalla incantevole sfinge, nè arrestarmi ai primi aspetti del fenomeno, cercare di penetrarlo fino al fondo, fino a quella causa prima e a quell’idea madre che concilii gli opposti ideali in una sintesi suprema; rinnovare con maggior larghezza e precisione tecnica la storia delle sue campagne, fin qui immiserita o svisata, rivendicando da tutti i preconcetti di casta e di scuola le sue geniali qualità di capitano, e sfatando la badiale sentenza: «Fu un ardito guerrillero, non un generale;» questi sono gli scopi principali ed accessori, temerari, ma non superbi, di questo libro, che vorrebbe essere, se la materia rispondesse «all’intenzion dell’arte,» un ritratto ed un quadro, un saggio critico ed un racconto, una storia politica ed una storia militare. Sarò io riuscito? È l’eterna domanda di chi fa, alla quale raramente soddisfa la risposta di chi giudica. In ogni modo questo so di certo, che dall’istante in cui la tentazione di mettermi a questo cimento mi colse, non ebbi più posa. Scrissi in America per aver libri; viaggiai mezza Italia per raccogliere documenti; tempestai di lettere e di quesiti centinaia di persone; ammucchiai nel mio studio monti di manoscritti e di volumi, da parecchi dei quali non trassi altro frutto che il perditempo e la noia di leggerli; misi a contributo di notizie tutti gli amici e commilitoni del Generale; osai persino salire, nella mia questua di documenti, le scale della Reggia, ridiscendendone, è vero, a mani vuote (e non certo per volontà di re Umberto), ma commosso e confuso dalle parole altamente benigne con cui il figlio di Vittorio Emanuele volle accogliere il mio annunzio e incoraggiare il mio libro.[1] Ma ohimè! Se lo scovare i documenti della storia passata nella polvere degli archivi e fra le tarme dei codici è cosa difficile, strappare le testimonianze della moderna alle mani ed alla bocca de’ contemporanei, lo è ancora più. Nessuno concede tutta la verità, o la concede pura, o la concede in tempo. Interrogate dieci persone, testimoni auricolari ed oculari dello stesso fatto: dieci risposte diverse. Chi fraintende il quesito; chi annega una briciola di notizia in una fiumana di ciancie; chi per la biografia dell’eroe vi dà la sua; chi risponde tardi, quando il capitolo è già scritto e l’informazione è divenuta inutile; chi non risponde affatto. Il giornale politico scrive pel suo Delfino, il documento ufficiale dice la verità ufficiale, il personaggio importante si tiene prudentemente abbottonato, il vecchio cospiratore continua a cospirare, il commilitone si vanta e lo sbarazzino inventa! E ciò non ostante, convinto, malgrado tutti questi inciampi e questi sconforti, che gli elementi per avviare una intrapresa consimile a quella che io andavo vagheggiando esistessero e che anco i pochi da me raccolti potessero bastare; convinto anche più che per condurre a termine un’opera qualsiasi bisogna pure che qualcuno la incominci; trassi coraggio dal pensiero di Voltaire: _que du moins j’aurai encouragé ceux qui me feront oublier_,[2] e mi gettai allo sbaraglio. Quali siano frattanto quegli elementi, a che si riducano i materiali di cui potei giovarmi, le fonti a cui attinsi, gli ausilii in cui potei confidare, è questo, se non m’inganno, il momento di dirlo e lo farò brevemente. Le _Vite_ e le _Storie_ stampate sino ad ora intorno a Garibaldi, si dividono in due categorie: opere di seconda mano, compilazioni, rifacimenti, compendi, ec., delle quali non accade occuparsi: opere in parte o in tutto originali, tolte a sorgenti genuine, suffragate da testimonianze solide e da autentici documenti, sulle quali soltanto si può fare un assegnamento e che non esitai di mettere a contributo. E fra queste, intralasciate le opere di carattere generale o le memorie di soggetto più particolare, che si troveranno citate nel testo, ecco ad una ad una le principali: Prima di tutte le _Memorie_ stesse di Garibaldi confidate nel 1859 ad Elpis Melena (signora Schwarz) colle parole: «_Bologna 29 settembre 1859. — I manoscritti da me rimessi, ad Elpis Melena sono scritti di mio pugno_;» tradotte e pubblicate dall’Autrice in tedesco col titolo: _Garibaldi’s Denkwurdigkeiten nach handschriftlichen Aufzeichnungen desselben und nach autentischen Quellen_, etc., Hamburg, Hoffmann und Campe, 1861, che vanno dalla nascita dell’eroe sino al 1849 e debbon ritenersi il primo e fondamentale documento della sua vita. Il primo, ma non il solo nè indiscutibile, perchè l’Autore stesso, tradito dalla memoria o dalla fretta, cadde più volte in involontarie confusioni di date e di fatti, e mirando in alcuni punti a descrivere più la propria vita interiore che la esteriore, lasciò nel suo lavoro molte dimenticanze e desiderii.[3] E dopo le _Memorie autobiografiche edite_, vengono in ordine di cronologia e d’importanza: La _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da G. B. CUNEO, Genova, R. Tipografia Ferrando di proprietà Martini (senza data di stampa); libretto di sole ottantaquattro pagine, ma prezioso di particolari, specie sulle gesta dell’eroe nell’Uruguay, e che essendo scritto da uno de’ più antichi e fidi amici di Garibaldi, dimorante con lui a Montevideo nei giorni stessi della memorabile guerra contro l’Argentina, è degno della massima fede. _Montévideo, ou une nouvelle Troie_ par ALEXANDRE DUMAS, Paris, Imprimerie Centrale de Napoléon Caix et fils, 1850; libro che sebben porti un nome alquanto sospetto all’esattezza storica, pure ha il valore indiscutibile d’essere fondato sopra molti documenti uruguajani citati nel testo; compilato sulla più grossa istoria del Wright, _Le Siége de Montévideo_, e in gran parte o dettato o riveduto dallo stesso generale Pacheco y Obes, ministro della guerra e capo della difesa di Montevideo, durante l’assedio, e autore a sua volta della _Réponse aux détracteurs de Montévideo_, Paris, 1849; opuscolo ricco di documenti ufficiali e di testimonianze gloriosissime, onorevolissime al condottiero italiano; raccolte poi nella _Lettera_ di G. B. CUNEO al _Corriere Livornese_ del gennaio 1847; e nei _Documenti intorno a Garibaldi e la Legione italiana a Montevideo_, pubblicati per cura del colonnello E. DE LAUGIER, Firenze, Tip. Fumagalli, 1846. Infine, tacendo per ora di altri opuscoli e giornali sulle vicende di quel periodo, che più tardi a suo luogo si troveranno, la _Reseña Historica Estadistica y Descriptiva con Tradiciones orales de las Repúblicas Argentina y Oriental del Uruguay desde el descubrimiento del Rio de la Plata, hasta el año de 1876_, por FLORENCIO ESCADRO, Montevideo, Imprenta de la _Tribuna_, Calle 25 de mayo, 124, 1876, dove si trova più d’un capitolo dedicato alle prodezze del nostro Eroe. E passando con lui in Italia: _L’Écho des Alpes Maritimes; La Concordia_ di Torino; _L’Italia del Popolo_ e _Il 22 Marzo_ di Milano, tutti giornali del 1848 che abbondano, quali più, quali meno, di particolari e aneddoti sul ritorno di Garibaldi in patria. _La Italia_, Storia di due anni (1848-1849) di C. AUGUSTO VECCHI, Torino, Tip. Scolastica di Sebastiano Franco e figlio, 1856, 2ª edizione; libro in cui Garibaldi campeggia, e scritto dall’autore con candidissima fede; ma, tranne che nei fatti di cui il Vecchi fu testimonio, o nelle parti documentate, da accettarsi con qualche cautela. _La Storia dell’Intervento francese in Roma nel 1849_, del colonnello FEDERICO TORRE, Torino, Tip. del _Progresso_, 1851; _La Repubblica Romana del 1849_, di G. BEGHELLI, Lodi, Società Cooperativo-Tipografica, 1874; _L’Assedio di Roma_, di F. D. GUERRAZZI, Livorno, Tip. A. B. Zecchini, 1864; variamente pregevoli, ma soltanto nelle pagine documentate, o avvalorate da testimonianze oculari, fondamenti di storia. _Garibaldi in Rom, Tagebuch aus Italien 1849_, von GUSTAV HOFFSTETER, già maggiore nell’esercito romano, Zurich, Schulbers, 1860. Diario indispensabile alla storia della celebre ritirata da Roma. _I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra del 1859 in Italia_ di Francesco Carrano, capo di stato maggiore di Garibaldi, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1860. Racconto popolare. Libro fondamentale per la campagna di quell’anno. _Varese ed Urban nel 1859 durante la guerra per l’Indipendenza Italiana_; notizie storiche raccolte e compilate su documenti dal sacerdote GIUSEPPE DELLA VALLE, Varese, Tip. Giuseppe Carughi, 1863. Preziosissima cronica. _I Mille_, di GARIBALDI, Torino, Tip. e Lib. Camilla e Bertolero, 1874; dove la storia s’intreccia al romanzo, e nelle stesse parti storiche l’autore non osserva abbastanza l’esattezza delle date, o confonde alcune particolarità; ma di cui basta il nome per testimoniare la importanza. _La Vita di Giuseppe Garibaldi_, narrata dal P. GIUSEPPE DA FORIO, Napoli, St. Tip. Perrotti, 1862; compilazione laboriosissima in due volumi in-8º, e nel secondo, repertorio affastellato, ma fitto di articoli di giornali, di lettere di Garibaldi, o a Garibaldi, di squarci di libri, di documenti e materiali d’ogni data, nel quale frugando con tatto e accortezza, si può accattare una messe di notizie.[4] Le Memorie dell’ammiraglio inglese SIR RODNEY MUNDY, _«Hannibal» at Palermo and Naples during the Italian Revolution 1859-1861. With notices of Garibaldi, Francis II and Victor Emmanuel_, London, Murray, 1863; opera indispensabile. _Diario privato politico militare_, dell’ammiraglio C. DI PERSANO, nella campagna navale dell’anno 1860-1861, Torino, Roux e Favale. Un vol. in-8º, notissimo, indiscretissimo, utilissimo. ABBA GIUSEPPE CESARE, _Noterelle d’uno dei Mille_, edite dopo venti anni, Bologna, Zanichelli, 1880; gioiello di ricordi personali, legato in una forma di finissimo lavoro. _Aspromonte_, ricordi storici militari, del marchese RUGGIERO MAURIGI, ec., Torino, 1862; e _Verità sul fatto di Aspromonte_, per un testimonio oculare, Milano, 1862, pubblicato da A. Dumas; aiuti pregevolissimi, il primo più del secondo, alla conoscenza di molti particolari del triste episodio del 1861. _Politica segreta italiana_ (1863-1870), Torino, Roux e Favale, 1880; abbondante di documenti e di notizie, non sempre esatte, sul viaggio di Garibaldi in Inghilterra, e sul breve periodo d’Ischia, e però da usarsi con molta critica e cautela. _Garibaldi_, di ALBERTO MARIO; ritratto vigorosamente schizzato, che direi tra i più somiglianti, se in molti tratti non si risentisse troppo della nota fede e del noto entusiasmo dell’autore; ma per tutti quegli episodi del 1860, del 1866, del 1867, di cui il Mario stesso fu partecipe e spettatore, autorevole come una storia. _Storia della Insurrezione di Roma nel 1867_, per FELICE CAVALLOTTI, continuata da B. E. MAINERI, Milano, presso la Libreria _Dante Alighieri_, 1869; _L’Italia nel 1867_, storia politica e militare, ec., per GUSTAVO FRIGGESY, comandante la seconda colonna nelle giornate di Monterotondo e Mentana, Firenze, 1868; per giudizi molto discutibile, per copia di documenti e valore di testimonianze assai autorevole. _Garibaldi et l’armée des Vosges_. Récit officiel de la campagne, avec documents etc., par le général Bordone, chef d’état major de l’armée des Vosges, Paris, Librairie internationale, 1871; e il titolo solo ne dice la importanza. — E per quanto poi sia difficile vincerne la ripugnanza, utile a consultarsi. _Garibaldi, ses opérations en l’armée des Vosges_, par Robert Middleton, Paris, Garnier frères, 1872; non foss’altro come documento del furore d’ingratitudine a cui il rimorso d’un beneficio immeritato può trasportare la bestialità umana. — Dal laido libro ne ristorerà per la festiva vivacità. _La Camicia rossa in Francia_, di G. BEGHELLI, Torino, Civelli, 1871; e _I Garibaldini in Francia_, di JESSIE WHITE MARIO; florilegio delicatissimo di esempi di carità e di valore dato da quei generosi che, sotto le insegne del Capitano dei Mille, andarono a restituire alla Francia agonizzante il sangue di Magenta e di Solferino. E quando io abbia aggiunto a tutto ciò i Documenti e le Lettere che si possono cavare dalle grandi Raccolte e dagli Epistolari politici più noti; quali: l’_Archivio Storico triennale delle cose d’Italia_; i _Documenti della Guerra Santa_; la _Storia documentata della Diplomazia Europea_, di NICOMEDE BIANCHI; i Documenti ufficiali pubblicati dal Governo, specialmente nei due momenti d’Aspromonte e di Mentana; gli _Atti della Camera dei Deputati_; i _Discorsi Parlamentari del conte di Cavour_, editi da Giuseppe Massari; gli _Epistolari_, del LA FARINA, dell’AZEGLIO, del PANIZZI, del PALLAVICINO; e infine le innumerevoli lettere del Generale, gettate, spesso per isconsiderato zelo di imprudenti amici, ai quattro venti della pubblicità, e dal 1859 stampate in tutti i maggiori giornali contemporanei; e poscia si compia questa già troppo lunga rassegna, col ricordo delle principali e più accreditate storie generali politiche e militari; notevoli tra le prime la _Storia in continuazione del La Farina_, dello ZINI, e la _Cronistoria dell’Indipendenza_, del CANTÙ;[5] indispensabili tra le seconde, oltre i Rapporti ufficiali dei quattro stati maggiori, italiano, francese, austriaco e prussiano, le istorie del Rustow, del Lecomte, del Pecorìni-Manzoni, del Chiala, del Corsi, del Ferrari, il lettore potrà formarsi un’idea approssimativamente esatta del materiale stampato sul quale io ho condotto questo mio lavoro, e dei principali criteri coi quali ne ho fatto la scelta e l’ho messo in opera. Ma come io agognava a qualcosa di più d’un semplice lavoro di rifusione e di critica, nè potevo accontentarmi di ritessere soltanto sull’ordito altrui, così mi posi tosto, come dianzi accennai, a cercare vicino e lontano, tra gli archivi pubblici e privati, dalla viva voce e dai ricordi manoscritti de’ principali cooperatori e confidenti del mio grande Protagonista, tutto quell’altro maggior soccorso di notizie, di testimonianze e di documenti, che mi fosse dato raccogliere e mi paresse atto a sindacare e correggere, schiarire ed integrare le opere già stampate. Confesso però che la mèsse fu assai meno abbondante di quella che io aveva immaginata, e che certamente giace tuttora sepolta, non saprei se più per l’inabilità mia che non seppe dissotterrarla, o per l’inerzia di coloro che promisero e non diedero, furono interrogati e non risposero, per essere poi domani probabilmente i primi censori della mia fatica. Tuttavia, ecco il fiore della raccolta: Centosettantanove pagine autografe, scritte a matita, di _Memorie_ di GARIBALDI,[6] datemi da Giovanni Basso, vecchio amico e segretario del Generale; reliquia sacra del pensiero e del cuore, che non oserei gittar tutta in pascolo alla pubblica curiosità, e che custodisco religiosamente. Le sue lettere a me, delle quali due o tre sole importanti a questo libro. Alcuni _Documenti_ importantissimi sulla vita del Generale a Montevideo, con isquisita cortesia e generosità raccolti per me da Don P. Antonini y Diez, ministro dell’Uruguay a Roma, e da suo zio il signor Giacomo Antonini, vissuto a lungo a Montevideo ed uno degli amici di Garibaldi sin da quei giorni. Un _Documento storico_ sul quarantasette confidatomi, nel suo originale, dal generale Giacomo Medici. La copia d’una _Lettera_ di Garibaldi ad Anita, datata da Subiaco, gennaio 1849, cortesemente regalatami dall’ingegnere Clemente Maraini.[7] Un estratto dalla _Cronaca di Varese_ del signor A. MORONI, diario fedelissimo del 1848, cortesemente concessomi dalla famiglia. Molti _biglietti, lettere, ordini del giorno, decreti_, ec. di Garibaldi, laboriosamente raccolti durante l’assedio del 1849, e liberalmente favoritimi dal mio buon amico e compagno d’armi, il colonnello Guglielmo Cenni, uno dei Mille, prode seguace del Generale dal 7 aprile al 1º ottobre 1860. Un fascicolo di _Memorie_ corredate di documenti del luogotenente colonnello Gioachino Bonnet, che illustrano molte particolarità sin qui oscure della fuga di Garibaldi per le valli di Comacchio, e gettano una luce nuova e inattesa sulla tragica catastrofe di Sant’Alberto. Un fascicoletto di _Ricordi autografi sull’assedio di Roma e il battaglione dei Volteggiatori Lombardi_ del luogotenente colonnello CADOLINI, uno dei prodi difensori e feriti del Vascello. Un grosso quaderno di _Ricordi_ del generale Gaetano Sacchi, riguardanti principalmente gli anni di Garibaldi in America, coll’aggiunta di molti particolari poco noti sul 1848, l’assedio di Roma, la campagna del 1859, la spedizione di Sicilia, vero tesoro per me, e dopo gli autografi del Generale, la gemma più ricca che dia qualche pregio a questo libro. E finalmente passando dai documenti inediti alle testimonianze, molti appunti da me presi sotto dettatura: dal signor cav. Antonini y Diez predetto, circa Montevideo; dal signor Andre nizzardo, circa i primi anni di Nizza; da Giovanni Basso, sui viaggi marittimi; da Menotti Garibaldi, sulla sua famiglia, da Francesco Crispi e dal generale Türr, sulla spedizione del 1860; dal dottor Ripari, sopra alcuni particolari del 1861; e da molti altri amici e commilitoni, che anche in brevi parole, o mi porsero uno schiarimento, o mi ravvivarono un ricordo, o mi indicarono una fonte, ed ai quali tutti, qualunque sia la forma e la misura della loro cooperazione, attesto qui dal più vivo dell’animo la mia sincera e profonda gratitudine. Ed ora che ho candidamente esposto il disegno, i mezzi e gli stromenti di questa mia qualsiasi opera, vegga il lettore se io era degno di intraprenderla e la giudichi. La giudichi con severità, se vuole, ma con larghezza. Vegga se in queste pagine vi trova per avventura un Garibaldi più umano e più storico, ma per ciò appunto, se fosse stato colto nella sua vera luce, più bello e più grande, e si pronunci. Non perdoni ad alcun errore essenziale, non assolva alcun giudizio arbitrario, non mi licenzi alcun tratto capriccioso; ma non mi passi al lambicco e al microscopio, non mi danni al foco eterno pel primo peccatuccio veniale, non s’arresti qua ad una data forse non bene accertata, là ad una variante forse non interamente testimoniata, altrove ad una sfumatura di tinte forse non perfettamente indovinata: m’avverta e mi corregga anche di questi falli; ma non mi sentenzi e non mi decapiti per questi. Però se mi troverò in faccia al primo sistema di critica, ascolterò con attenzione le accuse, piegherò il capo a tutte le motivate sentenze e cercherò di fare ammenda delle colpe. Se mi capiterà tra’ piedi il secondo, tirerò via scrollando le spalle e disprezzando. E il disprezzo d’un galantuomo fa poco rumore, ma picchia lo stesso nella coscienza di chi l’ha meritato. E non mi si ridica quel che già mi son sentito dire a proposito del mio _Nino Bixio_, che per Garibaldi l’ora della storia non è ancora suonata. Curioso orologio codesta Istoria che per disporsi a suonar la sua ora sta sempre fermo e non comincia mai a battere i primi minuti! Ma io sospetto forte che codesta frase fatta non sia mai stata altro che il sotterfugio di qualche furbo, il quale non avendo i suoi conti ben chiari colla storia non trova mai il tempo d’aggiustarli. Devo averlo detto altrove, ma è il caso di ripeterlo: la storia è l’eterno _divenire_ hegeliano. I contemporanei la incominciano, i posteri la continuano e la rifanno perpetuamente. Ciascun secolo la impronta del proprio suggello arrecandovi il tributo di nuove idee e nuovi fatti, ma insieme l’ingombro di nuovi errori, di nuovi pregiudizi, e nuove passioni. Però coloro che sperano l’intera verità storica dalla posterità, non sono più saggi di coloro che attendono la rivelazione dell’essere dalla ragione umana. Per essi il Macaulay diceva: «Ritratti o Istorie che possano offrire la verità tutta intera non se ne danno; ma i migliori ritratti, i migliori racconti sono quelli in cui certi lati della verità sono presentati in maniera tale da produrre, con quanta maggiore approssimazione sia possibile, l’effetto dell’insieme.[8]» E concediamo facilmente che la verità storica posseduta dai viventi sia minore di quella accumulata dai pronipoti; ma a chi appena riguardi vedrà la maggiore ricchezza di questi non essere altro ancora che il frutto e l’eredità del lavoro di quelli. Oltre di che, se la storia contemporanea non può sempre per ragioni d’opportunità o di prudenza tutto dire e tutto svelare, quelle medesime ragioni, quando siano espressamente dichiarate, sono di per sè sole un fatto della storia. Il riserbo che uno storico, coetaneo ai fatti da lui narrati, deve professare per un partito o per una persona tuttora potenti; il pericolo di cadere sotto le forbici d’una Censura dispotica, o la tema di offendere un pregiudizio legittimo od un sentimento popolare, tutti questi ed altri motivi di silenzio o di dissimulazione sono altrettanti indizi delle condizioni di un tempo e d’una civiltà; e quando Tacito ritornava desiderando in quella _rara temporum felicitate ubi sentire quæ velis et quæ sentias dicere licet_,[9] tratteggiava con un tocco solo l’età dei Claudi e dei Neroni, meglio che avrebbe potuto fare con una intera cronaca di fatti. Lasciamo dunque ai pusilli, ai mediocri ed ai tristi la paura della Storia; gli atleti come Garibaldi, che l’hanno sfidata viventi, che l’hanno scritta col loro sangue e glorificata colla loro vita, non la temono morti. Ma prima di prendere commiato dal benigno lettore, mi preme di sbarazzare a me il terreno, a lui forse la mente da una ultima obbiezione; un’obbiezione che non mi fu fatta, è vero, direttamente, ma che mi parve risonare con una nota dominante e un ritornello preferito nell’universale epicedio che la terra tuttora sbigottita e commossa non è stanca di sciogliere sulla tomba del suo maraviglioso figliuolo. Si dice che Garibaldi non è una persona, ma una personificazione; non è un uomo, ma un mito; laonde chi lo aggrava di una cappa storica, e lo costringe nelle seste della critica e lo rapisce ai liberi cieli della leggenda e della poesia, lo offusca e lo impiccolisce. Io non lo credo: io sento quanto altri tutto ciò che vi è in lui di straordinario, di fenomenale, di difficilmente riducibile, starei per dire, al comun canone umano; ma d’altra parte, come nessuno vorrà obbligarmi a credere al miracolo ed a contribuire ad una deificazione, così persisto nel ritenere che quanto più avremo studiato l’uomo portentoso nelle cause e nelle leggi naturali e storiche che l’originarono, e tanto più il portento ci apparirà grande e raggiante di quella luce meno fantastica e abbarbagliante, ma più intensa e più durevole che irradia soltanto dall’inestinguibile focolare della verità. L’Etna è forse il più favoloso e mitologico di tutti i monti della terra: pure soltanto l’alpinista ardito che, di girone in girone, su per le sue spalle di lava, n’abbia raggiunto il cratere, può comprenderne la terribilità maestosa ed evocare nella fantasia i giganti fulminati che vi stanno sepolti. Così di Garibaldi, la sua leggenda parrà tanto più meravigliosa e sarà tanto più indistruttibile quanto più s’imbaserà largamente nella Storia, e il Critico futuro sentirà palpitare, sotto la spoglia granitica del nuovo Titano italico, le carni d’un uomo. Nè la Storia nocque mai alla leggenda; spesso ha sfatato la spuria, fiore artificiale della rettorica letteraria, del fanatismo politico, o della superstizione religiosa; ma ha rispettato quella legittima, frutto della ingenua e calda fede popolare, anzi più d’una volta ha aiutato ad allargarla, a schiarirla, e interpretarla. Quanto non si è scritto di critica storica, e per tacere degli eroi leggendari di Grecia e di Roma, intorno a Carlomagno e a’ suoi Paladini; al Tell ed a Giovanna d’Arco; al Re Arturo e a Federico Barbarossa! Ebbene, hanno essi perduto alcuna parte della loro poetica vita? V’è egli, non dirò poeta e romanziere, ma storico e filosofo, che neghi o rifiuti, e non adoperi sovente come simbolo e personificazione della nobiltà cavalleresca, della fede, della patria, dell’autorità, della forza, dell’amore, della sventura, quelle romantiche creazioni della medioevale fantasia? Nè bisogna scordarsi che una trasformazione totale dell’uomo storico nell’eroe favoloso, quale avvenne nella culla del mondo greco o negli albóri del mondo cristiano, non è più possibile. Per sostenerlo converrebbe immaginare non solo un regresso della civiltà fino all’infanzia e quasi alla barbarie, ma una scomparsa universale di tutti i ricordi, di tutti i documenti, di tutti i monumenti della Storia, il che per lo meno è tanto lontano quanto la scomparsa della terra stessa. Ma finchè l’incivilimento, con tutti gli strumenti e le forze da lui accumulate, esista; fino a che la stampa, formidabile divinità, signoreggi nel mondo, e possa con milioni d’occhi scrutare, e milioni di bocche denunziare, e milioni di pagine perpetuare le azioni anco de’ più ascosi mortali, non ci sarà fede creatrice di popoli, nè genio inventivo di poeta che possa sviluppare un uomo della Storia dalla realtà che da capo a piedi lo fascia, sottrarlo al sindacato della ragione critica che da ogni parte lo assale, svellerlo totalmente dalla terra per sublimarlo alle nubi e farne una costellazione del cielo. Orlando o Maometto, Spartaco o Cesare, la forma e il grado di trasfigurazione che le età nuove consentiranno oramai ai loro grandissimi, non potranno oltrepassare i confini d’una contemplazione commossa della loro umanità e d’una glorificazione entusiasta della loro virtù. Guardate Washington e guardate Napoleone. Quali figure, in diverso e quasi inimico aspetto, più colossali e più degne delle apoteosi dell’epica! Eppure non ostante il culto consacrato all’uno dagli eredi beneficati d’un sublime retaggio di Libertà, all’altro dai superstiti d’una gigantesca epopea, nessuno di loro potè sfuggire alle leggi della sua civiltà e del suo tempo, e pur restando entrambi sul loro piedistallo maravigliosi, nessuno riuscì a divenir leggendario. Così, senz’alcun proposito di istituir confronti, che la fortuita vicinanza di questi tre nomi potrebbe far sospettare, così Garibaldi. Egli torreggia già sull’Olimpo e salirà, salirà ancora, ma sciogliersi interamente nelle nebbie della leggenda, gettare la sua personalità e responsabilità d’uomo non lo potrà mai. La Storia lo ebbe, e la Storia lo terrà. Dica pure Dante a Virgilio: Mai non pensammo forma più nobile d’eroe........... Livio giustamente risponderà sorridendo: È de la Storia, o poeti, de la civile Storia d’Italia è quest’audacia tenace ligure, che posa nel giusto, ed a l’alto mira, e s’irradia nell’ideale.[10] Padova, 15 giugno 1882. GIUSEPPE GUERZONI. [Illustrazione: FAC-SIMILE DI DUE PAGINE DELLE MEMORIE DI GARIBALDI] GARIBALDI. CAPITOLO PRIMO. DALLA NASCITA AL PRIMO ESIGLIO. [1807-1836.] I. La _Gazzetta Piemontese_ del 17 giugno 1834 pubblicava la seguente «SENTENZA. Genova, 14 giugno 1834. »Il Consiglio di Guerra divisionario sedente in Genova convocato d’ordine di S. E. il signor Governatore Comandante Generale della Divisione »Nella causa del Regio Fisco militare contro _Mutru Edoardo_ del vivente Giovanni, d’anni 24, nativo di Nizza Marittima, marinaro di 3ª classe al R. servizio. — _Canepa Giuseppe Baldassare_ del fu Giov. Battista, d’anni 34, nato e domiciliato in Genova, commesso in commercio, sottocaporale provinciale nel 1º Reggimento Savona. — _Parodi Enrico_ del vivente Giovanni, d’anni 28, marinaro mercantile, nato e domiciliato in Genova. — _Dalus Giuseppe_ detto _Dall’Orso_ del fu Francesco, d’anni 30, nato a Praja dell’isola di Terzeïra (Portogallo), marinaro mercantile di passaggio in Genova. — _Canale Filippo_ del vivente Stefano, d’anni 17, nato e domiciliato in Genova, lavorante libraio. — _Crovo Giovanni Andrea_ del vivente Giov. Agostino, d’anni 36, nativo di Carreglia (Chiavari) e domiciliato in Genova, sostituto segretario del Tribunale di Prefettura. — _Garibaldi Giuseppe Maria_ del vivente Domenico, d’anni 26, capitano marittimo mercantile e marinaro di 3ª classe al R. servizio. — _Caorsi Giov. Battista_ del fu Antonio, detto il figlio di Tognella, d’anni 30 circa, abitante in Genova. — _Mascarelli Vittore_ del vivente Andrea, d’anni 24 circa, capitano marittimo mercantile, dimorante nella città di Nizza; »I primi sei detenuti e gli altri contumaci, inquisiti di alto tradimento militare, cioè: »Li Garibaldi, Mascarelli e Caorsi di essere stati i motori d’una cospirazione ordita in questa città, nei mesi di gennaio e febbraio ultimi scorsi, tendente a fare insorgere le Regie truppe, ed a sconvolgere l’attuale Governo di Sua Maestà; di avere li Garibaldi e Mascarelli tentato con lusinghe e somme di denaro effettivamente sborsate d’indurre a farne pur parte alcuni bassi uffiziali del Corpo Reale d’Artiglieria, e di avere il Caorsi fatto provvista a sì criminoso scopo d’armi, state poi ritrovate cariche, e di munizioni da guerra. E gli altri sei di essere stati informati di detta cospirazione e di non averla denunciata all’Autorità Superiore, e di essersi anzi associati; »Udita la relazione degli Atti, gli inquisiti presenti nelle loro rispettive risposte, il R. Fisco nelle sue conclusioni, ed i difensori nelle difese degli accusati presenti »_Il Divino aiuto invocato_ »Reietta l’eccezione d’incompetenza opposta dai difensori di alcuni accusati — Ha pronunciato doversi condannare, siccome condanna, in contumacia i nominati _Garibaldi Giuseppe Maria, Mascarelli Vittore_ e _Caorsi Giov. Battista_, alla pena di morte ignominiosa e dichiarandoli esposti alla pubblica vendetta come nemici della Patria e dello Stato, ed incorsi in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle Regie Leggi contro i banditi di primo catalogo in cui manda gli stessi descriversi. — Ha dichiarato li Mutru Edoardo, Parodi Enrico, Canepa Giuseppe Baldassare, Dalus Giuseppe e Canale Filippo non convinti allo stato degli Atti del delitto ad essi imputato, ed inibisce loro molestie dal Fisco. — E finalmente ha dichiarato e dichiara insussistente l’accusa addebitata all’Andrea Crovo, e lo rimanda assoluto. — Genova, 3 giugno 1834. »Per detto Illustrissimo Consiglio di Guerra »BREA, segretario. »Visto ed approvato »_Il Governatore Comand. gen. della Divisione_ »Marchese PAULUCCI.» Era questa la prima volta, dice Giuseppe Garibaldi nelle sue _Memorie_,[11] che leggeva stampato nei giornali il suo nome: era questa la prima volta che lo leggevano gl’Italiani. Chi mai avrebbe detto che l’oscuro marinaio di 3a classe, _il bandito di primo catalogo_, il condannato nel capo per disertore e ribelle, avrebbe presentato un giorno al Figlio di quel Re che lo mandava al capestro una delle più belle corone d’Italia; parteciperebbe con un gran Principe e un gran Ministro alla gloria di rivendicare l’indipendenza e fondare l’unità della patria sua; «empirebbe del suo nome (per dirla colle parole di Vittorio Emanuele) le più lontane contrade;» diverrebbe uno degli uomini più popolari e delle figure più meravigliose dei tempi moderni; invecchierebbe in una specie d’inviolabilità, sotto l’egida della sua passata grandezza; morrebbe con onori regali, e sopravviverebbe a sè stesso nell’immortalità della storia? Eppure quel giovane che l’Italia vedeva per la prima volta sui passi dell’esiglio, inseguíto da una pena capitale, portava fin d’allora in sè stesso tutte le promesse di un non volgare destino. Quantunque ancora perduto nella folla, chiunque avesse potuto conoscerlo e studiarlo da vicino, nella sua indole, ne’ suoi costumi, ne’ suoi atti, nelle sue parole poteva fin d’allora presagire che tosto o tardi egli sarebbe uscito di schiera e avrebbe fatto parlare di sè. In qual modo egli n’avrebbe fatto parlare, era questo il segreto dell’avvenire; ma certo l’avvenire aveva dei segreti per lui, e lo aspettava. Da quell’ignoto poteva uscire, secondo gli eventi e le fortune, così un ardito corsaro come un glorioso ammiraglio, tanto un bandito famoso quanto un candido eroe, così un avventuriere fortunato come un grande capitano; ma non poteva più uscire oramai un uomo comune. Già a ventisei anni egli aveva provato che, se la sua vita poteva restare oscura, non lo poteva la sua morte. Anche arrestato per via dal laccio del carnefice si sarebbe scritto sulla sua tomba: qui giace un martire. Anche sparito nella tenebra d’un naufragio il marinaio ligure ne avrebbe lungamente ripetuto il nome a’ suoi figliuoli come un esempio d’intrepidezza e di virtù. Giuseppe Garibaldi era un predestinato; e la Provvidenza (perchè dirla il cieco destino?), temperandolo fanciullo nell’ampia palestra dei mari e delle tempeste, aprendogli nella giovinezza e nella virilità una scena adatta alle sue attitudini ed alla sua forza, scampandolo da tanti pericoli e persino da sè stesso, aveva tutto predisposto in lui e attorno a lui perchè riuscisse degno della singolare missione che gli aveva affidata. Che se essa non apparve sempre tutta buona, tutta provvida, tutta grande, fu però ottima, provvidissima, grandissima un giorno, e ciò basta alla posterità ed alla storia. II. Un novelliere francese lo fece nascere in alto mare, in una fragile barca, tra i lampi e i tuoni d’una notte di tempesta, e non sembra davvero che la vita di Giuseppe Garibaldi avesse mestieri d’essere infrascata d’un romanzo di più. Nacque, assai più tranquillamente, in Nizza Marittima, il 4 luglio 1807, un anno prima di Mazzini, in una casetta del _Quai Lunel_, oggi _Quai Cassini_, da Domenico Garibaldi e da Rosa Raimondi.[12] Che poi in quella medesima casa, anzi nella medesima camera sia venuto al mondo 49 anni prima Andrea Masséna, Garibaldi lo credette e lo scrisse, e ai dilettanti d’oroscopi potrà dare nel genio; ma non è. Se ancora fu leggenda viva per qualche tempo fra Nizzardi, oggi la lapide memoriale che il Comune nizzardo pose sulla casa del _Quai Cassini_, la quale ricorda solo il nome di Garibaldi, e l’altra posta sulla casa del _Quai Jean Baptiste_ che afferma asseverantemente quella essere stata il tetto natale del «prediletto figlio della vittoria,» tolgono ogni dubbiezza. La famiglia dei Garibaldi era oriunda di Chiavari e non si trapiantò in Nizza che intorno alla fine del secolo XVIII. Come a Napoleone dopo Marengo, così a Garibaldi dopo Marsala la compiacente Musa dell’Araldica fece sorger dal suolo un completo albero genealogico, le di cui radici si perdono nel profondo dell’età longobarda; ma ognuno vorrà credere che, se anco non ci mancassero argomenti per entrare in siffatto litigio, ci mancherebbe pur sempre l’ozio. Non v’ha dubbio che il nome (_Gar_ o _Garde-bald_) l’accusa d’origine tedesca e antica; ma se egli procedette davvero in retta linea da Garibaldo duca di Torino, e da tutta quella non interrotta progenie di capitani di mare, di uomini d’armi e di magistrati, che il dotto genealogista gli regalò, questo non sapremmo davvero nè affermare nè negare. A noi paghi, come il nostro eroe, di antenati meno illustri e più certi, basti tenerci sicuri di questo: che verso la metà del secolo scorso viveva in Chiavari un Angelo Garibaldi di vecchia e onesta casata di capitani di mare ed armatori, capitano ed armatore egli stesso: che quell’Angelo venne intorno al 1780 per trapiantarsi con tutta la famiglia a Nizza; che in quella famiglia c’era un figliuolo di nome Domenico e che questo Domenico, sposata Rosa Raimondi, divenne il padre di cinque figliuoli, tra cui il nostro Giuseppe. A Nizza poi la storia dei genitori e dei fratelli di Garibaldi è notissima; e se è probabile che assai pochi sieno i superstiti di coloro che li conobbero di persona, sono però molti e vivi ancora quelli che la udirono raccontare da’ loro vecchi e la ripetono così: Domenico Garibaldi, o, come lo chiamavano i suoi colleghi del Porto, _Padron Domenico_, non fece studi di sorta; imparò la nautica sui bastimenti del padre, e a forza di navigare, più per pratica che per teoria, crebbe abile ed esperto marino. Rimasto orfano e padrone di qualche ben di Dio, non lasciò per questo l’arte paterna; armò bastimenti di suo, ne prese il comando egli stesso e li portò con alterna fortuna, ma sempre con onore, per tutti i porti del Mediterraneo. Non oltre però: chè per cimentarsi alle lontane navigazioni transatlantiche e persino ai più vicini scali di Levante gli fecero difetto sempre la portata de’ bastimenti, le cognizioni del navigatore, e fors’anche più l’audacia e l’ambizione. Era quindi e restò sempre un modesto capitano di cabotaggio, pratico di tutti i paraggi del mar ligure da girarvi a occhi chiusi; sulla poppa della sua tartana, la _Santa Reparata_, sicuro come in casa sua, ma incapace d’uscire dal giro tradizionale della sua vita, ed alieno dal rischiare tutta la sua fortuna sopra tavolieri troppo vasti e cimentosi. Infatti dopo tanti anni di corse, di traffici, di sudori, se non aveva intaccato il modesto patrimonio paterno, non l’aveva neanche accresciuto, e non era giunto, malgrado tanti sforzi, che a consolidarsi in quella mezzana agiatezza borghese, la quale, finchè la famiglia è riunita o i figliuoli son piccini, pare soverchia, ma che appena i figliuoli ingrandiscono e la famiglia si divide, assomiglia molto davvicino alla strettezza e quasi alla povertà. Del resto, brav’uomo, testa angusta, cuor largo, probo, servizievole, benevolo, quindi beneviso: questo è il padre di Garibaldi, come ci fu ritratto da persone che lo viddero e lo conobbero; quale è tuttora vivente nella memoria dei Nizzardi. Ma ancora più viva e venerata dura la ricordanza di sua moglie Rosa Raimondi, o per chiamarla essa pure col nome pieno di riverente affetto con cui la conobbe sempre il popolo di Nizza: _la signora Rosa_. Discendeva da una casa popolare, ma benestante, di Savoia; era donna di bellezza non comune, di costumi semplici e modesti, e di straordinaria pietà. Nessuno però avrebbe potuto accusarla di melensa bacchettoneria; osservava senza farisaismo come senza vergogna le pratiche del suo culto; ma sapeva, e lo dimostrava coi fatti, che la vera religione di Dio è essenza del bene, amore de’ simili e fiamma di carità. E come il cuore così non aveva volgare la mente. Fin da fanciulla aveva potuto tesoreggiare qualche istruzione; amava molto le letture, intendeva, meglio forse che il marito, i segni del suo tempo e le secrete vocazioni del suo secondogenito, di cui sentiva maturare con amore atterrito la perigliosa grandezza. Del resto passava le ore che le domestiche cure le consentivano al letto degli ammalati; distribuiva con sapiente larghezza gran parte del suo ai poveri, e diveniva per la sua gentilezza e carità tanto popolare, specialmente negli umili quartieri del Porto, che bastava nominare la _signora Rosa_ perchè tutti corressero col pensiero a colei che n’era, in certa guisa, la fata benefica. Ma nessun maggiore elogio di Rosa Garibaldi delle parole che il figliuolo stesso già adulto le consacrava nelle sue _Memorie_. Anche del padre rammenta con gratitudine la vita laboriosa ed onorata, gli sforzi fatti per la sua educazione, col rammarico d’aver retribuito di sì scarsi frutti tante cure e tanti sagrifici; ma quando viene a parlare della madre gli erompe dal cuore tale un grido d’affetto e di riconoscenza, che pochi figli saprebbero ripetere l’uguale: «Mia madre, lo dichiaro con orgoglio, mia madre era il modello delle madri, e credo con questo avere detto tutto. Uno de’ miei maggiori rammarichi sarà quello di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona genitrice, la di cui vita io amareggiai tanto coll’avventurosa mia carriera. Soverchia fu forse la di lei tenerezza; ma non devo io all’amor suo, all’angelico di lei carattere il poco di buono che si rinviene nel mio? Alla pietà di mia madre, all’indole sua benefica e caritatevole, alla compassione sua verso il tapino, il sofferente, non devo io forse la poca carità patria che mi valse la simpatia e l’affetto de’ miei disgraziati, ma buoni concittadini? Oh.... abbenchè non superstizioso, certamente non di rado, sul più arduo della strepitosa mia esistenza, sorto illeso dai frangenti dell’Oceano, dalle grandini del campo di battaglia, mi si presentava genuflessa, curva al cospetto dell’Altissimo, l’amorevole mia genitrice implorandolo per la vita del nato dalle sue viscere!... ed io credevo all’efficacia della preghiera!...[13]» Belle e sante parole, che diresti ispirate dalla Musa stessa della figliale eloquenza, e che rivelandoci a un tratto quanto fosse squisita in quel cuore leonino la fibra dell’amor figliale, ci fanno già presentire quanto sarà, un giorno, appassionato, cieco e quasi improvvido il cuore del padre. E quel che è più, egli suggellò queste parole scritte in un impeto di religioso entusiasmo col culto dell’intera sua vita. In Caprera il solo ritratto di donna che si veda sopra il capezzale del Generale è quello d’una bella vecchina, avvolto il capo da un fazzolettino rosso, che sorride dolcemente: il ritratto di sua madre. Nella casa Garibaldi da trent’anni non si festeggia più l’onomastico del Generale, perchè quel giorno coincide coll’anniversario della morte di sua madre (19 marzo 1852), ed è giorno sacro alla sua memoria. D’onde si vede che l’amor vero può suggerire le più signorili raffinatezze della pietà anche ai lupi di mare! Ma, come dicemmo, _Peppino_ (era questo il vezzeggiativo col quale il nostro Giuseppe era chiamato per la casa, finchè verrà il giorno in cui i Nizzardi lo chiameranno _Monsù Pepin_) non era il solo frutto d’amore che la signora Rosa aveva dato a padron Domenico. Egli veniva in mezzo a quattro altri fratelli, Angelo, che l’aveva preceduto, Michele, Felice ed una sorella, di cui non sappiamo il nome, che l’avevano seguíto. Angelo, la testa quadra della famiglia, il braccio destro del padre finchè stette in casa, fu uomo di molta perizia e riputazione negli affari mercantili e marinareschi, e finì negli agi, console di Sardegna agli Stati Uniti d’America. Michele si dedicò più specialmente al navigare; divenne capitano marittimo, non uscì quasi mai dalla modesta penombra dell’arte sua, e morì il 21 luglio 1866. Felice lasciò dietro a sè la nomina di elegante zerbino, gran cacciatore di donne; esercitò con qualche fortuna il commercio; fu agente per molti anni della casa Avigdor a Bari, e cessò di vivere non ancora vecchio nel 1856. La sorella finalmente fu, bambinetta ancora, non sappiamo per quale caso funesto, avvolta dalle fiamme, e vi morì orrendamente bruciata. Questo è tutto quanto ci fu dato spigolare, non senza fatica, sulla famiglia di Garibaldi; altri potrà soggiungere di più; ma anche il poco che noi abbiamo potuto dirne dovrebbe bastare a fermarne i tratti principali ed a scolpirne l’immagine. Non era, come s’è visto, una famiglia di signori, ma non la era neanche di spiantati pescatori, come taluno sognò. La casa era modesta, ma vi regnava il benessere, vi rideva l’amore, vi splendeva l’onestà. Il padre la nutriva col lavoro, la madre la santificava colla pietà; la gaia brigata dei figliuoli l’allegrava de’ suoi strilli, del suo moto romoroso, de’ suoi innocenti trastulli; tutti insieme diffondevano attorno al domestico focolare quell’aura di pace serena e di pura letizia, che non era forse troppo omogenea alle spirituali ginnastiche del pensiero, ma che certamente era più d’ogni altra propizia a custodire e fortificare colla salute del corpo quella altresì più preziosa ed importante, la salute del cuore, che è la più vitale condizione d’ogni vera grandezza. III. Come crescesse in quella casa, da quei parenti, sotto quel cielo, lungo quel mare, il secondogenito dei Garibaldi, è facile l’immaginarselo. Il nostro eroe si studiò a tratteggiare in alcuni tocchi, a dir vero troppo scarsi e fuggitivi, la propria infanzia; ma se egli ne avesse anche interamente taciuto, chi ha visto l’albero può assai di leggeri indovinarne il germoglio. Un bel ragazzo dai capelli biondi, dalle gote incarnate, dallo sguardo azzurro e profondo, dalle membra snelle e tarchiate, che cresce libero e selvaggio ai venti e al sole della sua costiera natía, che passa le sue giornate ad arrampicarsi su per le sartie dei bastimenti paterni, a sguazzare e tuffarsi nell’acqua, a ruzzare e fare alle braccia coi monelli del Porto, a correre la montagna alla caccia d’uccelli e di grilli, ed a frugare la scogliera alla pesca di ricci e di granchi; ecco quale doveva essere in sull’alba de’ suoi dieci anni il futuro capo dei Mille. Suo padre, ce l’assicura egli stesso, non pensò a dargli alcuna «lezione nè di ginnastica, nè di scherma, nè d’altri esercizi corporei,» e noi gli crediamo facilmente.[14] Con quell’indole e quella tempra il ragazzo era maestro a sè stesso. «Imparai (egli soggiunge) la ginnastica arrampicandomi su per le sartie o lasciandomi sdrucciolar giù pei cordami: la scherma tentando di difendere da me la mia testa e di spaccare quella de’ miei avversari; l’equitazione prendendo a modello i migliori cavalcatori del mondo e studiandomi di far come loro. Quanto al nuoto, dove e quando l’imparassi non mi sovviene; mi sembra d’averlo sempre saputo e d’essere nato anfibio. Però quantunque tutti quelli che mi conoscono sappiano che sono sempre stato restío a fare il mio elogio, dirò molto schiettamente e senza crederlo un vanto, che io sono uno dei più gagliardi nuotatori che esistano. Non bisogna dunque attribuirmi merito alcuno, se, mercè questa gran fiducia che ho sempre avuto in me, non ho mai esitato a buttarmi all’acqua per salvare la vita d’uno de’ miei simili.[15]» Ed a queste mirabili disposizioni del corpo rispondevano, già adeguate e conformi, le qualità dell’animo; non tutte forse le qualità; ma quelle due principalmente che più gli erano necessarie per sollevarsi dal volgo e drizzare la nativa gagliardia delle membra a nobile mèta: il coraggio e la bontà. Il coraggio gli veniva dalla natura che fin da bambino gli aveva cinti i nervi d’una corazza impenetrabile a tutte le impressioni della paura e radicato nell’animo quella, non saprei dire se provvida o improvvida, inconsapevolezza del pericolo, che pare talvolta colpevole follía ed è l’inconscia virtù dei fanciulli e degli eroi. Della bontà poi, egli stesso, ripeteva il dono da Dio e da sua madre, e non ne pretendeva per sè merito alcuno. Sino da primi anni tutto ciò che era piccino, debole, disgraziato, lo toccava e lo impietosiva. E non di una pietà inerte, passiva, quasi femminea; ma sì di quella virile, operosa, pugnace, che si sdegna dell’ingiustizia, si ribella alle prepotenze, fa sua risolutamente la causa degli afflitti e degli oppressi, e dà lietamente il sangue e la vita per essi. A otto anni aveva già tratto dalle acque d’un fosso una lavandaia che vi annegava. A tredici salvava, gettandosi a nuoto, una barca di compagni prossimi a naufragare. Non poteva veder soffrire nè gli uomini nè gli animali, e l’uomo strano che nel bel mezzo d’una marcia contro il nemico s’arrestava ad ascoltare il canto d’un usignuolo; che balzava di letto prima dell’alba per correre a cercare tra gli scogli di Caprera un agnello smarrito, e recarselo sulle spalle alla madre; che s’accendeva di sdegno tutte le volte che sorprendeva un soldato a maltrattare senza ragione il suo cavallo: era quello stesso fanciullo che a sette anni, fatto prigioniero un grillo e strappategli le ali fu preso poi da tanta pietà del povero animaluccio, e da tale rimorso della propria crudeltà, che ne pianse amaramente. IV. Ma Peppino entrava già nel suo dodicesimo anno, ed era tempo che si mettesse di proposito agli studi. Questo capitolo però della prima educazione intellettuale di Garibaldi è pieno per noi, e non crediamo sia diverso per altri, di grande oscurità e di molte lacune. Che padron Domenico non abbia trascurato nè cure nè dispendi per dare al suo secondogenito una istruzione anche superiore alle sue forze ed al suo stato, ce ne assicurò con parole di viva riconoscenza il figlio stesso e non è lecito dubitarne. Ma in che quella educazione sia propriamente consistita, a quale carriera quel padre destinasse quel figliuolo, e però a quale ordine di studi lo volesse incamminare, ciò non è da alcun documento attestato, e il biografo che non voglia dare per fatti le ipotesi non dev’essere restío a confessare la propria ignoranza. Che tanto padron Domenico, quanto la signora Rosa ripugnassero ad avventurare su quell’arena fortunosa e infida del mare un figliuolo così temerario e spericolato, e n’avessero perciò fin dai primi anni combattuto con ogni possa l’aperta vocazione, vagheggiando per lui uno stato più sicuro e tranquillo, è indubitabile, e trapela, a dir così, dalle stesse parole onde Garibaldi dipinge lo sgomento, quando lo videro imbarcarsi e salpar da Nizza la prima volta. Ma che poi essi, il padre principalmente, avessero nell’animo, siccome fantastica il vecchio Dumas, di fare addiritura di quel figliuolo un medico, un avvocato e persino un prete, nè Garibaldi lo scrisse, nè altri lo affermò, ed è manifestamente una delle tante fiabe, di cui il romanziere francese infarcì il suo racconto. E non la diremmo nemmeno una ragionevole ipotesi; chè il fatto solo del silenzio di Garibaldi intorno a quegli studi classici, che pur sono necessario avviamento a quella carriera, anticipatamente la smentisce. La smentisce, ma non le surroga per questo un fatto più certo; poichè, se è da tenersi per indubitato che il nostro eroe non vide mai neppure da lontano un cartone di libro latino o greco o d’altro classico qualsiasi, non c’è poi modo di discernere a quale ordine debbano andare ascritti tutti quegli altri studi che pur egli ammette d’aver fatti e fece certamente. Garibaldi stesso è, su questo punto, d’un laconismo sconfortante per chi pur vorrebbe scoprir la traccia della prima coltura che dirozzò la sua mente. Tutto quello che egli sa dircene in proposito è racchiuso in questo breve periodo: «Tra i maestri conservo cara rimembranza del padre Giaccone[16] e del signor Arena. Col primo trattai pochissimo, più intento allora a divertirmi che ad imparare, e mi rimane quindi il rimorso di non aver studiato l’inglese, rimorso risuscitato in ogni circostanza della mia vita in cui mi sono trovato con Inglesi. Poi essendo il padre Giaccone di casa nocevami la troppa famigliarità. Al secondo, eccellente militare, io devo il poco che so, soprattutto riconoscenza d’avermi avviato nella lingua patria colla lettura della storia romana.» Ora ognun vede che queste parole sono più fatte per moltiplicare i quesiti che per diradarli, più per invogliare alla curiosità che per sodisfarla. Infatti se il padre Giaccone non riuscì nemmeno a insegnargli l’inglese, che cosa gl’insegnò egli? Se il signor Arena non l’istruì che nella lingua italiana e nella storia romana, dove e da chi apprese egli tutte quelle altre nozioni, chiare od oscure, superficiali o profonde, digeste o indigeste, che pure balenano, come lampi, tramezzo a fitte nebbie, dalle parole e dagli scritti della intera sua vita? Noi udimmo narrare da un suo amico e commilitone che Garibaldi, giovane, sapeva a memoria teorema per teorema tutti gli elementi di geometria; ora non vogliamo attribuire a questa felicità di memoria maggiore importanza che si meriti; ma insomma egli fu capitano marittimo, e per conseguirne la patente dovette possedere almeno nella scarsa misura degli elementi non poche cognizioni di matematica, d’astronomia, di geografia fisica, di diritto commerciale, e via dicendo; e il fatto delle sue lunghe e difficili e felici navigazioni provano che le possedette. Ora come, quando, dove apprese tutto ciò? Così noi leggeremo più tardi che egli fu per due volte costretto a guadagnarsi il pane dell’esiglio insegnando qui la matematica, altrove la storia e la letteratura e simili. Ed anche qui per quanto la voce _maestro_ non sia mai stata sinonimo di _dotto_, pure una certa infarinatura delle cose che si fan mostra d’insegnare altrui sappiamo tutti che ci vuole, e il sapere dove e quando un siffatto maestro se la sia procacciata, resterà sempre curioso e interessante. E non basta. Una tal quale coltura letteraria, confusa, balzana, indigerita, incondita, nessuno potrà mai negargliela. A ventisette anni sulla tolda del suo bastimento faceva dei versi, che non erano tali certamente da promettere un nuovo alunno all’italo Parnasso, ma che pur camminavano su tutti i loro piedi; e nella passione dei versi sappiamo tutti che invecchiò, sicchè più d’uno fu ammesso ad udire lunghi brani d’un suo poema endecasillabo che doveva celebrare l’epopea della sua vita. Più tardi, noi stessi, ospiti suoi a Caprera, l’abbiamo sentito declamare a memoria tutti i _Sepolcri_ di Foscolo e squarci interi in francese della _Zaïre_ di Voltaire, e ricordarsi poi come uomo che li ha letti nei testi, non pochi episodi dell’_Iliade_, della _Commedia_, della _Gerusalemme_. Infine fanno ormai quarant’anni ch’egli innonda, può dirsi, l’Europa de’ suoi manifesti, de’ suoi appelli, delle sue lettere (ahimè! la fiumana delle lettere), finchè verrà il giorno, in cui il mondo lo vedrà darsi «per vivere» (parola che troncherebbe il sorriso ai più beffardi) all’arte del romanziere, e aggiungere alla mole delle cose, che la storia deve dimenticare di lui, tre romanzi. Ora per leggere una carta idrografica, per levar un punto di stima, osservare un barometro, tenere un Libro di bordo, governare un bastimento dal Pacifico al mar delle Indie; per misurare de’ versi anche mediocri, ma che pur rompono qua e là in accenti di fiera armonia; per gustare Ugo Foscolo, per intendere Voltaire, per sapere che esistessero Dante, Tasso ed Omero, per cucire assieme de’ romanzi anche pessimi, per gettare sulla terra una piena di lettere come le sue, rozze e bizzarre fin che si voglia, ma nelle quali pur vedi sormontare tramezzo al denso limo delle stramberie e degli spropositi qualche fiore di selvatica bellezza; per sapere, dicevamo, per intendere, e per fare tutto ciò, qualche cosa qui e colà bisogna aver letto e studiato, e la conseguenza naturale a cui si è tratti, è di chiedersi dove e quando l’abbia potuto leggere e studiare. Altro però è sentire la necessità di un quesito, altro la possibilità di risolverlo. Chi presumesse di cercare i principii dell’istruzione intellettuale di Garibaldi (quale che sia stata) nella sua giovinezza piuttosto che nella sua virilità, in un periodo piuttosto che in un altro della sua vita, fallirebbe. Garibaldi s’è fatto tutto da sè, per via, camminando, navigando, combattendo. Come una landa fertile da natura, ma abbandonata dall’incuriosa mano dell’uomo, e che il seme portato dal vento feconda di qualche erba e qualche arbusto, così la mente di Garibaldi. Il vento delle sue fortune fu il suo primo educatore e maestro, ma la mente restò come la landa una vasta sodaglia, interrotta da qualche oasi fiorita e da alcune rare piante salvatiche. E non vorremmo per questo sminuire la gratitudine dovuta a’ suoi primi maestri; consentiamo anzi che qualche buon seme l’abbiano sparso essi pure, e che ad essi principalmente torni il merito d’avere per i primi dissodato e aperto il vivace ingegno del fanciullo. Ma o perchè questi fosse reluttante agli studi e più amico dei _banchi di quarto_ che dei banchi di scuola, o perchè ne’ suoi precettori non andassero di pari passo lo zelo ed il sapere, o perchè infine non apparendo chiaro nella mente de’ genitori la mèta a cui dovevano dirigerlo, anche gli studi si risentissero di questa incertezza e difettassero di ordine e d’indirizzo, il fatto certo è questo che Peppin Garibaldi ebbe dei maestri, sedette ad una scuola, scartabellò e scarabocchiò anch’esso dei quaderni come tutti i fanciulli suoi pari, sfiorò anche, se si vuole, gli elementi di molte cose utili per fermo a sapersi; ma un vero e proprio e regolare corso di studi anche elementari, che gli potesse servire di fondamento all’istruzione futura, non lo fece, nè lo potè fare; aggiungiamo anzi, per la verità, che allora non lo volle. E non lo volle, perchè nel momento in cui padre Giaccone e il capitano Arena erano più affaccendati intorno a lui, e padron Domenico e la signora Rosa più si allegravano nel pensiero di vederlo attendere con profitto agli studi, e già vagheggiavano la speranza che l’amore dei libri l’avrebbe a poco a poco guarito dalla passione del mare, in quel punto stesso, diciamo, il ragazzo ordita con altri tre amici una congiura di rompere quella fastidiosa disciplina della scuola e di correre sul libero mare la ventura, rapito, non sappiamo nè a chi nè come, un battello di pesca, s’imbarcava furtivo con tre compagni, Cesare Parodi, Raffaello Deandreis e Celestino Berman, prendeva arditamente il largo e navigava per Genova. Un prete scopriva e denunziava la trama, il padre, affannato, mandava ad inseguirlo, ed era fermato all’altezza di Monaco, e ricondotto, più indispettito che contrito, sotto il tetto paterno: ma la vocazione del figliuolo era decisa; non valevano ormai nè persuasioni nè rimproveri; egli sarebbe stato marinaio come i suoi avi; e forse una segreta voce mormorava già nel cuore del fanciullo: non marinaio soltanto! V. Poichè contrastare a una sì manifesta e deliberata vocazione sarebbe stato peggio che follía, a padron Domenico non restava più che alleviare al figliuolo i disagi e i pericoli del noviziato, procacciandogli un buon imbarco; e alla signora Rosa che preparargli, piangendo in silenzio, il fardello di viaggio. E l’imbarco fu presto trovato e migliore sarebbe stato difficile. Allestiva nel porto di Nizza per Odessa il brigantino _Costanza_, capitano Angelo Pesante: il brigantino aveva reputazione di solido e svelto veliero; il capitano passava per uno dei più provetti e arditi marinai della Riviera ligure; fu dunque deciso che Peppin farebbe con essi la sua prima campagna di mozzo. Con che cuore lo vedesse partire il suo vecchio padre, con che lagrime l’abbracciasse la sua povera madre, è facile immaginarlo; quanto a lui, li amava troppo per staccarsene senza dolore; ma l’idea di poter slanciarsi finalmente su quel «regno ampio de’ venti» ch’era stato l’anelito segreto e il sogno costante della sua anima giovanile, la gioia di poter anche lui salire un gran bastimento, guizzar tra le sue alte gabbie, imparare come si maneggi una mura, come si governi un timone, come si legga una bussola, come si cansi o si domi un fortunale; quell’idea e quella gioia suprema, staremmo per dire dell’animale che si tuffa nell’elemento per cui è nato, dominavano in quell’istante persino il dolore del distacco ed ogni altro suo affetto. «Com’eri bella (esclama trent’anni dopo, caldo ancora dei ricordi di quella sua prima navigazione) com’eri bella, o _Costanza_, su cui dovevo solcare il mare per la prima volta! Gli ampi tuoi fianchi, la snella tua alberatura, la spaziosa tua coperta e sino il tuo pettoruto busto di donna rimarranno per sempre impressi nella mia immaginazione. Come dondolavansi graziosamente que’ tuoi marinari sanremesi, vero tipo de’ nostri intrepidi Liguri![17]» E queste parole d’entusiasmo dopo tant’anni prorompenti ancora dal cuore del marinaio già indurito dalle tempeste e dai perigli, ci dicano quale grande fortuna sia stata per la patria nostra che padron Domenico non si sia ostinato a negare il fondamento che natura aveva posto nel suo figliuolo, e che cuore di marinaio avesse quel giovane che parlava del suo primo viaggio di mare come d’un viaggio di nozze, e tratteggiava le bellezze della nave su cui navigò la prima volta coll’amore d’un fidanzato. Malauguratamente di quel primo viaggio in Odessa, nè di altri che fece poi, noi non sappiamo, nè egli volle dire di più. «Sono diventati sì comuni, diceva, che superfluo sarebbe lo scriverne;» e aveva torto, e io spero ancora che in quelle _Memorie_ che si assicura abbia lasciato dietro di sè come un retaggio alla storia, vorrà dar compiuta la descrizione di quel periodo, in cui il marinaio fece il suo tirocinio e il giovine subì la prima tempera del suo carattere. Reduce dall’Oriente, il padre, il quale, non potendo più pensare a cambiare la carriera del figliuolo, andava cercando i mezzi per rendergliela meno grave e meno perigliosa, lo pigliò seco sulla sua tartana, e costa costa, come soleva, lo condusse fino a Fiumicino, ch’era allora, pur troppo come oggi, il porto di Roma. Roma! — Chi avrebbe detto che fra i milioni di pellegrini che da secoli visitano la città eterna, e quali attratti dai ruderi di Roma pagana, quali dalle feste di Roma cristiana, gli uni ispirati dalla scienza e dalla poesia, gli altri guidati dalla pietà o dalla superstizione, la contemplano, l’adorano, la scavano, la frugano, la glorificano; uno de’ più fervidamente innamorati, de’ più ingenuamente entusiasti, sarebbe stato quell’incolto mozzo di bastimento che si chiamava Giuseppe Garibaldi! Eppure egli lo scrisse! e ci pare di vedere quel biondo ragazzotto di diciassett’anni vagare per le vie di Roma e senz’altra scorta che quel po’ di storia romana favolosa che gli aveva insegnato il buon Arena, senz’altra guida che suo padre più indotto e più semplice di lui, passare stupito e quasi trasognato in mezzo alle rovine ed ai monumenti di quei due mondi confusi insieme, arrestarsi estatico innanzi ai fòri ed ai circhi, alle terme ed alle basiliche; inoltrarsi trepidante fra le arcate del Colosseo; piegare il capo sopraffatto sotto le vôlte di San Pietro, ritentando invano colla sua povera scienza di ricomporre quella storia, d’interpretare quelle pietre, ma sentendosi turbinare nella mente legioni di eroi, di martiri, di santi fra un tumulto di pugne, di baccanali, di tormenti; e in mezzo a questi giganteggiare assopita sul letto di marmo delle sue glorie, ma vivente ancora fra la polvere e le macerie, l’immagine della città fatale. E non è questa poesia nostra. Garibaldi andò più innanzi di noi, e riassumendo le impressioni di quel suo viaggio ne scriveva così: «Roma allora mi diventava cara sopra tutte le esistenze mondane, ed io l’adoravo con tutto il fervore dell’anima mia! non solo nei superbi propugnacoli della grandezza di tanti secoli, ma nelle minime sue cose, e racchiudevo nel mio cuore, preziosissimo deposito, l’amor mio per Roma, non isvelandolo se non che per esaltare caldamente l’oggetto del mio culto. Anzichè scemarsi, il mio amore per Roma s’ingagliardì colla lontananza e coll’esiglio. Sovente, e ben sovente, io chiedevo all’Onnipossente di poterla rivedere. Infine Roma è per me l’Italia, poichè io non vedo l’Italia altrimenti che nell’unione delle sparte membra, e Roma è il simbolo dell’unione d’Italia, comunque sia.[18]» Ora si dica pure che qui non è il giovane che parla, ma l’uomo, e che questi travestì senz’avvedersene gli arcani presentimenti e le vaghe impressioni di quell’ora della sua giovinezza nei pensieri dell’età matura; non è men vero che le emozioni, quali che fossero, provate dal giovane, lasciarono un’impronta sì viva e incancellabile nello spirito dell’uomo, che questi non potè più parlare nè scrivere di Roma senza risalire colla memoria a quel lontano giorno, in cui ne calpestò per la prima volta le sacre pietre, e più cogli istinti del cuore che colla scienza dell’intelletto lesse nelle sue reliquie la storia della sua passata grandezza e i vaticinii della sua redenzione futura. VI. E non fu quella la sola emozione che il giovine Garibaldi provò in quel suo viaggio. Egli stesso, allorchè quasi settuagenario venne da Caprera a Roma condotto da quella sua, non sapremmo dire se idea od utopia (ma utopia certamente romana), di deviare e incanalare il Tevere, confidò ad un amico suo e nostro[19] che il primo lampo di quel concetto gli balenò nella mente appunto in quella sua prima visita all’eterna città. E non è affatto incredibile che quel giovinotto, pieno il capo di prodezze marinaresche e di fantasie romane, vedendo quella Roma così prossima e pur così segregata dal mare, quel glorioso porto d’Anzio ridotto ad una squallida rada di pescatori, e quella storica bocca d’Ostia scomparsa sotto un’alluvione d’arene e di fango, e quel Tevere divino tramutato in un melmoso e maligno torrentaccio, danno e vergogna della città di cui era un tempo ricchezza e decoro; non è affatto incredibile, diciamo, che egli farneticasse di poter mutare tutto ciò in pochi tratti di penna e pochi colpi di mano, e sognasse fin d’allora la risurrezione di Roma marittima, come sognava forse la ben più certa risurrezione di Roma civile. Gli è che i sogni de’ vecchi non sono il più delle volte che i sogni dei fanciulli colla sola barba di più; e chi leggerà questa Vita vedrà che nessun uomo fu più tenace de’ suoi sogni di Giuseppe Garibaldi. Con quelle larve d’idee per il capo, con quei germi di affetti nel cuore, ripigliò la via del mare e per sette anni continui, eccettuati alcuni fugaci riposi, vi perdurò. Ingaggiato di nuovo per marinaio sul brigantino Enea, capitano Giuseppe Gervino, che veleggiava per Cagliari, gli toccò nel ritorno d’essere passivo ed impotente spettatore del naufragio d’un bastimento che faceva rotta col suo; e della scena straziante gli restò nell’animo incancellabile memoria. «Ritornando da Cagliari,» poichè lo stile qui non è solo l’uomo, ma il marinaio, lasceremo parlare lui stesso: «Ritornando da Cagliari eravamo giunti sul capo di Noli e con noi altri bastimenti, fra’ quali un _felucio_ catalano. Da vari giorni minacciava il Libeccio e grossissimo era il mare: quindi si scagliò il vento con tanta furia da farci appoggiare in Vado sotto il trinchetto. Il _felucio_ dapprima galleggiava mirabilmente e sostenevasi, da far dire ai marinari nostri, essere preferibile trovarsi a bordo di quello. Ma dolorosissimo spettacolo doveva presentarsi ben presto. Un orrendo maroso lo rovesciò, e non vedemmo che alcuni infelici sul suo fianco stenderci le braccia, e sparire travolti nel frangente d’un secondo più terribile ancora. Aveva luogo la catastrofe verso il nostro giardino di destra; impossibile soccorrere i miseri naufraghi. I barchi di dietro furono nella stessa incapacità, e miseramente perivano alla nostra vista nove individui d’una stessa famiglia. Alcune lacrime sgorgarono dagli occhi de’ più sensibili al miserando spettacolo, esauste presto dall’idea del proprio pericolo. Da Vado passai in Genova, quindi in Nizza, dove principiai una serie di viaggi in Levante a bordo de’ bastimenti della casa Gioan.[20]» «Nel corso poi di que’ viaggi (aggiunge altrove[21] l’Autobiografo) fummo (intende con lui la nave e l’equipaggio) tre volte sorpresi e spogliati dai pirati; accadde anzi che, avendo ricevuto la stessa visita per due volte durante il medesimo viaggio, gli ultimi pirati non trovassero più su di noi cosa che valesse la pena d’essere predata, e se n’andarono a mani vuote.» E del resto null’altro di noto e di certo circa a quelle sue corse, che pure sarebbero di tanto interesse per la storia del marinaio. Certissimo invece: che l’ultimo di quei viaggi lo fece a bordo del brigantino _Cortese_, capitano Carlo Semeria: che sbarcato a Costantinopoli v’infermò, ed ospitato nella casa della signora Luigia Sauvaigo,[22] sua generosa concittadina, vi trovò ogni maniera di cure e di conforti: che risanato, ma chiusi i porti dell’Egeo e del Mar Nero dalla guerra guerreggiata tra Russia e Turchia, toltogli perciò il navigare, fu costretto a prolungare il suo soggiorno a Costantinopoli nella più angustiosa strettezza: che finalmente costretto a cercar lavoro per vivere accettò come una fortuna di dar lezioni di storia, geografia, francese e matematica ai tre figliuoli d’una signora Timoni; risoluzione temeraria quando si pensi al leggiero fardello con cui l’improvvisato precettore si presentava in quella casa, ma quando si consideri l’onesto motivo che la ispirava, altamente commendevole. Non confondiamo: si può sorridere finchè si vuole della singolar figura di quel maestro, ma l’uomo in quel caso impone rispetto. Era infatti un sentimento virtuoso, era il nobile orgoglio di non dovere il proprio pane che a sè stesso quello che spingeva quel giovane tanto bisognoso d’aria e di moto, nato al tumulto de’ campi ed alla libertà dell’Oceano, a serrarsi in una stanza, a configgersi ad uno scrittoio, a vegliare forse per studiare la notte il poco che doveva insegnare di giorno; ed egli ha il diritto di contare quella sua prima vittoria sulla povertà guadagnata colle sole armi della dignità e del lavoro fra le più gloriose della sua vita. Così gli fosse durato quel coraggio della miseria, che fu la corazza splendidissima della sua virilità, fino all’estrema vecchiezza!! Finalmente i porti si riaprono; il maestro può buttare dalla finestra la sua provvisoria giornea, il marinaio respirare ancora dal lucido piano d’una tolda, fra il dolce cigolío delle sarchie e la grata altalena del rollío e del beccheggio, la libera aria del nativo elemento, e correre verso i lidi della patria. Infatti fa vela per Nizza; appena a terra, abbracciati in fretta i suoi vecchi, si mette alla cerca d’un nuovo imbarco e trovatolo di suo genio, e con un nome gentile per giunta, _La Nostra Signora delle Grazie_, e un vecchio capitano, Antonio Casabona, vi si arruola per secondo, naviga qualche tempo con quel grado, finchè viene il giorno in cui l’eccellente Casabona, rotto dagli anni e dai reumatismi e bisognoso ormai di riposo, gliene cede il governo ed egli ne diventa il capitano effettivo. Ed era tempo: il giovinetto s’era fatto uomo, il mozzo era venuto su per tutti i gradi della gerarchia marinaresca, navigando, cioè combattendo; non s’era molto seduto sui banchi della scuola, ma aveva la faccia arsa, le mani incallite, l’occhio esercitato da dodici anni di manovre, di vigilie e di fortunali, ed era naturale ch’egli salisse finalmente il ponte del comando, segnando lui al timoniere la rotta del suo bastimento. Infatti nel I vol., pag. 392, della _Matricola marittima del 1832_, si legge: Garibaldi Giuseppe Maria, figlio di Domenico e di Rosa Raimondi, nato il 4 luglio 1807 a Nizza, Provincia di Nizza, iscritto alla Matricola dei Capitani della Direzione di Nizza il 27 febbraio 1832 al Nº 289. E chi fosse, che valore avesse, quale reputazione si fosse acquistata qual capitano, lo dica meglio d’ogni documento il fatto che da testimoni oculari ci venne attestato. Garibaldi non poteva più tornare da uno de’ suoi viaggi, senza che una folla di marinai, di pescatori, di popolo d’ogni fatta accorresse sul molo a dargli il benvenuto, a mirarlo, a festeggiarlo, a interrogarlo, a commentare i suoi gesti, a compiacersi insomma di quel compaesano che faceva suonar così rispettato tra i marinai di Liguria e di Provenza il nome della sua città. Il Capitano marittimo era già una piccola celebrità paesana, in attesa che la fortuna gli apparecchiasse la scena e l’occasione di divenire una celebrità mondiale. E la fortuna lavorava da tempo per lui, più che egli non pensasse. VII. Da anni nereggiavano sul cielo d’Europa i nembi precursori d’una nuova tempesta. L’arca della Santa Alleanza tenevasi a stento sul mare fortunoso che aveva presunto dominare, e perdeva ogni giorno un tronco d’ormeggio e un brano di vela. La monarchia de’ Borboni di Francia era stata travolta dal torrente di luglio; quella di Spagna, già imbavagliata dalla costituzione del 12 e scrollata dalla rivoluzione del 20, salvata soltanto dall’invasione straniera, non era più che una larva di principato in preda a tutti i venti delle pretese dinastiche e delle discordie civili. La Grecia di Temistocle e di Milziade, rediviva un istante nell’anima di Botzaris e di Canaris, insegnava sotto le mura di Suli e nelle acque di Ipsara come si conquista una patria, e sfuggiva mutila, ma gloriosa, dalle ugne dell’Infedele. La Polonia di Kosciusko sempre agonizzante, sempre combattente, ripigliava per la terza volta l’ineguale duello contro il suo colossale nemico e aggiungeva una pagina di più al suo secolare martirio. Il Belgio strappava un altro foglio dai protocolli del 1815, rivendicando la propria indipendenza. L’Inghilterra sorda ad ogni politica che non fosse quella di Bentham, partigiana della pace ad ogni costo, quindi complice all’esterno d’ogni fatto compiuto, gettava tuttavia sui tappeti diplomatici la questione della Tratta dei Negri, agitava dalla tribuna, consacrava nelle leggi i principii della libertà religiosa, della libertà politica, della libertà commerciale, sommoveva colla parola la terra, che colla mano comprimeva. L’Italia infine, sebbene la più oppressa, quindi la più temuta e vigilata di tutte, lungi dal deporre la speranza di ricomporre le sparse sue membra e di risorgere una e grande nella famiglia delle nazioni, si cacciava anzi per la prima in quella mischia di popoli e di tiranni; ed ora aspettando la salute dalle sommosse popolari e dalle sedizioni soldatesche, ora chiedendo la vendetta alle congiure ed alle sètte; oggi combattendo all’aperto colla voce de’ suoi poeti e la penna de’ suoi scrittori, domani affilando nei sotterranei delle sue loggie e delle sue vendite il pugnale dei carbonari; fidente nel 21 alle promesse dei Principi e vinta; credula nel 31 alle lusinghe del non intervento straniero e vinta: ma da ogni disinganno e da ogni disfatta rialzandosi più credente, più ostinata, più indomita di prima, questa povera Italia, dico, turbava, se altro non poteva, colla ostinazione del martirio i sonni de’ suoi sette oppressori, ed attestava almeno all’Europa che la carta geografica del principe di Metternich era abitata da un popolo di vivi, poichè egli li uccideva. Eccettuato la Germania, obesa di metafisica e di cervogia, troppo satolla di libertà di coscienza per sentire bisogno della libertà d’azione; affaccendata a ballare nelle quaranta corti de’ suoi principini, ed a pipare nelle mille birrerie delle sue metropoline, quando non era assorta a cercare nell’azzurro le incarnazioni dell’idea; eccettuato, ripeto, codesta Germania effigiata sul vivo dall’ironia immortale di Heine, rimasta per cinquant’anni in mezzo al fiottar dell’Oceano europeo come un’isola caliginosa popolata da spettri di sognatori e d’illuminati, non angolo, può dirsi, della terra in cui non fumasse un vulcano e non serpeggiasse una mina; da cui non partisse un gemito d’oppressi, un grido di libertà, un tumulto di congiure e di sommosse. Quale impressione dovessero produrre quei fatti sullo spirito di Giuseppe Garibaldi, non è veramente scritto in nessun luogo, ma è facile indovinarlo. Tempra d’animo gagliarda come di corpo; posseduto fin da’ primi anni dalla passione dell’eroico e del meraviglioso; già invasa la mente dai fantasmi d’una Roma che portava nella grandezza delle sue rovine i presagi della sua risurrezione; educato nella libertà dei mari a quel fiero sentimento d’indipendenza che nella gente dell’arte sua è seconda natura; nato e cresciuto in quella regione d’Italia che prima aveva dato il segnale della riscossa, ed echeggiante tuttora delle maledizioni dei vinti di Novara e dei martiri d’Alessandria a Carlo Alberto «traditore,» pochi uomini dei viventi nella Penisola potevano offrire alle tante scintille di quell’incendio, che avvolgeva mezza Europa, una materia più pronta ed infiammabile. Tuttavia se poteva dirsi che in fondo all’anima del Nizzardo covassero fin d’allora tutte le collere dell’Italiano, tutte le passioni del patriotta e tutti i propositi dell’eroe, la favilla decisiva, che da quel braciere sprigionasse la fiamma, non v’era peranco piovuta. Infatti fino a quel giorno egli aveva bensì prestato ascolto a tutte le voci che la patria lontana martire o combattente mandava a’ suoi figli: seguiva bensì ne’ pochi libri e giornali che gli cadevano tra mano tutte le vicende di quella multiforme battaglia che non l’italiano solo, ma tutti i popoli d’Europa pugnavano contro i loro oppressori; ma i lontani viaggi, le prolungate assenze, le molteplici cure dell’arte sua gli avevano impedito di penetrare più addentro in quel mondo politico, ancora in gran parte sotterraneo, che fremeva intorno a lui; e nell’impossibilità di conoscere davvicino le idee, gli attori, i mezzi della vasta impresa che si preparava, spiava attento l’occasione e temporeggiava. E non è qui tutto. Garibaldi a quei giorni non pensava solo all’Italia: un sogno più splendido aveva attraversato la sua mente; una passione più magnanima faceva battere il suo cuore. Un giorno del 1832 sua madre fu udita esclamare: «I Sansimoniani mi hanno guastato mio figlio;[23]» e la brava donna, che probabilmente confondeva nella sua mente coi «Sansimoniani» ogni specie di rivoluzionari, diceva il vero più che non pensasse. Quando sulla fine del 1832 i Sansimoniani della seconda generazione furono scacciati dal tempio di Ménilmontant e sbanditi dalla Francia, taluni di loro, come il Rodriguez, il Chevalier, il Duveyrier, restarono in patria a cercare altre occupazioni ed altra sorte; altri invece, come l’Enfantin e il Barrault, emigrarono per l’Oriente, il quale, dice Luigi Blanc, «già era sommosso da audaci tentativi di riforme e sembrava allettare alle conquiste dell’intelletto, e offrire terreno più propizio alle loro dottrine.» Ora il caso volle che Garibaldi rifacendo nello scorcio di quell’anno uno de’ suoi consueti viaggi in Levante, incontrasse, non sappiamo in che porto, appunto la comitiva di quei proscritti, di cui il Barrault era in certa guisa la guida, e come sospinto subitamente verso di essi da un’arcana simpatia, li accogliesse al suo bordo e continuasse il viaggio con loro. Ora quali potessero essere su quel bastimento i discorsi di quegli uomini esaltati dalla passione della loro fede proscritta e di quel marinaio ingenuo e fantasioso; quale fáscino dovessero esercitar sul suo spirito le splendide utopie di quei profeti sacrati a’ suoi occhi dalla sventura e dall’esilio, e annunzianti sotto la vôlta stellata del cielo, sulla stesa del mare infinito, nel silenzio delle notti luminose d’Oriente il prossimo avvento della Pace e dell’Amore sulla terra, la esclamazione della signora Rosa ce l’ha in parte svelato, e l’avvenire lo chiarirà. Certo Garibaldi non avrà nè tutto capito, nè tutto creduto. Probabilmente il senso intimo di tutte quelle mistiche formole, e di quegli economici filosofemi, onde componevasi il verbo del _Nuovo Cristianesimo_, gli sarà sfuggito; probabilmente l’ufficio dell’«Uomo-coppia,» il dogma della «Donna-Messia,» la missione del «Tempio-teologico-industriale» del padre supremo Enfantin, e del suo diacono Bazard, l’avranno lasciato incredulo o insensibile; ma intanto tutte quelle dottrine di fratellanza universale, di estinzione del proletariato, di livellamento di tutte le classi sociali, s’insinuavano ad una ad una nella sua mente più atta ad innamorarsene che capace di giudicarne, e vi deponevano i primi semi di quelle larve socialistiche e umanitarie, che, covate poscia dai nativi istinti del suo carattere e invigorite nella solitudine dei Pampas e dell’Oceano, gli nasconderanno un giorno il senso pratico delle cose, ombreggeranno di contradizioni, di controsensi, di eccentricità la sua eroica figura, e gli daranno quel proteiforme aspetto di patriotta arrabbiato, di umanitario fanatico, di apostolo della pace universale, e di soldato cosmopolita di tutte le guerre, che confonde tuttora i giudizi della storia, e stanca talvolta l’ammirazione de’ suoi più devoti interpreti. VIII. Però conviene dir tutto. Anche allora, a ventisette anni, nel caos di quel cervello, nel tumulto di quel cuore c’era un’idea chiara, fissa, imperiosa, che ad un dato punto pacificava tutte le contradizioni, vinceva tutte le incertezze e imponeva silenzio a tutte le utopie: l’Italia. Bellissima la fratellanza dei popoli, ma al patto antico: «Ripassin l’Alpi e tornerem fratelli;» stupenda la pace universale, ma colla riserva d’una guerra, d’una sola; implacabile se farà di bisogno, al coltello se occorresse, la guerra santa contro lo straniero, che profanava il suolo della patria e proteggeva con la sua ombra tutte le minori tirannidi che la dilaniavano. Che se questi sentimenti, nati da tempo, come dicemmo, nell’animo del nostro eroe, vi erano rimasti fino a quel giorno assopiti ed incerti, venga una voce che li susciti, si presenti un’occasione che li sprigioni, ed essi romperanno in tutta la lor nativa fierezza, e guideranno la sua vita. Per ventura sua, la voce parlò, l’occasione venne, e fu decisiva. Un giorno del 1833 Garibaldi, navigando nel Mar Nero, entrava in una locanda di Taganrok, dove intorno ad una tavola stavano seduti in animati colloqui alcuni marinai e mercanti italiani. In sulle prime il nostro Capitano, il quale aveva preso posto in disparte, non pose mente a quei discorsi. Ma ad un tratto alcune parole uscite dalla bocca d’uno di que’ suoi compatrioti ferirono il suo orecchio, e gli fecero voltar la testa verso il giovane che le pronunziava. Infatti l’argomento, di cui questi intratteneva i suoi interlocutori, era importantissimo, il più importante certamente di quanti potessero fermare l’attenzione di Garibaldi: parlava d’Italia. Parlava d’Italia, e ne ricordava con accento appassionato la passata grandezza e la presente vergogna, ne dipingeva gli errori e i martirii, i disinganni e le speranze. La diceva vinta, ma pronta a ripigliare la lotta; svelava che una vasta associazione creata dalla fede amorosa di un apostolo ligure, consacrata dal nome auguroso di _Giovine Italia_, non più legata ai morti simboli delle vecchie sètte, non più avvinta alle promesse dei Principi, ma credente soltanto nell’aiuto di Dio e nel braccio del popolo (Dio e Popolo), raccoglieva in un fascio tutti _i buoni_, apparecchiava i cuori ed affilava le armi per una suprema e non lontana battaglia. Esclamava infine ch’era dovere di tutti entrare in quella società, seguir quell’apostolo, serrarsi intorno al sacro vessillo da lui inalberato, e dar la vita e gli averi per esso. Ed altre cose forse egli soggiunse ed altre ne voleva soggiungere, quando Garibaldi più non sapendo dominare la tempesta d’affetti che durante tutto quel discorso gli si era scatenata nel petto, si slancia verso quello sconosciuto che gli aveva irraggiata l’anima di una luce sì inattesa e discoperto il nuovo mondo de’ suoi sogni e delle sue speranze, e stringendoselo al cuore gli giura che da quel giorno egli è suo per sempre. Giuramento d’Annibale, ripetuto, forse la notte medesima nell’impeto della prima emozione, nei tronchi versi d’una strofa: Nell’età giovanil..... Là sui ghiacci del Ponto giurava Per la terra natale morir; suggellato coll’intera sua vita nella storia. Chi fosse quel credente che, per usare le parole stesse di Garibaldi, «lo iniziò ai sublimi misteri della patria,» è oggi notissimo. Era lo stesso Cuneo narratore dell’episodio.[24] Quel Giovanni Battista Cuneo di Oneglia che in gioventù aveva esercitata l’arte del mare e navigava appunto in quell’anno nel Mar Nero; ascritto fin d’allora fra i più ardenti seguaci della _Giovine Italia_; divenuto da quel giorno uno de’ più fidi e devoti amici di Garibaldi, come lo era già di Mazzini; caro più tardi a tutti gl’Italiani emigrati al Plata, siccome uno de’ loro più infaticabili ed utili protettori; eletto dalla Repubblica Argentina suo rappresentante nel nuovo regno d’Italia, e dopo una vita lunga, tutta spesa in pro della patria e dell’umanità, morto in Firenze nel compianto universale sulla fine del 1875.[25] La inattesa rivelazione del Cuneo fu a Garibaldi il «terra, terra» dei seguaci di Colombo. «Certo (egli scriveva) non provò Colombo maggior contento alla scoperta d’un mondo, di quel che ne provavo io al trovare chi s’occupasse della redenzione italiana.[26]» Epperò da quel momento egli non ebbe più che un pensiero: correre in Italia, cercare di quell’associazione che raccoglieva in una trama tutte le fila dei più ardenti patriotti; trovare quell’uomo che n’era l’anima e il duce; offrire il suo braccio, chiedere il suo posto di combattimento, agire; agire soprattutto e presto, poichè la sola parola che egli intendeva fin d’allora, il solo modo con cui egli concepisse il cospirare e il servire la patria, era l’azione. Ed eccolo infatti verso la fine di luglio arrivare a Marsiglia, presentarsi a Mazzini, che da parecchi mesi aveva piantato colà il focolare della sua propaganda, rinnovargli il giuramento di Taganrok, dargli il proprio nome e prenderne un altro di guerra giusta il rito sociale, scriversi nel gran ruolo degli affigliati, e ricevere la sua parola d’ordine per l’impresa creduta imminente. «Da quel giorno (scrive Mazzini in una nota delle sue _Memorie_) data la mia conoscenza con lui: il suo nome nell’associazione era Borel.[27]» Parole, a dir vero, un po’ troppo brevi e asciutte per indurre la credenza che fino da quel giorno il già celebre profeta presentisse lo straordinario destino, a cui quel suo nuovo «fratello» era chiamato. E poichè nemmeno il discepolo si curò di dirci quale impressione producesse sull’animo suo il primo contatto con quel maestro, a cui nessuno poteva accostarsi senza grande emozione, così spunta nella mente un dubbio. Che anche il marinaio nizzardo abbia subito il fáscino dell’agitatore genovese, e che questi l’abbia accolto con quell’affettuoso abbandono e quella famigliare benevolenza, con cui egli soleva festeggiare tutti i giovani che andavano a lui, non è a dubitarne; ma che sia corsa fra di loro quell’elettrica scintilla che accende nell’anima la fiamma dell’amore reciproco, accomuna in un istante e identifica i pensieri e gli affetti di due vite, e muta le effimere fratellanze politiche in vera e durevole amicizia, questo, a dir vero, non ci sembra bastevolmente accertato; e il laconico cenno fatto da entrambi del primo incontro, le gare, i dissidi, le gelosie scoppiate più tardi fra di loro e infine la profonda disformità e quasi opposizione dei loro caratteri mi sembra giustifichino sufficentemente il sospetto che nel ritrovo di Marsiglia l’eroe abbia promesso all’apostolo il suo braccio, e l’apostolo abbia svelato all’eroe il suo verbo, ma che nessuno dei due abbia dato interamente il suo cuore. IX. Se non che quando Garibaldi sbarcava a Marsiglia la _Giovine Italia_ aveva ricevuto un fierissimo colpo. Spiata, traccheggiata da tempo da tutte le polizie della Penisola, tradita da fanciullesche imprudenze o da scellerate denunzie, sorpresi i suoi ritrovi, sgominate le sue file, spento sui patiboli, sepolto nelle carceri, disperso nell’esiglio il fiore de’ suoi adepti, sembrava venuta per essa l’ultima ora. In Piemonte, soprattutto, il governo di Carlo Alberto aveva bandito contro i Mazziniani una caccia sì feroce, che le vendette di Carlo Felice, del Borbone e dell’Austria nel ventuno, le stragi dell’Estense e del Papa nel trentuno, possono essere dette al paragone atti di moderata e legittima difesa. Non più leggi nè magistrati, non più solennità di giudizi nè regolarità di procedure: unici titoli d’accusa e mezzi di prova le denunzie, la corruzione, i tormenti: unici giudici i Consigli di guerra, unica legge l’arbitrio militare e poliziesco, ispirato dal capriccio e dal terrore. Si voleva, dicevasi, che il giovine Re «gustasse il sangue,» e il sangue infatti scorreva a fiotti. Il militare che possedesse uno scritto della _Giovine Italia_, o lo desse a leggere, o non denunciasse i lettori, o fosse creduto consapevole d’una trama vera od immaginaria qualsiasi e non la rivelasse, fucilato nella schiena; il civile accusato d’altrettanto, fucilato, somma grazia, nel petto. Così perivano: a Chambéry il tenente Effisio Tola, il sergente Angelo De Gubernatis, il caporale Giuseppe Tambarelli; a Genova il maestro di scherma Gavotti e il sergente Biglia; in Alessandria i sergenti Ferrari, Minardi, Rigasso, Costa, Marini, l’avvocato Vochieri; mentre eran serbati alla medesima sorte gli avvocati Scovassi e Berghini, il luogotenente Arduino, il sottotenente Maccarezza, i sergenti Vernetta, Enrici, Giordano, Crina, il chirurgo Scotti, il marchese Cattaneo, il marchese Rovereto, il possidente Gentilini, lo scultore Giovanni Ruffini e lo stesso Giuseppe Mazzini, se quelli non fossero fuggiti a tempo al supplizio che li attendeva, e questi non l’avesse già prevenuto coll’esiglio in cui da due anni errava. Era il Terror bianco in tutta la sua ferocia. Chi sfuggiva al piombo ed al capestro, se non aveva cercato in tempo salvezza nella fuga, languiva nelle galere dei ladri e dei malfattori. E la morte non era per molti il peggiore dei supplizi. Iacopo Ruffini per fuggire agli agguati de’ suoi interrogatori, e tremante soltanto che dal corpo affranto dai tormenti uscisse una parola denunziatrice de’ compagni, si forava in prigione la gola. Vochieri, neroniana raffinatezza di martirio, era trascinato alla morte per la via stessa, in cui abitavano sua madre e le sorelle, e al generale Galateri parve eroico d’assistere, seduto su un cannone, al suo supplizio. Orrenda pagina che Novara ed Oporto hanno espiato, ma che la storia non può cancellare. Questa catastrofe, che, fin dai primi anni, sperdeva le fila della nascente associazione, resa anche più grave dai processi già aperti in Lombardia e nei Ducati, avrebbe da sè sola dovuto bastare, se non a levare di speranza, almeno a consigliare l’indugio e la prudenza a qualsiasi anima più temeraria; non a Giuseppe Mazzini. A lui parve invece che crescesse la necessità di rompere gl’indugi, di rianimare gli spiriti abbattuti, e com’egli diceva, «moralizzare il partito» con un fatto che ne attestasse la fede e la forza. E colla subitaneità di quella fantasia che s’illuse sempre di potere con un atto di volontà sollevare a giorno e ora fissa i popoli, e sommergere i troni, ordiva la spedizione di Savoia e ne comunicava agli amici vicini e lontani il disegno. Il quale disegno, siccome è noto a tutti, compendiavasi ne’ suoi concetti generali in questo: raccogliere tutti i fuorusciti italiani, polacchi, tedeschi agglomerati in Svizzera nei cantoni di Berna, Zurigo, Neufchâtel, Vaud e Ginevra; ordinarli militarmente; dividerli in due colonne, le quali, movendo una da Ginevra e l’altra da Lione, si congiungessero a Saint-Julien, e di là marciassero insieme su Annecy, e per la Savoia, sollevando le popolazioni e contando sull’affratellamento dell’esercito, penetrassero in Piemonte. Questo movimento però non doveva essere isolato; all’invasione esterna doveva rispondere simultanea l’insurrezione interna, e fra le città destinate ad insorgere quella, su cui il Mazzini faceva maggiore assegnamento, era la sua patria: Genova. Veniva così la volta di Garibaldi. Qual luogo e qual parte il maestro gli avesse assegnata nell’impresa, non sapremmo affermare; certo è che prima della fine di luglio Garibaldi scompare da Marsiglia, torna in Italia, entra al più presto in intima corrispondenza con quanti patriotti di Liguria e di Genova gli è dato incontrare, interviene alle loro serali conventicole, partecipa alle loro trame; poi, a un tratto, si presenta al Dipartimento marittimo, e s’arruola nella regia marina come marinaio di 3ª classe col nome di guerra di _Cleombroto_.[28] Perchè? Come mai il capitano marittimo consentiva di ridiscendere al grado di semplice marinaio, e il patriotta s’acconciava a servire nella flotta di quel Re, a cui aveva giurata la guerra? Per qualcosa la _Giovine Italia_ doveva entrare in quella risoluzione, e il motivo doveva essere quell’unico e supremo che governava ormai tutti i pensieri e tutte le azioni del novello iniziato: la patria. Infatti l’arruolamento di Garibaldi si collega direttamente e alla spedizione di Savoia e al moto di Genova che doveva secondarla. Nel concetto dei rivoluzionari genovesi il moto della loro città doveva essere fiancheggiato e sostenuto in mare da una rivolta della flotta, o almeno da qualche legno di essa; e per questo era necessario che qualche marinaio accorto e ardito s’insinuasse tra gli equipaggi, e segretamente li catechizzasse e attirasse nella congiura. Ora a questi uffici nessuno parve più idoneo di quel Garibaldi, che già tra la gente di mare era popolarissimo; ed ecco come il cospiratore _Borel_ divenne sui ruoli d’una marina regia il marinaio _Cleombroto_. Intanto l’ora dell’azione s’avvicinava a gran passi. Mazzini, vinti alla fine i temporeggiamenti del Ramorino, cui per un inconcepibile acciecamento (fatale in quell’anno ai repubblicani come lo sarà quindici anni dopo ai regi) era stato affidato il comando supremo della spedizione di Savoia, la fissava immutabilmente per i primi di febbraio, e ne rendeva edotti tutti i caporioni perchè si tenessero pronti. Ora come rispondesse a quell’appello il Piemonte, l’evento lo chiarì; come vi rispondesse da parte sua Garibaldi, l’udimmo da lui stesso narrare così.[29] Riuscito a farsi imbarcare il 3 febbraio sulla fregata _Des Geneys_, la quale per essere ancorata nel porto a Genova e servita da gran numero di marinai suoi amici sembrava una delle prede più facili ai patriotti, vi stette aspettando tutto quel giorno, deliberato e sicuro, l’ultimo cenno. E l’ultimo cenno venne; era di agire per la sera del 4 febbraio; i marinai impadronirsi delle navi; i cittadini assaltare la caserma di Piazza Sarzana e insignorirsi della città. Sennonchè, poco prima del tramonto, Garibaldi, o perchè disperato di non potere agire con buon successo sul _Des Geneys_, o perchè all’ultimo istante gli fosse entrata nell’animo la ripugnanza di voltar le armi contro i suoi camerati e ufficiali (i motivi per cui lasciò il _Des Geneys_ restarono sempre un po’ oscuri), il fatto è che intasca due pistole, diserta da bordo, scende in città e corre alla Piazza Sarzana, pronto ad unirsi ai primi gruppi d’insorti che certo non potranno tardare a comparire. Ah! Garibaldi non sapeva ancora che cosa sieno le insurrezioni decretate dal fondo d’un gabinetto, a ora fissa di cronometro, con battaglioni di combattenti scritti sulla carta, affidate a giuramenti di segretezza che la storditaggine e la perfidia avevano violati prima di pronunciarli. Noi lo sappiamo. Son due ore infatti ch’egli aspetta: due lunghe ore ch’egli gira e rigira per quella piazza, e palpa impaziente le sue pistole, e appiattato nei canti interroga cogli occhi i rari viandanti nella speranza di trovare in essi gli attesi compagni; che tende l’orecchio per udire se qualche colpo di fucile, almen qualche eco lontana di sommossa gli arrivi dall’altra parte della città. Indarno: non un uomo sulla piazza; non un moto per le vie; non un amico dei tanti giurati; non un grido per tutta Genova. Già da ogni parte arriva fino a lui la voce che tutto è fallito, che il corpo di Ramorino è disciolto, che l’altra banda di Chambéry è dispersa, che nessuna città ha risposto all’appello, che il governo consapevole della congiura ha già cominciato le persecuzioni e gli arresti; pure egli non sa rassegnarsi a crederlo, esita ad abbandonare il posto di battaglia che gli è assegnato; vorrebbe attendere ancora. Che mai? Fitti pelottoni spuntano da tutti gli sbocchi della piazza e cominciano ad asserragliarla: ancora pochi istanti, e Garibaldi sarà chiuso in un cerchio di ferro senza uscita: l’indugiarsi più oltre sarebbe stata follía. Allora, ormai convinto dalla innegabile testimonianza de’ suoi occhi, si slancia fuori della piazza; si rifugia nella bottega d’una fruttivendola e raccontatole il suo caso la impietosisce; cambia nei panni d’un contadino la sua camicia di marinaio; esce ardito dalla casa ospitale, s’avvia franco come andasse alla passeggiata verso Porta Lanterna e la varca insospettato; fatti pochi passi, lascia la via maestra, traversa campi e giardini, salta muri e siepi e infila la montagna; marcia tutta la notte, guidandosi colle stelle, nella direzione di Sestri Ponente; mangia e dorme alla meglio nelle osterie fuori di mano, nelle capanne de’ contadini, sotto le tettoie de’ campi; arriva il decimo giorno a Nizza; sta nascosto un giorno nella casa di una sua zia, dove rivede ed abbraccia sua madre; riprende nella notte seguente, accompagnato da due amici, il cammino verso il Varo; trovatolo ingrossato dalle pioggie, lo traversa parte a guado, parte a nuoto; dice addio a’ suoi compagni; tocca il suolo francese; è in salvo. X. Almeno lo crede; anzi è tanto lontano dal pensare che la Francia di luglio respinga o mandi a confino i profughi politici, che, date appena le spalle al fiume, cammina diretto verso il posto dei doganieri di custodia al passo, e si mette volontario nelle loro mani. Mal glien’incolse, che i doganieri ubbidienti alla loro consegna lo dichiarano in istato d’arresto, e se lo conducono in mezzo di là a Grasse, e da Grasse a Draghignan, ove aspetteranno, dicevano, nuovi ordini da Parigi. Nè il prigioniero oppose resistenza di sorta. Soltanto avvistosi che s’era un po’ troppo affrettato a fidare nella ospitalità del governo di Luigi Filippo, ed essendo in ogni caso troppo uccello di bosco per accomodarsi in una gabbia qualsiasi, delibera in cuor suo di ottenere colla destrezza quello che sarebbe vano tentare colla forza; e come un uomo sicuro che o prima o poi l’opportunità di schizzar dalle mani di quegli inaspettati custodi non gli può fallire, si lascia tranquillamente condurre. E non ebbe ad attendere molto. Giunto infatti a Draghignan e condotto al primo piano di non so quale caserma, Garibaldi s’affaccia alla finestra, coll’aria noncurante di uno che contempli il paesaggio; s’assicura in un baleno che ogni dintorno è deserto; misura d’un’occhiata la distanza dal suolo (una miseria di quindici piedi, quanto basta, a dir vero, per fiaccarsi il collo); e colto l’attimo in cui i doganieri voltano l’occhio, spicca il salto, si trova in un giardino, ne scavalca la muraglia, è in un balzo nei campi; e prima che quei valenti guardiani delle dogane francesi, non abbastanza acrobati per seguitarlo per quella via aerea della finestra, abbiano scossa la sorpresa, e poi presa la scala, girata la casa e girato il giardino, egli è già una macchia confusa tra le giravolte della montagna, e li saluta tanto. La mira del nostro profugo è Marsiglia, e come aveva fatto da Genova a Nizza, viaggiando la notte, guidandosi colle stelle, tenendo la montagna, cansando i grossi paesi, mangiando come poteva, dormendo dove capitava, s’avvicina a grandi giornate alla mèta. Sennonchè, più a rompergli la monotonia del viaggio che a conturbarlo seriamente, ecco un’altra avventura. Giunto non sa nemmeno lui in quale villaggio, entrato per un po’ di cibo e di riposo in una locanduccia, incoraggito dall’affabile accoglienza dell’oste e dell’ostessa, commette l’imprudenza di raccontar loro tutta la storia della sua fuga. L’oste, al contrario, tutt’altro che rassicurato dall’aspetto di quel cliente che aveva due polizie alle calcagna, passava i fiumi a nuoto, aveva così in uggia le strade maestre, saltava le finestre di quindici piedi e probabilmente saldava allo stesso modo lo scotto delle osterie; l’oste, dico, gli si volta con un viso tutto annuvolato, e gli annuncia, con grande suo dispiacere, d’essere nella dura necessità di arrestarlo. Arrestarlo? Un uomo solo arrestare un altro uomo, che aveva il pugno, il garretto e il cuore di Giuseppe Garibaldi? Non era cosa da pigliarsi sul serio. E la prima risposta che egli fece alla bizzarra uscita fu una solenne risata; poi sempre in tuono di motteggio e colla maggior calma del mondo continuò: «Se proprio vorrete arrestarmi, ci sarà sempre tempo. Lasciate almeno che finisca questa buona cena, che sarei anche capace di pagarvi il doppio;» e commentando coll’atto la parola, fece saltellar nel taschino quei pochi che gli erano rimasti, e continuò tranquillamente il suo pasto. Fosse la calma risolutezza della risposta, fosse l’argomento persuasivo di quel suono argentino, l’oste non trovò replica; ma poichè egli continuava a guatar di sottecchi il nostro viaggiatore, questi non si sentì ancora del tutto rassicurato, e, senza parere, si tenne in guardia. Tanto più che da qualche minuto l’osteria si veniva riempiendo dei soliti avventori del villaggio, i quali, sebbene si andassero sparpagliando di qua e di là per le tavole a bere, a giuocare, a pipare, senz’altra cura apparente che di darsi buon tempo, non era però tra i casi improbabili che al primo appello dell’oste, amico e compaesano, si mutassero tutti in suoi alleati, e si dichiarassero pronti a dargli man forte contro il sospetto forestiero. Conveniva dunque manovrare, e Garibaldi che andava facendo in quella fuga le prime prove di quell’arte dei piccoli stratagemmi che sarà un giorno tanta parte della sua scienza e della sua fortuna militare, ne trovò per la circostanza uno felicissimo. Attorno ad una delle tavole una brigata di giovanotti, più chiassona delle altre, cantava allegramente, alternando le canzoni ed i cantori con grande sollazzo di tutta la compagnia. Ora che fa Garibaldi? S’alza di scatto, va diritto alla tavola dei cantori, impugna un bicchiere: «Ed ora, esclama, permettete una canzone anche a me;» ed intuona il _Dieu des bonnes gens_, la più popolare delle canzoni di Béranger. L’aria gradita, la voce limpida, sonora, intuonatissima del cantore, l’accento, il piglio, l’aspetto, tutto quell’assieme di gagliardia fiorente, di franchezza marinaresca, di eleganza popolare che doveva essere Garibaldi giovine, fanno montar talmente il buon umore della gioiosa brigata, sprigionano tra i vecchi avventori e il nuovo compagnone tale una magnetica corrente di viva simpatia, che questi ormai non solo potrebbe burlarsi delle minaccie dell’oste, se mai erano fatte sul serio, ma essere in grado di arrestare coll’aiuto di quei suoi nuovi amiconi l’oste in persona e i gendarmi per giunta, se tanto occorresse. XI. Passato quel rimanente di notte fra i bicchieri ed il chiasso (avventura poco abituale, come si vedrà, nella vita del Nostro), si rimette in cammino per Marsiglia; il ventesimo giorno dacchè aveva dato le spalle a Genova (25 febbraio) vi arriva; appena in città entra per ristorarsi in un caffeuccio, prende in mano il primo giornale che gli capita, _Le peuple souvrain de Marseille_, e che cosa vi legge? La sentenza che lo condanna a morte come «bandito di primo catalogo» e lo espone alla pubblica vendetta; la sentenza che abbiamo pubblicata nella prima pagina di questo libro. Non dovette essere un’improvvisata piacevole! Garibaldi, come vedemmo, notò con un tal quale accento di compiacenza che fu quella la prima volta in cui lesse il suo nome sui giornali; e noi concediamo che il sentirsi in un tratto divenuto uomo celebre e importante, il vedersi onorato da una sentenza capitale, l’occupare un posto in quel libro nero dei perseguitati, che era pure il libro d’oro dei patriotti, dovesse a primo tratto far correre una vampata d’orgoglio alla fronte del giovine proscritto. Però si può essere Garibaldi fin che si vuole, ma non si legge una sentenza di morte, che anco ineseguita rizza tra la patria e la terra d’esiglio una barriera insormontabile, e vi condanna ad una vita lunga se non perpetua di patimenti, di sacrificio e di guerra, senza una forte commozione, senza pensare per lo meno molto seriamente a’ casi suoi. E Garibaldi mostrò di pensarci, cambiando issofatto il suo nome, ormai troppo pericoloso, in quello di Giuseppe Pane. Era così, oltre il suo, il terzo nome che barattava in quell’anno: _Borel_ per la Giovine Italia: _Cleombroto_ per la marina di Carlo Alberto: _Pane_ per Marsiglia e il Governo francese. Bisognava però pensare a vivere; laonde, patito un mese d’ozio forzato nella casa ospitale del suo amico Giuseppe Paris, riuscì ad accaparrarsi un posto di secondo sul brigantino _Unione_, capitano Bazan, che doveva far vela per il Mar Nero. Intanto però, così per non perder l’abitudine, salva, buttandosi all’acqua, un giovanetto che annegava nel Porto, e sottrattosi alle lagrime di gratitudine della madre del salvato, la quale se vivesse continuerebbe ancora a ringraziare il marinaio Pane, salpa indi a pochi giorni per Odessa. Ma tornato di là sul finire del 1834, e già tocco dai primi assalti di scontento della vita prosaica e monotona del marinaio mercantile, gli frulla di assoldarsi nella flottiglia di Hussein, bey di Tunisi, che era stato preso dal frugolo di riformare all’europea il suo esercitino e la sua armatetta; poi uggito e fors’anche vergognato da quella assisa d’ufficiale barbaresco, pianta anche il Bey, e fa ritorno verso la metà del 1836 a Marsiglia. Trovatala sotto il flagello del colèra, udito che negli ospedali si cercavano volonterosi, e come dicevano _benevoli_ ad assistere gl’infermi, pare bella alla sua fantasia di eroe filantropo anche quella parte; passa quindici giorni e quindici notti al letto di quegli ammalati, che uccidono il più delle volte i loro infermieri, e scampato da quel pericolo, e calmata la moría, si mette di nuovo alla cerca d’un imbarco; e la fortuna lo favorisce, quella volta, oltre le sue speranze. Scopre che un certo brick, il _Nautonier_,[30] capitano Beauregard, allestisce per Rio Janeiro; la vaghezza di vedere nuove terre lo seduce; l’Oceano non mai solcato, ambito cimento de’ forti navigatori, lo attira; dovunque volga lo sguardo non vede per tutta Italia alcun segno di prossima riscossa; laonde, chiesto ed ottenuto il comando in secondo di quel bastimento, dà un lungo addio a quella vecchia Europa, che non aveva più per lui nè promesse nè inganni, e fa vela per il Nuovo Mondo. E qui si chiude la sua prima giovinezza. L’America diviene per dodici anni la sua seconda patria, la culla della sua vita nuova, il terreno in cui tutte le native energie del suo animo vigoreggiano e fruttificano; la forma insomma in cui si gettano tutti i moltiformi lineamenti della sua figura, fino allora sbozzati, e si plasma definitivamente il carattere dell’uomo. Là in quell’America meridionale, posta tra le Amazzoni e la Plata, al cospetto di quella possente e pittoresca natura, lungo le oceaniche correnti dei fiumi smisurati, traverso le deserte praterie dei _pampas_, in mezzo alle nomadi scorribande dei _gauchos_, nella consuetudine quotidiana d’un popolo diverso e variopinto, miscuglio secolare di barbarie indiana, di fierezza spagnuola, di ardimento portoghese, di superstizione cattolica, impastato col sangue degli avventurieri, dei banditi e degli eroi di tutto il mondo; là dove la guerra è un trastullo, il getto della vita una voluttà, l’ospitalità all’inoffensivo pellegrino un culto, ma l’odio allo straniero dominatore una religione; là in quell’America, dico, degli eroismi favolosi, delle fazioni feroci, delle rivoluzioni subitanee, delle dittature sanguinarie, dei governi d’un giorno, si svelò l’eroe, s’iniziò il capitano, si educò, quale che egli sia, il politico; e chi vorrà conoscere un giorno il Garibaldi vero, e salire alle origini della sua celebrità e della sua fortuna e spiegarsi nelle loro più riposte cagioni, così le sue virtù come i suoi errori, e possedere insomma tutto l’intimo segreto di codesta leggendaria esistenza, apparente tuttora alla nostra civiltà come un enigma ed un anacronismo, o deve seguirlo passo per passo, di pensiero in pensiero, d’avventura in avventura di là dall’Oceano, o rinunciare a comprenderlo. CAPITOLO SECONDO. DA RIO GRANDE DEL SUD A MONTEVIDEO. [1837-1841.] I. Sbarcato a Rio Janeiro, trovò subito una grande fortuna; rara certamente per ogni uomo, inestimabile per un esule: un amico. E quel che è più un amico compatriota, parlante la medesima lingua, partecipe ai medesimi sentimenti, innamorato del medesimo amore per la patria lontana; della patria stessa ricordo vivente. Nella piccola colonia d’Italiani che aveva scelto per asilo il Brasile, contava in quell’anno 1836 fra i più stimati ed importanti Luigi Rossetti di Genova, marino esso pure di professione, fuoruscito dalla patria pei rovesci del 1831, uomo d’alti sensi, di non comune intelletto e di fortissimo cuore. «Io non l’avevo mai veduto (dice Garibaldi), ma l’avrei distinto nella moltitudine. Incontratolo al Largo do Passo, gli occhi nostri si trovarono e non sembrò per la prima volta; ci sorridemmo scambievolmente, e fummo fratelli per la vita, per la vita inseparabili. Io ho descritto altrove tutto il valore di quella bell’anima. Io morrò forse senza il contento di piantare una croce sulla terra americana, ove riposano le ossa di quel generoso.[31]» In attesa pertanto di suggellare con prove maggiori il patto della loro amicizia, s’accordarono di mettere in comune le loro braccia e di lavorare insieme. Rossetti riuscì a combinare una piccola società di navigazione che doveva fare periodicamente un traffico di cabotaggio da Rio Janeiro a Cabo Frio, e Garibaldi vi ebbe naturalmente la parte principale, prendendo il comando di uno di quei bastimenti; e così senza privazioni, ma anche senza fortune, campò tutto quell’anno. Peraltro quella vita non era più fatta per lui; quel va e vieni monotono per le medesime acque, quella navigazione obbligatoria e mestierante, priva di varietà e d’emozioni, non si confaceva più alle aspirazioni eroiche, allo spirito avventuriero, all’irrequietezza procellosa d’un uomo che veniva a chiedere alla terra d’esiglio meglio che un rifugio, una libera arena, in cui cimentare le sue forze ed agguerrirle per le remote, ma certe battaglie, a cui si sentiva chiamato; onde pochi mesi eran corsi che già meditava di lasciarla. «Di me ti dirò soltanto (scriveva il 27 dicembre di quell’anno all’altro suo amico G. B. Cuneo, che l’aveva preceduto a Buenos-Ayres) che la fortuna non mi favorisce, e ciò che mi affligge si è l’idea di non potere avanzare nulla per le cose nostre: sono stanco, per Dio, di trascinare un’esistenza tanto inutile per la nostra terra; di dover fare questo mestiere; sta’ certo: _noi siamo destinati a cose maggiori_; siamo fuori del nostro elemento.[32]» E il suo elemento lo trovò ben presto. II. Il Brasile comincia da qualche anno ad essere fra di noi meglio conosciuto ed estimato: l’uso intelligente e moderato ch’egli fa da quasi mezzo secolo di una delle più liberali costituzioni del secolo; le riforme introdotte dal suo dotto e benefico Imperatore in ogni ramo della pubblica legislazione ed economia; la emancipazione dei negri compíta senza i conflitti sanguinosi che misero in forse la vita degli Stati Uniti del Nord; le maggiori scoperte della civiltà applicate con celerità, che misurata alla stregua degli ostacoli opposti dalla vastità del suolo e dalla tenacia delle tradizioni direste meravigliosa; la parte sempre più operosa che esso prende al lavoro scientifico ed economico dei due mondi; l’asilo infine più sicuro forse e più produttivo d’ogni altra parte d’America che vi trovano gli emigranti del vecchio continente, tutto ciò costringe da qualche tempo l’Europa a volgere uno sguardo più attento e più simpatico alla storia d’un paese, che paga un sì largo tributo alla civiltà presente e ne promette uno maggiore alla avvenire. E quella storia, se i limiti di questo studio lo consentissero, noi la narreremmo volontieri; non potendolo, ne toccheremo di volo le somme vicende. Nei primi mesi del 1500, il portoghese Pietro Alvarès Cabral, mandato dal re Emanuele il Fortunato a rifare sulle orme di Vasco di Gama la strada delle Grandi Indie, sviato dalle correnti, sbattuto dalla tempesta contro un capo di quel nuovo continente che ancora si chiamava delle Indie occidentali, vi pianta colla bandiera del suo Re una croce, e battezza la terra incognita, per caso scoperta, col nome di Vera Cruz. Fu questo il primo punto occupato stabilmente da Europei in quella immensa regione, che più tardi dal rosso ardente d’una sua pianta prenderà il nome di Brasile. È ben vero che pochi mesi prima anche lo spagnuolo Pinzon n’aveva intraveduta più a settentrione un’altra punta, onde il litigio insorto tra Spagna e Portogallo per la primazia della scoperta e della conquista; ma re Emanuele tagliò corto, inviando una spedizione armata, di cui era parte il nostro Amerigo, la quale, corsa ed occupata tutta quella parte di costa che va da Pernambuco a Porto Allegre, l’assicurò definitivamente al dominio portoghese. Del felice possesso però il Portogallo non sentì in prima tutto il valore; si accampò sulle marine, abbandonò l’interno delle terre alle cento tribù indiane che da secoli l’abitavano, e s’accontentò di farne uno scarico de’ suoi galeotti e un asilo aperto ai corsari ed ai contrabbandieri che fossero tentati di convenirvi. Solo più tardi, seguendo l’esempio del leggendario Caramuro, il primo a dedurre nella baia di Todos los Santos una vera colonia, colonizza le terre, dividendole in tante capitanerie ereditarie; assoggetta, più ancora coll’opera della Compagnia di Gesù che mediante le armi, le orde indigene e le risospinge sempre più verso l’interno; concentra nelle mani di Tomaso da Susa il governo generale di tutta la contrada, e ne fonda a San Salvador la prima capitale, intanto che una colonia d’Ugonotti francesi poneva la prima pietra di quella che diverrà la sua capitale moderna, Rio Janeiro. Ma quando nel 1580 per la tragica scomparsa di re Sebastiano e l’estinzione della sua casa, il Portogallo andò inghiottito nella mondiale monarchia di Filippo II, anche il Brasile seguì per sessant’anni la medesima sorte. Era però ben naturale che anche la grande colonia sperimentasse le conseguenze degli odii e delle rappresaglie che la demente politica di Filippo II suscitava per tutto il mondo; non scoppiava una guerra in Europa che il Brasile non ne sentisse il contraccolpo. Il conflitto coll’Inghilterra gli rovescia contro un nugolo di arditi corsari inglesi che ne devastano le coste, mentre gli Olandesi, già potenti in terra ed in mare, dopo aver spogliato Filippo III delle più ricche gemme dell’Indie orientali, vanno ad assalire Filippo IV ne’ suoi possedimenti brasiliani; e in una guerra di dodici anni (1624-1636), malgrado la eroica resistenza dei Portoghesi, gli strappano a palmo a palmo tutta la costiera che va dalle rive del San Francisco fino al Rio Grande del Nord. Così sulla terra del Brasile si assidono due diverse signorie, che si toccano e si urtano ad ogni passo, ed espongono quel paese a nuovi e non lontani conflitti. III. La conquista olandese però non fu nociva al Brasile. Mentre la Spagna, smarrita dietro la chimera del favoloso Eldorado, trascurava il massimo interesse della fertilizzazione del suolo, e non scuopriva nuove regioni che per depauperarle a beneficio de’ suoi avidi governatori, e abbandonarne le tribù indigene alla caccia selvaggia di quei feroci coloni di San Paolo, che furono detti i _Mamelucchi d’Occidente_, il Governo olandese, nella mano prudente e liberale di Maurizio di Nassau, tentava cattivarsi l’amore e l’obbedienza dei nativi coi beneficii d’un regime più umano e civile. Invano! Tra il Brasile portoghese e la signoria olandese si frapponeva una barriera insormontabile: la questione religiosa. Infatti non appena il Portogallo, colla congiura che portò sul trono la casa di Braganza, si sottrae alla dominazione spagnuola e ricupera con ciò le sue antiche colonie d’America, il conflitto tra le due razze e le due religioni, che si contendevano il possesso del Brasile, si riaccende più vivo che mai; ne dà il segnale colla rivolta degli _Independents_ la provincia di Pernambuco (1645), e dopo una guerra ostinata di nove anni gli Olandesi, battuti in terra ed in mare, sono costretti a lasciare le coste americane (1654), e il Brasile ritorna tutto quanto nel dominio de’ suoi primi colonizzatori. Per tutto quel secolo XVII le colonie brasiliane continuano a popolarsi, ad espandersi, a prosperare; ma fiere discordie, frutto naturale dell’antagonismo tra i nuovi coloni e gli antichi, tra Portoghesi nativi e i nuovi immigrati (_Paulistas e Forestieros_), tra i Gesuiti aspiranti al governo temporale dello Stato, come già tenevano quello spirituale delle coscienze, e il popolo allarmato della loro invadente preponderanza, ne indugiano e ne turbano la nascente floridezza. Nel secolo veniente, al contrario, rinascono le guerre straniere. Luigi XIV, per vendicarsi del Portogallo che s’era lasciato trascinare contro di lui nella guerra della successione di Spagna, manda due flotte ad assalire il Brasile, ed una di esse s’impadronisce di Rio Janeiro, che soltanto a prezzo d’oro riscatta la libertà. Pacificato colla Francia, ecco però la quistione degli sbocchi della Plata, sulla sinistra della quale il Portogallo aveva eretta per antemurale la colonia del Sacramento, intricarlo in una vicenda di conflitti dannosi e di accordi poco utili colla Spagna e colle di lei colonie finitime di Buenos-Ayres e della Banda Orientale, seme di guerre future. Ciò nonostante i progressi del Brasile non rallentarono. La capitale, per consiglio del conte di Pombal, grande ministro di piccolo re, è trasportata da San Salvadore a Rio Janeiro (1759). Nuove capitanerie sono istituite, tra cui quella di Rio Grande del Sud e di Santa Caterina, che avremo a rivedere tra poco; l’ultima delle tribù indiane che ancora resisteva all’Europeo è domata; i maritaggi tra indigeni e Portoghesi sono favoriti; i Gesuiti, principali istigatori delle discordie tra la Spagna e il Portogallo, vengono finalmente espulsi; il paese si va coprendo di scuole, di strade, d’istituti di beneficenza e di educazione; l’introduzione dell’indigo, della canape, del caffè, prepara all’agricoltura la dovizia di nuovi prodotti; i commerci, le industrie, la navigazione, prendono per tante cagioni nuovo elaterio; ma disgraziatamente nel 1777 il re Don Giuseppe muore, il suo favorito ministro cade, e la Spagna ne approfitta per imporre al regno rivale il disastroso trattato di Sant’Idelfonso, che spoglia il Brasile del suo unico porto sulla Plata, e d’una parte del territorio dell’Uruguay e del Rio Grande del Sud. IV. Frattanto erano maturati i due più grandi avvenimenti del secolo XVIII: la guerra d’indipendenza degli Stati Uniti dell’America del Nord e la rivoluzione francese. Quella accendendo il desiderio e dimostrando la probabilità dell’indipendenza, e questa sollevando i popoli alla speranza della libertà, mettevano in fermento anche le colonie dell’America del Sud, e ne preparavano la non lontana emancipazione. Quanto al Brasile, lo spirito d’indipendenza vi si era manifestato fino dal 1789 con sommosse e congiure presto soffocate nel sangue; allorchè Napoleone invadendo la penisola iberica precipitò la crisi. Nel 1808 il principe reggente di Portogallo, Don Giovanni, fuggendo innanzi al Cesare francese, ripara nelle sue antiche colonie; pianta la sede della monarchia a Rio Janeiro; favorisce la nuova capitale di privilegi; apre tutti i porti brasiliani alla navigazione, e finalmente nel 1815 eleva il Brasile alla dignità di regno. Questo fatto fu decisivo. I Brasiliani non avevano ancora l’indipendenza, ma ne possedevano il pegno più valido e il titolo più legittimo, e nessuno avrebbe potuto ritoglier loro un dono, che era un riconoscimento indiretto della loro autonomia nazionale. Il reggente, divenuto re Giovanni VI, tutto assorto nel conquisto della Banda Orientale (1815-1819), non lo comprese subito; ma quando nel 1821 egli fu richiamato in patria da quella rivoluzione che aveva tratto la sua principale ragione dai privilegi accordati al Brasile, il dilemma gli si parò dinanzi inevitabile: o abbandonare il Portogallo per conservare il Brasile, o perdere questo per salvar quello. Il Re si decise saggiamente pel vecchio regno; ma si vuole che, nel partire, al figlio Don Pedro, rimasto reggente del nuovo, pronosticasse la rivoluzione imminente delle provincie brasiliane, e lo consigliasse a farsene capo, ed a guidarla egli stesso per trarne profitto. Provocato dalle esorbitanze della madre patria, in sul principio del 1822 il movimento brasiliano scoppiò; allora Don Pedro prima tentò combatterlo, poi lo subì, prendendo il titolo di _Difensore perpetuo del Brasile_; indi convocò in assemblea costituente i notabili del paese; finalmente, rompendo gli ultimi legami col governo di suo padre, ripetuto sulle rive dell’Ispirangua il grido nazionale di _Indipendencia o morte!_, il 12 ottobre dell’anno stesso fu proclamato Imperatore costituzionale del Brasile. Ebbe però quasi tosto paura dell’opera sua; e disciolta la Costituente pensò gettare in offa al malcontento pubblico una Costituzione di sua fattura, liberale, a vero dire, ma che essendo stata preceduta da un atto di violenza e sottratta alla discussione dei rappresentanti della nazione, anzichè assicurare pace e stabilità al nuovo governo, lasciò un lievito di rancori ed uno strascico di sommosse che fu mestieri soffocare nel sangue o antivenire col terrore. Che se a tutte queste cagioni di scontento s’aggiungano il disegno più volte manifestato dall’Imperatore di togliere la Costituzione; il conflitto rinascente tra i nuovi Portoghesi costituenti il partito della Corte, e i vecchi Brasiliani onde componevasi in gran parte il partito liberale; l’indebolita influenza dell’Imperatore per l’assunzione del suo nemico Don Miguel alla corona di Portogallo; infine la guerra disastrosa vanamente combattuta per la conservazione della Banda Orientale e finita nel 1828 coll’indipendenza di quella provincia, s’intenderà che il trono di Don Pedro dovesse essere profondamente scrollato. E invero, avendo il partito liberale reclamato il cambiamento di Ministero, l’Imperatore sulle prime lo concede; poi, Pentito sempre e non cangiato mai, si libera dei nuovi ministri per sciogliere l’assemblea. Allora il popolo in armi si raduna il 7 aprile 1831 nel campo di Sant’Anna, e, spalleggiato dallo stesso esercito, costringe l’Imperatore ad abdicare a favore di suo figlio minorenne, Don Pedro II, ed a partire per l’Europa. La minorità del novello Imperatore richiese una nuova Reggenza, e primo decreto di questa fu l’aggiunta alla Costituzione di un _Atto addizionale_, che garantiva al popolo le più ampie libertà; pure nemmeno questo bastò a placare le provincie ed a soddisfare i partiti. I quali d’ora innanzi da due che erano divengono tre: il conservatore o reazionario, dal nome del celebre colonizzatore, detto _Caramuro_, che aspirava di tornare alla Costituzione di Don Pedro I e a rafforzare il potere centrale dello Stato; il _moderato liberale_, che voleva lo sviluppo progressivo della Costituzione novella; il _repubblicano_, che sognava una federazione sul modello degli Stati Uniti del Nord, e più veramente combatteva per una risurrezione delle autonomie locali. Ma tutto ciò complicato da quell’intreccio di passioni e di cupidigie personali, di gelosie di razze e di provincie, di utopie moderne e di superstizioni antiche, che sono il naturale portato d’ogni popolo nuovo od immaturo alla libertà, che lo erano tanto più di quello che, non ancora intieramente redento dalla prisca barbarie, si trovava quasi all’improvviso sbalzato ai primi onori della civiltà. V. Ora tra le provincie che non furono paghe nemmeno dell’_Atto addizionale_ di Don Pedro II, e levarono prime il vessillo della rivolta, fu quella di Rio Grande del Sud. E non senza qualche ragione. Tra le ultime ad entrare nella famiglia delle colonie brasiliane, ultima perciò a spogliarsi delle sue tradizioni di selvatichezza e d’indipendenza, perduta quasi nell’estremità meridionale dell’impero, quindi meno prossima all’influenza della capitale ed alla vigilanza del governo; confinante con quella capitaneria di San Paolo che dava al Brasile i suoi più intraprendenti _Mamelucchi_; ricca di pascoli e di mandrie; abitata da un popolo educato dall’infanzia a correre sulla groppa dei nativi cavalli le vaste pianure, e superbo di fornire agli eserciti brasiliani una delle cavallerie più famose del Nuovo Mondo; gittata come una marea contro le invasioni spagnuole da un lato e le incursioni gesuitiche dall’altro, quindi obbligata all’esercizio d’una guerra perpetua, si comprende di leggeri come la provincia di Rio Grande potesse apprestare un terreno più d’ogni altro propizio ad un partito autonomo e repubblicano, ed essere atta a difenderne le ragioni coll’armi in pugno. A dare poi il tracollo alla bilancia toccò ai Riograndesi la pessima amministrazione del presidente imperiale Giuseppe Aranjo Ribeira, sicchè il 20 settembre 1836 il popolo di Porto Allegre, capitale della provincia, si getta in armi contro il governatore che si salva a stento colla fuga, e ben presto secondato dalle altre comarche (_Comarcas_) di Rio Grande grida la Repubblica, e ne proclama presidente Bento Gonçales de Silva. VI. Ora segretario di questo era quel Livio Zambeccari di Bologna, figlio dell’infelice areonauta, patriotta ardentissimo, il quale fuoruscito d’Italia nel 1823, riparato prima in Ispagna, poi di là nel 1825 emigrato alla Plata, prese le armi per l’indipendenza di Montevideo contro il Brasile, combattè più tardi colle bande del Lavalle la tirannia di Rosas e passò finalmente nel 1831 a Rio Grande, dove era divenuto uno dei più caldi banditori delle idee repubblicane e dei più energici attori della rivoluzione del 1836. La vittoria degl’insorti però fu breve; non andò guari infatti che il Governo imperiale di Rio Janeiro, rotto nei campi di Fanfa il piccolo esercito riograndese, potè mettere le mani sul presidente della neonata repubblichetta e sul suo segretario, e tradurli prigionieri nel forte di Santa Cruz presso Rio Janeiro. Gli è allora che il patriotta bolognese e l’esule nizzardo s’incontrano per la prima volta, e che il primo serve di mediatore, forse inconsapevole, alla fortuna del secondo. Come avvenisse, se pensatamente o per caso, se pubblicamente o di nascosto, il fatto è che Garibaldi e Rossetti visitano nel suo forte il Zambeccari, e questi propone loro di fare la guerra di corsa contro il Brasile. La proposta del segretario della Repubblica dava troppo nel genio ai due amici, perchè pensassero a rifiutarla. Tutt’altri avrebbe potuto restare indifferente a quella rivolta d’una piccola provincia contro un colossale impero, mossa da interessi ignoti e da ragioni ambigue, ribelle in nome d’una fantastica repubblica ad un governo benemerito dell’indipendenza e della libertà del suo paese; tutt’altri, fuorchè Garibaldi e Rossetti. Alle loro menti affratellate dal medesimo nobile ardore, l’insurrezione riograndese rappresentava la riscossa del debole contro il forte, dell’oppresso contro l’oppressore, della libertà contro il dispotismo; adombrava quasi in simbolo la lotta che l’Italia doveva combattere un giorno per la medesima causa. Oltredichè, quante attrattive in quella insurrezione! Essa schiudeva un campo più adatto e più gradito alla loro operosità, rispondeva alle loro più segrete vocazioni di soldati e di marinai, occupava il loro braccio e soddisfaceva al tempo stesso il loro cuore. Accettarono quindi; e presentati dallo Zambeccari al presidente Gonçales, e ottenuto da lui le _lettere di corsa_ e aiuti di armi e di denari per eseguirla, armano in guerra il _Mazzini_, una delle barche colle quali facevano il cabotaggio e prendono il mare. VII. Ed ecco Garibaldi corsaro! «Con sedici uomini (egli esclama[33]) ed una fragile _garapera_[34] io portavo la guerra ad un impero, e piantava al mio albero di maestra la bandiera di una libera repubblica.» Uscito dal porto, governa verso mezzogiorno; filati pochi nodi, avvista all’altezza dell’Isola Grande una goletta brasiliana che se ne viene inconscia e tranquilla verso di lui: l’abborda, le intima la resa e senza battaglia nè sforzo veruno se ne impadronisce; e visto che la nave predata si prestava alla corsa assai meglio della sua sconquassata _garapera_, cola a fondo questa e trasborda con tutto il suo equipaggio su quella. Ma dice Garibaldi: «I miei compagni non erano tutti Rossetti;» val quanto dire tutti fiori di gentilezza e d’onestà, sicchè quando la banda pose il piede . sulla _Luisa_, tale era il nome della goletta, e gli assaliti videro da vicino i ceffi sinistri degli assalitori, da non so quali teatrali abbigliamenti resi ancora più spaventevoli, furono così certi d’essere caduti nelle mani di veri ladroni, che un di loro, un Brasiliano mercante di gioie, credendo ormai venuta la sua ultima ora, trasse da una sua cassetta tre diamanti, e li offerse, tremante, al feroce capo della masnada in riscatto della sua vita. Ma quale sorpresa! Il «feroce capo» non solo rifiuta il dono del gioielliere assicurandolo che la sua vita non corre alcun pericolo; non solo intima ai suoi compagni di rispettare la vita e la roba delle persone, ritenendo il solo carico di caffè, stimato, secondo tutte le norme della guerra marittima, di buona presa; ma corse altre poche miglia, giunto presso l’isola Santa Caterina dà la libertà ai negri componenti la ciurma della goletta, che consentono poi a seguirlo come marinai; piglia tutti gli altri passeggieri e le cose loro; li fornisce di viveri; li cala nella lancia della _Luisa_ e li manda liberi a terra regalandoli della lancia per giunta. Garibaldi rammenta con altiera compiacenza le particolarità di quella sua prima impresa, e n’ha ben d’onde. Egli vuole far ben capire ai lettori della sua vita che era un corsaro, non un pirata; che la sua era una guerra, non un brigantaggio: guerra rivoluzionaria finchè si voglia, ma autenticata dalle patenti di un governo creduto legittimo; intrapresa per una causa stimata buona: combattuta con tutte le armi lecite dell’umanità e della cavalleria. Ed ha ragione; e chi non vedesse nel corsaro del Rio Grande che un capobanda di Barbareschi o d’Uscocchi, o per benigna concessione, uno di quegli avventurieri del mare mezzo cavalieri erranti e mezzo masnadieri, di cui rimasero fantastici tipi i _Pirati_ di Walter Scott e i _Corsari_ di Byron, commetterebbe ingiustizia verso lui e verso la storia. Il paladino eroico e disinteressato della libertà dei popoli non si smentirà nè sulla terra nè sui mari. Egli apparteneva alla grande famiglia dei Pizzarro, dei Guglielmi Lamarck, dei Jean Barth, dei Duguay Trouin, dei Dundas, e se una differenza esiste tra i più famosi corsari della storia e lui, è tutta a vantaggio suo. Molti in eroismo lo uguagliarono; taluno per grandiosità di fortune e vastità di conquiste lo superò; ma per temperanza nelle pugne, per umanità nella vittoria, per altiero disprezzo de’ lucri e degli onori, per virtù infine di disinteresse e di sacrificio egli vinse tutti e non somiglia che a sè solo. Continuato pertanto il suo viaggio verso il sud, tocca felicemente le coste dell’Uruguay; getta l’áncora nel porto di Maldonado a poche miglia da Montevideo, e accoltovi amichevolmente dalle popolazioni, per la memoria della recente guerra d’indipendenza avverse al nuovo Impero brasiliano, manda innanzi il Rossetti a Montevideo per convertirvi in denaro il predato caffè e lo raggiunge di lì a poco egli stesso. Se non che il generale Oribe, presidente a quei giorni della Repubblica orientale, premuroso di non disgustare il potente Stato vicino, spicca l’ordine d’arrestare l’incomodo corsaro e il suo legno; sicchè a Garibaldi non resta che salpare in tutta fretta e prendere il largo. VIII. Non vuol però lasciare le coste dell’Uruguay, e la notte stessa, messa la prua sul Rio della Plata, lo risale dirigendosi alla Punta di Gesù, poche miglia al di sopra di Montevideo. Ma quale non fu la sua sorpresa nel trovarsi di lì a poche ore in mezzo ai frangenti del Las Pedras, attorniato da scogli che gli precludono da ogni parte il cammino e minacciano ad ogni moto della nave di sfracellarla e sommergerla. Che cosa era accaduto? La più naturale cosa del mondo, non infrequente ai navigatori. Garibaldi, nel sospetto di dover presto combattere, aveva fatto portar sopra coperta le armi; i marinai, a sua insaputa, le avevan gettate spensieratamente presso l’abitacolo; per la vicinanza d’una massa sì grande di ferro l’ago aveva deviato e il pilota, non avendo nel buio pesto di quella notte altra guida che la bussola, vi si era sviato dietro. Intanto però il pericolo era urgente e molti de’ marinai, perduta la testa, piangevano. Non la perdette Garibaldi. Lanciatosi alla verga di trinchetto, traccia la rotta egli stesso al timoniere, scivola tramezzo a scogli da inorridire, e quando Dio volle tocca Jesus-Maria. Ma colà nuovo incidente. Il bastimento era in salvo, ma i viveri mancavano; il pericolo del naufragio era cansato, sorgeva la minaccia della fame. Anche qui apparve la mente sempre ricca d’arditi espedienti del nostro corsaro. Bordeggiando lungo la costa in cerca di qualche abituro, egli scopre, a quattro miglia dentro terra, una fattoria; non può nè approdare a cagione dei venti _pamperi_ (soffianti dalla Pampa) che lo battono di traverso, nè staccare alcuna barca, poichè la lancia della _Luisa_, come è noto, l’aveva ceduta ai suoi primi padroni. Conviene dunque immaginare un ripiego ed eccolo. Ormeggia a due áncore il bastimento; improvvisa, con una tavola legata sopra due botti e una pertica piantata nel centro, una specie di zattera; vi balza sopra accompagnato da un solo marinaio (che si nomina, vedi il caso, senza alcun vincolo di parentela, col nome di suo fratello, Maurizio Garibaldi), e rotolando più che navigando fra i marosi; mulinato dalle correnti e allagato a ogni tratto dalla raffica; facendo miracoli d’equilibrio sulla zattera, e la zattera prodigi di nautica sulle acque, riesce ad afferrare la sponda, e di là, affidata la zattera al compagno, s’incammina verso la fattoria. Fu allora che vide per la prima volta, sebbene possa dirsi in iscorcio, la Pampa. Il quadro però che egli ne fa è un po’ di fantasia, e più che una pittura esatta del tratto di paese che aveva davanti, si potrebbe dire un compendio poetico dei ricordi e delle sensazioni che l’aspetto della contrada, in cui era vissuto per dodici anni, aveva lasciato nell’animo suo. Egli scrive: «Lo spettacolo che si offrì alla mia vista per la prima volta, è veramente degno di menzione. Gl’immensi ed ondulati campi orientali[35] presentano una natura affatto nuova ad un Europeo, e massime ad un Italiano assuefatto e cresciuto ove palmo di terra non si presenta vuoto di case, o di altra opera qualunque di mano d’uomo. Là nulla di questo! Il Creolo conserva la superficie di quel suolo come gliela lasciarono gl’indigeni dallo Spagnuolo distrutti. I campi sono coperti di fieno, e non variano che nelle valli e sulle sponde dell’Arroyo,[36] ove s’innalzano, più o meno alti, bellissimi boschi. Il cavallo, il bue, il venado,[37] lo struzzo sono gli abitatori di quella terra. L’uomo, rarissimo, vero centauro, la passeggia soltanto per annunziare un padrone agl’innumerevoli e selvaggi suoi servi. Non di rado il bellicoso stallone e l’indomito toro si avventano sul suo passaggio, disprezzandone l’alterigia con vigorosi e non equivoci segni d’indipendenza. Io ho veduto sulla misera terra ove nacqui un Tedesco solcante e calpestante le moltitudini; e i servi aprivano un varco ed abbassavano lo sguardo per paura di compromettersi. »Dio mio, sin a quando permetterai tanto vilipendio della tua creatura! Quanto bello è lo stallone de’ campi orientali! Le sue labbra non sentiranno giammai il freddo ribrezzo del freno, e la lucida sua schiena, battuta da bellissima criniera, non sarà mai calcata dal fetido sedere dell’uomo!... Il superbo, raccogliendo le sparse giumente e fuggendo la persecuzione dell’uomo, avanza la velocità del vento. Vero sultano del deserto si sceglie la più vaga delle sue odalische senza il servile ministero della più vile e schifosa delle creature, l’eunuco! Come esprimere le emozioni del corsaro di venticinque anni in mezzo a quella fiera natura, vista per la prima volta.» Non c’è pagina forse in tutto il voluminoso archivio degli scritti di Garibaldi, in cui egli abbia confessato l’intimo suo pensiero più di questa. L’uomo allo stato di natura, libero, indomito come il toro selvaggio, incontaminato dal freno e dalla sella come lo stallone della Pampa, signore de’ suoi pascoli, sultano delle sue donne, re pel solo diritto della forza e della bellezza della sua torma, ecco, scrutato in fondo, l’ideale umano verso cui Garibaldi, senza forse confessarlo a sè stesso, si sentiva trasportato ed a cui conformerà tanti atti e costumi della sua vita. IX. Arrivato all’_estancia_, invece del fattore (_Capataz_), trova una donna; una bella donna, a quanto pare, e per di più poetessa. S’immagini la meraviglia del nostro corsaro nello scoprire là, in mezzo al deserto, una donna che parlava l’italiano, che sapeva a memoria squarci di Petrarca, di Dante, di Tasso, che faceva dei versi essa stessa. L’incendio fu subitaneo: ella gli leggeva i suoi versi, egli li ammirava; ella sfoggiava la sua perizia nell’italiano, egli metteva in mostra tutto il po’ di spagnuolo che possedeva; ella gli donava un volume delle poesie di Quintana, egli forse.... ma il marito arrivò, ed era tempo. Nè l’aneddoto mi sarebbe parso meritevole di memoria, se non fosse un primo indizio del grande potere che la donna esercitò sull’appassionata fantasia dell’eroe nizzardo. La storia aneddotica degli amori di Garibaldi non la conosciamo, nè la vogliamo conoscere. Lasciamo a cui piace il raccontarla; ma il concetto ch’egli ebbe della donna e dell’amore, la storia ideale del suo cuore amante, è lineamento essenziale del suo carattere, e prima o poi ci sarà mestieri consacrarle un capitolo di questo libro. Allora, stretto in poche parole il contratto, il _Capataz_ gli dà bell’e squartato e spellato il bove, di cui aveva bisogno; Garibaldi ne sciorina a guisa di tenda sul palo della sua zattera i quarti, e si avventura nel fiume. Ma naturalmente il ritorno sarà ancora più periglioso dell’andata. Al flagello dei marosi s’unisce ora l’avversità della corrente, e a un certo punto essa è tanto furiosa, che porta la fragile tavola a deriva e minaccia travolgerla. Fortunatamente però la goletta mossagli incontro riesce a gettargli una cima, e il nostro corsaro giunge alla fine a riafferrare il suo bordo fra le grida di giubilo e i battimani de’ suoi affamati compagni, forse più ansiosi, dirà egli, con insolita ironia, della sorte del bove che di quella del loro capitano. «Sazio del cibo il natural talento,» passata la notte alla Sonda, circa sei miglia a mezzodì della punta di Jesus-Maria, i guardieri della Luisa segnalano in sul far del giorno due barche verso Montevideo. In sulle prime Garibaldi le crede amiche e non ci bada; poi avvedutosi che non portavano bandiera rossa, segno convenuto fra i rivoluzionari, entra in qualche sospetto, e ad ogni buon conto comanda di mettere alla vela e di far portare le armi in coperta. E la precauzione fu provvida. La maggiore delle due barche veniva innanzi coll’andatura quieta e grave d’un bastimento mercantile; quando, giunta a pochi passi dalla _Luisa_, getta, per così dire, la maschera; una voce squillante s’innalza dal suo bordo che intima al legno corsaro la resa, mentre il ponte si copre, come per incanto, di uomini armati, che senza aspettar risposta commentano l’intimazione della voce con una salva di moschetteria. La cosa era ormai palese. Il governo della Repubblica Orientale aveva comandato di perseguitare i corsari, e le due barche misteriose erano due lancioni della Repubblica mandati ad eseguire l’ordine. Non c’era dunque che una risposta. «All’armi,» grida Garibaldi; e mentre spara egli stesso il primo colpo di fucile, ordina di _bracciare in vela da prua_ col manifesto disegno di scivolare, bordeggiando, fra i due lancioni. Allora un combattimento accanito s’impegna fra i due legni, il primo, veramente il primo, ed è deplorevole che ne manchi la data, in cui si provò Garibaldi. I negri e i marinai stranieri, zavorra dell’equipaggio, si rimpiattano nella stiva, ma i sette italiani che aveva a bordo, Fiorentino, Luigi Carniglia, Pasquale Lodola, Giovanni Lamberti, Maurizio Garibaldi e due Maltesi, fanno, dietro al suo esempio, prove di disperato valore. A un certo punto uno de’ lancioni, fidente nella superiorità del numero, tenta un arrembaggio; e già alcuni de’ suoi più arditi sono montati sulle impavesate di destra della brava goletta, ma invano; pochi colpi di moschetto e di sciabola li rovesciano e li fanno saltare in mare. Intanto però Garibaldi s’era accorto che la goletta non aveva risposto alla manovra da lui ordinata, e voltatosi per ripetere l’ordine al timoniere, vede il timone abbandonato e a pochi passi il bravo Fiorentino, stato fin’allora al governo, steso morto da una palla nel petto. Garibaldi indovina l’accaduto e si slancia egli stesso al timone; ma ne ha appena afferrata la barra, che un’altra palla gli traversa il collo, e lo stramazza, fuor di sensi, sul ponte. Per la _Luisa_ poteva essere quella l’ultima ora, se i cinque Italiani superstiti, guidati dall’intrepido Carniglia, un genovese gigantesco, non avesser continuato a combattere e tenere in rispetto i nemici; onde i lancioni assalitori, disperati oramai di poter vincere una sì ostinata resistenza, virarono di bordo e la goletta corsara fu salva. Lo era il suo capitano? La ferita è gravissima: il ferito aveva ricuperati i sensi, ma era incapace di ogni movimento. Il fido Carniglia, il primo a corrergli accanto per soccorrerlo, l’ultimo a staccarsene, gli chiese dove si dovesse dirigere la prua, essendo manifesto ormai che le rive della Repubblica erano tutte ugualmente malfide; e Garibaldi, fissati i moribondi occhi sopra una carta, additò Santa-Fè nel Parana, nello Stato di Entre-Rios, provincia dell’Argentina. E la nave, favorita da un vento fresco di levante, descrisse il rombo tracciato dal capitano. Prima cura però dell’equipaggio della _Luisa_ fu di dare sepoltura alla salma dell’infelice compagno. Ma quale triste sepoltura le acque d’un fiume! Oh non era quella la tomba che Garibaldi desiderava! La morte non lo spaventava; ma se non gli era concesso morire in un angolo di terra della sua diletta Italia, che il suo corpo non sia pasto ai pescicani, che almeno «un sasso (diceva al fedele Carniglia) distingua le mie, dalle infinite ossa, che per terra e per mar semina morte.[38]» X. In una vita seminata d’avventure straordinarie tralasceremo le comuni. Raccolto all’imboccatura dell’Ibiqui (affluente del Parana) da un bastimento brasiliano,[39] viene sbarcato a Gualeguaj, capoluogo d’un distretto dell’Entre-Rios: accolto benignamente dal governatore della provincia, Don Pedro Echague, che troveremo un giorno fra i partigiani di Rosas. Ivi un bravo chirurgo, il dottor Rammon, gli estrae la palla; un altro dottore, Giacinto Andreus, gli offre in casa sua un’ospitalità quasi fraterna; il Governo stesso gli somministra per il suo sostentamento un _duro_ al giorno (fr. 5), ricchezza in quei paesi, ponendogli unica condizione di non allontanarsi da Gualeguaj e di restar prigioniero sulla parola fino a che il dittatore di Buenos-Ayres (Rosas) abbia deciso della sua sorte. In sulle prime Garibaldi, sostenuto dalla speranza d’un pronto mutamento di sorte, sopportò rassegnato, se non contento, la non dura cattività, tentando ingannare le lunghe ore del forzato riposo ora colla lettura di libri che l’ospite gli prestava; ora col versare in copiose lettere agli amici gl’intimi pensieri del suo cuore;[40] ora finalmente coll’inviare alla patria lontana, creduta più ignava che infelice, canti d’amore indignato, in cui senti tutte le passioni dell’uomo e del patriotta gorgogliare in mezzo agl’ingenui falli del ritmo ed all’insospettata scorrettezza della parola, simile a flutto di lava che sgorghi tra le scorie ed il fango. È dei giorni di Gualeguaj quella, non sapremmo dire se ode o ruggito di selvaggio ferito, le cui strofe abbiamo udito noi stessi tornare più volte sulle sue labbra, e che riportiamo qui per intero, non tanto come saggio delle facoltà poetiche del nostro eroe (quistione che vorrà essere esaminata a parte), quanto come testimonio dei sentimenti che ribollivano allora nell’anima sua e della forma con cui ne erompevano: Non fra pomposi ed aurei Vaghi giardin simmetrici, Non sotto immensi aerei Archi e portenti artefici, Ma tra l’ombrose selve Piacesi il mio pensier. Non quando il Ciel sereno E dei Zeffiri il lambito All’ente fausto in seno Diffondan dolce palpito, Ma quando rugge il nembo E scuote l’orbe intier. Non quando Teti argentei I flutti suoi mi estolle; Non quando ardenti agl’ignei Monti il bitume bolle, Ma tempestuose l’onde, Sconquassato il crater. E che m’importa il gaudio E de’ popoli la pace? Che m’importa del Sabaudio Il prosperar mendace, E del Samnita immemore Il codardo giacer? Che m’importa d’Italia I lirici concenti, Se di Germania e Gallia I bellici istrumenti Nel sen di quell’imbelle L’onta fan rimbombar? Io la vorrei deserta, I suoi palagi infranti; Ed io, dell’Alpi allerta, Le sue città fumanti Scorger, e con sardonico Sorriso contemplar. Pria di vederla trepida Sotto il baston d’un Vandalo. Già prostituta e squalida Delle nazioni scandalo, Il suo destin cospicuo Stolida rinnegar. Però che un uomo come Garibaldi potesse reggere a lungo a quella vita che non era nè la libertà nè la servitù, nessuno vorrà pensarlo. Oltredichè avendogli taluno susurrato, forse per vile agguato, che la sua evasione sarebbe stata non interamente sgradita al Governo argentino, a cui probabilmente non spiaceva di liberarsi da un’incomoda e costosa custodia, egli, facilmente credulo a ciò che più desiderava, si stimò come prosciolto dalla data parola, e si decise a fuggire. Colta infatti una sera d’uragano, esce non visto da Gualeguaj, raggiunge a passi di lupo l’_estancia_ più vicina, vi trova una guida e un cavallo e si dirige a gran galoppo verso il Parana colla speranza di poterlo tragittare. Ma, tradito dalla guida, sorpreso da una pattuglia di cavalleria, toltagli ogni possibilità così di fuga come di difesa, è ripreso, e colle mani legate alle reni e i piedi cinghiati alla sella viene ricondotto a Gualeguaj e tradotto davanti al governatore della città. Era costui un cotal Millan, il quale, non sospettando certamente che stampa d’uomo gli stesse dinanzi, gl’intimò senz’altro di palesare i suoi complici. Garibaldi, naturalmente, rispose con uno sdegnoso rifiuto; allora il degno magistrato di Rosas, traendo sicuramente coraggio dalle ritorte che rendevano impotente il prigioniero, brandì una sua frusta e si diede a flagellarlo furiosamente. Non ottenne per questo una parola di più; sicchè, vedute oramai riuscir vane così le minaccie come le percosse, comandò, procedura non insolita in quella Repubblica, che fosse inflitta al testardo Italiano la tortura. Lo presero quindi, gli girarono attorno ai polsi sempre legati al dorso un’altra fune, lo sospesero con questa ad una trave, e ve lo lasciarono due ore. «Il mio corpo (urla ancora più che non scriva Garibaldi) ardeva come una fornace, e lo stomaco mio disseccava l’acqua che io trangugiavo continuamente come una rovente lamina.... Tali patimenti non si ponno esprimere! Quando mi sciolsero, io più non mi lamentavo.... ero diventato un cadavere, e così mi incepparono. Io avevo traversato cinquantaquattro miglia di paese paludoso, legato mani e piedi. Le zanzare, moltissime in quella stagione, avevano fatto strage di me. Avevo sofferto molto. Ora mi trovavo in ceppi allato d’un assassino. Andreus, il mio benefattore, era imprigionato. Gli abitanti tutti del paese erano atterriti, e senza l’anima generosa d’una donna io sarei morto. La signora Alleman, angelo virtuoso di bontà, calpestò ogni timore e venne in soccorso del torturato. Io non mancai di nulla nella prigione, grazie alla benefattrice mia.[41]» Finalmente, stanco di martoriarlo invano, dopo averlo ridotto presso all’agonia, e temendo forse di dover rispondere della sua vita, il bestiale Millan fa tradurre il prigioniero da Gualeguaj alla Bajada, capitale dell’Entre-Rios, dove, tenuto altri due mesi in custodia, viene alla fine dal mite Echague liberato. Che a Garibaldi dovesse tardare di togliersi a quella terra in cui anco l’ospitalità era pericolosa, s’intende da sè; però imbarcatosi sopra un brigantino italiano, capitano Ventura, scende con esso fino alla Plata, e di là, raccolto da una barca da pesca (_balandra_), riafferra felicemente Montevideo. Colà, è vero, durava la sua proscrizione; ma il Cuneo, il Castellini, il Pesante, uno stuolo d’amici gli si fanno d’attorno, lo ospitano, lo nascondono, lo proteggono; tra poco il Rossetti stesso, reduce da Rio Grande, dove era stato a rinfocolare la rivoluzione, viene a raggiungerlo ed a proporgli di condurlo seco al campo dei sollevati. E qui si chiude il primo periodo delle avventure di Garibaldi sulla Plata. Della tortura di Gualeguaj egli serbò ricordo perenne sul suo corpo, l’artritide alle mani che lo tormentò tutta la vita, ma non la più lieve ombra di rancore nel suo animo. Corsi appena dieci anni, guerreggiando egli per la Repubblica di Montevideo contro l’Argentina, un caso, che poteva parere giustizia, fece cadere nelle sue mani, tra gli altri prigionieri, anche il Millan. E in un paese, dove l’intingere la lancia (_mocar_) nel corpo del nemico ferito era buon dritto di guerra, s’intende che la vita d’un prigioniero fosse legittima cosa del vincitore; pure Garibaldi, quando seppe dal Sacchi che l’aguzzino di Gualeguaj era in sua mano: «Non voglio vederlo, esclamò, lasciatelo libero!» e fu quella l’unica vendetta ch’egli si tolse. XI. La proposta del Rossetti secondava troppo il genio di Garibaldi perchè questi potesse rifiutarla; oltre di che Montevideo, dopo la giornata dei lancioni, non era più un asilo troppo sicuro per lui. Non trascorreva il mese adunque che i due amici erano già sulla strada di Rio Grande. Fecero il viaggio a cavallo, anzi ad _escotero_, maniera singolarissima di viaggiare laggiù e che, a detta di Garibaldi, vince in velocità le più celebri poste del vecchio mondo. Branchi di cavalli sono talmente assuefatti a vivere assieme, che, quando uno è preso e montato da un cavaliere, tutto il branco lo segue; sicchè il viaggiatore affrettato, quando la sua cavalcatura è stanca, non ha che a buttare la sella e montare sul primo cavallo del branco che gli capita alle mani, e così di cavallo in cavallo fino al termine del viaggio: questo è l’_escotero_. In tal modo, traverso un paese pittoresco ed ospitale, che il nostro eroe non rifinisce mai di magnificare, i due Italiani giunsero a Piratinin, villaggio meglio che città del Rio Grande, sorgente a poca distanza dalla sponda occidentale della laguna _de los Patos_ (delle Anitre), e dove il presidente Bento Gonçales, dopo la perdita di Porto Allegre, aveva trapiantata la capitale della sua nomade repubblichetta. Festose furono le accoglienze e lieto era il soggiorno di Piratinin; ma udito che il Presidente campeggiava sul San Gonzales contro una divisione dell’esercito imperiale, comandata da un tal Silva Tavares, Garibaldi non volle tollerare dimora, e lo raggiunse subito al campo. Era quella la prima volta che il Nizzardo vedeva il campione dell’indipendenza riograndese, e ne toccò una impressione incancellabile. Veneranda la testa per gli anni e la canizie; alto e snello di corpo; pittoresca la foggia del vestire; nell’esercizio del cavalcare espertissimo; prode di mano, intrepido di cuore; sobrio fino a non conoscere altro cibo che un po’ di carne arrostita, nè altra bevanda che l’acqua pura delle sorgenti; cortese, cavalleresco, famigliare, il Gonçales rappresentava agli occhi di Garibaldi il modello dell’eroe popolare; e nessuno meraviglierà se i principali lineamenti di siffatto tipo si stamperanno così profondamente nell’animo del gran Nizzardo, da rinascere un giorno ne’ suoi costumi e nelle sue gesta come rinascono le fattezze del padre in quelle d’un figliuolo. In un punto solo l’Italiano differiva dal Riograndese; che questi fu tanto sfortunato nelle sue imprese, quanto sarà fortunato quello: «Il che mi ha fatto sempre credere (soggiunge il nostro eroe) essere la fortuna non per poco negli eventi della guerra.» E la confessione ci parrà tanto più onesta e preziosa nella bocca di un uomo che, nell’ebbrezza di tanti trionfi, poteva essere di sovente trascinato a scambiare per conquiste del proprio genio i favori della sorte, ed essere facilmente ingrato alla Dea che lo aveva siffattamente beneficato. Rimasta senza effetto, per la ritirata delle truppe imperiali, la spedizione del Gonçales, questi tornò con tutti i suoi a Piratinin, e Garibaldi naturalmente fu nel numero. Colà però il governo del Gonçales pensò subito a trar profitto del giovane italiano, che aveva già dato tante prove di valore e devozione alla causa repubblicana, e avendo sperimentata principalmente la sua perizia nelle cose di mare, gli commise l’organizzazione e il comando della piccola flotta riograndese. Era per Garibaldi un regno. Don Giovanni d’Austria che riceveva il comando della flotta cristiana; Nelson che guidava il naviglio inglese a disperdere la marina napoleonica, non esultarono forse di una gioia sì superba come il marinaio nizzardo nel sentirsi comandante dei due lancioni destinati a far la guerra all’Impero brasiliano sulla laguna delle Anitre. Però non frappose indugio di sorta; coll’opera de’ suoi antichi marinai venuti a raggiungerlo da Montevideo, tra’ quali il fedele Carniglia, e d’alcuni carpentieri indigeni, preparando, segando, fucinando sul luogo stesso il legname, i ferramenti, perfino i chiodi, costruì in men di due mesi due lancioni della portata da 15 a 20 tonnellate; li varò nel Camacua, confluente della laguna; li armò di due cannoncini di bronzo, e, tra neri, europei e mulatti, di settanta uomini d’equipaggio; e preso egli stesso il comando del più grosso, detto il _Rio Pardo_, affidò il governo del minore, battezzato il _Repubblicano_, all’americano John Griggs, e si slanciò nella laguna contro la squadra imperiale forte di trenta navigli da guerra e di un battello a vapore. Qui comincia la vera vita eroica di Garibaldi. Finora di questa epopea noi non abbiamo veduto, a dir così, che il proemio, ora viene il poema, ora s’apre quel volume di prodezze favolose, di virtù temerarie, di errori fortunati e di fortune insolenti che a grado a grado sollevarono il nome del mozzo nizzardo dalla oscura arena di Piratinin all’onore d’una scena europea e quasi mondiale, e ne fecero una delle più fantastiche e meravigliose figure della storia moderna. Narrarle tutte ad una ad una col minuto intreccio dei loro particolari, non sapremmo; oltredichè sarebbe soverchio e superfluo insieme: superfluo, perchè Garibaldi stesso nelle sue _Memorie_ ne parla a distesa; soverchio, perchè il più delle volte si rassomigliano e si ripetono; e accrescono bensì la mole dei fatti, ma non aggiungono alcun nuovo tratto alla fisonomia dell’eroe, nè suscitano alcuna nuova sensazione nell’animo del lettore. Diremo però le principali, le eccezionali, le caratteristiche, quelle che più scolpiscono l’uomo ed il tempo, l’attore e la scena. Combattere per terra e per mare; oggi sottrarsi alla caccia d’una flotta venti volte superiore, domani affrontare con un pugno d’uomini nugoli di cavalieri; oggi lanciarsi all’arrembaggio d’un vascello nemico e predarlo, domani lottare disperatamente contro l’uragano e scampar per miracolo da un naufragio; essere al tempo stesso marinaio, cavaliere, calafato, boaro; vivere alla ventura e in perpetuo allarme; ambire, vincitore, unico premio alla vittoria, i sorrisi delle belle ed ottenerli; conseguire, vinto, l’ammirazione di tutti i generosi e meritarla; trovarsi ad ogni istante a faccia a faccia colla morte e sentirsi beato; non possedere che una striscia di terra su cui posare il capo, ed una tavola di barca su cui piantare il piede, e ciò non ostante avere il corpo fiorente di salute e l’anima piena di fantasie giovanili e di sogni d’amore, questa fu la vita di Garibaldi per oltre quattro anni, questa fu la prima scuola del futuro duce dei Mille. Lungo la sponda occidentale del Los Patos correvano larghi e continui banchi di sabbia, che erano diga insuperabile alle grosse navi imperiali, e via di scampo e di rifugio ai due piccoli legni repubblicani. Però, quando Garibaldi si vedeva minacciato dalla squadra nemica o aveva bisogno di vettovagliarsi o di restaurare i suoi lancioni, non aveva, com’egli diceva, _che a far l’anitra_; spingere, cioè, i lancioni sui banchi, e saltando coi suoi nell’acqua, tirarli a terra a forza di braccia. Una volta adunque che i nostri Garibaldini, nulla vieta di chiamarli fin d’allora così, avevano «fatto l’anitra» e preso terra sui possessi medesimi del Presidente, precisamente nei dintorni d’un _saladero_ (specie di capannone per salarvi le carni) detto il _Galpon de Chargucada_, e proprio nel momento in cui, rassicurati dai rapporti degli esploratori, se ne stavano abbandonatamente, quali terminando il loro rancio, quali a tagliar legne o a raccomodar vele e sartie, odono risuonare sul loro capo un terribile squillo di carica e di _deguillo_, o, come tradurremmo noi, di sgozzamento. Erano gl’Imperiali: era un grosso corpo di cavalieri, capitanati da un certo colonnello Moringue, famoso, assicurano, per furberia e coraggio, che sbucando a un tratto dal fitto sipario di nebbia che li aveva sino allora nascosti, si precipitavano sull’accampamento repubblicano e minacciavano sterminarlo. La sorpresa dell’inaspettato assalto fu tanta, la furia degli assalitori era tale, che Garibaldi, il quale se ne stava tranquillamente centellando il suo _mate_,[42] e il cuoco, che gli era seduto dappresso, ebbero appena il tempo di balzare in piedi e di rifugiarsi nel Galpon; anzi uno dei cavalieri nemici giunse sì presso a Garibaldi stesso, che, mentre questi entrava nella porta del Galpon, riesciva a forargli il _poncio_ con un colpo di lancia. Tuttavia i due Italiani furono ancora in tempo a sbarrare la porta del capannone, e poichè fortuna volle che tutte le armi degli accampati fossero cariche e schierate in ordine intorno alla porta stessa, poterono anche aprire istantaneamente contro il nemico un fuoco micidiale. Garibaldi sparava e il cuoco riporgeva le armi e le ricaricava, e ogni colpo feriva giusto e atterrava un nemico. Intanto alcuni Garibaldini sparsi nei dintorni, chiamati dalle trombe e dalle fucilate, accorrevano in soccorso dei loro compagni, e rasenti le muraglie, strisciando tra le macchie, sfidando il fuoco degl’Imperiali, riuscivano a penetrare nel Galpon. Via via arrivarono Carniglia, Ignazio Bilbao biscaglino, Edoardo Mutru nizzardo, Raffaello e Procopio, l’uno mulatto l’altro nero, Francesco Sylva spagnuolo ed altri cinque, di cui Garibaldi stesso lamenta di non ricordare il nome. Così i difensori del Galpon diventarono tredici, e apparivano cento. La disperazione somministrava le armi e il furore; ma una disperazione fredda, calcolatrice, impavida, che pareva rendere più acuto l’occhio, più fermo il polso dei difensori, e faceva nello stormo degli assalitori irreparabili vuoti. Il Galpon era stato in pochi istanti coperto di feritoie, e da ogni feritoia partiva la morte. A un certo punto gli assalitori, stanchi di vedersi decimati senza potere offendere, immaginarono d’incendiare il Galpon. Salirono perciò sul tetto, lo scoperchiarono e si diedero a gettare sull’improvvisata cittadella fasci di legne accese. Fu quello pei difensori il momento più terribile; molti di loro, colpiti da quella breccia aperta nell’alto, caddero mortalmente feriti. Pure non smarrirono un istante l’animo invitto: guidati da Garibaldi, mentre gli uni attendevano a spegnere il nascente incendio, gli altri puntavano, freddi e calmi, contro ogni nemico che s’affacciasse dal tetto e lo fulminavano. La difesa si protrasse così ancora per qualche tempo, ma venne un punto in cui gli assaliti si contarono, e non erano più che tre. Cinque erano morti, cinque gravemente feriti. Gli Imperiali, quantunque decimati, superavano ancora il centinaio, e la rabbia dell’inattesa resistenza li rendeva ancora più feroci. Oramai non restava più ai difensori che l’ultima ragione della baionetta e una morte gloriosa. In quel punto Garibaldi, trovando nel sublime delirio dell’imminente agonia un impensato stratagemma, intuona in faccia ai nemici esterrefatti l’inno di Riego: Soldados, la patria Nos llama a la lid: Coriemos, coriemos La patria a salvar. E i due compagni tengon bordone, e i feriti cui resta un filo di voce ancora accompagnano, e tanto è l’effetto di quelle patriottiche note elevate da quel coro d’eroici morenti, che gl’imperiali, tra stupiti e commossi, ristanno alcun poco interdetti e sospendono per alcuni istanti l’assalto. Fu la salvezza degli assediati: che in quel medesimo punto il negro Procopio essendo riuscito a fracassare con una ben aggiustata palla il braccio del colonnello Moringue, i suoi cavalieri si turbano e si scompigliano, il colonnello stesso ordina la ritirata, e in poco d’ora il Galpon è libero e tutto il piano circostante sgombro di nemici. Era quello il primo combattimento di terra che Garibaldi sosteneva. Per cinque ore tredici uomini ressero all’assalto di centocinquanta agguerriti cavalieri, comandati da uno dei più valorosi e astuti capitani del Brasile. Due anni dopo il capitano Lelièvre con centoventitrè uomini difendeva la Torre di Mazagran contro dodicimila beduini; ma Mazagran era una fortezza e il Galpon di Chargucada una bicocca. Le «anitre» erano tornate all’acqua. Il governo di Piratinin, visto come l’assedio posto a Porto Allegre si trascinasse troppo per le lunghe e non promettesse alcun prospero fine, deliberò di dar la mano ai rivoluzionari della finitima provincia di Santa Caterina, ove si erano già manifestati molti segni di ribellione all’Impero, e poteva, una volta soccorsa, mettere l’esercito di Don Pedros tra due fuochi e seriamente minacciarlo. Ordinò quindi una doppia spedizione _auxiliadora_. Il general Canavarro dovea agire per terra ed il capitan-tenente Garibaldi per mare. Ma agire per mare era una parola. La Repubblica aveva bensì aggiunti al Rio Pardo ed al Republicano che tenevano la laguna altri due più grossi lancioni, uno dei quali (dell’altro non si trova scritto il nome) era chiamato il Seival; ma sull’Oceano essa non possedeva nè porti, nè flotta, e la laguna del Los Patos era separata dall’Atlantico da oltre venticinque leghe di terra e le sue foci erano tutte in mano degl’Imperiali. Come fare adunque? Caricare due lancioni sopra carri e trasportarli dalla laguna in mare: fu questo il suggerimento di Garibaldi e fu senza indugio accettato. Presi pertanto il vecchio Rio Pardo ed il nuovo Seival, e commesso ad un abile carradore dei dintorni la costruzione di due lunghi carri sostenuti da quattro altissime ruote, si mise all’opera. Da un’insenata a greco della laguna sgorga entro un burrone un torrentello detto il Capivari, il quale dopo un corso di oltre venti leghe andava a finire colle sue povere acque in un altro lago chiamato Taramanday, che a sua volta sboccava per mezzo a vorticosi frangenti nell’Atlantico. Ora Garibaldi scelse per il trasporto dei suoi lancioni queste due vie. Fatti entrare i carri nel Capivari fin presso al suo sbocco dalla laguna, vi fece scorrer sopra, senza grandi sforzi, i due lancioni: attaccò a ciascun carro venticinque paia di buoi: discese, non dice in quanti giorni, tutto il letto del fiume: giunse, con meraviglia degli abitanti accorrenti a quell’insolito spettacolo, fino alle sponde del Taramanday, ivi scaricò i due legni, li gettò in acqua, li armò e li allestì d’ogni occorrente e drizzò la prua verso l’Oceano. Il più pareva fatto, ed era il meno.[43] Il fondo di foce del Taramanday è bassissimo e soltanto nelle ore d’alta marea praticabile; oltre a ciò, la costa dell’Atlantico in quel punto scopertissima e per le correnti alluvionali che la solcano e gli spessi marosi che la flagellano, oltremodo ardua e perigliosa. A Garibaldi quindi e a’ suoi arditi compagni si convenne attendere fin quasi a sera il ritorno dell’alto flusso; ma quando questo arrivò e si prepararono a tentarne il passaggio, s’avvidero che l’acqua non bastava ancora. Era dunque giocoforza ricominciare da capo; faticare e sudare ancora, manovrare di destrezza e di coraggio, balzare di nuovo in acqua, spingere e trascinare di nuovo i bastimenti a forza di remi e di braccia, scivolare nel buio della notte tra le secche e i frangenti; dare una battaglia all’Oceano anche prima di potervi entrare. E la battaglia prima delle tre ore del mattino era vinta, e Garibaldi poteva dire che eran quelli i primi bastimenti che superassero quelle sirti fin allora intentate; ma l’Oceano se ne vendicherà. Non appena infatti i lancioni ebbero salpata l’áncora, un fortunale di mezzogiorno si scatenò con tanto furore, che il capitano, posto tra il pericolo imminente e quasi certo di veder i suoi legni andar sommersi al primo colpo di vento e l’altro ancor lontano ed incerto di cader prigioniero nelle mani degl’Imperiali, scelse tuttavia questo e comandò di accostar terra il più presto, comunque, dovunque. Ma anche per questa manovra era tardi. Il _Seival_, comandato dal Griggs, come il più forte e il più snello potè ancora reggere all’urto e afferrare, sebben sconquassato, la costa. Il _Rio Pardo_, più piccolo e più carico, dopo avere lungamente e valorosamente lottato, battuto di fianco da un’ondata più furibonda delle altre andò capovolto sotto i flutti e non si risollevò mai più. Allora apparve uno spettacolo terribile. Garibaldi, buttato come tutti gli altri in preda alle onde, non ebbe nell’istante del disastro che un solo pensiero: provvedere alla salvezza de’ suoi compagni. Gagliardissimo nuotatore, andava da un naufrago all’altro, a questi porgendo la mano, a quelli stendendo un boccaporto o un remo, a tutti recando un aiuto ed un consiglio; ma invano. Luigi Carniglia fu il primo a perire sotto i suoi occhi. Il destino volle che nel momento del naufragio egli portasse indosso un pesante giacchettone di _calmuck_, che serrandogli fortemente le membra gli impediva di nuotare. Si tenne egli aggrappato ai sartiami dello sbattuto bastimento finchè gli bastò la forza; ma venutagli meno si mise a gridare al soccorso. L’intese Garibaldi e accorse in due lanci; e mentre si reggeva egli pure con una mano al bastimento, coll’altra tratto di tasca un coltello si diede a tagliare, febbricitante, il collo ed il dosso della tenace giacchetta; e già questa cadeva a lembi, già il bravo timoniere ricuperava il fiato ed il moto, quando una furiosa ondata percuote e divide d’un colpo i due amici, manda in brani il bastimento e sommerge tutti. Ritornò a galla stordito, ma lottante ancora Garibaldi; il suo fido Carniglia, colui che gli aveva salvata la vita sulla Plata, non vi tornò mai più. Allora oppresso da ambascia mortale, più come automa spinto da un involontario impulso che come uomo guidato dall’amore della vita, Garibaldi s’avvia lento e triste verso la spiaggia. Quando toccatala appena vede boccheggiare sull’onde, agitando le braccia con gesti disperati, l’altro suo amico Edoardo Mutru. Il Nizzardo era a terra, al sicuro, affranto da una lotta disperata di più ore; pure il pensiero della salvezza de’ suoi lo domina sempre, torna a slanciarsi in mare, arriva in pochi passi presso l’amico agonizzante, gli porge un boccaporto; ma nel punto in cui il povero Mutru tenta allungare le braccia ed afferrarlo, l’ultima lena gli vien meno e l’onda lo arrotola, lo capovolge e lo ingoia per sempre. Era l’ultimo sforzo, di cui anche Garibaldi poteva essere capace. Raggiunta di nuovo la riva, fatta la triste rassegna de’ naufraghi, sedici erano periti: quattordici soli erano salvi, e tra di essi, mortale certezza al cuore del nostro patriotta, nemmeno uno italiano. «Carniglia, Mutru, Staderini, Navone, Giovanni, un altro di cui non rammento il nome (scrive dolorosamente Garibaldi), erano tutti morti. Forti e buoni nuotatori perirono. Alcuni giovanotti americani che non sapevano nuotare erano salvi. Pare incredibile, ma è vero. Io vaneggiava: mi pareva il mondo un deserto.[44]» E tuttavia anche la vita de’ superstiti pendeva ad un filo. Balestrati su una spiaggia deserta, fradici fino alla midolla, assiderati dalla lunga immersione, privi da molte ore d’alcun ristoro, spossati dalla lotta disperata contro la tempesta, se un pronto soccorso non sopravveniva sarebbero morti certamente di freddo e d’inedia sul palmo di costa in cui l’onda li aveva gettati. Per fortuna il soccorso venne; e fu un consiglio. «Corriamo,» suggerì una voce, «corriamo:» assentirono tutti. E quei quattordici naufraghi, ignudi e tremanti, raccolto l’estremo delle loro forze si diedero a correre macchinalmente sulla sabbia della riva fin che ebbero lena. Fu la loro salvezza. Al tornar del calore tornava la vita, almeno quel tanto di vita che era loro necessario per potersi trascinare alla prima casa abitata, dove pervennero infatti e trovarono ogni maniera d’ospitali conforti. XII. Ma ben altre prove lo aspettavano. Quel generale Canavarro che doveva operare per terra, accolto come liberatore dagli abitanti della città di Laguna, ed ivi piantato il governo repubblicano, di cui fu eletto segretario il Rossetti, s’apparecchiò a marciare avanti ed a riprendere anche sul mare le ostilità. Di queste affidò la piena balía a Garibaldi, ammiraglio nato di quelle guerre, il quale, raccolta nelle acque della laguna[45] un’altra flottiglia, ossia due golette, una col nome storico di _Rio Pardo_ da lui comandata, l’altra con quello di _Cassapara_ comandata dal Griggs, e il vecchio _Seival_ sotto il governo dell’italiano Lorenzo, si slanciò una notte, malgrado la crociera imperiale, nell’Oceano. Da principio le sorti della piccola flottiglia repubblicana corsero prospere: all’altezza dell’isola di Santos sfuggì alla caccia d’una corvetta imperiale, presso all’isola di Abrigo catturò due _sumaques_ brasiliane cariche di riso ed un’altra più tardi. Ma alcuni giorni dopo, perduta in una oscura notte di tempesta la _Cassapara_, ridotta la squadriglia ai soli _Rio Pardo_ e _Seival_ e affrontata all’altezza di Santa Caterina da un grosso _patacco_ brasiliano, sostenne bensì per alcun tempo il combattimento, ma una cannonata nemica avendo smontato un pezzo del _Seival_ e forata la sua chiglia, per giunta le _sumaques_ impaurite avendo ammainata la bandiera, Garibaldi fu costretto a cercar rifugio nel porto di Imbituba. Colà un vento avverso di mezzoggiorno lo teneva quasi prigioniero, e allora la squadra brasiliana, forte di tre grossi bastimenti, prese ella l’offensiva. Inutile dire che il nostro capitano s’apparecchiò a riceverla da par suo. Collocò il cannone smontato dal _Seival_ dietro una batteria gabbionata, sopra il promontorio che proteggeva la baia dalla parte di levante; imbossò il _Rio Pardo_ traverso il porto e attese l’attacco. Le bordate degl’Imperiali erano spesse e terribili, i cannonieri dei Repubblicani si studiavano a compensare la poca forza dei loro pezzi colla giustezza dei tiri e coll’intrepidezza; ma, come accade sempre nei combattimenti disuguali, ogni perdita che facevano gli assaliti era rovinosa e decisiva; le perdite degli assalitori, per quanto grandi, quasi insensibili. Oramai il _Rio Pardo_ era stremato; la sua coperta era ingombra di cadaveri; i suoi fianchi, la sua alberatura, laceri e mutilati. Solo il pezzo della batteria di terra continuava la difesa e teneva in rispetto il nemico. Da un istante all’altro Garibaldi s’attendeva l’arrembaggio ed in cuor suo quasi lo pregustava. Ma a un certo punto, che è, che non è, i colpi dal mare diradano, il fuoco va via via cessando, la squadra nemica si ritira. Fu detto che la cagione dell’improvvida ritirata fosse la morte del comandante di uno dei legni brasiliani, ma nessuno l’accertò. Garibaldi restò una volta ancora con forze disuguali, e per il solo ostinato coraggio suo e de’ suoi, padrone del campo; e girato sul far della sera il vento, potè la notte medesima, tardi scoperto e invano inseguito, rientrare sicuro e vittorioso nella laguna di Santa Caterina. XIII. I vincitori di Imbituba non furono soltanto uomini. Fin dal cominciare della zuffa si sarebbe potuto vedere sulla tolda del _Rio Pardo_ una donna, la quale impavida al fuoco, sprezzante la morte, ora soccorrendo i feriti, ora incorando i combattenti, ora sparando ella medesima il suo bravo colpo di carabina, porgeva a tutti un singolare spettacolo d’intrepidezza e di gagliardía virile. Era Anita. Si trattasse d’uno di quegli amori di ventura e di capriccio tanto frequenti al nostro eroe, e dir si potrebbe a tutti gli eroi, o vi scivoleremmo sopra o ne taceremmo affatto. Ma di questa donna che fu la più durevole e fors’anco l’unica passione vera di Garibaldi, la di cui istoria è tanto immedesimata in quella dell’uomo del suo cuore, che molti gesti e trionfi di lui rimarrebbero incompiuti e inesplicabili senza la presenza e partecipazione di lei, e la cui vita fu tutta un romanzo d’amore, di fede e di eroismo, e la morte una tragica catastrofe d’eroico poema; di questa donna, dico, strana forse di costumi, ma ingenua di cuore, volgare di sangue, ma nobilissima d’animo, la storia non potrebbe tacere senza smezzare Garibaldi stesso. Quanto egli fosse sensibile al fáscino potente dell’eterno femminile, lo vedemmo nella capanna del _Capataz_ innanzi alla donna poetessa. E non sarebbe stato eroe altrimenti. Come non si potrebbe concepire Achille senza Briseide, Rolando senza la bella Alda, il Cid senza Chimene e Ruggiero senza Bradamante; così non si concepirebbe Garibaldi senza la donna. Le avventure delle armi traggono seco quelle dell’amore; e il sangue ricco, la salute fiorente, il gusto della vita sciolta e perigliosa che fanno il soldato, fanno l’amante paladino. Bello, giovane, ardente, gagliardo, facilmente amava ed era facilmente amato. Romantico in azione, figlio armato di Byron e di Walter Scott, amare occultamente una vergine violentata da padre crudele, una sposa vittima di marito brutale, consacrarle un eterno amore e portarne seco l’immagine Tra il furor delle tempeste, Fra le stragi del Pirata, strapparla a’ suoi oppressori e rapirla in una notte burrascosa sulla groppa del suo cavallo, farne l’amazzone del suo campo e la sultana della propria nave, era il suo sogno, la sua poesia, la forma ideale con cui egli concepiva l’amore. Così si spiega il romanzo d’Anita; ma si spiega anche come questo romanzo dovesse avere parecchie prefazioni. Poco dopo il suo arrivo sul Camacua, accolto ospitalmente in casa da una delle sorelle del Presidente, v’incontra una Manuella, bellissima vergine, dice lui, ma destinata sposa ad un figlio del Presidente: perciò appunto se ne infiamma fulmineamente; diventa il suo cavaliere, il suo navalestro, il suo tacito amante; gli consacra mentalmente le sue fatiche, le sue prodezze, la sua vita; sogna, sospira, si adorna, si pavoneggia per lei; e quando torna vittorioso dal combattimento del Galpon, e saputo che la fanciulla aveva chiesto tutto il giorno sue nuove, e tremato e impallidito più volte per la sua vita, esclama «che quest’annunzio gli era stato anche più dolce della vittoria;» e ancora dodici anni dopo, associando nella sua mente i ricordi di Manuella e di Anita, esclamava: «Bellissima figlia del continente, tu destinata donna ad un altro!... A me riserbava la sorte altra brasiliana.... ch’io piango oggi e piangerò tutta la vita.... Dolce madre de’ miei figli, mi conobbe nella sventura, naufrago!... Più che il mio merito, la vincolarono a me le mie sciagure, e me la sacrarono per la vita!» Scampato dal naufragio dell’Atlantico, Garibaldi raggiunse a Laguna il generale Canavarro, a cui gli abitanti stessi rovesciato, al suo avvicinarsi, il governo imperiale, avevano aperte le porte. Anche Garibaldi, quindi, trovata una città amica là dove aveva temuto trovarne una ostile, vi fu ricevuto con ogni maniera di festose accoglienze e onorato immediatamente del comando della goletta _Itaparika_, forte di sette cannoni. Era però mesto e abbattuto. La perdita di tanti cari compagni, specialmente del Carniglia e del Mutru, l’aveva piombato in una profonda tristezza. Si sentiva solo sulla terra: un vuoto immenso pesava sul suo cuore: la vita gli pareva insopportabile. Fu allora che gli balenò alla mente per la prima volta l’idea del matrimonio. Fino a quel giorno la vita coniugale gli era parsa tanto disadatta e contraria all’esistenza nomade e avventuriera toccatagli in sorte, che l’aveva riguardata sempre come un evento impossibile; ma dopo il naufragio dei lancioni la corrente de’ suoi pensieri mutò: sentiva il bisogno di surrogare in qualche modo gli amici perduti, di trovare un’anima fedele ed amante che dividesse con lui le battaglie del destino e gli rendesse men dura la solitudine dell’esiglio. Aveva il Rossetti, è vero, amato da lui come un fratello; ma il Rossetti per i doveri del suo ufficio era costretto a stargli lontano e tornavano rarissime le occasioni in cui potesse vederlo. Oltre a ciò, l’amicizia d’un uomo, per quanto forte, non gli bastava più; era il cuore d’una donna che gli abbisognava, d’una donna tutta, soltanto, indissolubilmente sua: e quando la trovò, se la prese. Una sera se ne stava con questi pensieri contemplando dal suo bordo la riva, quando notò sul molo vicino un gruppo di donne e di fanciulle. In sulle prime le loro figure passavano e ripassavano in confuso innanzi a’ suoi occhi; poi a poco a poco il suo sguardo, forse il suo cuore, ne fissò una e s’arrestò a contemplarla. Era una giovane nella pienezza dell’età e della forza, dotata di una irregolare, ma virile bellezza: l’ideale femminile che Garibaldi cercava. Però prima d’averle parlato e d’averla udita parlare, per il solo effetto di quella invisibile e magica scintilla donde è sempre nato l’amore, il Nizzardo l’amò. Ed ella pure doveva aver notata la bionda e leonina testa del marinaio straniero che da giorni la spiava: ella pure aveva sentito il fáscino di quello sguardo e il tocco di quella scintilla, e dato nel suo segreto il cuore a colui che gli offriva il suo. Però un’altra sera Garibaldi non si contenne più; formò il suo disegno, scese a terra e s’avviò difilato verso la casa della giovane. Il suo cuore batteva violentemente, ma chiudeva una risoluzione incrollabile. Sulla soglia incontrò un uomo, il quale forse per la conoscenza che aveva fatto del prode Italiano, forse obbedendo alle costumanze di quel paese, lo invitò ad entrare ed a prendere con lui una tazza di caffè. Garibaldi, dice egli stesso, «sarebbe entrato anche senz’essere invitato.» L’invito gli agevolò la parte che s’era proposta. Appena in casa, colto il momento propizio, s’avvicinò alla giovane e le susurrò, calmo e formidabile insieme: «Fanciulla, tu sarai mia.» Ella non rispose che un cenno, ma conteneva un patto d’amore infrangibile. Egli tornò, non visto, alcune sere dopo, la prese, più che non la rapì, sotto il suo braccio, la fece salire, come a talamo inviolabile, il bordo del suo Rio Pardo, la pose sotto la tutela formidabile de’ suoi cannoni e de’ suoi marinai, e in faccia al cielo e al mare la giurò sua sposa. Ella si chiamava Anita Riberas ed era nativa di Merinos, villaggio di quel medesimo distretto di Laguna. L’uomo che Garibaldi incontrò sulla soglia era suo padre, e chi lo disse suo marito errò. Anita era bensì fidanzata per volere del padre ad un uomo che non amava; ma non era, come fu creduto, maritata. Cedendo al fato d’amore, lacerò il cuore del padre, non ruppe fede ad alcun altro uomo. «Se vi fu colpa (esclama Garibaldi) fu tutta mia. Se l’anima d’un innocente ha patito, io solo devo risponderne, e ne ho risposto. Ella è morta e suo padre è vendicato. Là presso le bocche dell’Eridano, il giorno in cui sperando disputarla alla morte, serrai convulsamente i suoi polsi per contarne gli ultimi battiti; raccoglieva sulle mie labbra il suo respiro fuggitivo; stringeva un cadavere. In quel giorno conobbi tutta la grandezza del mio fallo.[46]» XIV. Quando Garibaldi rientrò a Laguna, le cose dei Repubblicani cominciavano a volgere alla peggio. I Riograndesi non avevano saputo cattivarsi l’affetto della provincia sorella. Il regime violento e dispotico del generale Canavarro; il contegno duro ed oltraggioso de’ suoi luogotenenti; i maltrattamenti, le vessazioni, le rapine delle sue soldatesche, avevano seminato in poco tempo nell’animo dei Sancaterinesi cagioni di malcontento da mutare il primo loro entusiasmo per la causa repubblicana in aperta avversione; anzi la piccola città d’Imeruy, posta sul lago dello stesso nome, aveva dato per la prima il segnale della rivolta, e, scagliatasi in armi contro il piccolo presidio, risollevate le insegne dell’Impero. E ciò mentre l’esercito imperiale, rinforzato di nuove truppe, marciava in più colonne, grosso e agguerrito, contro la capitale della provincia, e secondato dalla squadra sempre signora della costa, quindi degli sbocchi del lago, investiva di fronte e di fianco il debole esercito repubblicano, e minacciava di troncargli ogni scampo. In tali frangenti il generale Canavarro, pensando di soffocar prima nel sangue la nascente ribellione, ordinava a Garibaldi di riprendere a viva forza Imeruy e di abbandonarla al saccheggio. Nulla poteva riuscire più repugnante all’indole ed all’animo di lui che quest’ordine selvaggio; ma l’ordine era perentorio; egli era soldato e doveva obbedire. Lo eseguì però con tutta la mitezza e, staremmo per dire, la pietà di cui era capace. Impadronitosi, con una rapida manovra, della città, spese tutto sè stesso per rendere meno terribile il flagello che la minacciava. Permise il sacco delle cose, vietò rigorosamente l’offesa alle persone; e quantunque simili divieti sia più facile darli che farli eseguire, e frenare una soldatesca sguinzagliata, ebbra di rapine e di vino, tocchi quasi il miracolo, pure Garibaldi vi riuscì. Correndo di gruppo in gruppo e quasi di casa in casa, usando cogli uni le minaccie, cogli altri le preghiere, con alcuni anche le percosse, immaginando persino lo stratagemma di un ritorno improvviso del nemico, dopo sforzi incredibili di energia e di pazienza ottenne ancora non solo di far rispettare, quanto alle persone, il suo ordine, ma di rendere assai men grave anche la devastazione delle cose e di ricondurre quel branco di belve umane, sozze, è vero, di vino e di furto, ma tuttavia monde di sangue innocente, a Laguna. Però di quel giorno e di quel fatto serbò la ricordanza amara finchè visse. E benchè egli abbia combattuto in luoghi e in tempi in cui il saccheggio era ancora arma lecita di guerra, nè egli nè i suoi soldati si bruttarono più di simile macchia. Ma a Laguna trovò ciò che il suo cuore da tempo gli presagiva: gl’Imperiali incalzanti, i Repubblicani che facevano i primi apparecchi della ritirata. E la ritirata cominciò ben presto lenta, contrastata, minacciosa, gloriosa anche, ma senza tregua e senza speranza di ritorno. Non posizione o passo militare che i Repubblicani non difendessero con ardimento, o stratagemma che lasciassero intentato; non palmo di terra che valorosamente e spesso disperatamente non contrastassero. Ma incalzati per acqua e per terra da forze soverchianti; attorniati da popolazioni indifferenti od ostili; guidati da capitani più valorosi che esperti e sotto il comando di quel Bento Gonçales che Garibaldi stesso continua a chiamar sfortunato, forse per non dirlo incapace, i Repubblicani non videro più un sol giorno di completa vittoria. Perduta Laguna, protrassero ancora nei distretti alpestri e selvosi di Lages e Vaccaria la resistenza; ma scacciati anche da quelle alture, tentata invano la presa di San Josè del Norte, cittadella sulla riva settentrionale del Los Patos in mano degl’Imperiali, e che doveva dar loro la base d’operazione, circuiti, traccheggiati, decimati dalle morti e dalle diserzioni, andavano dispersi su nelle serre di Missiones e di Cruz-Alta, dove restò sepolto coll’ultimo avanzo del loro esercito il breve sogno della loro repubblica. Quanta parte avesse Garibaldi in quella campagna, è facile indovinarlo. Primo, se non al comando, al pericolo; ultimo solo nelle ritirate; accettando o scegliendo in ogni combattimento la parte più rischiosa; passando nel giorno stesso dall’acqua alla terra, dal governo di una flottiglia al comando di uno squadrone o di un battaglione; ricco di coraggio e fecondo di stratagemmi; a tempo arditissimo, a tempo prudente, egli fu l’anima di quella ritirata d’oltre dieci mesi; e a quanto appare dalle sue _Memorie_, meglio che il braccio ed il cuore, l’unica mente che intuisse e ragionasse. Fin dal primo giorno della ritirata, incaricato di fronteggiare sulla laguna stessa di Santa Caterina la flottiglia nemica e di proteggere il passaggio dell’esercito repubblicano sulla sponda meridionale, resiste un giorno intero con tre bastimenti contro una squadra di ventidue vele fiancheggiata di truppe di terra. Anita stessa ritta al suo fianco colla miccia al cannone, impavida sotto la mitraglia, dà a tutti l’esempio del valore che non conta i nemici; e quando tutti i suoi pezzi sono smontati e i suoi legni fracassati e le coperte seminate di morenti e di morti, fra i quali orrendamente mutilato il prode John Griggs, manda a terra, sotto il comando d’Anita stessa, le armi, le munizioni e gli uomini superstiti; appicca il fuoco egli medesimo ai suoi bastimenti e si salva sopra un canotto alla riva. Un’altra volta a Coritibani sulle rive del Pelotas, sorpresa e sgominata la colonna colla quale egli marciava, difende con settantatrè uomini contro cinquecento eccellenti cavalieri la ritirata, e sfilato il grosso della colonna si ritira egli stesso traverso le fitte foreste del Lages, combattendo due giorni e due notti, incolume, invitto. Al combattimento di Santa Vittoria decide della giornata; alla fazione del Taquary guida il nerbo dell’infanteria; nota da provetto capitano i falli «dell’eroico, ma sfortunato Gonçales» e tenta invano di ripararli; in fine all’assedio di San Josè del Norte monta tra i primi all’assalto, s’impadronisce, in men che non si dica, di tutti i forti, e ne sarebbe anche rimasto padrone, se l’indisciplinatezza dei soldati sbandatisi a sbevazzare e a bottinare, lo scoppio d’una polveriera e il sopravvenire della squadra nemica che dal lago infilava e spazzava le vie, non l’avessero costretto a battere in ritirata. Fu quello però l’ultimo importante combattimento di quella campagna a cui Garibaldi partecipò. Dopo l’infelice esito di San Josè, Garibaldi, nominato di nuovo capitano della marina repubblicana, si fermò presso una fattoria detta San Simon, coll’intento di costruirvi alcune di quelle barche fatte d’un sol fusto d’albero, e che colà chiamano _canoe_, colle quali tentare di poter riprendere il lago, su cui aveva fatto le sue prime prove, e molestarvi i nemici. Se non che la costruzione di codeste _canoe_ essendogli andata fallita, e i pascoli di San Simon essendo ricchi di poledri, pensò bene farne una distribuzione, a dir vero un po’ socialista, ai suoi compagni, e dove non aveva potuto comporre una flottiglia di barche, organizzare almeno uno squadrone di cavalli. Ma in mezzo a questi avvenimenti e a queste cure, un avvenimento e una cura più importante vennero ad occuparlo e ad assorbirlo. Anita incinta, forse dal giorno del combattimento di Santa Vittoria, dopo aver portata a cavallo la sua creatura per nove mesi, traverso tutti i pericoli, le privazioni, gli stenti, le fughe di quella campagna disastrosa, il 16 settembre 1840 partorì a Mustarda presso San Simon il suo primogenito. Era un maschio fiorente e gagliardo, a cui il padre, sostituendo (io credo per il primo) ai consueti santi della Chiesa, un martire della patria, impose il nome di Menotti; e sulla cui fronte una piccola cicatrice, riportata per una caduta da cavallo della madre, sigillava lo stigma della sua origine tempestosa. Ma Garibaldi aveva appena cominciato ad assaporare le gioie di padre, che uno dei tanti accidenti onde componevasi la sua vicenda quotidiana, venne a mettere a serio pericolo tanto la sua, quanto la vita di sua moglie e di suo figlio, minacciando distruggere in un colpo solo il nido della sua felicità. Essendosi egli recato a Settembrina, villaggio distante da San Simon alcune giornate di cammino, per provvedersi di biancheria e di vesti per sua moglie e suo figlio ridotti quasi ignudi, e avendo occupato nel viaggio, attraverso un paese maremmano e paludoso, maggior tempo di quello che aveva pensato, al suo ritorno alla fattoria non trovò più nè Anita, nè Menotti, nè alcuno. Quali si fossero la sorpresa, l’affanno, qui potremmo dire anche lo spavento di Garibaldi, l’immaginerà chi ha cuore. Non tardò, è vero, a scoprire tosto la cagione della scomparsa de’ suoi cari e l’asilo in cui si erano rifugiati; ma finchè non li ebbe riveduti ed abbracciati non ebbe pace. Ecco pertanto come il caso era succeduto. Quello stesso colonnello Moringue che l’aveva sorpreso al Galpon di Chargucada, riportando, perenne ricordo del guerrigliero italiano, un braccio fracassato, campeggiava sempre nei dintorni di Los Patos, e appunto in quei giorni era piombato addosso, con astuzia più felice, ad un posto di cavalleggieri repubblicani comandati da un certo Massimo, e facilmente massacrati i soldati e il capitano, s’era spinto con una forte colonna di cavalli nei dintorni di San Simon, spargendo il terrore in tutta la contrada. Ora i quaranta uomini lasciati da Garibaldi a presidio della fattoria, erano troppo scarsi di numero per resistere ad un nemico tanto più forte, e lontano il solo capo che poteva guidarli alla disperata difesa, stimarono non restasse loro altro scampo che fuggire e inselvarsi nelle foreste vicine fino al dileguarsi del nembo. E naturalmente anco Anita dovette fuggire con loro. Ecco dunque la novella madre, puerpera appena da dodici giorni, costretta a balzar in groppa al cavallo e in una notte tempestosa, coperta della semplice camicia, col suo figliuolo traverso la sella, gettarsi alla ventura per macchie e burroni, esposta ad ogni guisa di stenti e di pericoli, noncurante di sè, ma trepida della vita del caro suo portato, tremante anche per la sorte di suo marito che forse correva rischio peggiore. Fortuna volle invece che Garibaldi la scoprisse, con tutta la sua scorta, al margine di un bosco, e che tutta la famiglia di San Simon, un istante dispersa, potesse ricongiungersi incolume nell’asilo da poco abbandonato. Non vi potè per altro dimorare a lungo; chè Garibaldi, non sapremmo dire se per ordine della Repubblica o di volontà sua, attirato sempre dall’idea di armar in guerra le sue canoe, che gli rappresentavano in embrione un simulacro di flotta, s’era trapiantato sulla riva del Capivari, quel fiume, emissario del Los Patos, sul quale aveva eseguito il famoso trasbordo dei lancioni; e colà si era dato, forse in attesa di meglio, a trasportar gente e corrispondenze dalla riva orientale del lago all’occidentale; operazione che, fatta sotto il tiro delle squadre imperiali, sempre signoreggianti le acque della laguna, non doveva essere priva nemmeno essa di emozioni e di pericoli. XV. Intanto però le cose della Repubblica precipitavano a rovina. Fallito l’assalto di San Josè e costretti a levarne l’assedio; divelti perciò da ogni base d’operazione; stremati, più ancora che dalle sconfitte, dalle defezioni, dalle discordie, dalle malattie; stretti sempre più nella cerchia di ferro dagli eserciti imperiali, dei quali per colmo d’improvvida alterezza avevano rifiutati i non disonorevoli patti, ai Repubblicani non restava più ormai altro scampo che ritirarsi senza frammettere indugio nei distretti montuosi e silvestri del centro e del settentrione, in mezzo ai quali, se non ristaurar le sorti e riafferrare la vittoria, era almeno possibile prolungare l’agonia e differire la catastrofe. Concentrati tutti i piccoli distaccamenti sparsi nei dintorni, la ritirata cominciò. Era l’inverno del 1841. Il generale Canavarro, al quale era andato a riunirsi anche Garibaldi, doveva formar la testa della colonna e aprire la marcia, forzando innanzi a sè i passi delle Serre che il generale dell’impero Labattue (francese d’origine) minacciava sbarrargli; il generale Bento Gonçales doveva chiudere la colonna guardandone, quanto era possibile, i fianchi e le spalle. Fin però dalle prime mosse l’esercito rivoluzionario e più ancora il cuore di Garibaldi erano stati funestati da dolorosissimo lutto. Il Rossetti, che marciava colla guarnigione di Settembrina all’estrema retroguardia, sorpreso dall’infaticabile Moringue, ferito e caduto da cavallo, avendo preferito alla resa la morte, era stato brutalmente trucidato. La perdita era per la causa repubblicana gravissima, ma per Garibaldi irreparabile; con il Rossetti spirava il fratello del suo cuore, colui che nella gerarchia de’ suoi amici teneva il primo posto. Però il suo dolore fu pari al suo amore e il compianto di Patroclo degno d’Achille. Pure una cosa è tuttavia notabile, come nella passionata elegia che egli consacrò alla memoria dell’estinto amico l’immagine che più campeggia sia ancora l’Italia. Più che il prediletto de’ suoi amici, diresti ch’egli pianga il forte cittadino, e ch’egli non senta la propria sventura se non nella grandezza della sventura toccata all’Italia: tanto vero che in codesti uomini fatali gli affetti individuali, per quanto grandi, vengon sempre secondi, e che essi non amano davvero se non l’indipendenza per cui vivono e combattono. La ritirata intanto intrapresa nel più rigido inverno, sotto pioggie continue, traverso laberinti senza sole e senza orme di sterminate foreste, fu una delle più disastrose che Garibaldi abbia mai veduto. E poichè egli ne fu insieme testimonio e narratore, e la pittura ch’egli ne fa, malgrado la rozzezza del pennello e il disordine della composizione, o forse appunto per questo, ci appare piena di verità e di vita, così la lasceremo narrare a lui stesso: «Noi conducevamo per tutta provvista alcune vacche al laccio, non trovandosi animali negli ardui sentieri che dovevamo percorrere. Per le pioggie quasi perenni in quelle montagne, gonfi oltremodo erano i fiumi, e molti bagagli si perdevano, trasportati dalla corrente nel passaggio. Marciavasi con pioggia e senza alimenti; accampavasi senza alimenti e con pioggia. Tra un fiume e l’altro coloro che rimasti erano colle vacche ebbero carne, gli altri nulla. La fanteria specialmente pativa, mancandole pure il miserando pasto della carne di cavallo. Furonvi scene da inorridire. Molte donne, secondo l’uso del paese, seguivano la truppa, e con esse i bambini. Pochi bambini uscirono dalla foresta. Alcuni erano stati raccolti da’ cavalieri, che pochi tra i fortunati avevano potuto salvare il cavallo e con esso una creatura abbandonata dalla madre, morta o morente di fame, di fatica, di freddo. Anita abbrividiva all’idea di perdere il nostro Menotti, che salvammo per un miracolo. Nel più arduo della strada e nel passo de’ fiumi io portava il mio povero figlio di tre mesi in un fazzoletto a tracolla, procurando di riscaldarlo coll’alito. D’una dozzina d’animali tra cavalli e muli, che servivano per cavalcatura e pel mio equipaggio, e che con noi erano entrati nella selva, con due soli cavalli ero rimasto e due muli; il resto era caduto per stanchezza. Le guide per colmo di sciagura avevano sbagliato la strada, e questo fu uno dei motivi per cui più difficilmente varcammo quella terribile foresta delle Antas.[47] Siccome si procedeva avanti senza trovar mai il fine di quella maledetta piccada,[48] io rimasi nella selva coi due muli pure stanchi, coll’intenzione di salvarli facendoli avanzare a poco a poco ed alimentandoli con foglie di taquara.[49] Mandai Anita con un domestico e col bambino, perchè cercassero l’uscita del bosco ed alimento per ambi. I due cavalli che ci rimanevano, cavalcati alternativamente dalla coraggiosa, salvaronmi il tutto. Essa giunse fuori della _piccada_, e per fortuna trovò alcuni de’ miei soldati con un fuoco acceso, cosa non facile per la pioggia continua e per la povera condizione a cui eravamo ridotti. »I miei compagni, a cui era riuscito asciugare alcuni de’ cenciosi loro panni, presero il bambino, l’involsero, lo riscaldarono e lo tornarono in vita, quando la povera madre già poco ne sperava. Con amorevole sollecitudine si diedero que’ buoni militi a cercare pure dell’alimento, con cui ambedue si riconfortarono. Io faticai invano per salvare i due animali, e terminai per abbandonarli spossati, e già molto deteriorato io stesso, varcai il resto della selva a piedi. Al nono giorno della nostra entrata nella _piccada_ appena trovavasi fuori la coda della nostra divisione, e pochissimi cavalli d’ufficiali eransi potuti salvare. Il nemico, che ci aveva preceduti fuggendo, aveva lasciato nella stessa foresta delle Antas alcuni pezzi d’artiglieria, di cui non ci occupammo per mancanza di mezzi di trasporto, e rimasero perciò sepolti in quelle spelonche chi sa per quanto tempo. I temporali sembravano stanziati in quella selva, poichè usciti ne’ campi dell’altopiano, Cima di Serra o Vaccaria, vi trovammo il buon tempo. Il tempo buono ed alcuni animali bovini, trovati in que’ dintorni, ci fecero alquanto dimenticare le fatiche passate. Nel dipartimento di Vaccaria permanemmo alcuni giorni per aspettare la divisione di Bento Gonçales, che vi giungeva frazionata ed assai malconcia. L’infaticabile Moringue, informato della ritirata nostra, erasi messo ad inseguire la retroguardia di quella divisione, incomodandola in ogni modo, coadiuvato dai montanari, sempre accanitamente ostili ai Repubblicani. Tutto ciò diede a Labattue il tempo sufficiente per ritirarsi e congiungersi all’esercito imperiale. Giunsevi però quasi senza gente per gli stessi inconvenienti incontrati da noi. Ebbe di più il nemico uno di quelli straordinari accidenti, che racconto per la strana sua natura. Dovendo Labattue attraversare sul suo cammino i due boschi, conosciuti col nome di Mattos[50] Portoghese e Castillano, trovavansi in quelli alcune delle tribù indigene, delle più selvagge che si conoscano nel Brasile. Esse, sapendo del passaggio degl’Imperiali, li assalirono in varie imboscate, e li danneggiarono non poco. »Ci fecero queste sapere in seguito che erano amiche ai Repubblicani, e veramente non c’incomodarono affatto al passaggio nostro. Vedemmo passando i _foges_[51] ma nessuno coperto. In quei medesimi giorni comparì fuori della foresta una donna, rubata nella sua giovinezza dai selvaggi, e che in quell’occasione approfittò della vicinanza nostra per salvarsi: era questa poverina nel più deplorabile stato. Intanto, non avendo più nemici da fuggire, nè da perseguire in quelle alte regioni, procedemmo nella nostra marcia con lentezza, mancanti quasi totalmente di cavalli, ed obbligati a domar puledri cammin facendo. Il corpo de’ lancieri liberti, rimasto smontato per intiero, fu obbligato di rifarsi con puledri. Era bel vedere allora, quasi ogni giorno, una moltitudine di quei giovani e robusti negri, domatori tutti esperti, arrampicarsi sul dorso di selvaggi corsieri e tempestare per la campagna, e il bruto fare ogni sforzo per isvincolarsi e gettar lontano il carco di un tiranno, e l’uomo, ammirabile di destrezza, di forza, di coraggio, ingambarsi siccome tanaglia, battere, spingere, e stancare alfine il superbo figlio del deserto. In quella parte dell’America il puledro, giunto appena dal campo, s’inlaccia, s’insella, s’imbriglia, e lo cavalca il domatore. In pochi giorni è capace di ricevere il morso. I più renitenti riescono buoni cavalli come qualunque altro in poco tempo, salvo poche eccezioni. Ma difficilmente riescono ben domati dai soldati, massime nelle marce, ove non si può avere comodo nè cura per ben domarli. »Passati i Mattos Portoghese e Castillano, scendemmo nella provincia di Missione, dirigendoci sopra Cruz-Alta, capoluogo di quella piccola città su d’un altopiano, ben costrutta ed in bella posizione, siccome bella è tutta quella parte dello Stato di Rio Grande. Da Cruz-Alita marciammo a San Gabriel, ove si stabilì il quartier generale, e si costrussero baracconi per accampare l’esercito. »Sei anni d’una vita di disagi[52] e di avventure non mi avevano sgomentato quando ero solo; ma l’avere una famigliuola, l’essere così lontano da tutte le mie relazioni antiche e da’ parenti, di cui non sapevo nulla da anni, mi fecero nascere il desiderio di avvicinarmi ad un punto onde sapere alcuna cosa, massime de’ genitori, il cui affetto avevo potuto dimenticare un momento, ma che vivamente pur sempre esisteva nell’anima mia. Poi nulla sapevo dell’Italia! Poi abbisognava migliorare la condizione della mia cara e del bambino. Mi decisi adunque di passare a Montevideo, almeno temporariamente, e ne chiesi il permesso al Presidente, come pure di fare una piccola truppa di buoi per le spese.» Ed eccolo così _truppiere_ o conduttore di buoi. Ottenuto facilmente dal Ministro della guerra di fare una razzía di quanto bestiame selvatico gli cadesse nelle mani (poichè siamo in paese, dove la proprietà dell’animale errante è di chi lo toglie), gli vien fatto di radunarne all’_estancia_ del Coral de Pedras novecento capi, e con questa enorme mandria s’incammina, scendendo il corso dell’Uruguay, per Montevideo. Ma nel traversare il Rio Negro comincia a perdere una gran quantità di buoi; poi un’altra buona parte gliela frodano i _Capataz_, sicchè fatta la rassegna s’avvede che non gliene restano più di cinquecento; onde minacciato dalla probabilità di perdere anche il rimanente, si decide a macellarli per venderne le cuoia: magro negozio pur quello, poichè non arrivò ad intascare che un centinaio di scudi, appena bastevoli alle necessità del lungo viaggio. A San Gabriele però ha una felice ventura; incontrato Francesco Anzani, di cui più volte gli era suonato all’orecchio il nome, come d’uno dei più valorosi Italiani che abitassero l’America, si esalta al racconto delle sue avventure; ammira la nobiltà del suo animo, si innamora del suo carattere, e gli fa nel suo cuore il posto che il Rossetti aveva occupato. L’Anzani dal canto suo si compiace di quel giovane bello, prode, entusiasta, e ne presentisce l’alto destino; i due eroi poco prima estranei, sono in un’ora amici: continuano il viaggio assieme; assieme dividono il pane, il letto, le vesti: l’Anzani ha una camicia sola, ma due paia di pantaloni; Garibaldi invece un sol pantalone in cenci e due camicie, e barattano a vicenda la camicia ed il pantalone superflui. Al Salto dell’Uruguay però sono costretti a dividersi, ma per riunirsi fra breve. Garibaldi continua il viaggio e al cominciare del 1842 rientra con Anita in Montevideo, dove il mutato governo gli sta garante d’un asilo sicuro, e in breve gli si aprirà un campo più vasto di nuovi cimenti e di nuove glorie. CAPITOLO TERZO. DA MONTEVIDEO AL RITORNO IN ITALIA. [1842-1848.] I. Quando Garibaldi entrò a Montevideo, la guerra tra l’Uruguay e la Repubblica Argentina, o per dir più esattamente, tra il partito del presidente Ribera, rappresentante dell’indipendenza orientale, e il partito del generale Oribe, emissario del dispotismo del Rosas, ardeva da circa tre anni. Ora per intendere e le cagioni di siffatta guerra, e i moventi delle fazioni che la combattevano, e la parte che il nostro protagonista vi prese, importa risalire un po’ lontano e ripercorrere rapidamente la storia dei due paesi. La quale, appena la si consideri idealmente, può dirsi la storia del fiume materno, che li divide e li unisce ad un tempo, d’onde tolsero insieme al Paraguay il nome generico di Stati della Plata, e col quale sono da oltre tre secoli conosciuti nel mondo. Vasti frammenti di quell’India occidentale, nelle cui profondità si perde forse una delle culle del genere umano, l’epopea della loro scoperta e della loro conquista è forse meno leggendaria e meno portentosa di quella di tante altre contrade d’America, ma non meno interessante ed istruttiva. Svelati all’Europa nel 1515 dallo spagnuolo Juan Diaz de Solis, il primo che scoprisse l’estuario della Plata e vi penetrasse; riesplorati quattro anni dopo da Fernando Magellano, quel desso che, udito esclamare da uno de’ suoi marinai in vedetta, _Monte-vid’-eu_, diede il nome di _Montevideo_ al promontorio su cui sorgerà un giorno la capitale dell’Uruguay; visitati di nuovo nel 1526, per mandato della Spagna, da Sebastiano Caboto, che rimontando la Plata fino al Paraguay vi pianterà la prima pietra del forte di San Salvador; occupati più tardi, in nome di Carlo V, dal primo governatore Don Pedro de Mendoza, che vi getterà nel 1535 le fondamenta di _Santa Maria di Buenos-Ayres_; strappati infine via via ed a prezzo del sangue più generoso alle cento tribù indiane che ne contrastano con fiera costanza il possesso, gli Stati della Plata vanno ad accrescere il patrimonio di quei possedimenti spagnuoli in America che la monarchia di Carlo V dovette, assai più che a sè stessa, all’ardimento della più eroica generazione di navigatori che il mondo abbia prodotta e in capo alla quale grandeggia il fatidico spirito del nostro Colombo! Narrare le vicende della dominazione spagnuola negli Stati della Plata, non è del nostro assunto; essa fu come al Perù, come al Messico, come dovunque tanto benefica nei risultati (poichè ogni passo in avanti del colono europeo era pur sempre una vittoria della civiltà sulla barbarie), quanto improvvida, insensata spesso brutale nei mezzi. Accesa febbrilmente dalla sete dell’oro e dell’argento, la Spagna non vidde nella sua nuova colonia americana che un immenso campo da sfruttare, e, per usare la frase d’uno Spagnuolo, «simile al re Mida verrà un giorno, nel quale il metallo prezioso, di cui era stato tanto ingordo, le si muterà in arida pietra fra le mani.» Che se questa sentenza non s’attaglia a tutto rigore alle colonie della Plata, dove altri prodotti, oltre a quelli dell’oro e dell’argento, potevano allettare l’avidità dei conquistatori, tuttavia il regime da essi adottato, specialmente rispetto all’agricoltura, al commercio ed alla navigazione, sortì anche colà il medesimo effetto: spolpare, dissanguare il suolo a solo profitto del presente senza cura alcuna dell’avvenire. Irritando la natía selvatichezza delle popolazioni indiane con inutili crudeltà e stolte rappresaglie; abbandonando in balía di governatori rapaci e di capitani brutali così i frutti della terra come la libertà e la vita de’ suoi abitanti; chiudendo i porti ad ogni navigazione forestiera, vietando l’esportazione d’ogni prodotto fuorchè per la Spagna, ed applicando ad ogni sorgente della vita economica le più esose e viete proibizioni; dividendo per insana arte di regno le molteplici razze del territorio, ed alimentando così un perpetuo focolare d’odii privati e di guerre civili; finalmente, supremo errore, abbandonando alla Compagnia di Gesù non solo l’apostolato morale e religioso delle popolazioni, ma la proprietà di vaste ricchezze, quindi l’uso e l’abuso d’uno sterminato potere; la Spagna preparò a sè stessa l’immancabile giorno, in cui sarebbe stato incerto se le colonie sentissero più il peso della madre patria o questa l’impedimento, la minaccia e il danno di quelle. Ma già lo dicemmo: prima che finisca il secolo XVII, la Spagna doveva incontrare anche sulle rive orientali della Plata quell’intraprendente vicino e ardito rivale che da oltre cent’anni scontrava su tutti i mari del mondo, e dividere con esso la gran preda dell’America meridionale: il Portogallo. Il maggior difetto del Brasile fu sempre la incertezza dei confini. Naturale però che i Portoghesi, già padroni di Rio Grande e delle sorgenti dell’Uruguay, tentassero di spingersi fino alle sponde di quell’immenso fiume, il quale, oltre all’essere il più certo e stabile confine ch’essi potessero desiderare alla loro sterminata colonia, metteva nelle loro mani una delle più grandi vie fluviali del Nuovo Mondo. Ma naturale altresì che gli Spagnuoli contrastassero con ogni lor possa un tanto acquisto, e che i due fratelli latini si trovassero di fronte colle armi in pugno sulla penisola americana, come pochi anni prima s’erano trovati sulla iberica. E fu lotta quasi centenne, cominciata il 1680 dai Portoghesi colla fondazione, sul margine stesso della Plata, della Colonia del Sacramento; finita soltanto nel 1777 per il trattato di Sant’Idelfonso. Ogni guerra, ogni avvenimento europeo, in cui per l’uno o per l’altro motivo, a lato o di fronte, fossero involti la Spagna e il Portogallo, aveva il suo contraccolpo sulle sponde della Plata. Ripresa Colonia del Sacramento dagli Spagnuoli, il Portogallo s’accampa, nella guerra di successione di Spagna, contro di essa, ed il trattato di Utrecht gli restituisce Colonia; Ferdinando VI sposa una infante di Portogallo, e questi guadagna, per il trattato del 1750, tutte le missioni gesuitiche poste lungo il margine orientale dell’Uruguay; scoppia nel 1762 la guerra tra la Spagna e l’Inghilterra, e il Portogallo fa causa comune con questa, ed ecco il Ceballos, governatore di Buenos-Ayres, trarre partito dalle rotte ostilità, riprendere Colonia, invadere Rio Grande e minacciare a sua volta il Brasile. Non si danno vinti per questo i Portoghesi, e veggono ancora per terra e per mare due giorni di vittoria; ma il Ceballos li va ad assalire sull’Oceano fin nel cuore della provincia di Santa Caterina, e impone loro il trattato di Sant’Idelfonso che obbliga il Portogallo a rinunciare a Colonia, e chiude la guerra. Ma che la chiudesse è inesatto; il vero è che la sospese appena. Se non osiamo dire con un Francese, «che il possesso della riva sinistra della Plata è per il Brasile una questione di vita o di morte,[53]» è manifesto però ch’esso ha sempre rappresentato a’ suoi occhi uno dei bisogni più vitali, e delle conquiste più preziose. Chiuso nella cerchia ardente della zona torrida, diseredato del beneficio d’un clima temperato e omogeneo alle razze bianche, padrone delle origini e del corso superiore dei tre fiumi che compongono la Plata, ma escluso dalla signoria del grande estuario per cui sboccano in mare, manchevole di terre idonee alla coltura delle piante alimentari, privo infine a mezzogiorno d’una frontiera precisa, sicura e accessibile insieme, che lo distingua, lo tuteli e lo espanda ad un tempo, è ben naturale che il Brasile abbia fatto dell’acquisto della Banda Orientale platense una delle mète fisse della sua politica, e per dirlo colle parole d’un vicerè di Buenos-Ayres, «il suo punto di mira fin dal secolo XVI;» e le guerre che lo vedremo combattere ancora per questo scopo lo dimostreranno. Il conflitto però per la Banda Orientale non partorì soltanto frutti di sangue e retaggio di rancori, ma fu anche cagione di due fatti importanti per la storia, sebbene diversamente benefici per le colonie platensi: la fondazione di Montevideo per opera del governatore Maurizio Zabala nel 1724,[54] e la istituzione del vicereame di Buenos-Ayres nel 1776. Con Montevideo la Banda Orientale acquistava non solo un porto sicuro, una fortezza munita, la capitale d’un governo distinto; ma l’anima della sua patria nascente, il cuore ed il braccio della sua indipendenza futura. Separando gli Stati della Bolivia, del Paraguay, dell’Argentina e dell’Uruguay, dall’antico vicereame del Perù, e svincolandoli così da un potere lontano, ignaro e noncurante, incorporando quattro territori in un unico Stato quasi autonomo, la Spagna non solo rendeva più facile l’amministrazione, più vigile il governo, più rapido lo sviluppo di quelle sue colonie; ma senza volerlo, senza saperlo, ridestava in esse la coscienza dell’origine e della storia comune, agevolava col più stretto accordo dei loro interessi il più intimo scambio delle loro idee, faceva sentir loro le prime seduzioni d’una vita indipendente e affrettava ella stessa il giorno della loro emancipazione. Ma prima che quel giorno spunti, la Spagna dovrà ancora sostenere un’altra guerra con una delle sue più antiche e formidabili rivali d’Europa, e mettere a prova un’ultima volta la fedeltà e il valore de’ suoi figli d’oltre mare. Sdegnata d’averla vista passare fra gli alleati di Napoleone, nè paga ancora della sanguinosa vendetta di Trafalgar, l’Inghilterra va nel 1806 ad assalire la Spagna nelle sue colonie della Plata. E riesce infatti all’ammiraglio inglese Popham di cogliere per sorpresa Buenos-Ayres; ma l’intrepida Montevideo chiama all’armi tutta la Banda Orientale; improvvisa un corpo di milizie, e affidatone il comando al capitano Liniers (un Francese al servizio della Spagna), lo invia alla riconquista della capitale. La contrasta, con tenacia inglese, il generale Berresford, ma Liniers riesce con furioso assalto ad impadronirsene, e Berresford è costretto a sgombrare. Però ristorati di nuove forze, il naviglio e l’esercito britannico riprendono l’offensiva; pongono l’assedio a Montevideo, e, malgrado la sua eroica resistenza, riescono a penetrarvi; indi si volgono a Buenos-Ayres. Comanda le armi di S. M. britannica l’ammiraglio Whitelocke; difende la città il prode Liniers con 7000 uomini di milizie improvvisate, ma dietro ad essi i cittadini, gli schiavi, le donne, il popolo intero. L’assalto fu tremendo, ma la difesa invincibile. _Cada casa_ era una _fortaleza, cada calle un atrinchieramiento_. Gl’Inglesi ricevuti: _Mitralia en las esquinas de todas las casas, fusileria, granados de mano, ladrillos y piedras tiradas desde los tejados_,[55] lasciano mille cadaveri per la via, e il Whitelocke pesto, decimato, è costretto a sottoscrivere una capitolazione, colla quale si obbligava a sgombrare tutto il territorio ispano-americano, e a reintegrare la piazza di Montevideo nello stato medesimo in cui si trovava nel giorno della sua resa.[56] Ed anco questa guerra non fu senza influenza sugli avvenimenti futuri; riunì le popolazioni della Plata in una lotta a oltranza contro lo straniero, e ne esperimentò il valore e la forza; accrebbe l’importanza di Montevideo, che si meritò il glorioso titolo di _Reconquistadora_; manifestò i primi sintomi della debolezza della Spagna, la quale dovette la salvezza del territorio coloniale più al braccio de’ suoi abitatori che alle proprie armi, e per la prima volta si trovò dirimpetto ad essi piuttosto nella condizione di protetta che di protettrice. II. L’ora pertanto della indipendenza ispano-americana stava per suonare. L’avevano preparata gli errori e gli stessi beneficii della Spagna; la precipitavano le idee del secolo e il turbine medesimo degli avvenimenti che sconvolgevano l’Europa; la rendeva inevitabile e fatale la stessa legge che governa i destini delle colonie, le quali dopo essersi nutrite del latte della madre patria, quando son fatte adulte e gagliarde mordono il seno alla nutrice e le volgono le spalle. Sul finire del 1808, una dietro l’altra giungevano in America queste notizie: che Ferdinando VII, prigioniero in Francia, aveva venduta per una pensione l’avita corona a Napoleone; che questi aveva insediato sul trono di Spagna suo fratello Giuseppe; che una Giunta centrale s’era costituita a Cadice per rivendicare i diritti del legittimo Re; che le Asturie avevano cominciato contro l’invasore una guerra di coltello; che tutta la Spagna era in fiamme ed in iscompiglio. Ora questi avvenimenti gittavano anche le colonie in una specie d’anarchia, ed era ben naturale che, poste tra un sovrano legittimo, ma imbelle e disgraziato, e un principe straniero intruso ed abborrito, e due o tre Giunte rivoluzionarie che si disputavano il governo senza avere nè autorità nè forza per mantenerlo, esse vedessero spuntare da quel caos i primi albóri d’un’èra novella, e coltivassero seriamente da quell’istante il pensiero della loro indipendenza. La commozione pertanto suscitata anche sulla Plata da quelle novelle fu, quale doveva essere, grandissima; tanto più che i due Re contendenti avevano inviato a Buenos-Ayres legati per indurre quei coloni a riconoscere le loro rispettive sovranità; e che il vicerè Liniers, lo stesso che aveva riconquistato Buenos-Ayres, inclinava, memore della stirpe, a favorire le parti francesi, le più abborrite di tutte. Ma quando nei primi giorni del 1810 passò l’Oceano l’annunzio che l’ultimo esercito di Ferdinando VII era stato disfatto sui campi d’Ocaña, e che oramai la Spagna andava ingoiata nella monarchia universale del Cesare francese, trascinando nella medesima voragine le sue colonie, queste non si contennero più e pensarono a provvedere senza indugio alle loro sorti. Da principio il movimento ebbe piuttosto un carattere riformatore che rivoluzionario.[57] La pluralità degli Ispano-Americani sembrò accontentarsi d’una semi-indipendenza, e le Giunte sortite dall’elezione popolare si limitarono a deporre o scacciare i vicerè ed i governatori, ed a costituire governi locali sotto l’alta sovranità di Ferdinando VII. Così Caracas (19 aprile 1810) la prima ad iniziare il moto; così Buenos-Ayres (25 maggio 1810); così, a distanza di poche settimane, la Venezuela, la Nuova Granata, il Chilì e l’Alto Perù. Ma da un lato la resistenza ben legittima delle autorità spagnuole, e dall’altro la legge naturale delle rivoluzioni, fanno sorgere ben presto e prevalere un partito più radicale, il quale proclama l’assoluta indipendenza da ogni dominio europeo e rompe in aperta rivolta. A questo punto però la storia degli Stati della Plata, una fino agli ultimi giorni, si sdoppia, anzi si tripartisce, e in molti punti diverge siffattamente, che seguirla sopra una linea sola non è più possibile. Mentre Buenos-Ayres, postasi risolutamente a capo della rivoluzione, rompe l’ultimo anello che l’avvinceva alla madre patria, e inviando spedizioni armate a dar mano agl’insorti della Bolivia e del Perù, si sforza a trascinare nella medesima via gli Stati della Plata ed a raccogliere nelle sue mani tutte le fila del movimento; nel Paraguay e nella Banda Orientale continua a prevalere il partito medio della semi-indipendenza, e l’uno e l’altra assai più diffidenti della supremazia argentina, che paurosi della lontana sovranità spagnuola, rifiutano di riconoscere la Giunta rivoluzionaria di Buenos-Ayres, e ne respingono entrambi le proposte e le armi. Non ci occupiamo più del Paraguay, che nel 1811 si decide esso pure a liberarsi dalla signoria spagnuola, ma che poscia, ispirato dal genio tetro e quasi misantropico del dottor Francia, si chiude fra le rive de’ suoi due fiumi, e non ambisce più che di essere la China dell’America spagnuola. Circa poi all’Uruguay ed a Montevideo, il fatto della resistenza all’egemonia argentina era spiegato e giustificato da parecchie ragioni antiche e recenti. Anzitutto v’erano tra i due paesi differenze di suolo, di clima, d’abitanti, di costumi, di interessi, che il tempo e la civiltà avevano piuttosto accresciute che scemate. Mentre il territorio sulla destra della Plata, poche leghe al di là delle sue rive non era che una sterminata steppa, battuta dalle vampe assidue d’un clima tropicale, corsa da torme di cavalli selvatici e da bande di feroci _gauchos_, divisa tra pochi _estancieros_, veri feudatari della Pampa; quello sulla riva sinistra offriva, da alcune parti in fuori, tutte le varietà d’un clima e d’un suolo europeo e tutte le condizioni a’ suoi abitatori d’una vita civile. Il clima, temperato lungo il littorale dalle brezze marine, vi è de’ più dolci; ed anche nell’interno non sale mai nel più grande estate oltre il 35mo grado, nè discende nei più crudi inverni al 3º sotto zero; onde non si conoscono in quelle latitudini che due stagioni: la calda da ottobre a giugno, e la fresca da giugno a settembre.[58] Il suolo vi è tanto pittoresco, quanto salubre e ferace; parecchie catene di montagne, dalle forme trincianti delle lor punte dette _cuchillas_, lo solcano da nord a sud; maggiore fra esse la _Cuchilla Grande_ (che non s’innalza però oltre i 2000 piedi), dalla quale si diramano numerosi piani digradanti di colline, di terrazze, di poggi, o come li dicono là di _cerri_ e di _cerriti_, che vanno a morire fino intorno a Montevideo e ad anfiteatro lo chiudono. Innumerevoli acque defluenti ed affluenti dei due massimi fiumi, il Rio Grande e l’Uruguay, lo scorrono per ogni parte, lo abbelliscono e lo fecondano. Le pianure stesse di Colonia, di Canelones, di Salto, sono praterie verdeggianti che perdono il nome di Pampas e acquistano quello di campagne. La popolazione vi è, al paragone dell’Argentina, più densa; il _gaucho_ più raro, e dalla natura stessa del suolo agricolo e suddiviso reso innocuo. Se nel folto delle selve secolari balza il leopardo, urla il coguar e strisciano il crotalo ed il corallo,[59] innumerevoli mandre di buoi, di merinos, di cavalli moltiplicano sui vasti pascoli e nelle frequenti estancias, e fruttano al paese la triplice ricchezza delle carni, dei cuoi, delle lane. Ricche miniere d’oro, d’argento, di rame, di piombo, d’ogni varietà di minerali serpeggiano nelle viscere dei monti; nel fondo delle valli, sui margini dei fiumi, nel cavo delle roccie, fiorisce tutta la variopinta famiglia delle erbe medicinali e delle piante coloranti. Finalmente poco lungi dalla palma e dal cedro allignano il pesco e l’arancio; accanto a vaste foreste, dove si spiega tutto il lusso della vegetazione tropicale, maturano il frumento, il mais, quasi tutte le frutta e gli erbaggi del nostro continente, il quale, ben a ragione, invia il soverchio de’ suoi figli a cercare nella terra felice il pane e la fortuna, e trova nella ridente baia di Montevideo uno de’ porti più ospitali e sicuri del Nuovo Mondo. Ora in siffatto paese era naturale che i coloni europei s’espandessero più prontamente, serbassero con maggiore tenacia i loro costumi nativi, predominassero senza grande sforzo su tutta quella popolazione mista d’Indiani puri, di negri, di meticci e di creoli, ancor presso alla barbarie, e sulla quale si sentivano chiamati a dominare per la superiorità del sangue, dell’intelletto e del valore. Oltre di che, c’era quel gran fiume, cagione antica e perpetua di prosperità a’ suoi ripuari, ma altresì di rivalità e di discordia, e i coloni della Banda Orientale non avrebbero mai potuto sopportare tranquillamente ch’esso divenisse l’esclusivo dominio dei popoli dell’altra Banda. Infine l’esercito spagnuolo, forzato ad abbandonare l’Argentina, aveva fatto di Montevideo l’estrema sua cittadella, e cooperava colla sua presenza ad afforzare l’opposizione che gli Orientali facevano ai disegni rivoluzionari della riva opposta. Conseguenza di tutto ciò fu che gli Argentini si videro costretti a porre l’assedio alla capitale dell’Uruguay, ed è allora che compare per la prima volta sulla scena un uomo singolare, chiamato ad esercitare un potente influsso sui destini della patria sua: Artigas. III. Gaucho di nascita, contrabbandiere di professione, cumulata, colle frodi e colle rapine proprie alla sua arte ed alla sua stirpe, un’immensa fortuna, divenne per il triplice prestigio dell’astuzia, del valore e della ricchezza, così popolare e potente, che il Governo spagnuolo, a somiglianza di tutte le tirannie deboli, scese a patti con lui e gli accordò immunità e privilegi, a condizione che l’aiutasse a combattere e diradare la numerosa famiglia di contrabbandieri, che era la figliuolanza naturale del sapiente sistema proibitivo adottato dalla Spagna. Ma la prima volta che un magistrato tentò opporsi a non so quale sua pretesa, ecco il prepotente contrabbandiere dar le spalle al Governo che aveva fin allora protetto, e giurargli un odio mortale. Era appunto il 1811; la guerra per l’indipendenza delle colonie durava da circa un anno, e nessuna occasione più propizia all’Artigas per compiere la sua vendetta. Sparisce per qualche tempo nel profondo delle campagne orientali, vi propaga l’odio della signoria spagnuola, chiama a raccolta i suoi gauchos, i suoi contrabbandieri, quanti han fede nel suo nome; copre di _guerrillas_ l’Uruguay e lo trascina nella lotta dell’indipendenza comune. Era per la rivoluzione un soccorso tanto insperato, quanto poderoso. Buenos-Ayres manda in rinforzo dell’inatteso alleato le truppe reduci dall’infelice spedizione del Paraguay; l’Artigas così rafforzato traversa quasi in trionfo tutta la Banda Orientale, e dopo aver battuto insieme al generale Rondeau[60] gli Spagnuoli a Las Piedras, si unisce all’esercito argentino che assediava Montevideo. A questo punto però la storia così dell’Uruguay come dell’Argentina immiserisce in tanti conflitti di fazioni e litigi di persone e puntigli d’ambizioni, da confondere e stancare gli stessi storici dei due paesi. Nella «Giunta governativa» argentina un partito Moreno demagogico s’accapiglia col partito Saavedra autoritario o monarchico che sia,[61] e le loro dissensioni penetrano nell’esercito che campeggia nell’alto Perù e ne cagionano la rotta; intanto quattromila Portoghesi, clandestinamente assoldati dalla principessa Carlotta di Borbone, invadono l’Uruguay e marciano su Montevideo in soccorso degli assediati. L’Artigas, offeso che il comando in capo dell’esercito d’operazione sia stato affidato al Rondeau, abbandona con tutti i suoi l’assedio e si rivolge a combattere per conto suo i Portoghesi. A Buenos-Ayres il Saavedra è deposto e i partiti si succedono ai partiti, i governi ai governi; tuttavia il Rondeau rinforzato da nuove truppe continua vigorosamente a battere Montevideo, sinchè il vicerè di Spagna, Elios, perduta la speranza del soccorso portoghese, si rassegna a cedere la piazza, sottoscrivendo una capitolazione (novembre 1811) per la quale gli Spagnuoli dovevano sgombrare l’Uruguay, che veniva in tal modo a restar libero e padrone dei propri destini. Nessuno però mantiene i patti; nè i Portoghesi si ritirano dall’Uruguay, nè l’Artigas cessa dallo scaramucciar contro di loro, e per legittima conseguenza nemmeno il vicerè spagnuolo Vigodet, succeduto ad Elios, consente ad abbandonare Montevideo. Invano il Governo di Buenos-Ayres intima all’Artigas di sospendere le ostilità; ai Portoghesi ed agli Spagnuoli di sgombrare; le armi soltanto potranno decidere ancora la lite. Ecco perciò Buenos-Ayres infaticabile nel proseguire il suo disegno d’unificazione, levare e spedire nuove milizie, le une per combattere i Portoghesi e contenere insieme il ribelle _caudillo_ uruguayano, le altre per ricominciare l’investimento di Montevideo. Fortunatamente però i Portoghesi, allarmati dalle forze soverchianti spedite loro incontro, si decidono a ripassare l’Uruguay senza battaglia, e l’Artigas consente di riunire le sue bande rivoluzionarie all’esercito argentino e a riprendere con esso l’assedio della tante volte contrastata fortezza. Ma qui tutto non finisce, nè tutto si chiarisce ancora, per la semplice ragione che nè i voltafaccia, nè i puntigli, nè le pretensioni dell’Artigas finivano mai, nè quel qualsiasi concetto che lo guidava era pur anco riuscito a farsi strada per mezzo alle tenebre del suo grosso cervello ed a prendere forma concreta ed intelligibile così ai suoi seguaci come a’ suoi avversari. Era cortezza di mente, volubilità di carattere o dissimulazione profonda d’arcani disegni? Era soltanto, come fu detto, la meschina invidia dei generali a lui superiori che guidava la sua condotta balzana; o non era anche un presentimento istintivo, un sospetto oscuro, ma patriottico, che aiutando egli il Governo di Buenos-Ayres a liberare la patria sua dagli Spagnuoli, contribuiva a metterla nelle mani degli Argentini? Noi abbiamo indarno chiesto agli storici della Plata la soluzione di questo doppio problema: forse essi medesimi lo cercarono invano; forse nessuno potrà trovarla mai; forse nemmen l’Artigas avrebbe saputo darla. Certo è questo solo (certo e strano ad un tempo), che l’Artigas diserta una seconda volta dal campo degli assedianti, e va a continuare per conto suo la guerra nelle native campagne; poi, a un tratto, quando ode che il generale Alvear è finalmente riuscito ad impadronirsi di Montevideo e a dare così l’ultimo colpo alla signoria spagnuola sulla Plata, ricompare sulla scena, si presenta arditamente al generale argentino, e in nome dell’indipendenza dell’Uruguay gli intima di sgomberarne la capitale, che a lui solo, Uruguayano, spetta di occupare. Naturalmente il Governo di Buenos-Ayres non poteva accomodarsi ad una pretesa sì temeraria, e s’apprestò a rintuzzare coll’armi l’audace guerrillero. Ma questi non era più solo o accompagnato da poche masnade di gauchos e di contrabbandieri: lo scortava ormai un seguito di oltre dodicimila combattenti; lo spalleggiava tutto l’Uruguay. Oltre di che, ogni oscurità era ormai dileguata dal suo pensiero; quello ch’egli volesse era finalmente manifesto: la piena ed assoluta indipendenza della Banda Orientale da qualsiasi dominazione americana od europea, spagnuola, portoghese od argentina che fosse. E questa idea poteva essere, considerato il tempo e le circostanze, uno sproposito, ma era l’aspirazione più antica, il sogno più costante degli Uruguayani; il solo concetto che rispondesse alle tradizioni ed alle necessità della patria loro, e sarebbe vano discuterlo. L’antico contrabbandiere pertanto gridato liberatore fa valanga; il suo luogotenente Fruttuoso Ribera sconfigge a Guajabò l’esercito argentino; lo stesso Artigas entrato in Montevideo proclama l’indipendenza della Banda Orientale e vi stabilisce il suo governo; indi, presa a sua volta l’offensiva, invade per il Nord l’Argentina, penetra fin nella provincia di Buenos-Ayres e col concorso del partito federalista argentino, riuscito ad insediarsi al potere, si fa riconoscere capo o _Protector_ di una Confederazione, nella quale, secondo il suo disegno, dovevano entrare non solo la Banda Orientale, ma tutte le provincie e i popoli dei due margini del Parana, compresi Santa-Fè e Cordova.[62] Ma simile in questo ad un altro eroe di nostra conoscenza, il _guerrillero_ uruguayano era tanto atto a combattere, quanto inetto a governare. Mentre le sedizioni militari e le fazioni civili funestavano le provincie dell’Argentina, l’Uruguay cade in preda all’anarchia. Il bestiale Ortoguez, governatore di Montevideo, disonora con feroci supplizi e selvaggie rappresaglie la nascente libertà orientale, e soltanto il suo successore Ribera riesce a porre un confine a tanta immanità; le provincie in balía alle fazioni provano tutti gli strazi della guerra civile, e la Confederazione dell’Artigas si sfascia appena composta. E allora i Brasiliani (1816) non mai dimentichi dell’antica loro terra promessa, approfittano di quell’anarchia, se ne formano anzi un diritto, e col tradizionale pretesto di ristabilire l’ordine e la pace, invadono quella Banda Orientale che era _el blanco á que hacen su tiro desde principios del siclo XVI_.[63] Così l’anno stesso in cui tutti gli Stati componenti le antiche colonie spagnuole suggellavano nel Congresso di Tucuman il patto della loro comune indipendenza, solo l’Uruguay era minacciato di perderla per sempre. Accorre alle difese l’Artigas; guidati dal suo esempio, il Ribera, l’Oribe, il Lavalleja (importa ricordare questi nomi) oppongono su tutti i punti del territorio una disperata resistenza, ma indarno; i Portoghesi sono già sotto le mura di Montevideo. L’Artigas allora chiede il soccorso del Governo di Buenos-Ayres, il quale tornato in mano degli unitari lo concedè a condizione che sia riconosciuta la sua autorità e supremazia. Ma il _Protettore_ della Banda Orientale rifiuta il patto, chi vuole per ispirazione di genio, chi crede per grettezza di spirito e vacuità d’intelletto. Per gli unitari infatti e per gli schietti nemici d’ogni signoria straniera, la risoluzione dell’Artigas fu peggio che un errore, una colpa; per i federali e per quelli che al predominio degli abborriti _Porteños_ (così son chiamati a Montevideo quei di Buenos-Ayres) anteponevano qualsivoglia dominazione, un miracolo d’antiveggenza politica, l’idea madre della futura indipendenza orientale. Noi staremmo cogli unitari, quantunque sappiamo che è assai facile l’errare applicando agli avvenimenti d’un paese e d’un tempo interamente diversi le idee del proprio. Ne avvenne però questo, che i Brasiliani prima che finisse il 1819 erano padroni di quasi tutto lo Stato orientale; che l’Artigas dopo una eroica campagna di quattro anni, osteggiato da’ suoi luogotenenti, era costretto a cercare un asilo nel Paraguay; che finalmente nel 1821 l’Uruguay era incorporato definitivamente al Brasile col nome di _Stato Cisplatino_, sì che dopo tanti anni di lotta esso non aveva ottenuto che di mutare la sua catena. IV. Tuttavia la dominazione brasiliana sulla Plata, quantunque riconosciuta in sulle prime dai _cabildi_ (consigli) delle varie città, e dagli stessi antichi luogotenenti dell’Artigas, non durò lungamente tranquilla. La trasformazione del Brasile da regno in impero indipendente (1822) anzichè accrescere la sua autorità e la sua forza, parve turbarle e sminuirle. Obbligato a difendersi dalle congiure interne e persino dalle sedizioni de’ suoi stessi governatori, ed a schermirsi insieme dalle intimazioni di Buenos-Ayres, che afforzato dal voto degli stessi Orientali reclamava la loro riunione allo Stato avito, il Brasile non godette certamente le beatitudini della possidenza. Regnò nonostante qualche tempo ancora, se non amato, temuto; quando nel 1824 un importante avvenimento precipitò la rovina della sua breve conquista. Il 9 dicembre 1824 i riuniti eserciti repubblicani della Colombia e del Perù sotto il comando del generale Suchrè disfanno nei piani di Agacuchos l’ultimo esercito spagnuolo e annientano per sempre la signoria iberica nell’America del Sud. Ora la solenne vittoria fu non solamente decisiva per la Spagna e le sue colonie, ma esercitò altresì sulle sorti della Banda Orientale e de’ suoi recenti dominatori un’influenza capitale. La battaglia d’Agacuchos partorì, per tacere dei maggiori, questi tre effetti: collo spezzare gli ultimi frammenti del giogo che opprimeva l’America spagnuola fece sentire all’Uruguay più acuto il dolore, più ardente la vergogna di quello che il Brasile gli aveva imposto; assicurando la indipendenza allo Stato Argentino gli offrì nel tempo stesso l’occasione, gli agevolò il modo di provvedere all’emancipazione dell’altra riva della Plata; isolando finalmente il Brasile in una cerchia di Stati autonomi e bellicosi, lo pose ben presto nella necessità di scegliere fra una guerra implacabile e rovinosa, e la rinuncia d’una preda che gli costava tanto. E gli eventi lo chiarirono ben tosto. Nella primavera del 1825 trentatrè animosi Orientali, soldati quasi tutti dell’Artigas e capitanati da Juan Antonio Lavalleja,[64] giurata solennemente la liberazione della patria loro, irrompono nella Banda Orientale; che infiammata dal loro generoso ardimento si solleva tutta quanta sui loro passi, e incomincia contro il nuovo straniero una di quelle tremende campagne di _guerrillas_ onde quei paesi vanno famosi. Il Brasile rinfaccia al Governo di Buenos-Ayres d’aver promossa ed aiutata la ribellione; ma questo, lungi dallo scusarsi, abbraccia manifestamente la causa orientale e si prepara a sostenerla coll’armi. La guerra allora non è più soltanto fra l’Impero e gl’insorti d’una sua provincia, ma tra esso e tutti i popoli della Plata, ridesti novellamente all’antico sentimento della loro fratellanza, riuniti ancora sotto il vessillo dei loro giorni gloriosi: _O Libertad o Muerte_. Ormai la lotta è impegnata per terra e per mare. Alla forte armata dell’Impero, l’Argentina non può opporre che una piccola squadra di tre legni; ma la comanda uno dei più intrepidi marini dell’Inghilterra, l’ammiraglio Brown. Contro il numeroso e agguerrito esercito brasiliano, i Confederati della Plata non possono mettere in campo che milizie improvvisate e bande indisciplinate; ma le guidano il Rondeau, l’Alvear, il Ribera, l’Oribe, il Lavalleja: tutti i prodi della prima guerra d’indipendenza, e il valore bilancia il numero e la forza. Però dopo una varia vicenda di combattimenti terrestri e navali, di fortune e di rovesci, di prodezze e di carnificine, il Brown sconfigge la flotta brasiliana e si impadronisce dell’isola di Martin Garcia, la più forte stazione navale della Plata; l’Alvear distrugge l’esercito spagnuolo sui campi d’Ituzaingo (20 febbraio 1827); onde il Brasile ê costretto a chiedere la pace, e dopo un intrico di lunghi e insidiosi negoziati a sottoscrivere il trattato di Rio Janeiro, del 25 agosto 1828, mercè il quale la Repubblica argentina e l’Impero del Brasile riconoscevano mutuamente, sotto la garanzia della Francia e dell’Inghilterra, la indipendenza della Banda Orientale, obbligandosi entrambe a difenderla in caso di necessità. Ecco dunque la Banda Orientale liberata un’altra volta, e vorremmo poter dire per sempre. Ratificato e riconosciuto dalle Potenze il trattato di Rio Janeiro; votata la Costituzione del 24 maggio 1830, per la quale _el Estado oriental de l’Uruguay adopta para su gobierno la forma rapresentativa republicana_ e due Camere con un presidente rieleggibile ogni quattro anni, venne eletto primo presidente, non senza contrasti, quel Fruttuoso Ribera, che abbiamo veduto primeggiare sulla scena dell’Uruguay fino dal 1811, il cui nome rivedremo mescolato di nuovo ad altre lotte non lontane. Per intenderle però ci conviene ripassare per alcuni istanti sull’altra riva della Plata. V. Anche l’organizzazione dello Stato Argentino era stata difficile e laboriosa, nè era compita ancora. Quei due partiti, _Unitario_ e _Federalista_, che vedemmo apparire fin dai giorni dell’Artigas, non avevano posato mai, e, sotto un certo rispetto, può dirsi che vivano tuttora. E ciò perchè non il caso li aveva formati o il capriccio degli uomini, ma le condizioni stesse del paese. Gli Unitari volevano l’unità e l’indivisibilità di tutti gli Stati della Plata, sotto un governo forte ed accentrato, ma liberale e civile insieme. I Federalisti volevano bensì l’unione, ma fondata sull’autonomia dei singoli Stati, rispettosa delle costumanze antiche e delle consuetudini locali; vincolata soltanto più di nome che di fatto all’autorità centrale della metropoli. Era in sostanza la lotta delle campagne contro le città, dei _gauchos_ contro i _ciudadanos_, e disse bene un Argentino: «della civiltà contro la barbarie.[65]» Certamente questi due partiti fra alcune cose giuste ne volevano entrambi una impossibile. L’unità assoluta d’uno Stato per tante guise disforme, congiunta ad un governo largamente liberale e civile in un paese in gran parte barbarico, era un’utopia; dal canto opposto l’unione senza la forza e il potere unificatore, il fascio senza il legame, era un assurdo. Ma impossibilità, utopíe, assurdità portavano tutte in sè stesse una fatale giustificazione; erano il frutto delle viscere stesse del paese. Nè i cittadini di Buenos-Ayres o di Santa-Fè potevano rassegnarsi ad un regime politico idoneo ai _gauchos_ del Gran-Chaco, ed agli _estancieros_ del Corrientes, più che questi potessero adattarsi alle costumanze ed alle leggi di quelli. Però gli uomini politici che si fecero interpreti e rappresentanti di queste due opposte tendenze, le esagerarono forse e le sfruttarono anche a profitto de’ loro personali interessi; ma in fondo subirono l’influsso dell’ambiente in cui essi medesimi respiravano, e obbedivano a necessità storiche e geografiche che non era in loro arbitrio modificare d’un colpo. Seguire pertanto i due partiti in tutti gli accidenti della loro acerrima lotta sarebbe lungo e increscioso insieme. In generale può dirsi che, eccettuato il breve periodo dell’invasione dell’Artigas nell’Argentina, la prevalenza restò alla parte unitaria. Era forse la meno pratica, ma certamente la più nobile, la più colta e civile. Fin dal 1820 n’aveva prese le redini il Rivadavia, uomo di larga mente e di puri costumi e che, educato in Europa al culto delle idee liberali e delle istituzioni civili, sperava poterne inoculare nella sua patria i principii. E fu questo, dicono, il suo errore, ma un nobile errore che fruttò all’Argentina la libertà di stampa, la libertà individuale, le prime scuole, le prime banche, le prime franchigie agli emigranti e coloni; infine quella Costituzione del 24 dicembre 1826, unitaria nell’origine e nello spirito, all’ombra della quale la Repubblica Argentina vive ancora. Ma il partito unitario aveva governato fin troppo. Nel 1827 le campagne mosse dai loro principali _caudillos_, capitanate dal Quiroga, il più famoso _gaucho malo_ dell’Aroja, insorgono, in nome della perfetta libertà ed eguaglianza di tutte le provincie, contro l’autorità del Rivadavia e lo costringono ad abdicare. Gli succede naturalmente un governo federale, e a presidente della Repubblica viene eletto il colonnello Dorrego, in voce di federalista moderato. S’intende però che nemmeno siffatto governo ebbe lunga vita. Il colonnello argentino Lavalle si mette (nel 1829) a capo d’un pronunciamento militare, sconfigge il Dorrego, e coltolo prigione lo fa, con atrocità inutile, fucilare; ma il sangue frutta sangue, il cadavere del Dorrego si rizza oramai come una barriera insormontabile fra i due partiti, e nemmeno il Lavalle può godere a lungo del suo trionfo. Infatti prima che quel medesimo anno finisca, Don Juan Manuel Rosas, rimaso fino allora in fondo della scena, radunate le milizie delle campagne ond’era capo, ritorna contro il Lavalle, lo mette in rotta al Puente-Marquez, entra in Buenos-Ayres, assume con mano di ferro la somma del potere, si fa eleggere presidente della Repubblica (1830) e diviene in poco d’ora padrone dello Stato. VI. Chi era codesto Rosas? Quale giudizio può fare la storia di quest’uomo, stimato dagli uni un grande statista, dagli altri un tirannello brutale; paragonato a volta a volta a Nerone ed a Washington, a Cromwell ed a Cesare Borgia; rimasto dittatore per venti anni della patria sua, amico per qualche tempo della Francia e dell’Inghilterra, riconosciuto e rispettato da tutte le Potenze d’Europa; imbrattato di sangue dal capo alle piante, accompagnato per tutta la vita dalle maledizioni di migliaia di vittime, eppure morto tranquillamente sul suo letto in un rispettato esiglio? Se dovessimo dare una risposta pronta, lo diremmo l’incarnazione suprema dell’americanismo spagnuolo. Accanto al tipo più tradizionale e comune del _gaucho_ inseparabile dal suo cavallo, dal suo pugnale e dal suo _lasso_, nomade, selvaggio, ma onesto a suo modo, la Pampa produce tre altre varietà d’uomini singolari. E primo in riga, il _gaucho malo_, fratello corrotto del primo, che avendo un bel giorno assestata una coltellata a qualche suo rivale, e presa in seguito l’abitudine di campar la vita con quel suo strumento, va, come un _outlow_, errando per le profondità inaccesse del suo deserto, ottenendo talvolta l’asilo delle _estancias_ e l’ospitalità delle _pulperias_,[66] ed aspettando una rivoluzione in cui trovare un impiego. Poi accosto, e quasi sulle orme del _gaucho malo_, viene il _rastreador_, una specie di can bracco umano che fa professione di scoprire alla pesta così un animale smarrito, come un bandito nascosto; un che di mezzo tra il bracconiere e la guardia campestre, il vero _policeman_ della Pampa. Infine vi è il _capataz_, conduttore o capo delle carovane, investito dell’autorità di mantenere la quiete tra le mandre e la disciplina tra i mandriani, e che al primo atto di capriccio o di recalcitranza degli uni o delle altre, armato come un negriero d’una grossa frusta, la mena senza pietà sulla schiena così degli uomini come delle bestie, e ottiene quasi sempre, mercè questo semplicissimo regime, il ristabilimento dell’ordine. Ora mettete insieme gl’istinti sanguinari del _gaucho malo_, la furbería sbirresca del _rastreador_ e le abitudini di governo del _capataz_; unite queste doti alla ricchezza ed alla potenza d’un _estanciero_, padrone di vasti possedimenti e capo a sua volta di molti _gauchos_, di molti _rastreadores_ e di molti _capataz_, e stendete sopra un siffatto impasto la polvere d’un galateo signorile e la vernice di una educazione cittadina, e avrete il Rosas. Nato a Buenos-Ayres, di buona famiglia, ma scacciato a vent’anni dalla casa paterna per turpe condotta, si rifugia nelle campagne dell’Argentina e si fa in brev’ora il compagnone e l’amico dei _gauchos_, di cui apprende le costumanze; accettato per carità d’amici amministratore di due vaste _estancie_, arricchisce dei loro migliori frutti; fa dell’_estancia_ sua l’asilo di tutti i _gaucho-malos_ e di tutti i vagabondi dei dintorni, e ne diventa insieme il protetto e il protettore. Venuta la rivoluzione, muta l’_estancia_ in caserma, organizza i suoi _peones_, i suoi servi, i suoi banditi in uno squadrone che chiama _colorados del Monte_, e si mette in campagna alla cerca della fortuna. Indifferente ad ogni opinione, nè unitario nè federalista, e pronto in sulle prime a servire tutti i partiti, esordisce difatti armeggiando nelle file unitarie del Rivadavia; però più mercante che soldato, comincia con un’impresa da fornitore, nella quale guadagna al Governo 200,000 _duros_. Succeduta però la rivoluzione federalista del 1827 e la presidenza del Dorrego, s’avvede che il partito federalista è il più forte, e che governo federale non altro significa che governo di quelle campagne, predominio di quell’elemento donde egli stesso emana; e uscendo finalmente da quella accorta penombra in cui stava fino allora nascosto, riunisce le milizie della campagna, di cui si era fatto eleggere comandante, a quelle del Dorrego, e spiega apertamente la bandiera federalista. A questo punto la via dell’astuto Argentino è chiaramente segnata; la stessa vittoria del Lavalle, la stessa morte del Dorrego fanno la sua fortuna. L’Argentina è in preda all’anarchia. Tutti si volgono ansiosi d’attorno a cercare una mano poderosa che la soffochi; una volontà senza scrupoli che imponga a qualsiasi patto la pace, ed ecco Manuele Rosas assumere in sè le parti di vendicatore del Dorrego, di restauratore dell’ordine, di pacificatore della patria, e riuscire egli solo a fondare il governo più durevole, che dal giorno della sua indipendenza la Plata abbia veduto. Ma quale fosse quel governo, a quale prezzo pagassero gli Argentini la sua durata, è orribile a dirsi. Il Rosas non promise a’ suoi elettori che «di governare secondo sua scienza e coscienza,» e mantenne la parola; solamente la sua coscienza era quella di una belva, la sua scienza quella d’un manigoldo. Appena salito al potere, pubblica un manifesto di stile così rodomontesco che tutti ne ridono; egli prende una dozzina di unitari, li fa fucilare e il riso cessa immantinente. Sopprime immediatamente ogni libertà di stampa e di parola, proibisce ogni giornale che non canti le sue lodi, e burlone, come lo sono spesso i feroci, obbliga la _Gaçeta Mercantil_, diario ufficiale, a ristampare per mesi il medesimo articolo che fa il suo panegirico. Avoca nelle sue mani il potere giudiziario e giudica a beneplacito; abolisce istituti d’insegnamento; destituisce in massa magistrati ed ufficiali; brucia e spezza tele e statue credute colpevoli d’allegorie ribelli; impone a tutti l’obbligo della milizia, anche agli stranieri; decreta persino che uomini e donne, quegli all’occhiello, queste al capo, portino un nodo rosso che distingua i federalisti dagli unitari; «che marchi, dice un Argentino, il suo armento.[67]» Ma tutto ciò è nulla al paragone della persecuzione cominciata fin dal primo giorno contro gli unitari, e proseguíta per oltre vent’anni col medesimo accanimento. _Mueran los selvages unitarios_, fu il grido del Rosas, e il grido ripetuto dalle campagne alle città, dalle mille bocche d’un popolo inferocito, si tramuta in leggi di sangue all’istante ubbidite. Le esecuzioni capitali con apparenza di un giudizio sembrano, al confronto degli assassinii proditori e dei massacri in massa, atti di mite e regolare legalità. Per suggerimento e sotto la protezione dello stesso Rosas, viene costituita una società sanguinaria detta _Mas-Horca_,[68] che riceve dal dittatore stesso l’autorità di segnare a dito gli unitari, o quanti siano sospetti d’esserlo, e di sterminarli. I governatori delle provincie, degni seidi del tiranno, pubblicano decreti di questo tenore: «Tutti gli Argentini sono autorizzati a togliere la vita agli unitari in qualunque luogo della Repubblica;[69]» e i bandi feroci sono eseguiti. Non è una guerra, è una caccia all’uomo, ferina e selvaggia. Gli unitari cadono a migliaia pugnalati per le vie e per le taverne, di notte e di giorno, nelle città e nelle campagne; e fortunati ancora i pochi che salvano la vita colla perdita degli averi e coll’esiglio. Nè il dittatore pensa solo a disfarsi dei nemici, ma di quanti amici abbia ragione di sospettare rivali o di temere potenti. Così il Lopez, il Cullen muoiono avvelenati o coltellati d’ordine suo, e persino il Quiroga, il primo sostegno della sua fortuna, il più fedele alleato delle sue imprese, la _tigre della Pampa_, emulo degno della sua rinomanza feroce, scompare di una morte misteriosa, di cui il Rosas è accusato; ma che il Rosas audacemente festeggia. Quando finalmente, provocata dall’immane tirannide, scoppierà la sollevazione, non degli unitari soltanto, ma di tutta la Plata, nessun prigioniero di guerra avrà salva la vita; i vinti saranno decollati, le loro teste infitte sulle lancie portate in trionfo, i loro stessi cadaveri diseppelliti, mutilati, seminati a brani per i campi. Quattordicimila, secondo le _Tavole di sangue_ dell’Indarte, è il numero delle vittime di questo Terrore quadrilustre, e forse il pietoso cronista non le ha potute numerare tutte. E ciò nonostante, un simile uomo fu eletto sei volte dittatore colla forma più legale; potè anzi rappresentare la commedia di rifiutare egli pure la croce del potere, e di farsi pregare per accettarlo; gli riuscì infine di trattare da paro a paro gli ambasciatori delle estere Potenze, di farsi beffe delle loro rimostranze e persino delle loro minaccie. Lo si vide infatti nel 1838, quando inviati dal Governo di Luigi Filippo, l’un dietro l’altro, due agenti per reclamare contro il decreto che sforzava al servizio militare i cittadini francesi, il Rosas cominciò col rifiutare di ricevere il primo, col pagare di motti e di scede il secondo, coll’infischiarsi di tutti. Fu peggio poi quando la Francia, desta alfine al sentimento della sua dignità, spedì una squadra nella Plata a sostenere coll’armi i suoi reclami. Allora il Rosas, lungi dallo sgomentarsi dell’imponente minaccia, fa appello all’onor nazionale per difendersi contro lo straniero; si lascia bloccare in Buenos-Ayres, ma non cede alcuno de’ suoi diritti, e quantunque assalito insieme dagli unitari del Lavalle e di Montevideo, sa stancheggiare così bene la Francia a forza di resistenze passive, di negoziati interminabili e d’astuzie volpine, che finisce collo strappare all’ammiraglio Mackau il trattato del 1840, mercè il quale è lasciato come prima, despotico padrone in casa sua, e la bandiera della grande nazione si ripiega umiliata dinanzi al brigante della Pampa. Perchè tutto ciò? e d’onde traeva il _gaucho_ tanto potere e tanta forza? Lo diremo colle parole stesse di un Argentino, perchè a noi mancherebbe la perizia e l’autorità di esprimerlo più efficacemente: «Il Rosas non si sarebbe mai insediato sul primo scanno della Repubblica, mai avrebbe commessi gli eccessi che hanno scandolezzato il mondo, se nelle tradizioni coloniali, nelle condizioni fisiche del suolo, nell’ambizione dei _caudillos_, nella profonda ignoranza delle masse, negli odii di razza, nei ciechi e feroci istinti della parte incolta e viziosa del popolo dei campi e delle città, nei forviamenti dei partiti, negli interessi cozzanti d’ogni località e nello sfasciamento dei vincoli sociali prodotto dalla guerra civile e dall’anarchia, non avesse incontrati già pronti i ferrei anelli di quella catena che egli seppe ribadire colla sua energia, la sua costanza e i suoi delitti; catena tanto forte che l’Europa più d’una volta tentò, ma non potè spezzare, e che tanto sangue, tante lacrime e sacrifici costò ai popoli della Plata.[70]» VII. Ma i tristi effetti della dominazione del Rosas si erano fatti sentire già da parecchi anni anche sull’altra sponda della Plata, e vi avevano riaperte le piaghe non per anco rimarginate della discordia e delle guerre intestine. Il Ribera aveva governato sino al 1835 con poca abilità amministrativa, ma con molta onestà politica, ospitando i proscritti unitari di Buenos-Ayres, serbandosi equanime tra le parti, sforzandosi a pacificare il paese. Oltre di che, scaduto il termine legale del suo potere, aveva favoreggiato egli stesso la elezione presidenziale del generale Manuele Oribe, che pure sapeva suo rivale fin dalla guerra d’indipendenza, che ebbe competitore nella prima nomina presidenziale, e non fu mai suo amico. Però della soverchia generosità ebbe ben presto a pentirsi. L’Oribe non conosceva quella debolezza, che fu detta la memoria del cuore. Tanto acuto di mente, quanto era grosso il suo antagonista, ma egoista, calcolatore, freddo, all’uopo crudele, l’Oribe poteva dirsi un Rosas in minuscolo, e il suo governo lo dimostrò immantinente. Afferrato il potere, scacciò e perseguitò i fuorusciti argentini, depose gli amici ed i parenti del Ribera, rifiutò a questi il governo delle campagne per darlo ad una sua creatura; inaugurò insomma sulla sinistra della Plata la politica federalista, intendi tirannica, che il suo amico e protettore praticava da anni sull’altra riva. Il Ribera non tardò ad offendersi ed allarmarsi di questa condotta inattesa del suo successore, e quando una notte una mano di banditi tentò assassinarlo nella sua estancia, ed egli potè credere che gli assassini fossero stati prezzolati dal Presidente, non contenne più la sua collera, e proclamatolo «traditore alla patria e alla costituzione,» insorse apertamente contro di lui. Chiamati alle armi i suoi fedeli partigiani della campagna, e ordinatili in milizie colla prestezza con cui in quel paese basta dar un convegno agli uomini già armati ed a cavallo per farne un esercito, si spinge contro l’Oribe, che certo non aveva indugiato a muovergli incontro, e dopo un seguito di sanguinosi combattimenti, lo sbaraglia completamente a Las Puntas des Palmas (15 giugno 1837), lo rinchiude nelle mura di Montevideo, e finalmente lo costringe, nell’ottobre del 1838, ad abdicare il potere e ad esulare. Conseguenza di questo fatto fu la rielezione del Ribera a capo del governo; ma la Repubblica orientale ebbe da quell’istante due presidenti: uno detto _costituzionale_, perchè il Ribera si gloriava d’aver salvata la Costituzione dagli attentati dell’Oribe; l’altro _legale_, perchè legittimamente eletto, e deposto unicamente in forza d’una ribellione. Due presidenti, dicemmo, ed avremmo dovuto soggiungere due partiti, i quali ancora non avevano nome e sembianze certe, fuorchè quelle di fazioni personali, ma che tra poco prenderanno e l’una cosa e l’altra; e col nome di _Blancos_, o sostenitori di una maggiore autonomia delle provincie, ma dell’assoluta indipendenza della Repubblica, e di _Colorados_, o fautori d’un governo più accentrato, ma insieme d’una federazione fra gli Stati della Plata, continueranno, tra molta confusione d’idee e sterilità di opere, a combattersi ed a lacerarsi fino ad oggi. S’intende pertanto da sè che l’Oribe riparasse presso il Rosas, e che resolo partecipe de’ suoi risentimenti e de’ suoi propositi, ne ottenesse facilmente la protezione e l’aiuto. Il Rosas infatti aveva due possenti ragioni per far sua la causa del proscritto Presidente dell’Uruguay: anzitutto vendicare la lunga offesa che il Ribera avevagli fatta di raccogliere e proteggere quei selvaggi unitari ch’erano riusciti a scampare alle sue ugne feroci; poscia effettuare l’antico e non mai celato suo disegno, proseguíto da tanta parte de’ suoi concittadini, di annettere anche la Banda Orientale alla Repubblica Argentina, o per lo meno di sottometterla al suo protettorato. Intanto però che il Rosas s’apprestava a fornire d’armi e d’armati l’Oribe per una spedizione nell’Uruguay, era egli stesso bloccato in Buenos-Ayres dalla squadra francese dell’ammiraglio Leblanc, e minacciato al tempo medesimo dall’altra Banda della Plata da una crociata federalista. La capitanava quello stesso Lavalle che il Rosas aveva sconfitto e costretto ad andare in bando nel 1830; l’avevano promossa tutti gli Argentini esuli con lui a Montevideo; l’aiutava di sottomano il presidente Ribera; eran pronte a parteciparvi alcune provincie argentine, principalmente il Corrientes e l’Entre-Rios; la sosteneva infine lo stesso incaricato di Francia, che sperava con tal mezzo forzare il Rosas a dar ragione ai reclami che aveva fin allora invano presentati. In sulle prime il Lavalle sbarcato con centotrenta uomini nell’Entre-Rios ebbe qualche fortuna; ma il Rosas non si smarrì per questo d’animo, e mentre teneva testa risolutamente all’invasione inviava l’Echague (quello stesso governatore d’Entre-Rios ch’era stato benigno a Garibaldi) ad invadere con settemila uomini la Banda Orientale che l’Oribe assaliva e sollevava per altre vie. Ma il Ribera, che in quella guerra diretta oramai più contro la tirannide dell’Argentino che contro l’Oribe aveva con sè tutta la grande maggioranza del paese, mette in rotta a Chagancia, 29 decembre 1839, l’esercito dell’Echague, sbaraglia e fuga in altri combattimenti l’Oribe, sbratta di nemici tutto il territorio orientale, ma resta quasi due anni improvvidamente inoperoso.[71] In questo frattempo il Lavalle, rinforzato di nuove bande, copertamente spalleggiato dalla flottiglia francese aveva aperto nel marzo 1840 una nuova campagna, e dopo battuto in più scontri l’Echague, e lasciandosi sui fianchi il Campo di Santo Lugares, dove il Rosas si era concentrato con tutte le sue forze, s’avanza arditamente contro Buenos-Ayres. La città, a dir vero, era difesa da poche truppe, chiusa dal mare dai Francesi, abitata da una popolazione impaziente di scuotere il giogo ignominioso di dieci anni; sicchè, come fu detto, il Lavalle avrebbe forse potuto con un colpo di mano impadronirsene. Scelse invece ritirarsi, e chiunque consideri che poco lungi dal suo fianco stava accampato tutto l’esercito del Rosas, non potrà fargliene colpa: nessuna scusa invece può trovarsi al Ribera, che se ne stette due anni inerte; che lasciò passare i più bei giorni della fortuna del Lavalle senza andare in suo soccorso; doppiamente biasimevole, poichè questo soccorso lo promise e lo patteggiò, e non lo diede mai. Punto davvero oscuro nella vita di codest’uomo, le cui azioni sembrano un’alternativa di eroiche temerità e di tentennamenti senili. Ma non fu soltanto alla ritirata del Lavalle e all’inerzia del Ribera che il Dittatore dovette la sua salvezza. Egli ne va debitore anche più alla Francia, la quale essendo impegnata dal suo onore a sostenere la rivoluzione da lei stessa fin allora favorita e sussidiata, e ad ottenere la dovuta soddisfazione ai suoi giusti reclami, si lascia invece per due anni baloccare dall’astuto masnadiero; diserta la causa del partito col quale aveva fino all’ultimo congiurato, e ratificando l’umiliante trattato dell’ammiraglio Mackau cospira a rafforzare il prestigio e la potenza di quel despota incivile che pareva dovesse ad ogni istante annientare. E immagini ognuno se il Rosas non seppe trar profitto da queste circostanze! Favorito dall’indugio dei suoi nemici, reintegrato dal trattato Mackau nel favore popolare, libero oramai di rovesciarsi con tutte le sue forze contro gli insorti, lancia l’Echague a domare le provincie, l’Oribe a perseguitare il Lavalle, e intraprende contro i Federalisti quella guerra di coltello senza pietà e senza giustizia, che doveva fare degno riscontro sui Campi, alla _Mas-Horca_ delle città. Il Lavalle tuttavia continua ad opporre per oltre un anno la più disperata resistenza; ma dopo una serie alternata di vittorie e di rovesci, stremato di forze, addossato all’estremo confine settentrionale dell’Argentina è sorpreso e disfatto a Famalla (19 settembre 1841) e non resta a lui stesso che cercare salvezza nella fuga. Pure il suo triste destino non era compiuto ancora. Sorpreso pochi giorni dopo in una casa dove s’era rifugiato, è proditoriamente assassinato, e i suoi ultimi e fidati amici non ponno che a stento salvare il suo cadavere, difendendolo colle armi dalla ferocia dei vincitori. E perchè appaia in un punto solo l’odio che l’eroico soldato, due volte campione dell’indipendenza della patria sua, aveva accumulato sul proprio capo, e la brutale ferocia di cui erano briachi gli uomini che lo perseguitavano, basti aggiungere sol questo, che l’Oribe mandò a frugare tutti i luoghi dove sospettava fosse stato sepolto, affinchè diseppellitolo gliene portassero innanzi il capo reciso; e quando seppe che gli era stata data sepoltura in Bolivia, osò ancora reclamare la estradizione della sua spoglia; il che, a dir vero, non poteva essere da alcun Governo, appena umano, concesso.[72] Franco ormai da ogni nemico interno, spente in un mare di sangue le ultime faville dell’insurrezione federalista, al Rosas restò piena balía di consacrarsi tutto intero all’adempimento dei disegni, a lungo covati, contro Montevideo; e sotto la maschera di restaurare il governo _legale_ del suo proconsole Oribe, annientare l’avanzo dei nemici che ardivano ancora resistergli di là dalla Plata. Lasciata perciò la cura all’Echague ed all’Urquiza, nomi che gli avvenimenti futuri ingrandiranno, di tenere in iscacco il Ribera sull’Entre-Rios, affida all’Oribe un esercito di quattordicimila uomini e nell’estate del 1842 lo manda ad invadere, per il Paranà, la Banda Orientale. VIII. Gli è allora che vediamo riapparire in campo il nostro Garibaldi. Dal giorno del suo arrivo in Montevideo si era tenuto in disparte da ogni briga politica, e penetrato dalla sua nuova condizione di padre di famiglia, non ebbe in quei primi momenti altra cura che di procacciarsi un pane onorato con cui sostentarla. Oltre di che le poche centinaia di pataconi, ricavate dalla vendita dei buoi, avevano preso ad una ad una il volo, e le più urgenti necessità cominciavano a battere alla sua porta. È vero che non gli mancavano amici ospitali e generosi; a siffatto uomo non mancarono mai, ed egli stesso, nelle sue _Memorie_, ricorda con riconoscenza e Napoleone Castellini, che primo gli spalancò le porte di sua casa, e i fratelli Antonini, e Giovanni Rizzo, e Giambattista Cuneo, che gli furono larghi d’ogni maniera di favori e cortesie; ma appunto per ciò a lui ripugnava abusare di tanta generosità, e ad ogni patto voleva avere alle mani un’arte, purchè sia, da campare la vita. In sulle prime però non trovò di meglio che darsi al sensale di mercanzie; ma poichè i lucri dell’avventizia industria non bastavano a sbarcare la giornata, giunse ben presto il sussidio d’un altro mestiere a lui non ignoto, che l’aveva aiutato già altre volte a lottare colla fame: il mestiere, o professione che sia, del maestro di scuola. Così smezzandosi tra il mercato e la scuola, dedicando una parte del giorno a mostrar campioni e combinar negozi, e l’altra parte a dar lezioni di algebra e geometria nel Collegio Semidei, potè tirare innanzi parecchi mesi colla sua famiglia in una quieta e modesta penombra, finchè gli avvenimenti del 1842 vennero a strapparnelo ed a rigettarlo di nuovo nel procelloso elemento a cui era nato. L’invasione infatti del Rosas era cominciata; le avanguardie dell’Oribe avevano già passato il Paranà; la Repubblica era minacciata nel cuore e urgeva ch’ella corresse senza indugio ai ripari, nè lasciasse inoperoso alcun valido braccio atto a difenderla. Ora Garibaldi era tra questi. Gli Orientali avevano imparato a conoscerlo fin dal giorno del suo duello coi lancioni dell’Oribe, e il grido delle sue gesta nel Rio Grande, prontamente riecheggiato sulle rive della Plata, non aveva fatto che accrescerne la fama. Come uomo di mare principalmente era parso meraviglioso, e gli Orientali guardavano a lui con tanta maggiore invidia ed ammirazione, in quanto sapevano bene che, se il loro paese era stato in ogni tempo fin troppo fecondo di generali di terra, non aveva ancora veduto sorgere alcun capitano di mare atto a governarne la nascente marina. Finalmente gli amici di Garibaldi in particolare, e la colonia italiana in generale, facevano a chi più magnificava quello che oramai poteva dirsi la «leggenda de’ suoi gesti;» e vuoi per l’orgoglio ben legittimo di veder riconosciuto il merito ad un loro compatriotta, vuoi perchè fossero essi medesimi interessati all’esito d’una guerra in cui erano in giuoco i loro più preziosi interessi, andavano con insistenza propagando e accreditando l’opinione che Garibaldi fosse ormai necessario; nessuno meglio di lui poter condurre alla vittoria la giovane flottiglia orientale; il Governo incontrare una grande responsabilità, se non assicurava prontamente alla Repubblica l’opera d’un uomo capace di renderle tanti servigi. E il Governo non volle incontrarla; e quantunque il ministro della guerra Vidal non fosse molto propizio alla flotta, che giudicava inutilmente onerosa, nè, a quanto pare, molto amico del marinaio italiano, tuttavia non seppe resistere al voto pubblico, e si decise ad offrirgli, prima il comando della corvetta _Costitucion_, e poi di due altri legni, il _Pereira_ ed il _Procida_, che componevano infatti la parte più attiva della squadra repubblicana. Garibaldi in sulle prime esitò, e diremmo quasi, rifiutò. Non tanto forse perchè si sentisse stanco di avventure, o lo sgomentassero le amarezze che la permalosità de’ suoi nascenti rivali gli preparava, quanto perchè gli era rimasta nell’anima la dolce illusione che il giorno della riscossa d’Italia non fosse lontano; ed egli voleva tenersi affatto libero d’impegni per poter accorrere in di lei aiuto alla prima chiamata. Poichè non conviene dimenticarsi che sotto il poncio del _filibustiere_ batteva sempre il cuore dell’Italiano; che l’Italia era la mèta suprema di tutti i suoi passi e la molla segreta d’ogni sua azione; che insomma i campi d’America non erano a lui che palestra temporanea dove esercitar il braccio e addestrare il cuore per le battaglie, sperate non lontane, della patria sua. Tuttavia la pertinace insistenza degli amici, i reiterati inviti del Governo, le istanze che da ogni parte gli venivano, finirono col vincere la sua riluttanza. Anzitutto il signor Stefano Antonini, armatore italiano stabilito a Montevideo, gli aveva fatto formale promessa che al primo cenno d’insurrezione in Italia gli avrebbe fornito il bastimento col quale recarvisi; e questo argomento valse per tutti. Oltre di questo, egli stesso s’era venuto a poco a poco persuadendo, che se v’era causa giusta da difendere era quella di Montevideo; se tirannia esosa da abbattere, quella del Rosas; se impresa degna della fede d’un paladino e del braccio d’un eroe, quella onde il popolo lo voleva suo campione. Quel che i Gabinetti diplomatici nella volontaria loro cecità fingevano non comprendere, egli l’aveva inteso chiaramente: sulla Plata non si combatteva soltanto per la libertà d’una piccola Repubblica, ma per le ragioni dell’umanità tutta quanta, e nessun uomo di cuore aveva il diritto di dire: questa guerra non mi riguarda. Ai suoi occhi la questione era semplicissima: si trattava di liberare la terra da un mostro, e chiunque aveva cuore doveva tentarlo. Libere la grande Francia, la illustre Inghilterra, la vecchia Europa e la giovine America di tollerare in pace e all’uopo di carezzare la belva in sembiante umano, che da dodici anni desolava le due rive della Plata; a Garibaldi siffatta libertà era negata. La sua nobiltà lo obbligava, il sangue eroico che gli scorreva nelle vene, lo sforzava a camminare dritto sul mostro ed a misurarsi con lui; Ercole doveva affrontar l’idra, e Teseo non poteva sfuggire al drago. Infine quale seduzione più imperiosa per un Italiano, che la lusinga di far rivivere sui campi glorificati dalle battaglie dell’indipendenza ispano-americana il nome quasi spento in Europa della patria sua; quale tentazione più potente per l’eroe, al cui orecchio risuonavano ad ogni istante le favolose prodezze degli Artigas, degli Alvear, dei Saint-Martin, dei Lavalleja, che la speranza di rinnovare i medesimi prodigi e mescolarsi nelle pagine della storia al loro stuolo glorioso! IX. Accettò quindi, e quando prese il comando della _Costitucion_ trovò la situazione militare della Repubblica a questi termini. L’Uruguay aveva in campo due corpi d’esercito forti, tutt’al più, di undici o dodicimila combattenti: uno dei quali accampato intorno a San Josè di Canelones sorvegliava insieme la riva sinistra della Plata e gli approcci della capitale; mentre l’altro, il più forte, campeggiava nel Corrientes sotto gli ordini del Ribera, occupato, non sapremmo dire se a contemplare od a fronteggiare i corpi dell’Urquiza e dell’Echague che gli manovravano dattorno e lo tenevano a bada. Nel campo degl’invasori invece, l’Oribe occupava già i dintorni di Boyada, e stava per operare la sua congiunzione coll’Echague e l’Urquiza, mentre la squadra del Brown padroneggiava la Plata dalla foce a Martin Garcia e teneva pressochè bloccata tutta la riva orientale. Ora, quale delle parti belligeranti fosse in peggiori condizioni, ognuno lo vede. Mentre l’esercito orientale era spezzato in due tronchi, separati tra di loro da uno spazio di circa trecento leghe, e inetti così a difendersi da sè soli come a soccorrersi; l’esercito del Rosas, appoggiato alla base del Paranà, poteva quando che sia marciar unito e compatto al suo obbiettivo, e manovrando a suo agio nel largo intervallo che divideva i due corpi inimici, assalirli ad uno ad uno e schiacciarli a sua posta. E tuttavia un tale stato di cose, per sè stesso già pericolosissimo, fu da un nuovo sproposito del Ministro della guerra reso irreparabile. Anzichè provvedere, come insegnava la più volgare esperienza militare, al pronto concentramento delle forze, il generale Vidal pensa a disperderle anche più, ordinando a Garibaldi di lasciare colla sua squadra la Plata, e rimontando il Paranà andare a suscitare e rianimare quella insurrezione di Corrientes, che si annunciava sempre e non si vedeva mai. Siffatto ordine parve così insensato a Garibaldi stesso, che vi sospettò sotto poco meno che un tradimento. Per eseguirlo doveva fare seicento miglia d’ardua e pericolosa navigazione, per mezzo ad ostacoli e nemici d’ogni sorta; aprirsi una via nell’Estuario sotto il fuoco incrociato della squadra argentina, doppia della sua, e quello delle batterie di Martin Garcia, isola che guarda il confluente dell’Uruguay e del Paranà nella Plata; risalire quindi il Paranà, le cui rive erano in mano dei nemici, prive di scali, d’approdi e di punti di riposo; e finalmente, quando tutto questo gli fosse riuscito, gettarsi con pochi uomini allo sbaraglio in una provincia lontana, che non gli poteva prestare soccorso alcuno. Ma follía o tradimento che fosse, era un ordine, e Garibaldi volle provare che sapeva tanto ubbidire, quanto combattere, e che non v’era per lui cimento periglioso, da cui non sapesse almeno salvare l’onore. X. Prima però di partire per la rischiatissima impresa volle adempire ad un dovere e sciogliere un voto: consacrare solennemente le sue nozze colla donna che gli era stata sposa fino a quel giorno soltanto innanzi al Dio del suo amore. Infatti il 26 marzo 1842 nella chiesa, ora distrutta, di San Francisco d’Assisi in Montevideo, Giuseppe Garibaldi di Nizza e Anita Ribeira de Silva di Laguna si unirono col vincolo del matrimonio ecclesiastico: l’unico legittimo nell’Uruguay, dove il civile, non esisteva ancora.[73] Del rimanente pochi i testimoni, nessuna la pompa; ma poichè sembra che Garibaldi non possa far nulla al mondo, nemmeno la comunissima cosa del matrimonio senza singolarità, ecco un aneddoto de’ suoi sponsali che merita essere ricordato. Quantunque colonnello della Repubblica uruguayana, Garibaldi non riscuoteva altro stipendio che la razione de’ viveri del soldato; ond’eran mesi che egli non vedeva la croce d’un quattrino, e Anita quanto lui. Siccome però nessuna Chiesa ha mai prestato il servizio divino senza salario (i Pagani lo chiamavano l’olocausto, i Cristiani lo dicono tassa; ma il loro Dio non fu mai gratuito); così anche il curato di San Francisco, fedele alla massima del chi serve all’altare vive dell’altare, dichiarò nettamente ai promessi sposi che: niente quattrini, niente sacramento. Ora che viso facesse il nostro eroe a quella pretesa, nessuno lo sa; probabilmente pensò a modo suo, che la divina natura prescrivendo i connubii non aveva accompagnato il precetto d’alcuna gabella; comunque, certo è che, se volle sposare, dovette levarsi di tasca l’orologio d’argento, ultimo scampolo d’un lungo naufragio, e consegnarlo al degno Ministro di Cristo in pagamento della sua benedizione. E fu così che Garibaldi conquistò il diritto di dare il suo nome alla madre de’ suoi figli. Il modesto orologio d’argento fu l’unico regalo di nozze d’Anita: ma quanta ricchezza d’amore nel sacrificio di quell’umile arnese; quante illustri spose, trafficate come merce nanti notaro, avrebbero preferito, alle splendide gemme della loro cesta nuziale, quel povero pegno del bandito Nizzardo! Ma l’ora d’imbarcarsi era suonata; e Garibaldi non ne attese il rintocco. Preso il comando egli stesso della _Constitucion_, accompagnato dal _Procida_ e dal _Pereira_, salpa verso i primi di luglio da Montevideo e arriva senza intoppo presso a Martin Garcia; costretto dal solo canale navigabile a passare sotto alle sue batterie, ne patisce per più ore il fuoco micidiale, ma vi risponde vigorosamente e passa oltre. A tre miglia più su la marea abbassa, la _Constitucion_ dà in secco in uno dei tanti banchi che frastagliano il fiume, e mentre tutto l’equipaggio è occupato ad alleggerire la nave arenata, trasportandone sul _Procida_ le batterie, ecco comparirgli di fronte, a vele spiegate, tutta la squadra argentina composta di sette grosse navi, comandate dal noto Brown, la più grande celebrità navale dello Stato. Col maggior legno incagliato, coll’altro reso inutile dal soverchio carico, con una sola goletta contro sette bastimenti da guerra, bersagliato da due fuochi, resa impossibile la ritirata e mortale la resistenza; la posizione dell’ammiraglio italiano era terribile. Se la disperazione avesse potuto capire in quell’anima di ferro, l’avrebbe annientata: il disprezzo della vita, il sentimento dell’onore, la religione del dovere l’ingigantirono. All’ammiraglio nemico invece tutto arrideva: la forza del numero, il vento in poppa, la certezza della preda, gli applausi delle popolazioni che da tutte le rive dell’isola vicina lo incoravano alla facile pugna e gli prenunziavano la vittoria. Ma anche in quel giorno la fortuna, a cui Garibaldi aveva sempre creduto, vegliava per lui. Nel punto stesso in cui il Brown si prepara all’assalto, anche la sua nave ammiraglia arena, e la stessa confusione, lo stesso disordine, lo stesso travaglio ch’era prima sulla flotta orientale passano sull’avversaria, e fiaccano di tanto la baldanza degli assalitori, di quanto risollevano il coraggio degli assaliti. Intanto che gli Argentini sono affaccendati a disincagliare la loro ammiraglia, la _Costitucion_ rimonta a galla e riprende le sue batterie ed i suoi materiali, e in poche ore tutta la piccola flottiglia repubblicana è pronta alla manovra ed al combattimento. Ma, nota il medesimo Garibaldi, «le fortune al pari delle disgrazie non vengono mai sole.» Infatti, forse nel momento stesso in cui anche la maggior nave argentina stava per rigalleggiare, e le due squadre, libere da ogni impaccio, venire al cozzo decisivo, ecco una fitta nebbia stendere un velo impenetrabile su tutta la plaga, e come la nuvola inviata da Apollo fra Ettore ed Achille, rendere l’uno all’altro invisibili i due combattenti. E fu la salvezza del più debole, chè, mentre questi potè sgusciare non visto fra le navi nemiche, e spinto da buon vento infilare il Paranà e correrne buon tratto, il più forte ne smarrì intieramente la traccia e corse a cercarlo per oltre tre giorni su per l’Uruguay, dove il Brown aveva tutta la ragione di supporlo diretto. Grande fu il pericolo, a cui il nostro eroe poteva dirsi scampato; minimo tuttavia al paragone di quelli che l’attendevano ancora. Entrato nel Paranà, cominciano a mancargli i piloti pratici del fiume, o se ve n’ha alcuno nelle fila del suo equipaggio, si nasconde o si schermisce, ond’è costretto a ricorrere all’argomento persuasivo della sua sciabola per forzarlo a prestar l’opera sua. Giunto a San Niccola, prima città argentina della riva destra, s’impadronisce di alcune navi mercantili che trascina seco come onerarie, e trova il pilota che gli abbisognava; ripreso il viaggio fra due rive ostili e vigilate da tanti armati, è costretto, tutte le volte che scende per vettovagliarsi, a sostenere piccole scaramuccie, che lo infastidiscono, ma non lo arrestano; onde arriva senza dannosi incidenti fin sotto a Boyada. Ivi però la città, munita di batterie e guardata da un forte presidio argentino, appena lo vede affacciarsi lo saluta d’un vivissimo fuoco; ma egli aiutato dal vento può filare rapidamente a grande distanza e continuare incolume fino a Las Concas, dove sbarca per vettovagliarsi e d’onde riparte sotto una nuova salva d’artiglieria. E non ha finito ancora; poche miglia più in su, in un luogo detto il Cerrito, sessanta bocche da fuoco in batteria lo attendono per vomitargli contro la morte; e quel che è peggio, le sinuosità del fiume e i giri del vento l’obbligano a bordeggiare sotto la grandine nemica per oltre due miglia. Pure nemmeno questo lo sgomenta o lo trattiene; ribatte valorosamente colpo per colpo, marcia, combatte e manovra insieme, e ridotto al silenzio, dopo un combattimento di più ore, il fuoco nemico, e catturate alcune navi mercantili che s’erano rifugiate sotto le di lui batterie, allegro e trionfante, come reduce da una festa, ripiglia la sua rotta. La sua mèta era Corrientes, chiave del Paranà e base principale dell’impresa, e Corrientes infatti gli aveva già spedito in aiuto una piccola flottiglia di barche; ma presso Nueva Cava la maggior siccità del fiume, che da mezzo secolo si fosse veduta, lo sorprende, e gli toglie ogni possibilità di navigare più oltre. E poichè sapeva che il nemico s’affrettava minaccioso sulle sue orme, risolve di voltargli la fronte e prepara sul luogo stesso la sua difesa. Sulla sinistra del fiume, dove l’acqua era più bassa, schiera una fila di piccole barche armate di cannoni, che gli serve così di trincea galleggiante come di ponte alla terra; nel centro áncora il _Pereira_, sulla destra colloca la _Costitucion_, che ammarra fortemente, per impedire che la rapida corrente la trasporti. Il nemico intanto s’avanza superiore di numero, baldanzoso d’animo, sempre comandato dal famoso Brown, confidente nella facilità di poter esser soccorso ad ogni passo d’armati e di vettovaglie; mentre agli Orientali, isolati in mezzo ad un paese nemico, nessuna speranza restava d’aiuto o rinforzo qualsiasi. Pure la pugna non si poteva rifiutare; le circostanze la rendevano inevitabile, e per la vita e per l’onore bisognava combattere. A questo punto però sentiamo che lo storico dell’eroico conflitto può essere il solo Garibaldi; e poichè il racconto fu svisato da molti, e a noi dorrebbe l’ometterne o l’alterarne la minima parte, così lasciamo la parola a lui stesso: «Era il 15 agosto 1842;[74] il vento benchè debole spirava favorevole al nemico; ma per mezzo della nostra ala sinistra, che appoggiavasi alla stessa banda del fiume, dominavamo interamente il passo e potevamo sbarcare una parte della nostra gente per contrastare passo a passo il terreno al nemico e impedirgli di rifornirsi di _zavorra_.[75] Così riuscì ai nostri di ritardare i progressi dell’avversario, il quale fu costretto ben presto a tornare sotto alla custodia de’ suoi bastimenti. Il maggiore Pedro Rodriguez, posto comandante alle truppe di terra, lo stesso che si era salvato con me dal naufragio di Santa Caterina, si comportò in questo scontro con molta prodezza ed abilità. »Predisposti verso sera i suoi avamposti, il nemico si preparò alla battaglia dell’indomani. Il sole non era sorto ancora, che gli Argentini aprivano il fuoco da tutte le bocche, messe, durante la notte antecedente, in batteria, e il combattimento durò, d’ambe le parti col massimo accanimento, fino a notte calata. La prima vittima caduta a bordo della _Costitucion_ fu un ufficiale italiano di nome Giuseppe Barzone, del quale non potei prendermi cura, immerso com’era nell’ardente tumulto della battaglia. »Le perdite furono grandi da ambe le parti: i nostri legni erano, dal tempestar incessante dei colpi, quasi disfatti. La corvetta mostrava una sì enorme spaccatura, che, malgrado l’infaticabile nostro pompare e tutti i nostri sforzi per rattopparla alla meglio, si reggeva a stento sull’acqua. Il comandante del _Pereira_ era stato morto a terra da una palla nemica, e in lui perdetti il migliore e più valoroso dei miei commilitoni. Quantunque però avessimo molti morti e feriti, e il nostro equipaggio fosse ormai sfinito, non potevamo ancora concederci alcun riposo. Finchè ci restavano ancora a bordo polvere e palle, dovevamo continuare a combattere, non solamente per vincere, ma, lo ripeto, per salvare l’onore. »Durante la notte dal 16 al 17 l’intero equipaggio fu occupato a fabbricar cartuccie già esaurite, a frantumare le catene d’áncora per surrogarle alle mancanti munizioni, ed a pompare l’acqua minacciante da ogni parte. Manuele Rodriguez con un manipolo d’uomini scelti era occupato a trasformare in brulotti alcune piccole barche mercantili, per spingerle colla maggior quantità di materie combustibili contro il nemico. E questo trovato riuscì bensì allo scopo d’inquietare tutta la notte il nostro avversario, ma non potè produrre tutto il desiderato effetto, stante la grande spossatezza della nostra gente, peggiore nostro danno. »Però fra tutte le avversità di quella notte infernale, nulla mi accorò di più che l’abbandono della flottiglia di Corrientes. La componeva una squadriglia di piccole barche, sulle quali avevo fatto grande assegnamento, sia per risarcire le nostre perdite, sia per trasportar viveri e feriti; la comandava un Villegas, gradasso se mai ve ne fu, ma che al primo apparire del nemico voltò la prua, e, per quanto lo richiamassi e l’inseguissi io stesso, non ricomparve più. »Allora coll’animo amareggiato da quel nero tradimento che troncava in un punto le ultime mie speranze, ma ancora deliberato a sfidare il destino, tornai al mio bordo. L’alba non era spuntata ancora. Dovevo combattere, e non scorgevo a me d’intorno che gente sfinita di stanchezza; non sentiva che il gemito dei feriti. Tuttavia feci suonare la sveglia, lasciai raccogliere la gente, e dalla poppa d’un bastimento diressi loro alcune parole di conforto e d’incoraggiamento. E non furono vane; un residuo di disperata energia animava tuttora i miei compagni; un grido concorde di battaglia uscì dai loro petti; ciascun di loro andò al suo posto. Ma, non ostante la breve illusione di qualche vantaggio, dovevamo trovare in quel giorno la catastrofe. »Le nostre nuove cartuccie erano di polvere scadentissima; le nostre palle di forte calibro erano terminate e state surrogate con altre più piccole e peggiori; cosicchè la nostra nave di diciotto cannoni, che al primo giorno aveva tanto danneggiato il nemico, non lanciava più oramai che deboli ed incerti colpi. Il nemico pertanto, accortosi della nostra condizione, ridiventò tanto ardito da stendere in linea tutti i suoi legni, ciò che non gli era riuscito il giorno precedente. Mentrechè la sua posizione migliorava ad ogni momento, la nostra peggioravasi di altrettanto, e seriamente dovemmo pensare alla ritirata; e non già alla ritirata dei bastimenti, oramai impossibile, ma alla nostra personale salvezza. A questo scopo ordinai che tanto i feriti, quanto le armi, le munizioni ed i viveri fossero trasbordati sopra alcune piccole barche che ancora ci erano rimaste, e quantunque la battaglia non avesse posato un istante, e la tempesta delle bordate nemiche si andasse facendo sempre più furiosa e micidiale, l’operazione riuscì. »Allora, quando i feriti, le munizioni, i viveri furono in salvo, e l’ultimo uomo fu sbarcato, e dei nostri bastimenti non restò più in faccia al nemico che il nudo scheletro, appiccai loro io stesso la miccia, e intanto ch’essi saltavano in aria tra un nuvolo di faville e di fiamme, mi buttavo in salvo alla riva.» XI. La campagna del Paranà è una delle più gloriose di Garibaldi, e militarmente risguardata anche più prodigiosa di quella dei _Mille_. Lanciato con mezzi inadeguati in una impresa insensata, la fece parere, a forza di abilità e di eroismo, quasi effettuabile. Sottrattosi con fortuna degna del coraggio al fuoco incrociato d’una piazza forte e d’una crociera navale, corse per cinquecento miglia, fra due rive seminate d’insidie ed irte di nemici, e navigando per circa due mesi sotto una tempesta incessante di mitraglie, e in mezzo a una rete, sempre rinnovata, d’ostacoli, combattendo per aprirsi la via, combattendo per riposare, combattendo per fornirsi di viveri: combattendo, manovrando, correndo sempre giunse fin presso alla mèta. E quando da ultimo, arrestato più dall’avversità degli elementi che dall’arte dell’avversario, fu costretto ad accettare, in condizioni disuguali, una battaglia decisiva, si difese tre giorni e tre notti; pesto, sfracellato, decimato, continuò a combattere; coi legni ridotti uno sfasciume, e innondati da cento bocche d’acqua, cogli equipaggi diradati dalla strage e affranti dalla stanchezza, continuò a combattere; malgrado il tradimento degli alleati, continuò a combattere ancora; esaurite finalmente tutte le munizioni, gettò nelle logori fauci de’ pochi cannoni superstiti le catene delle sue áncore, e quando ebbe vomitato contro il nemico, certamente non superbo, l’ultimo pezzo di ferro de’ suoi bastimenti, vi appiccò le fiamme, e non lasciò in preda al tramortito vincitore che le ceneri d’un incendio e le acque fumanti d’un fiume. L’alto fatto di Nueva Cava parve degno dei più illustri fasti navali e lo proclamarono insieme amici e nemici. Lo stesso ammiraglio Brown, passando dopo alcuni anni da Montevideo, volle stringere la mano all’eroe del Paranà ed esprimergli la sua ammirazione che sì giovane d’anni avesse saputo dar prova, assieme al focoso ardimento proprio dell’età sua, di tutte le doti de’ più provetti e consumati comandanti di mare. L’Italia infatti il 15 agosto 1842 aveva acquistato un ammiraglio, e non lo seppe allora, come non lo comprese più tardi; e non le resta, anche oggi, che mormorare melanconicamente: Oh! perchè non ebbi quell’uomo a Lissa! Toccando terra però il pericolo aveva mutato forma; ma non era del tutto scomparso. Le milizie provinciali del Corrientes, che ancora tenevano pel Rosas, si posero tosto sulle orme della piccola schiera fuggente, e la obbligarono più volte a far testa e a difendere la sua vita. Tuttavia di mano in mano che essa s’internava nel paese la persecuzione rallentava, e gli avanzi di Nueva Cava poterono arrivare, affranti bensì da una lunga marcia traverso sabbie e paduli, ma sani e salvi, ad Esquina, cittaduzza del Corrientes in mano degl’insorti e che poteva perciò offrir loro un temporaneo, ma sicuro asilo. E in Esquina Garibaldi dimorò in un riposo relativo parecchi mesi, fino a che gli giunse da Montevideo l’ordine d’incamminarsi con quanta gente poteva raccogliere a San Francisco dell’Uruguay per congiungersi all’esercito del Ribera, il quale, lasciato il Corrientes, si proponeva di disputare il passaggio del fiume all’Oribe che gli marciava incontro a grandi giornate. Nè Garibaldi frappose indugio, e traversato da occidente ad oriente tutto il territorio del Corrientes, e viaggiando parte per terra, parte per acqua, giunse a San Francisco, ma non vi trovò più il Ribera. Questi infatti ne era già partito da parecchi giorni, e aveva già ritraversato l’Uruguay per andare a dar battaglia all’Oribe sulla sponda sinistra: ultima follía colla quale l’antico luogotenente dell’Artigas, sempre valoroso, ma sempre inetto, coronava la lunga serie de’ suoi errori militari. E invero Garibaldi non s’era ancora mosso da San Francisco, che il Ribera aveva incontrato sull’Arojo-Grande l’esercito dell’Oribe, e ne era stato completamente disfatto (6 novembre 1842). Fu quella una delle giornate più nefaste del popolo orientale. Colla disfatta del Ribera era annientato il solo esercito che potesse tenere la campagna e fronteggiare il nemico; la Banda Orientale restava quasi senza difesa; l’Oribe, padrone delle due rive dell’Uruguay, poteva penetrare nel cuore del paese e correre difilato sulla capitale; e Oribe voleva dire Rosas, cioè la perdita dell’indipendenza, il trionfo della più nefanda tirannia, il principio delle più sanguinarie carneficine: la _Mas-Horca_ a Montevideo. «Il sole di dicembre (scriveva or sono pochi anni un Orientale), sommergendo i suoi raggi nell’Oceano ci lasciò sconfitti all’esterno, senza esercito, senza milizie, nemmeno per l’interno, senza materiale da guerra, senza denari, senza rendite, senza credito.[76]» E il quadro poteva dirsi lugubre, ma non esagerato. Guai se il popolo si fosse in quei momenti accasciato e non fossero usciti dalle sue fila uomini nuovi, capaci, se non di vincere, di arrestare l’insolente fortuna del nemico, e di guadagnare col tempo quella vittoria morale del sacrificio e della virtù che, tosto o tardi, riesce quasi sempre a trionfare della brutale vittoria dell’armi! Nè tutto, a rigore di termini, era perduto: restava ancora in piedi Montevideo, il primo nido della patria e l’ultimo suo baluardo; ed a Montevideo si volsero, quasi per tacito consenso, tutti gli uomini e tutte le forze. A presidente della Repubblica viene eletto lo stesso presidente del Senato, l’integerrimo Joachin Juares; allo screditato Ribera subentra nel comando in capo dell’esercito il generale Paz, valoroso Argentino, antico ufficiale del Lavalle; il Vidal cede il portafoglio della guerra al colonnello Pacheco Y Obes, figlio di un antico patriotta di Mercedes, generoso carattere di soldato e di poeta che continuava ancora alla partigiana la difesa del suo natío distretto, quando l’esercito dell’Oribe straripava da ogni parte; finalmente Santiago Vasques per gli affari interni e stranieri, e Francesco Muños per le finanze, componevano un Governo d’uomini risoluti e concordi a continuare la guerra ad ogni costo, a chiudersi nelle mura della capitale, ed a convertirla, se tanto occorreva, in una novella Troia. E come i propositi, apparvero tostamente energici i fatti. Montevideo non era più dal 1833 una fortezza, chè i suoi bastioni erano stati fin d’allora smantellati. Era però forte di natura, cinta tutta all’intorno da una catena di _cerri_ e _cerriti_, che la proteggevano da occidente a settentrione, mentre all’est ed al sud la guardava il mare. Il rafforzarla perciò anche d’opere transitorie non era nè arduo nè lungo; e a questo intese soprattutto il colonnello del Genio, Eceveria, restaurando l’antico forte del Cerro, custode del lato occidentale della città; elevando intorno agli altri lati un doppio ordine di trincee; munendo infine il porto del Buceo di opere che lo tutelassero da un assalto improvviso. Nello stesso tempo il ministro Pacheco bandiva la leva in massa; decretava la libertà degli schiavi e li armava; concentrava nella capitale tutte le milizie sparse all’intorno, lasciando al Ribera poche bande e pochi squadroni con cui batter la campagna; chiamava Garibaldi, quasi dimenticato a San Francisco, e gli affidava l’ordinamento e il comando d’una nuova flottiglia; proclamava la patria in pericolo; trasfondeva in tutto il popolo il suo eroico spirito. Stando così le cose, l’Oribe, ritardato nella sua marcia dalla ostinata resistenza dei distretti, compariva il 16 febbraio 1843 innanzi a Montevideo. Lo precedeva la fama di antichi e nuovi massacri; lo accompagnava un esercito di circa quattordicimila uomini; lo seguiva poco dopo un feroce proclama, con cui annunziava: non avrebbe dato quartiere a nessuno, tratterebbe come selvaggio unitario ogni straniero sospetto di favorire i ribelli. Gli animi però all’accostarsi del pericolo rimbalzarono anche più forti; e il proclama dell’Oribe, il quale, a detta dell’inglese ammiraglio Parvis, «avrebbe fatto vergognare gli stessi selvaggi,[77]» anzichè intimidire gli stranieri, non fece che eccitare il loro sdegno, e persuaderli anche più della necessità di accettare la spavalda disfida e di rintuzzare colle armi la brutale minaccia. Ond’ecco al manifesto del proconsole di Rosas ordinarsi prima in legione i Francesi; poi rispondere un manifesto dello stesso Garibaldi, col quale invita tutti gli Italiani a prender le armi in difesa della loro seconda patria d’esiglio. E poichè la causa di Montevideo era causa comune a tutta la colonia straniera, gli uomini di cuore per sentimento di gratitudine alla terra che li ospitava, i ricchi e gli agiati per benintesa sollecitudine dei loro interessi, gli spiantati e gli avventurieri per vaghezza di fortuna o bisogno di guadagno, tutti favorivano, qual più qual meno, un’impresa, in cui ciascuno giocava una posta e scorgeva la compiacenza d’un affetto, o la speranza d’un affare. Tre legioni straniere di Francesi, di Spagnuoli, d’Italiani si organizzarono tosto. La spagnuola, composta in gran parte di Carlisti, disertò pochi mesi dopo al fraterno campo dell’Oribe, e non importa discorrerne più. La francese, grossa in sulle prime di duemila cinquecento uomini, passò al comando del colonnello Thiebaud. L’italiana non più forte, da principio, di cinquecento volontari, ebbe per comandante, suggerito da Garibaldi stesso, un certo Mancini, e per maggiori dei due battaglioni, in cui era stata divisa, i piemontesi Ramella e Danuzio, antichi sott’ufficiali dell’esercito sardo. L’Oribe frattanto aveva continuato a stringere la piazza, ed occupato con un colpo di mano il Cerrito, centro de’ contrafforti che girano intorno a Montevideo, spingeva i suoi posti avanzati fin sotto al Cerro, la chiave delle posizioni, la Malakoff, si direbbe, se Montevideo potesse uguagliarsi a Sebastopoli. Tuttavia nelle sue prime mosse fu lento ed incerto; spese le forze in vane dimostrazioni e sterili schermaglie, dando così tempo agli assediati di agguerrire le genti e di perfezionare la difesa. In una però di quelle scaramuccie la Legione italiana fece mala prova; presa da un timor pánico voltò alle prime fucilate le spalle, rientrando in Montevideo fra le risate del popolo, che si credeva ormai in diritto di farsi beffa del decantato valore italiano. Ne moriva di vergogna, per usare l’espressione sua, Garibaldi, e cedendo alle istanze degli stessi Italiani, i quali dicevano: «Con Garibaldi, se non si vince si muore onorati,» risolvette di prendere egli stesso il comando della Legione, conservando però nel tempo medesimo il governo della flottiglia. XII. E naturalmente la Legione non tardò a sentire l’impulso della nuova mano che la dirigeva. Il 28 marzo 1843 fu ordinata una sortita, che aveva per iscopo di arrestare l’avanzarsi degli assedianti verso il Cerro, e la Legione italiana, di turno in quel giorno agli avamposti, ne fece necessariamente parte. Comandava la spedizione il vecchio generale Panza, bravo soldato un tempo, ma infiacchito dagli anni, il quale giunto in faccia al nemico cominciò a perdersi in manovre ed andirivieni senza mai decidersi a muovere innanzi, e a cominciare da qualche banda l’azione. Garibaldi non tardò molto ad infastidirsi di quel vano temporeggiare, e si provò anche a suggerire al suo impacciato generale il come e il dove dell’assalto; ma il brav’uomo non aveva orecchi per siffatti consigli e avrebbe continuato, Dio sa fin quando, a girovagare e tentennare, se non fosse sopraggiunto a tempo il generale Pacheco a far sentire l’impero del suo comando, e a dar all’opera il moto desiderato. La più forte posizione degli Oribeani era l’ala destra, dove occupavano un’altura protetta da largo fossato che poteva servire di trincera, e guardata più innanzi da una casa che poteva dirsi un avamposto. Garibaldi scorse subito che là era la chiave delle posizioni nemiche, e l’accennò al Pacheco; il quale, consentito tostamente nel giudizio del colonnello italiano, volle anche affidare a lui e alla sua Legione l’onore di sloggiare dalla minacciosa postura il nemico. Garibaldi non se lo fece ripetere due volte; ordinata in colonna serrata la Legione, le si pone alla testa e le dice queste sole parole: «Bisogna andare a baionetta calata, senza tirare un colpo, a quella casa; seguitemi.» E la Legione va; e calma, silenziosa, ordinata, senza rispondere un colpo alla grandine delle palle nemiche, senza balenare un istante, va come il colonnello aveva ordinato, e s’impossessa della casa. Ed ora, dice Garibaldi, dopo aver lasciato qualche momento di riposo, bisogna andare di nuovo e allo stesso modo anche a quella fossa; e la Legione va come prima, come prima supera il vallo infuocato e lo bagna del sangue de’ suoi migliori, arriva, come Garibaldi aveva voluto, al ciglio della fossa, e già sta per toccar colla baionetta il nemico, quando questo, sbalordito dal nuovo e furioso assalto, dà le spalle, volta in precipitosa fuga, e inseguíto colla punta alle reni ricorre fino a’ suoi trinceramenti. Il fatto d’arme non aveva per sè importanza alcuna; ma aveva rianimato lo spirito dei legionari e reintegrato il loro credito nell’animo de’ Montevideani. Tornata la Legione a Montevideo, il ministro Pacheco la passò all’indomani in rassegna sulla piazza della Matriz, e la ringraziò del suo valore e la rimeritò de’ più caldi elogi; il cui suono echeggiato dalle grida di trionfo, dalle salve di battimani della popolazione, scese sul cuore di Garibaldi come la musica più dolce ch’egli potesse ascoltare, come il maggior premio a cui potesse ambire. Da quel giorno il Cerro fu chiamato il Campo afortunado, e più tardi la Legione fu presentata della sua bandiera: un drappo nero dipinto del Vesuvio in eruzione; emblema della rivoluzione fremente nel seno d’Italia, di cui Gaetano Sacchi, quel medesimo che oggi comanda un corpo dell’esercito italiano, fu il primo alfiere. Ciò non ostante la Legione covava alcuni germi di corruzione, che urgeva assolutamente sradicare. E che in un’accolta così improvvisata d’uomini raunaticci si fosse insinuato alcuno de’ tanti elementi impuri che sono il portato naturale di tutte le emigrazioni e di tutte le rivoluzioni, non è meraviglia. Il Mancini, per esempio, s’era manifestato inetto, il Ramella pusillanime, alcuni altri ufficiali s’erano imbrattati di laide concussioni; non pochi militi avevano mostrato di amare più il ladroneggio ed il bottino, che le armi e le battaglie. Garibaldi dall’altra parte fidente ed ingenuo di natura, ed occupato più spesso dalle cure della sua flottiglia, non aveva potuto in sulle prime nè tutto vedere, nè tutto riparare. Però non volendo sopportare più oltre uno stato di cose che poteva riuscire di disdoro a lui stesso, pensò di affidare la Legione alle mani d’un uomo onesto e sicuro che potesse sorvegliarla da vicino e sbrattarla dalle male erbe che la infestavano. Risolvette quindi di scrivere a quel Francesco Anzani che aveva incontrato sull’Uruguay nel suo viaggio a Montevideo, e nel quale aveva scoperto fin d’allora tutte le qualità convenienti all’ufficio a cui lo destinava. Francesco Anzani infatti, brianzuolo d’origine,[78] proscritto d’Italia dalle persecuzioni del 1821, combattente delle guerre e delle rivoluzioni di Grecia, di Spagna, di Portogallo, di Francia, vissuto più anni in America in un onorato esiglio, accoppiava in sè le più splendide doti del soldato alle più rare virtù dell’uomo, ed a giudizio universale, se pareggiava Garibaldi in gagliardía ed eroismo, lo superava di senno e di prudenza e non gli era forse inferiore che di fortuna. L’Anzani pertanto non seppe rifiutare l’invito dell’amico; e arrivato nel luglio del 1842 a Montevideo, vi assunse tosto il comando in secondo della Legione. Nè questa tardò a sentire l’influsso del suo occhio vigilante e del suo regime severo. I concussionari furono ben presto messi a dovere; i ladri ed i vigliacchi sfrattati; i maggiori disordini repressi. Ciò non ostante tutto il marcio non potè essere in un subito espulso; e, compresso, per dir così, dalla mano gagliarda del nuovo comandante, si nascose per scoppiare più tardi. Infatti poco dopo l’arrivo dell’Anzani si susurrò d’una congiura, che aveva per iscopo di uccidere lui e Garibaldi, e di vendere all’Oribe la Legione italiana; e poche mattine dopo si udì che una mano di cinquanta legionari, guidati da due ufficiali,[79] erano passati, disertando dagli avamposti, al nemico, con perpetua ignominia loro, ma senza produrre altro effetto, come disse l’Anzani, che di purgare più presto la Legione della lue che l’infettava. Così purificata e riordinata, la Legione italiana fu pronta a nuovi e maggiori cimenti. Ogni due giorni di servizio alle trincere ed ogni otto di presidio al Cerro, era naturale che le occasioni di segnalarsi le si presentassero di frequente, e che in quella palestra quasi quotidiana s’agguerrisse sempre più. XIII. Il 28 novembre 1843, agli avamposti di Las Cruces, il colonnello Nera, accostatosi di troppo alle linee nemiche, è colpito da una palla mortale e cade in potere degli Oribeani. Garibaldi si pone alla testa di alcune compagnie della Legione e si precipita sul nemico per strappargli la nobile preda; una mischia corpo a corpo s’accende: da un lato la Legione corre in aiuto de’ suoi; dall’altro nuovi corpi nemici giungono in rinforzo di loro; la zuffa si muta in vero combattimento; la Legione tocca gravi perdite, ma il nemico è scacciato dalle sue posizioni e il corpo del colonnello Nera è ricuperato.[80] In quel fatto d’armi però si potranno lodare la generosità dell’intento e le prodezze de’ combattenti, ma non altrettanto la prudenza del capo. Come d’un altro celebre eroismo si potrebbe dire anche di questo: «tuttociò è bello, ma non è la guerra;» e Garibaldi stesso divenuto maestro di guerra consentirà non essere lecito a buon capitano provocare, per sola pompa di coraggio o impeto di generosità, un combattimento, di cui non è prevedibile la fine e può trascinare nel conflitto, contro ogni volontà ed aspettazione dei capi, l’intero esercito, e fors’anco comprometterne le sorti. Meritevole invece d’incondizionata ammirazione è il fatto della Boyada avvenuto il 24 aprile 1844. Il Ribera con alcune migliaia di cavalieri correva sempre la campagna, sforzandosi a tener in iscacco l’Urquiza e ad impedirgli di congiungersi all’esercito dell’Oribe. Ora questi decise, secondo noi a sproposito, di dar un ultimo colpo al suo antico avversario, staccando contro di esso una parte delle truppe d’assedio con lo scopo d’assalirlo alle spalle, intanto che l’Urquiza l’avrebbe battuto di fronte. Trapelò tuttavia fra gli assediati la mossa del nemico, e si prepararono ad approfittarne andando ad assalire lui stesso ne’ suoi accampamenti. Fermato pertanto il concetto, i generali Paz e Pacheco concordarono così il modo d’esecuzione: sortire col presidio del Cerro e attaccare il corpo d’osservazione nemico, e intanto che l’attenzione e le forze degli Oribeani sarebbero attirate da quella banda, assalire colla guarnigione di Montevideo il campo del Cerrito, centro, come è noto, delle forze assedianti. E il disegno era buono, ma richiedeva precisione, accordo, prontezza, qualità tutte che alla prova fallirono. Infatti nel momento che il presidio del Cerro doveva sortire, una disputa insorse fra i due ufficiali, che non sappiamo per quale ragione comandavano assieme il forte, onde ritardato, anzi fallito l’attacco di fianco, l’Oribe si trovò in grado non solo di ributtar l’assalto degli avversari, ma di riassalirli egli stesso con tutte le sue forze. Da ciò conseguì facilmente che quella, che poteva essere ai Montevideani sicura vittoria, si mutò in sconfitta, la quale sarebbe anco divenuta totale disfatta, se la retroguardia non fosse stata commessa alla Legione italiana, e Garibaldi e l’Anzani non l’avessero comandata. Fra il Cerrito ed il Cerro corre tra due rive fangose un rio melmoso, detto la Boyada, che i fuggenti dovevano a forza attraversare, e contro il quale perciò gli Oribeani avevano piantato una batteria e diretto tutto il fuoco delle loro moschetterie. Oltre a ciò, quasi alle spalle di questa pericolosissima linea di ritirata, sorgeva un vecchio edificio, chiamato il Saladero, di cui gli Oribeani avevano subito apprezzato l’importanza e verso il quale s’erano già incamminati a passo di corsa. Garibaldi indovinò subito il doppio pericolo di siffatta posizione, ma non ondeggiò un istante, e col suo nativo colpo d’occhio vide immantinente il da farsi. Prese alcune compagnie della Legione e rinfiancatele d’alcune squadre di negri, le dispone, col fango fino al ginocchio, lungo la Boyada, ingiungendo loro di aspettare il nemico a piè fermo e di non colpirlo che a bruciapelo, mentr’egli coll’altra parte della Legione si lancia a testa bassa contro il Saladero, dove già stava per entrare il nemico, e d’onde lo scaccia colle baionette alle reni. Da quel momento la via della ritirata potè dirsi franca. L’esercito montevideano, protetto dalla trincea vivente della sua intrepida retroguardia, sfila in salvo fin sotto i bastioni del Cerro; il nemico, tentato invano di sfondare colle mitraglie il baluardo di petti umani che gli contrasta il passo, si arresta; e la Legione italiana, pesta, sanguinosa, scemata, tra morti e feriti, di ben sessanta combattenti, ma balda ed ordinata, entra in Montevideo, dove fa risuonare novellamente fra grida di ammirazione e di riconoscenza il nome italiano. XIV. Le cose dell’assedio procedevano, sebbene a rilento, piuttosto seconde agli assediati; quando ai primi di giugno del 1844 accadde un fatto, che attirò su Montevideo un nuovo pericolo, e rischiò di comprometterne le sorti. Fra gli equipaggi della piccola flottiglia, sempre comandata da Garibaldi, s’erano infiltrati, ad insaputa sua, due disertori dell’esercito brasiliano, onde il Governo di Rio Janeiro ordinò al comandante la squadra imperiale nella Plata di reclamarne l’estradizione. L’ammiraglio brasiliano però in luogo di rivolgere la sua domanda al Governo di Montevideo, come era suo debito, andò ad ancorarsi a un tiro di pistola dalla squadriglia orientale, intimando minacciosamente a Garibaldi la consegna dei due fuggitivi. Aveva trovato, come suol dirsi, il suo uomo. Garibaldi per risposta fece chiamare un mozzo e in pretto genovese gli disse: «Inchiodami questa bandiera alla punta dell’albero di maestra, e poi vediamo chi ce la farà abbassare!» Ne sorse naturalmente un litigio diplomatico, che poteva in seguito rompere in aperto conflitto. Il ministro Pacheco, geloso dell’onore nazionale, stava per respingere la violenta intimazione e ribattere, occorrendo, la forza colla forza; gli altri suoi colleghi del Governo, timorosi di aggravare con una nuova inimicizia la situazione già tanto critica della patria, inclinavano alla sommissione, e deliberavano collegialmente di acconsentire alla domanda. Al Pacheco pertanto fu mestieri piegare il capo e dar egli stesso l’ordine della estradizione dei due disertori, ma nello stesso tempo rassegnò il suo ufficio di ministro della guerra e si ritrasse a Rio Janeiro. Nessuno però vorrà credere che soltanto il dissidio per l’affare brasiliano sia stato la cagione della sua rinuncia. Quello ne fu tutt’al più l’occasione; le cause vere risalivano più in alto e più lontane. Il Ribera non aveva mai saputo rassegnarsi a fare in quella guerra, quasi combattuta per cagion sua, la seconda parte, e copertamente per mezzo di molti aderenti che gli restavano in Montevideo, minava il Governo in cui vedeva quasi un usurpatore de’ suoi diritti, e specialmente il generale Pacheco, rivale tanto più invidiato, quanto più glorioso. E come dal canto suo il Pacheco colla severità del suo carattere e il rigore del suo governo aveva offesi non pochi, quali nella vanità, quali nell’interesse, ed ingrossato perciò di rancori volgari lo stuolo degli odii politici; così in capo a due anni di gloriosi servigi resi alla patria dovette avvedersi che il solo modo di giovarle ancora era di risparmiarle la guerra civile e di allontanarsi. Colla sua partenza l’anima stessa della difesa di Montevideo venne meno. Il nemico non fece alcun notabile progresso; ma la cronaca delle brillanti sortite si chiuse, l’entusiasmo popolare raffreddò, la discordia dei partiti rinacque ed il Governo si chiarì impotente a contenerla. XV. A tale essendo le cose nella capitale, giunse dalle campagne l’annunzio di un irreparabile disastro. L’esercito del Ribera, se tale poteva dirsi un’accozzaglia di uomini e cavalli, accodata, come le orde barbariche, da interminabili file di carri carichi di donne e di fanciulli, sorpreso dall’Urquiza ad India Muerta era stato il 24 marzo 1845 completamente disfatto e costretto a rifugiarsi co’ suoi laceri avanzi nel Brasile. Il colpo era fiero, ma forse nelle sue conseguenze meno esiziale di quel che poteva temersi. La battaglia d’India Muerta pose, è vero, tutte le campagne in balía del Rosas e aperse all’Urquiza le vie della capitale; ma in compenso paralizzò, almeno per qualche tempo, l’influenza del Ribera, produsse il richiamo del Pacheco, ravvivò il semispento ardore dei Montevideani, affrettò l’intervento delle Potenze straniere. Per la sola presenza del Pacheco la difesa riprese l’antico vigore. Il 27 maggio 1845 era ordinata una nuova sortita contro l’ala nemica in osservazione al Cerro; gli Oribeani caduti da un lato in una imboscata della Legione italiana, assaliti dall’altro vigorosamente dalla guarnigione, eran volti in precipitosa fuga, salvi soltanto da completa disfatta pel propizio scoppiare d’un uragano che sospese la battaglia. Garibaldi dal canto suo, che partecipava col Pacheco alla direzione superiore della difesa, ideava altri colpi di mano col suo piccolo naviglio, ed alcuni ne tentava. Un giorno proponeva d’imbarcare sulla flottiglia la Legione, di sbarcare di notte a Buenos-Ayres e rapirvi il Rosas; e se il Governo avesse consentito alla temeraria proposta, era uomo da eseguirla. Spesse volte si trastullava a catturare, sotto gli occhi dell’ammiraglio Brown, qualche legno mercantile, o ad inquietare con assalti notturni la squadra nemica. Un mattino finalmente esce a vele spiegate con tre de’ migliori suoi legni, e va a sfidare nel suo ancoraggio la squadra del Rosas, composta di tre grossi navigli e armata di quarantaquattro pezzi. L’annunzio dell’audace disfida mette in moto tutta la popolazione di Montevideo; le terrazze delle case, gli alberi dei bastimenti sono coperti di spettatori. Garibaldi è già arrivato a portata de’ cannoni del nemico, e tutti attendono trepidi ed impazienti il cominciare del navale duello, quando l’ammiraglio Brown giudica più prudente voltare la prua e prendere il mare. Ma nè questa, nè altre tali prodezze, nè le frequenti, ma piccole e parziali fortune degli assediati avrebbero potuto salvare a lungo la città dall’inevitabile caduta, se la Francia e l’Inghilterra non si fossero decise ad intervenire a favore di Montevideo, intimando al Rosas lo sgombro della Banda Orientale. E le obbligavano al passo energico il sentimento dell’umanità e della giustizia; la perfidia del Rosas, sfacciatamente fedifrago a tutti i patti promessi; la cura dei molti interessi che i loro nazionali avevano sulla Plata; la indipendenza della Repubblica orientale da esse medesime guarentita. Non per questo il dittatore di Buenos-Ayres si lasciò intimidire. Dopo aver traccheggiato due mesi deludendo uno dopo l’altro cinque _ultimatum_, rispose infine che rifiutava ogni concessione, e s’apparecchiò nuovamente a sostenere il suo potere coll’armi. Ed è allora soltanto che la squadra anglo-francese, ricevuto l’ordine di usare la forza, corre spazzando d’ogni nave argentina il Plata ed il Paranà; sbaraglia la squadra del dittatore a Obligado e lo blocca nella sua capitale (agosto 1845). Ed è allora altresì che il Governo di Montevideo rinasce alla speranza di poter riavere un esercito di campagna che lo aiuti a combattere gli assedianti, e che trovando libero ormai l’Estuario da ogni nave nemica, ordina a Garibaldi di risalire colla sua flottiglia e parte della Legione la Plata e di entrare nell’Uruguay col doppio fine di ravvivare l’insurrezione nei distretti, e di dar la mano ai dispersi avanzi dell’esercito del Ribera rifugiati nel Brasile. Garibaldi, lieto di tornare al suo doppio ufficio di capitano di terra e di mare, mosse, senza indugiarsi, all’impresa. S’impadronì facilmente, e senza colpo ferire, di Colonia, di Martin Garcia, di Mercedes; passò intrepido sotto le batterie di Paysandu, respinse un attacco del generale Lavalleja[81] all’Hervidero, sorprese Gualeguaychu, dove catturò il famoso Millan suo torturatore; infine arrivò al Salto, luogo forte sulla sinistra dell’Uruguay, distante dodici leghe soltanto dalla frontiera brasiliana, il cui nome corrisponde al nostro di _cateratta_, e dove il fiume perciò non è più navigabile che alle piccole barche. Colà stabilì il suo quartier generale, si fortificò, mandò avviso del suo arrivo ai rifugiati del Brasile, scacciò dal Tapevi, affluente dell’Uruguay, le truppe del Lavalleja, e si assicurò così i fianchi e le spalle; quindi (il 5 decembre 1845) assalito egli stesso al Salto dal generale Urquiza, che spavaldamente andava dicendo di non aver di fronte che «cuori di polli,» lo costrinse a dar le spalle vergognosamente e a ripassare l’Uruguay pesto e malconcio. Frattanto i rinforzi attesi andavano arrivando; il colonnello Baez era già entrato nel Salto con duecento cavalli; il 7 febbraio 1846 il generale montevideano, Anacleto Medina, spediva un messo a Garibaldi per avvisarlo che il giorno susseguente si sarebbe riunito a lui con circa cinquecento uomini di cavalleria, male armati e peggio equipaggiati; richiedendolo nel tempo stesso di notizie sulle posizioni e sulle forze del nemico e d’aiuti in caso di bisogno. Garibaldi mandò a rispondere che all’indomani si sarebbe trovato con un rinforzo sulle alture del Tapevi, presso il quale appunto il Medina doveva passare; e come promise eseguì. Soltanto gli esploratori avendolo assicurato che il nemico campeggiante ne’ dintorni del Tapevi non era più forte di quattrocento uomini, stimò più che bastevole uscir con sole quattro compagnie della Legione, e duecento cavalieri del Baez, lasciando il resto sotto gli ordini dell’Anzani alla guardia del Salto. E da questo punto comincia la prima fase di quella giornata di Sant’Antonio, che fu la più gloriosa di quante la Legione italiana abbia combattute; la sola che abbia riecheggiato in Europa; la prima che abbia fatto sapere all’Italia, quasi disavvezza alle armi, che di là dall’Oceano v’era una mano di fratelli italiani che sapeva ancora trattarle, e cresceva un Capitano prodigioso serbato forse a rinnovare nella terra nativa i miracoli che lo rendevano famoso sui campi stranieri. E poichè di tanti racconti letti od uditi dell’epico gesto, il più schietto, il più semplice, il più compiuto insieme ci parve quello fornitoci dal generale Sacchi, così affidiamo a lui, testimonio ed attore del fatto, l’ufficio di celebrarlo.[82] XVI. «Nella mattina, dalle 8 alle 9 e mezza, sortiva Garibaldi dal paese, alla testa di circa centonovanta soldati italiani, divisi in quattro piccole compagnie, e circa duecento cavalieri comandati dal colonnello Baez che da pochi giorni s’era a noi riunito. Costeggiando la sinistra dell’Uruguay un po’ prima delle 12, si arrivò alle alture del Tapevi, fiancheggiati sempre dal nemico che fu tenuto in soggezione dalle nostre catene di cacciatori. La fanteria prese posizione sotto tettoie di paglia (_taperas_), che altro vantaggio non ci offrivano fuorchè ripararci dai cocenti raggi del sole; la cavalleria si spinse fino al Tapevi in esplorazione. Una mezz’ora si passò senza nessuna dimostrazione ostile per parte del nemico: ma questo da tempo covava un inganno e ci aveva tratti nell’agguato, occultando accuratamente le sue forze nei boschi del Tapevi per trarci all’aperta campagna onde ottener ciò che non gli fu mai dato sotto la protezione della nostra batteria. La nostra cavalleria fu attaccata da forze molto superiori e travolta verso la parte nostra; Garibaldi precedeva tutti nella corsa, ed arrivato a noi ci dirigeva queste parole: — I nemici son molti, ma per noi son pochi ancora, non è vero? Italiani, questo sarà un giorno di gloria pel nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo! — Grandi masse di cavalleria si avanzano intanto su di noi, e per poco ci lusingammo di aver a fare con sola cavalleria; ma fummo ben presto disingannati nel veder scender dalla groppa dei cavalli i fanti, ed ordinarsi in numero di circa trecento: mille e più erano i cavalieri, tutti sotto il comando del generale Servando Gomez. Le nostre piccole compagnie furono ordinate in battaglia sotto le tettoie per trar profitto di una scarica generale e caricar quindi alla baionetta; la cavalleria si tenne pronta ad agire ove più occorresse. La fanteria nemica ci assaliva di fronte; la cavalleria ci prendeva ai fianchi ed alle spalle; ma quando la fanteria fu a trenta passi da noi, l’accogliemmo con una scarica così concorde e aggiustata, che s’arrestò di botto; e poichè anche il suo comandante era caduto da cavallo, lo scompiglio del nemico crebbe a tal segno, che noi pensammo di trarne profitto immediatamente. E ben n’era tempo, perchè anche la cavalleria ci era sopra e pochi istanti di titubanza ci potevano riuscir fatali. Dietro l’esempio e la voce di Garibaldi, ci scagliammo dunque sulla fanteria impegnando una lotta corpo a corpo, che terminò colla quasi totale distruzione sua. Ed anco la nostra cavalleria ci giovò in quel frangente, divergendo da noi una parte delle truppe nemiche e caricando forze tre volte superiori quando già stavan per piombare su noi; se non che avviluppata dal numero fu costretta a cercar la propria salvezza nella velocità dei cavalli, e così restammo soli sul campo! Diciassette soltanto preferirono divider le nostre sorti; voltata la briglia, s’apersero un cammino fra il nemico, e lasciando i cavalli vennero a combattere con noi; il restante continuò la sua rapida corsa verso il paese, traendo dietro a sè un buon nucleo di forza che gli inseguiva facendone macello. Fu un bene per noi la diversione di una parte delle forze nemiche nel momento più critico, sebbene l’abbandono dei nostri cavalieri ci abbia grandemente addolorati. Troppo lungo sarebbe l’enumerare tutte le valorose azioni individuali, di cui fecero mostra gl’Italiani in quel giorno; la lotta colla fanteria durò circa venti minuti e pochi fanti nemici scamparono alla morte. Era dolorosa necessità il dovere uccidere solo per scemare il numero dei nemici, ma la nostra salvezza dipendeva dalla distruzione della fanteria; altra speranza per noi non vi era, avendosi a che fare con un nemico che non dava quartiere. L’anima di Garibaldi era trasfusa in tutti noi; ove appariva Garibaldi si centuplicavano le nostre forze, ed egli era dappertutto; in tutti i gruppi la sua voce confortatrice, il suo esempio rincoravano, rianimavano quasi gli estinti, perchè furon veduti giovani, coperti di otto o dieci ferite da taglio, combattere senza posa quasi fossero ancora sani e robusti, e spirare appena terminata la lotta. La cavalleria nemica fu spettatrice della distruzione della propria fanteria, senza potervi porre riparo; i suoi ripetuti assalti furono sempre respinti dai nostri, che in un attimo si aggruppavano ed obbligavano interi squadroni a dar volta, lasciando il terreno seminato di cadaveri. Fra i tanti un solo esempio citerò di valore pressochè feroce, di cui fui testimonio. Un trombetto, giovane appena di quindici anni, piccolo, tarchiato, rosso di capelli, che durante il combattimento ci aveva continuamente animato coi suoni della sua cornetta, fu da un cavaliere nemico ferito di vari colpi di lancia. Allora gittar la cornetta, sguainare il coltello e avventarsi contro il feritore fu un punto. Indarno questi tentava liberarsene spingendo a carriera il cavallo; il prode trombetto, avviticchiato alla gamba destra del suo nemico, l’andava percotendo con furiosi colpi di coltello; fino a che lo vidi io stesso abbandonar la sua preda e cader col capo spaccato da un fendente. Nel tempo stesso però il cavaliere precipitava a sua volta trapassato da una palla de’ nostri; ed esaminandone dopo il combattimento il cadavere gli trovai io stesso la gamba lacerata da parecchie pugnalate, e coll’impronta dei denti del giovinetto. Distrutta la fanteria, restammo padroni del campo; il nemico si ritirò a rispettosa distanza atterrito dalla nostra difesa; non abbandonò però il pensiero di considerarci come cosa sua, e dispose tutta la sua cavalleria, una metà della quale era armata di carabina, all’intorno del nostro campo, sicuro che la fame e la mancanza di munizioni ci avrebbero costretti alla resa! Cessato il combattere, emozioni ben diverse dalle già provate subentravano nel nostro animo! In un ristretto spazio di terreno giaceva una quantità di corpi estinti od agonizzanti, amici e nemici confusi in uno! Ci straziava l’animo la voce degli agonizzanti che chiedevan acqua e non se ne aveva una sola goccia. E questo bisogno era sentito da tutti; a tutti la febbre, prodotta dall’agitazione del combattere e dai cocentissimi raggi del sole, ardeva le viscere; per una goccia d’acqua molti avrebbero data la vita; basti che alcuni supplirono alla mancanza bevendo le orine che raccoglievano nelle scarpe. La nostra posizione era ben critica: scemati di numero; feriti la maggior parte dei superstiti; circondati da un nemico imponente e minaccioso; la nostra energia era pressochè esaurita. In molti dei nostri alla forza d’animo mostrata nel combattimento era subentrata un’apatica noncuranza per tutto ciò che accadeva loro d’attorno; parecchi si gettavano al suolo nella speranza di non più rialzarsi.... guai a noi se il nemico ci avesse attaccati un’altra volta in quei momenti! La grandezza d’animo di Garibaldi rifulse in quell’occasione di tutta la sua più pura luce! Per lui si operarono prodigi combattendo; a lui era serbato rialzare gli animi abbattuti dopo il combattimento, e vi riescì. Colla solita sua facondia amorevole ed insinuatrice, ci fece un quadro della nostra situazione; ci persuase di quanto allora più che mai era necessario, il conservare la fortezza d’animo che ci aveva animati dapprima onde uscire dalla scabrosa posizione; parlò della certezza di una ritirata appena potesse essere protetta dall’oscurità; della gloria che ne ridondava all’Italia ed a noi pei fatti di quel giorno; finalmente tanto disse, che tutti si sentirono un’altra volta animati dall’alito di quell’uomo, a cui i destini serbano per certo le più grandi azioni a pro del suo paese! Con mucchi di cadaveri d’uomini e cavalli si formò una trincera di riparo alle moleste palle del nemico, ed in quella posizione si attese la notte, usufruttuando il tempo a sollevare e curare, per quanto ci fu possibile, i nostri feriti; ed alle bende e filaccie supplirono le nostre camicie! Si parlò a lungo dei fatti della giornata, e qualche volta la voce di Garibaldi intuonava l’inno nazionale uruguaiano, a cui facevano eco le voci di tutti, non esclusi i feriti.[83] Era tanto il terrore del nemico, che i suoi capi non riuscirono a condurlo all’attacco una seconda volta, sebbene lo tentassero ripetutamente. Più volte vedemmo radunarsi gli squadroni e muover verso di noi; ma al primo nostro fuoco dar volta, non ostante la voce dei loro capi e le piattonate che loro piovevano sulle spalle. Il nemico tentò pure di farci accettare un parlamentario, ma non ci riuscì.... ci avrebbe portate condizioni di resa, e di renderci non ne volevamo sapere. A un certo punto un cavaliere nemico ben montato si spinse audacemente fin presso il nostro campo, e passando come il fulmine fra l’una e l’altra tettoia da noi occupata tentò gettarvi un tizzone acceso per incendiarla. Il colpo gli fallì; ma l’audace ebbe salva la vita soltanto per la generosità di Garibaldi, che gridò a noi: _Non fate fuoco su quel bravo_. Dal canto nostro si economizzava la munizione per la ritirata e non si faceva fuoco che a colpo sicuro. Le ore di aspettazione furono secoli, principalmente pei poveri feriti; ma finalmente venne la desiderata oscurità; taluni de’ nostri inviati, strisciando sul terreno, verso il nemico, ritornarono col grato avviso che solo alcune vedette rimanevano a cavallo, e che il rimanente se ne stava coi cavalli a pascolo: bisogno a cui non avevan potuto attendere in tutto il giorno. Ad un miglio circa da noi avevamo il bosco che costeggia l’Uruguay, porto di salute al quale tante volte nel giorno avevamo rivolti gli occhi e che l’indolenza o l’ignoranza del nemico, sicuro ormai della sua preda, ci lasciava aperto. In gran silenzio si formò una piccola colonna; i feriti atti a camminare nel mezzo, gl’impotenti sulle spalle, meno due che, doloroso il dirlo, dovemmo abbandonare agonizzanti ed impotenti affatto ad essere trasportati!... Ad un dato segnale si partì compatti, a passo accelerato, decisi a tutto; presimo la direzione del bosco e passammo silenziosi in mezzo al nemico, che stupefatto del nostro ordine, senza opporre resistenza, ci lasciò libero il varco, e prima ch’egli si fosse riavuto, avesse messo le briglie a’ cavalli, e si fosse posto a inseguirci, noi avevamo già guadagnato il bosco. Una truppa meno affezionata al suo capo, meno agguerrita, dopo una giornata così disastrosa, arsa dalla sete, si sarebbe sbandata appena giunta al bosco, cercando la propria salvezza individuale ed il soddisfacimento di quel possente bisogno che fu il nostro martirio in tutta la giornata; poche parole che Garibaldi preventivamente ci aveva diretto ovviarono a quello inconveniente; nessuno si sbandò, nessuno corse a dissetarsi al fiume, bensì, ubbidienti all’ordine, tutti si gettarono a terra distesi in una lunga catena e in attesa, silenziosi, del nemico, che non molto si fece attendere. Il suono delle sue trombe ci avvisò del suo avvicinarsi, e poco stante comparvero i suoi squadroni, che noi, silenziosi sempre e nascosti, attendemmo fino alla distanza di venti passi circa per indi salutarli con una salva che li colpì nel più fitto e riescì micidialissima, mettendoli in scompiglio e persuadendoli a dar volta a briglia sciolta! Un grido di Garibaldi allora ci avvisò che era tempo di bere! Soddisfatta la sete, riprendemmo la ritirata verso il Salto, parte seguendo la riva del fiume, altri il bosco. Il nemico ci molestò fino quasi all’entrata del paese, ma i suoi tiri non ci cagionarono più alcuna perdita. A poca distanza dal Salto, al passo di un guado che a causa della sua strettezza dovevasi eseguire a uno a uno, incontrammo il bravo Anzani, nostro tenente-colonnello e comandante la Legione italiana, che ci era venuto incontro fino a quel luogo onde poterci abbracciare tutti. Or due parole su questo bravo: egli era rimasto nel Salto a causa di una piaga in una gamba; con lui eran pure rimasti pochi de’ nostri ammalati e dodici uomini di guardia alla batteria, unica difesa del forte! Il nemico, inseguendo la nostra cavalleria sin entro il paese, intimò all’Anzani la resa della batteria annunciandogli la morte e la prigionia di noi tutti, compreso Garibaldi, ed offrendo salva la vita a lui ed ai suoi. L’Anzani rispose da forte qual’era: disse che avrebbe difesa la posizione fino all’estremo; che avanzavagli abbastanza polvere per farlo, e che avrebbe fatto saltare la batteria in uno coi suoi compagni prima di arrendersi; pertanto aspettava l’attacco! Il nemico non credè conveniente cimentarsi a quell’impresa, e così l’Anzani salvò a noi la ritirata, procacciò all’Italia una nuova gloria, e ben altre prove a favore del suo paese avrebbe dato, se una morte immatura non lo avesse colpito mentre poneva il piede sul suolo d’Italia! Nella notte poi entrarono nel paese i cinquecento del generale Medina, che per incidenti diversi non aveva potuto operare la sua congiunzione in tempo utile. Quantunque tutta la sua gente fosse disarmata, il nemico demoralizzato dai fatti del giorno non lo molestò menomamente. Gli abitanti del paese presero amorevole cura dei nostri feriti. La nostra perdita ammontò a quarantatrè morti, dei quali trentasette sul campo di battaglia e sei in conseguenza delle ferite; del rimanente pochi furono gli illesi da ferite: la perdita del nemico fu di cinquecento uomini e più fra morti e feriti; nei primi diversi ufficiali superiori! Appena seppimo libera dal nemico la campagna, sortimmo a raccogliere i corpi dei nostri fratelli e li deponemmo in una fossa all’uopo preparata poco lungi dallo stesso terreno ove caddero valorosamente pugnando: un’alta croce colla modesta iscrizione: — _Trentasette Italiani — morti combattendo — l’8 febbraio 1846_ — indica il luogo ove quei valorosi riposano per sempre!» XVII. A questo racconto non manca per esser compito che l’Ordine del giorno, in cui Garibaldi ringrazia i suoi legionari della vittoria, e il Decreto, con cui la Repubblica orientale decretava ai vincitori di Sant’Antonio imperitura onoranza. Ecco pertanto nella loro integrità i due documenti; dolenti soltanto di non poterli raccomandare a più durevoli pagine: «Salto, 10 febbraio 1846. »Fratelli, »Avanti ieri ebbe luogo ne’ campi di Sant’Antonio, a una lega e mezzo da questa città, il più terribile ed il più glorioso combattimento. Le quattro compagnie della nostra Legione, e forse venti uomini di cavalleria rifuggitisi sotto la nostra protezione, non solo si sono sostenuti contro mille e dugento uomini di Servando Gomez, ma hanno sbaragliato interamente la fanteria nemica che ci assaltò in numero di trecento. Il fuoco cominciò a mezzogiorno e durò fino a mezzanotte: non valsero al nemico le ripetute cariche delle sue masse di cavalleria, nè gli attacchi de’ suoi fucilieri a piedi; senz’altro riparo che d’una casupola in rovina (_tapera_), ove non erano in piedi se non alcune travi, i legionari hanno respinto i ripetuti assalti del più accanito de’ nemici; io e tutti gli uffiziali abbiamo fatto da soldati in quel giorno. Anzani che era rimasto nel Salto, ed a cui il nemico aveva intimato la resa della piazza, rispose colla miccia alla mano e il piè sulla Santa Barbara della batteria, quantunque lo avesse il nemico assicurato che tutti eravamo caduti o morti o prigionieri. Abbiamo avuto trenta morti e cinquantatrè feriti: tutti gli uffiziali sono feriti, meno Scaroni, Saccarello il maggiore, e Traverso, tutti leggermente. _Io non darei il mio nome di legionario italiano per tutto il globo in oro._ Alla mezzanotte entravamo in ritirata nel Salto, poco più di cento legionari italiani con settanta e più feriti, compresi i leggermente, che ci precedevano, contenendo, quando troppo c’incalzava, un nemico di milledugento, e repellendolo impaurito. Oh! questo merita d’essere scolpito. — Addio, vi scriverò più a lungo un’altra volta.[84] Il vostro G. GARIBALDI.» «_DS_. — Gli uffiziali che erano con me e che rimasero feriti sono: Cassana, Marrocchetti, Beruti, Ramorino, Saccarello minore, Sacchi, Grafigna e Rodi.» Ed ecco il: «DECRETO. Desiderando il Governo dimostrare la gratitudine della Patria ai prodi che combatterono con tanto eroismo nei campi di Sant’Antonio il giorno 8 del corrente; consultato il Consiglio di Stato, decreta: Art. I. Il signor generale Garibaldi, e tutti coloro che lo accompagnarono in quella gloriosa giornata, sono benemeriti della Repubblica. Art. II. Nella bandiera della Legione italiana saranno inserite a lettere d’oro, sulla parte superiore del Vesuvio, queste parole: Gesta dell’8 febbraio del 1846, operate dalla Legione italiana agli ordini di Garibaldi. Art. III. I nomi di quelli che combatterono in quel giorno, dopo la separazione della cavalleria, saranno inscritti in un quadro, il quale si collocherà nella sala del Governo, rimpetto allo Stemma nazionale, incominciando la lista col nome di quelli che morirono. Art. IV. Le famiglie di questi, che abbiano diritto a una pensione, la goderanno doppia. Art. V. Si decreta a coloro che si trovarono in quel fatto, dopo di esserne stata separata la cavalleria, uno scudo che porteranno nel braccio sinistro, con questa iscrizione circondata d’alloro: _Invincibili combatterono l’8 di febbraio del 1846._ Art. VI. Fino a tanto che un altro corpo dell’esercito non s’illustri con un fatto d’arme simile a questo, la Legione italiana sarà in ogni parata la diritta della nostra fanteria. Art. VII. Il presente Decreto si consegnerà in copia autentica alla Legione italiana, e si ripeterà nell’Ordine generale tutti gli anniversari di questo combattimento. Art. VIII. Il Ministro della guerra resta incaricato della esecuzione e della parte regolamentare di questo Decreto, che sarà presentato all’Assemblea de’ Notabili: si pubblicherà e inserirà nel R. N. SUAREZ. — JOSÈ DE BEJA. — SANTIAGO. — VASQUEZ. — FRANCISCO. — I. MUGNOZ.[85] Nè l’epico gesto esaltò soltanto gli Orientali; gli stranieri stessi, quelli almeno il cui animo non era offuscato da odii partigiani, o da miserabili invidie, gareggiarono nel celebrarlo. «Io vi felicito (scriveva a Garibaldi stesso l’ammiraglio francese Lainé),[86] io vi felicito, mio caro Generale, d’avere così potentemente contribuito colla intelligente ed intrepida vostra condotta al compimento di fatti d’arme, dei quali si sarebbero inorgogliti i soldati della grande armata, che per un momento contenne tutta l’Europa. Io vi felicito in egual modo per la semplicità e la modestia che rendono più cara la lettura della relazione, in cui ci date i più minuti ragguagli d’un fatto, del quale potreste senza timore attribuirvi tutto l’onore. Del resto questa modestia vi ha cattivato le simpatie di persone atte a meritamente apprezzare ciò che voi siete venuto operando da sei mesi in qua, tra le quali noterò in primo luogo il nostro Ministro plenipotenziario, che onora il vostro carattere, e nel quale avete un caldo difensore soprattutto allorquando si tratta di scrivere a Parigi coll’intento di distruggere le impressioni sfavorevoli, che ponno aver fatto nascere alcuni articoli di giornali, redatti da persone poco use a dire la verità anche quando raccontano dei fatti avvenuti sotto i propri loro occhi.[87]» Tosto infine che la notizia varcò il mare e giunse in Italia, i patriotti se ne impadronirono come d’un annunzio di vittoria nazionale, e il narrar la giornata del Salto, il decantarne i prodi, il glorificarne il condottiero, divenne in un subito parte di quella congiura di manifestazioni politiche, all’apparenza tutte letterarie ed accademiche, colle quali gli Italiani si studiavano a ravvivare le già accese scintille del patrio incendio, e punzecchiavano, non potendo di meglio, con invisibili, ma tormentose trafitture la settemplice maglia de’ loro oppressori. Così a Bologna il Felsineo dava un esteso ragguaglio del fatto, e le Letture di famiglia di Torino, e il Diario del Congresso scientifico italiano e altri giornali, lo riproducevano; a Livorno G. B. Cuneo stampava nel Corriere Livornese[88] una serie d’articoli per sbugiardare i calunniatori della Legione e celebrare le virtù del suo capo. A Firenze erano raccolti per cura del colonnello De Laugier, il futuro eroe di Curtatone, i documenti relativi all’impresa di Garibaldi a Montevideo, e in una pubblica radunanza era annunziato un libro che li avrebbe distesamente narrati. Per tutta Italia infine si apriva, quasi pubblicamente, una sottoscrizione per una spada d’onore al colonnello Garibaldi, che era per incanto coperta di firme, e il giovine Bertoldi incuorava con un inno al patriottico dono. Chi sono quei fortissimi, Che vinto il lungo assalto D’un oste innumerevole Entran festanti in Salto? Per chi quel serto intrecciano? Di chi parla quel cantico guerrier? Itali sono, ed italo È il Condottier dei forti; Un giogo iniquo a frangere Si sfidan mille morti, Ogni terreno è patria, Nessun popolo a noi vive stranier. Chi ne’ tuoi chiusi oracoli Può penetrar, gran Dio? Tu dei più eletti spiriti Vedovi il suol natío; Tu lasci qui nell’ozio Tanta gagliarda gioventù morir: E va Gioberti, vindice Dell’italo pensiero, Ad erger su gli elvetici Dirupi un trono al Vero; È Garibaldi un fulmine Che fa l’americane acque stupir.[89] XVIII. Garibaldi restò ancora alcuni mesi al Salto, continuando a battagliare colla flottiglia e colla Legione fino a che il Governo stesso lo richiamò a Montevideo, dove ritornò difatti in sul cominciare di settembre. Nella Banda Orientale però erano accaduti nel frattempo dolorosi, ma importanti avvenimenti. Il general Ribera, che era rientrato, pochi mesi prima, nella capitale, si mette a capo, il 1º aprile 1846, d’una sedizione militare; assale e rovescia il Governo e s’impadronisce del potere. Da quel giorno, nota Garibaldi stesso, la guerra cessa d’essere nazionale, e diventa una meschina lotta di fazioni personali che indeboliscono la difesa e insanguinano la città, la quale di certo sarebbe caduta nelle mani del Rosas, se la Francia e l’Inghilterra coi loro negoziati non avessero ritardata la catastrofe. Nemmeno il governo del Ribera durò a lungo, che ripreso dalla sua incurabile manía di capitanare eserciti in rasa campagna e di dar battaglie, pochi giorni dopo la sua uscita da Montevideo nel gennaio 1847, è nuovamente disfatto e per la seconda volta forzato a riparare nel Brasile, da dove non ritorna più che uomo privato ed impotente. Ciò nonostante Garibaldi non s’era lasciato sfuggire occasione veruna per rendere ancora alla Repubblica quanti servigi erano da lui, e col disegno di secondare le operazioni del Ribera in campagna risaliva con una nuova flottiglia e nuove truppe l’Uruguay fino a Las Vacas, correva fino all’influente del Dajman; vi sbaragliava, il 20 maggio, in un brillante combattimento di cavalleria le truppe riunite del Lama e Vergara, luogotenenti del Gomez, spazzando per alcun tempo d’ogni nemico tutto il territorio attorno al Salto; quando il generale Pacheco, risalito, per la caduta del suo rivale, al potere, lo chiama in Montevideo, e gli offre il comando della piazza. Garibaldi però, a cui era parso eccessivo onore persino il grado di Generale, avrebbe volontieri rifiutato l’arduo incarico, se la deferenza al rispettato amico, e il desiderio di prestare fino all’ultimo l’opera sua alla Repubblica, non l’avessero indotto a sobbarcarsi ad un ufficio, in cui il cuore gli presagiva di non incontrare che difficoltà ed amarezze. E non s’ingannò. Fin che Garibaldi dava gratuitamente il sangue e la vita per la causa orientale e s’accontentava dei secondi onori e dei posti subalterni, era un fratello, era un eroe, e gli ambiziosi, anzichè adombrarsene, potevano sperare di farsene sgabello e per la stessa degnazione con cui l’onoravano ingrandire sè stessi; ma quando lo videro salire ai primi onori ed occupare, anche forzato, quei posti, a cui essi avevano, forse senza merito, agognato, non gli perdonarono più. Il fratello divenne uno straniero, l’eroe un avventuriere, il vincitore di Nueva Cava e di Sant’Antonio un inetto, tutta la congiura delle piccole e grandi gelosie, dei pregiudizi locali, delle permalosità spagnuole scoppiò contro di lui e lo costrinse a deporre l’ufficio. Non prima però d’aver reso alla Repubblica un ultimo e segnalato servigio. Ammutinatosi, forse per istigazione de’ suoi stessi nemici, un reggimento di Negri, e nessuno dei capi osando affrontarlo per rimetterlo all’obbedienza, «Rimanete adunque se avete paura,» esclamò Garibaldi; e seguíto dal solo Sacchi si presenta a cavallo innanzi al reggimento ribelle, penetra nelle sue file, lo arringa con alcune di quelle toccanti e incisive parole che solo i grandi capitani sanno trovare in simili occasioni, e lo riconduce al dovere. Fu quello l’ultimo pericolo corso da Garibaldi a pro della Repubblica, per cui aveva da sei anni combattuto. XIX. Ma ormai i bei giorni di Montevideo sono passati. La città è piena di fazioni, l’esercito di sedizioni, il Governo di rivalità; la difesa si trascina innanzi languida e inonorata; i migliori, come il Sosa, il Battle, l’Estaban, il Diaz, son morti o fuggiaschi; l’assedio dura per la sola forza d’inerzia degli assedianti e degli assediati, e le sorti della Repubblica pendono assai più dai negoziatori diplomatici, che dalle battaglie e dalle armi. Oltre di che un’altra patria, ben più cara e più sacra, richiama ed attende Garibaldi; e se il suo braccio continua a combattere ancora per la causa di Montevideo, la sua anima è altrove. Il 1847 stava per finire; e ogni bastimento che da mesi approdasse alla Plata, portava dal vecchio continente l’annunzio d’un avvenimento importante. Un nuovo Pontefice benediva l’Italia, perdonava ai ribelli, accoglieva i proscritti e poneva in tutela della Croce la causa dei popoli. Un fremito di vita nuova correva da un capo all’altro della Penisola; i suoi popoli già ardivano squassar le catene in viso ai loro tiranni, e chiedere ad alta voce quella libertà che avevano sino allora sommessamente sospirata. In alcune città l’agitazione legale poneva gli oppressori all’aspro bivio o d’incrudelire, o di cedere; in altre le prime avvisaglie erano già cominciate, e il sangue era pegno di conflitti maggiori. Ogni angolo d’Italia era un braciere di congiure, e i Principi stessi, o sinceri o atterriti, promettevano riforme e costituzioni; la Polonia, la Gallizia, l’Ungheria reclamavano dalle antiche dinastie nuovi statuti sociali; la Francia, l’Austria, la Germania stessa parevano alla vigilia d’una rivoluzione. L’impressione che le novelle d’Italia facevano sull’animo di Garibaldi è più facile immaginarla che descriverla. «La sua fisonomia (scrive il Cuneo, che doveva vederlo ogni giorno) aveva preso un’espressione nuova, i suoi modi erano divenuti più concitati; sovente ei s’arrestava sopra pensieri, e gli sfuggiva un leggiero sorriso, come a chi attende una lieta fortuna.» Pio IX soprattutto l’aveva esaltato; onde colto dal farnetico comune per quel Pontefice, in cui la fantasia degli Italiani s’era creata un novello Giulio II, s’accorda coll’Anzani a indirizzargli, per mezzo di monsignor Bedini, nunzio apostolico in Rio Janeiro, la seguente lettera: «Illustrissimo e rispettabilissimo signore, Dal momento in cui ci sono arrivate le prime nuove dell’esaltazione del sovrano pontefice Pio IX e dell’amnistia che egli concesse a’ poveri proscritti, noi abbiamo con attenzione e con sempre crescente interesse seguite le orme che il capo supremo della Chiesa imprime sulla via della gloria e della libertà. Le lodi, il di cui eco arrivò sino a noi dall’altra parte del mare, il fremito col quale l’Italia accoglie la convocazione dei deputati e vi applaude, le saggie concessioni fatte alla stampa, l’istituzione della guardia civica, l’impulso dato all’istruzione popolare e all’industria, senza contare le tante sollecitudini tutte dirette al miglioramento d’una nuova amministrazione, tutto infine ci ha convinti che uscì finalmente dal seno della nostra patria l’uomo, che comprendendo i bisogni del suo secolo aveva saputo, secondo i precetti della nostra augusta Religione, sempre nuova, sempre immortale, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi frattanto alle esigenze dei tempi. E sebbene tutti questi progressi non avessero alcuna diretta influenza sopra di noi, gli abbiamo nondimeno seguiti da lungi, accompagnando coi nostri applausi e coi nostri voti l’accordo universale dell’Italia e di tutta la Cristianità. Ma quando da pochi giorni apprendemmo l’attentato sacrilego, col quale una fazione fomentata e sostenuta dallo straniero, non ancora stanca dopo tanto tempo di straziare la nostra povera patria, si propose di rovesciare l’ordine di cose attualmente esistente, ci è sembrato che l’ammirazione e l’entusiasmo per il Sovrano Pontefice fossero un troppo debole tributo, e che un dovere più grande ci fosse imposto. Noi che vi scriviamo, o illustrissimo e rispettabilissimo signore, siamo di coloro, i quali, sempre animati dal medesimo pensiero che ci ha fatto subire l’esilio, abbiamo prese a Montevideo le armi per una causa che ci sembrò giusta, e riunite poche centinaia d’uomini nostri compatriotti qua venuti colla speranza di trovarvi giorni meno dolorosi di quelli che subivamo nella nostra patria. Ora nei cinque anni dacchè dura l’assedio delle sue mura, ciascuno di noi più o meno ha dovuto far prova più d’una volta di rassegnazione e di coraggio; e grazie alla Provvidenza ed a quello spirito antico, che infiamma ancora il nostro sangue italiano, la nostra Legione ha avuto occasione di distinguersi; ed ogni volta che questa occasione si è presentata, essa non ha lasciato fuggirsela, di maniera che (io credo sia permesso dirlo senza vanità) ha sul cammino dell’onore sorpassato tutti gli altri corpi che erano suoi rivali e suoi emuli. Adunque se oggi le braccia che hanno qualche uso delle armi sono accette a Sua Santità, è superfluo il dire che più volentieri che mai noi le consacreremo al servigio di colui, che fa tanto per la patria e per la Chiesa. Noi ci chiameremo adunque fortunati, se potremo venire in aiuto dell’opera redentrice di Pio IX assieme a’ nostri compagni, a nome dei quali ve ne facciamo parola, e noi non crederemo di pagarla troppo cara con tutto il nostro sangue. Se la vostra illustre e rispettabile signoria pensa che la nostra offerta possa essere accetta al Sovrano Pontefice, che Ella la deponga a’ piedi del suo trono. Non è già la puerile pretensione che il nostro braccio sia necessario che ce lo fa offrire; sappiamo benissimo che il trono di san Pietro riposa su basi che non possono nè crollare, nè confermare i soccorsi umani, e che di più il novello ordine di cose conta numerosi difensori, i quali saprebbero vigorosamente respingere le ingiuste aggressioni dei suoi nemici; ma poichè l’opera deve essere repartita tra i buoni, e la dura fatica data ai forti, fate a noi l’onore di contarci tra questi. Attendendo, ringraziamo la Provvidenza d’aver preservato Sua Santità dalle macchinazioni dei tristi, e facciamo voti ardenti perchè le accordi lunghi anni per il bene della Cristianità e dell’Italia. Non ci resta più altro che pregar voi, illustre e venerabilissimo signore, di perdonarci il disturbo che vi causiamo, e di ricevere i sentimenti della nostra perfetta stima e del profondo rispetto, con i quali noi ci professiamo della sua illustrissima e rispettabilissima persona i più devoti servitori G. GARIBALDI. F. ANZANI.[90]» La qual lettera, quando si pensi a quella specie di ubbriacatura guelfa da cui le teste erano state prese nel 1848, e si ricordi che il Mazzini stesso, pochi mesi dopo, ne scriveva direttamente al Papa una consimile, non potrà parere strana ad alcuno. Essa, al contrario, getta un raggio di più sul carattere di Garibaldi e ne rileva uno de’ tratti più espressivi. Dominato dall’idea fissa di fare l’Italia, unica luce del suo cervello, unica fiamma del suo cuore, egli non conobbe mai preferenza d’uomini o predilezione di parti; combattè a fianco del Mazzini; combattè agli ordini di Napoleone e di Vittorio Emanuele; avrebbe combattuto, diceva un giorno, «col demonio;» qual meraviglia che egli fosse nel 1848 disposto a combattere sotto le insegne del Vicario di Cristo? Franco condottiero della causa de’ popoli, era la bandiera ch’egli guardava, non i capitani o gli alleati. La lettera a Pio IX sarà il capostipite d’un interminabile epistolario; ma chi vi frugherà dentro con senso di misericordia e intelletto d’equità, troverà sempre sotto l’incondita congerie delle bizzarrie, delle contraddizioni e delle volgarità la stessa schiettezza ingenua di sentimenti, la stessa ignoranza bonaria della realtà, la stessa credulità sconsiderata all’utopia, lo stesso concetto romanzesco ed eroico della vita; ma altresì la stessa fiamma d’amor patrio, che brilla, quasi gemma legata in similoro, nella prima lettera a Pio IX. E a me non sembra strano che il nunzio Bedini ingannato, come tanti altri, dalle mostre liberalesche del suo Signore, rispondesse ai due patriotti per assicurarli, «che se la distanza di tutto un emisfero può impedire di profittare di magnanime offerte, non ne sarà mai diminuito il merito, nè menomata la soddisfazione nel riceverle;[91]» come non deve punto stupire che egli nel 1849, prete, Legato nelle Romagne, ministro d’un Pontefice che ripudiava ogni alleanza colla rivoluzione, facesse bombardare dagli Austriaci la patriottica Bologna, divenisse complice della fucilazione di Ugo Bassi e di Ciceruacchio, cercasse a morte lo stesso Garibaldi. Pio IX aveva mutato, o se vuolsi, spiegato meglio la sua politica, e il suo Legato la mutava o spiegava con lui, e ben ingenui coloro che se ne maravigliano! XX. Le notizie pertanto d’Europa e d’Italia s’erano andate facendo di giorno in giorno più gravi; la risposta di Pio IX non veniva, ma venivano le lettere de’ patriotti, compagni di fede e di congiure, che da ogni parte annunziavano inevitabile la rivoluzione ed imminente lo scoppio. Il Mazzini soprattutto, che non aveva mai perduto di vista il suo affigliato di Marsiglia, s’era posto in diretto carteggio con lui per informarlo dell’andamento delle cose, infervorarlo a tenersi pronto, accaparrare in certa guisa il braccio suo e de’ suoi commilitoni per le attese battaglie della patria. Infine la Colonia italiana, composta in gran parte di proscritti del 1821 e del 1831, non poteva restare insensibile alle novelle che le venivano d’Italia, e desiderosa di mostrare alla dolce madre lontana il loro cuore di figli, andavano eccitando Garibaldi, se di eccitamento poteva aver bisogno, affinchè persistesse nel magnanimo proposito, promettendogli tutti i conforti e gli aiuti onde avesse bisogno. La partenza frattanto per l’Italia era nel petto di Garibaldi cosa ormai risoluta, quando l’annunzio della sollevazione di Palermo e di Messina del 12 gennaio 1848 venne a precipitarla. Non v’era più da indugiare; la lotta era cominciata; in Italia si combatteva e si moriva: il posto di Garibaldi e della sua Legione era là. Una sola cosa era incresciosa e al tempo stesso difficile: svincolarsi da Montevideo; e non perchè Garibaldi fosse legato alla Repubblica da alcun patto indissolubile, chè la sua condotta era sempre stata subordinata alla condizione del ritorno in Italia; ma perchè gli riusciva doloroso abbandonare prima dell’ora decisiva una causa giusta ed un popolo amato. Una pubblica sottoscrizione era stata già aperta fra gl’Italiani per «la spedizione in Italia comandata da Garibaldi,» e il solo Stefano Antonini aveva firmato per 30,000 lire. Un brigantino era stato noleggiato ed allestito di tutto l’occorrente. Anita, appena sgravata di Ricciotti, erasi già imbarcata fin dal dicembre per l’Italia e tutto cospirava a credere la partenza inevitabile. Invano il Governo di Montevideo, conscio della gran perdita che stava per fare, tentava trattenere con preghiere, con lusinghe, con studiati indugi l’impaziente Italiano; invano gli stranieri stessi, che vedevano in Garibaldi una delle più sicure garanzie dei loro interessi, si sforzavano a ritardarne, almeno, la partenza, offrendogli di assumere a loro carico il più della _diaria_ d’affitto del bastimento noleggiato. Garibaldi non si sentiva più padrone della sua volontà, e tutte quelle preghiere, quelle insistenze, quegl’indugi, anzichè piegarlo non facevano che inasprirlo, strappandogli spesso dalle labbra il detto piena d’amarezza: _Duolmi che arriveremo gli ultimi, quando tutto sarà finito_. Affinchè però l’impresa riuscisse al suo fine, era mestiere precisarne la mèta, divisarne i luoghi d’approdo, avvertirne gli amici ed aderenti, prepararle in Italia stessa il terreno. Pochi mesi dopo la giornata del Salto, era sbarcato a Montevideo e si era arrolato nella Legione, Giacomo Medici. Era un giovane di maschia bellezza, d’intrepido cuore, d’ingegno acuto e prudente insieme, d’affabili modi; e Garibaldi, presentendo in lui l’uomo che ormai la storia ha fatto suo, l’ebbe caro prontamente e ripose in lui tutta la sua fiducia. Però egli fu anche il prescelto da Garibaldi come il foriero e preparatore in Italia della divisata spedizione. Il Medici doveva partir subito, vedere a Londra il Mazzini e accontarsi con lui; percorrere, facendo propaganda, il Piemonte, penetrare in Toscana e accordarsi col Fanti, col Belluomini, col Guerrazzi e con altri molti; prepararvi nascostamente armi ed armati ed attendervi Garibaldi colla Legione, che non avrebbe tardato a raggiungerli tra Piombino e Viareggio. Ma a rendere ben chiaro il concetto di Garibaldi e il mandato del Medici, valga il documento che qui per la prima volta pubblichiamo: «ISTRUZIONI. Terrai presente soprattutto che scopo nostro è di recarci in patria non per contrariare l’andamento attuale delle cose, e i Governi che v’acconsentono; ma per accomunarci ai buoni, e d’accordo con essi andare innanzi pel meglio del paese; ma che noi preferiremmo lanciarci ove una via ci fosse aperta ad agire contro il Tedesco, contro cui denno essere rivolte senza tregua le ire di tutti: e tanto più lo vorremmo, chè la gente che ci accompagna è mossa principalmente da questo ardentissimo desiderio, che ove non venisse soddisfatto potrebbe dar luogo allo sfiduciamento; scemare o infiacchire i compagni, che avvezzi alla vita attiva del campo male s’adatterebbero a vivere nei quartieri; perciò ti recherai: 1º A consultare M.... (_Mazzini_) intorno ai passi da darsi onde preparare le cose nel senso indicato; e appena a ciò provveduto t’affretterai per alla volta di Genova, Lucca, Firenze e Bologna, a meno che con M.... non risolviate altrimenti. Per questi punti ti do lettere che consegnerai ai loro indirizzi, se pure lo crederai conveniente, dietro le intelligenze con M.... 2º Dagli amici ti procurerai commendatizie per tutti quei punti che crederai utili visitare, affine di dar moto e preparare gli uomini, e combinare elementi di cooperazione, quanto più ti sarà possibile. 3º Scorsi quei paesi ti ridurrai in Livorno, come luogo più acconcio a sapere di noi; perchè nostro pensiero è approdare in uno dei porti seguenti: Viareggio, Cecina, Piombino, San Stefano, Port’Ercole. Soltanto ne devieremo, se ci perverranno notizie che ci consiglino farlo pel meglio; e in ogni caso tenteremo sempre ogni mezzo onde fartene avvertito. 4º Una delle cose che dovrai tenere in vista, si è quella di indurre gli amici a tener pronti quei mezzi indispensabili a provvedere il bisognevole almeno pei primi giorni; mancando su questo punto tanto essenziale si correrebbe rischio di perdere il frutto di tante fatiche, e dei sacrifici fatti con tanta generosità dai nostri compatriotti in Montevideo. 5º I venti, o altre cause, potrebbero obbligarci a toccare in Gibilterra. Se M.... ha ivi persona fidata le diriga lettere per me, informandomi della marcia delle cose e sul da farsi — e potrà appena tu arrivi cominciare a scrivere. La persona che incaricasse dovrebbe stare sempre all’erta, affine di farmi pervenire ogni cosa a bordo, e subito; senza aspettare che si scendesse a terra: potrebbe non convenire andarci; potrebbero le quarantene impedirlo. — Dal nome del bastimento, che è quello di _Speranza_, con bandiera orientale, sarebbe al momento avvertito del nostro arrivo — e perchè ne fosse più sicuro, e potesse riconoscerlo facilmente, alzeressimo all’albero di prora una bandiera _bianca_ attraversata orizzontalmente, per quanto è lunga e nel bel mezzo, da una striscia _nera_. Di quanto scrivesse a noi potrebbe darti avviso se ciò potesse farci mutare di direzione. Ai porti indicati puoi aggiungervi anche quelli di Talamone e di Livorno. Anche il bastimento è a _brigantino_. Montevideo, 20 febbraio 1848. G. GARIBALDI. Le lettere che io ti scriverò dirette a Livorno saranno al nome di Mr James Gross — nella soprascritta — Signor Giacomo Medici.[92]» Il Medici infatti tre giorni dopo s’imbarcava per la sua missione; e il 15 aprile 1848 Garibaldi medesimo, accompagnato da ottantacinque de’ suoi legionari, fra cui l’Anzani, ammalato, il Sacelli, ferito, Ramorino, Montaldi, Marocchetti, Grafigna, Peralta, Rodi, Cucelli e il suo moro Aghiar; soccorso dallo stesso Governo orientale di armi, di munizioni, di cannoni sul brigantino _Bifronte_, ribattezzato espressamente per quel viaggio coll’auguroso nome _La Speranza_, comandato dal capitano Gazzolo, salpò da Montevideo per i lidi d’Italia.[93] XXI. Nel 1836 l’America raccoglieva un oscuro marinaio e un disertore proscritto; dopo undici anni ella restituiva all’Italia un ammiraglio provetto, un capitano invitto, un eroe glorioso. In quegli undici anni Garibaldi consacratosi alla causa di due Repubbliche, rappresentanti, a’ suoi occhi, la causa stessa della libertà e della giustizia, aveva per esse patita la tortura e toccata una ferita mortale; trionfato d’un naufragio e additato un nuovo passaggio all’Oceano; costruito flottiglie e organizzato legioni; fatta la corsa sui mari, sui fiumi e guerreggiato a piedi ed a cavallo sui campi; sostenuto quattro combattimenti navali e dodici terrestri; vinto, nella campagna di Rio Grande, al Galpon de Chargucada, a Imeruy, sulle lagune di Santa Caterina e di Los Patos, a Santa Vittoria ed a San Josè; e in quella di Montevideo, a San Martin Garcia, a Nueva Cava, alle Tres Cruces, alla Boyada, all’Hervidero, al Salto ed al Dayman; fronteggiato in una ritirata d’oltre diciotto mesi un nemico soverchiante, e delusa più volte la caccia di potenti crociere; capitanato per seicento leghe una spedizione navale traverso un fiume seminato di batterie nemiche; presa d’assalto una fortezza e diretta la difesa d’una piazza forte; e sbaragliando sovente, emulando sempre i più famosi guerriglieri del suo tempo, non lasciandosi nè insuperbire dalle fortune, nè abbattere dai rovesci, inventando talvolta nuovi artificii e nuovi stratagemmi di guerra, vincendo la forza coll’astuzia e colla prodezza il numero, facendo umana, tra costumanze feroci, la guerra, avea reso temuto e ammirando il suo nome agli stessi nemici, e risuscitato sui più lontani lidi i ricordi del valore italiano. Ciò non ostante le virtù del soldato e le vittorie del capitano sono un nulla a paragone di quella virtù suprema, di quella vittoria che mai, fino allora, gli fallì contro i più naturali istinti della natura umana. Ond’è sotto questo rispetto che la frase tante volte ripetuta di lui «uomo di Plutarco» diventa rigorosamente vera. Entrato al servizio di Montevideo senza patteggiare nè per sè nè per la sua Legione alcun salario, visse fin dal primo giorno, come l’ultimo de’ suoi soldati, delle sole razioni militari. Ricevuta nel 1845 dal generale Ribera l’offerta di vaste terre da dividersi fra lui e i suoi legionari, le rifiuta a nome della Legione stessa, dicendo: «che tanto egli, quanto i suoi compagni, chiedendo d’essere armati ed ammessi a dividere i pericoli del campo coi figli di queste contrade, avevano inteso d’ubbidire unicamente ai dettami della loro coscienza; che avendo essi soddisfatto a ciò che essi riguardavano come un dovere, essi continueranno da uomini liberi a soddisfarvi, dividendo, finchè le necessità dell’assedio lo richiederanno, pane e pericoli coi loro valenti compagni del presidio di questa metropoli, senza desiderare o accettare rimunerazione o compenso delle loro fatiche.» Promosso, col Decreto che abbiamo citato, al grado di Generale, non gli parve aver fatto abbastanza per meritarlo, e con questa nobilissima lettera, ch’egli scrisse al Ministro della guerra, vi rinunziò: «Nella mia qualità di comandante in capo la Marina nazionale, onorevole posto in cui piacque al Governo della Repubblica collocarmi, nulla ho io fatto che merti la promozione a colonnello maggiore (Generale). Come capo della Legione italiana quello che posso aver meritato di ricompensa io lo dedico ai mutilati ed alle famiglie dei morti della medesima. I benefizi non solo, ma gli onori anche mi opprimerebbero l’animo, comprati con tanto sangue italiano. Io non aveva seconde mire, quando fomentava l’entusiasmo de’ miei concittadini in favore d’un popolo che la fatalità lasciava in balía d’un tiranno; ed oggi smentirei me stesso accettando la distinzione che la generosità del Governo vuole impartirmi. La Legione mi ha trovato colonnello nell’esercito, come tale mi accettò suo capo, e come tale la lascerò, una volta compíto il voto che offerimmo al popolo orientale. Le fatiche, la gloria, i rovesci che possono ancora toccare alla Legione, spero dividerli con essa fino all’ultimo. Rendo infinite grazie al Governo, e non accetto la mia promozione del Decreto 16 febbraio. La Legione italiana accetta riconoscente la distinzione sublime che il Governo le decretò il 1º marzo. Una sola cosa chiedono i miei uffiziali, la Legione ed io, ed è questa: che siccome spontanea e indipendente fu l’amministrazione economica, la formazione e la gerarchia del Corpo fin dal suo principio, s’abbia a continuare sullo stesso piede, e chiediamo quindi a V. E. compiacersi di annullare la promozione, di cui tratta il Decreto del 16 febbraio relativamente agli individui che appartengono alla Legione italiana. Dio sia per molti anni con V. E. GIUSEPPE GARIBALDI.» Finalmente il generale Pacheco, rispondendo ai detrattori di Montevideo,[94] abbracciava nella sua apologia anche il generale Garibaldi, e faceva delle sue virtù private e civili, poichè delle guerresche nessuno aveva dubitato, questa pittura: «Nel 1843 il signor Francesco Angeli, uno fra i più rispettabili negozianti di Montevideo, indirizzandosi al Ministro della guerra, facevagli sapere che nella casa di Garibaldi, del capo della Legione italiana, del capo della flotta nazionale, dell’uomo infine che dava ogni giorno la sua vita per Montevideo, non si accendeva di notte il lume, perchè nella razione del soldato, unica cosa sulla quale Garibaldi contasse per vivere, non erano comprese le candele. Il Ministro mandò pel suo aiutante di campo, G. M. Torres, cento _patacconi_ (500 lire) a Garibaldi, il quale, ritenendo la metà di questa somma, restituì l’altra perchè fosse recata alla casa di una vedova, che, secondo lui, ne aveva maggior bisogno. Cinquanta _patacconi_ (250 lire), ecco l’unica somma che Garibaldi ebbe dalla Repubblica. Mentre rimase tra noi, la sua famiglia visse nella povertà; egli non fu mai calzato diversamente da’ soldati; sovente i di lui amici dovettero ricorrere a sotterfugi per fargli cambiare gli abiti già logori. Egli aveva amici tutti gli abitanti di Montevideo; giammai vi fu uomo più di lui universalmente amato, ed era questo ben naturale. Garibaldi, sempre primo a’ combattimenti, lo era egualmente a raddolcire i mali della guerra. Quando recavasi negli offici del Governo, era per domandare grazia per un cospiratore, o per chiedere soccorsi in favore di qualche infelice: ed è all’intervento di Garibaldi che il signor Michele Haedo, condannato dalle leggi della Repubblica, dovè la vita. Nel 1844 un’orribile tempesta flagellava la rada di Montevideo; eravi nel porto una goletta, che, perdute le áncore, stava affidata con evidente pericolo all’unica che le rimaneva; in quella goletta si trovavano le famiglie de’ signori Canil. Il generale Garibaldi, informato del pericolo, s’imbarcò con sei uomini, recando seco un’altra áncora, colla quale la goletta fu salva. A Gualeguaychu fa prigioniero il colonnello Villagra, uno dei più feroci capi del Rosas, e lo lascia in libertà, come anche gli altri di lui compagni. Nella sua spedizione all’interno egli si distinse per molti tratti di cavalleresca generosità, che anche al dì d’oggi formano argomento di conversazione nel campo de’ due partiti.[95]» Innanzi a queste testimonianze potrebbe la storia degnar d’uno sguardo i miserabili libelli di pochi stranieri, e coll’onore d’una confutazione superflua scavare i loro nomi dal perpetuo oblío in cui sono sepolti? Nel 1847 quando il nome di Garibaldi era quasi ignoto, e le sue gesta malnote, e parlar di Garibaldi era un parlar d’Italia; era bello che la voce intemerata di G. B. Cuneo schiacciasse, coll’argomento decisivo dei documenti, i botoli che addentavano Garibaldi e la sua Legione là appunto dove la loro corazza era più tersa e inattaccabile; ma ora l’opera sarebbe affatto vana ed accademica. Nel luglio 1849 Lord Howden nella Camera dei Pari di Londra faceva di Garibaldi questo elogio ancora più eloquente: «Il presidio di Montevideo era quasi tutto composto di Francesi e d’Italiani, ed era comandato da un uomo, cui sono felice di poter rendere testimonianza, che solo era disinteressato tra una folla d’individui che non cercavano che il loro personale ingrandimento. Intendo parlare di un uomo dotato di gran coraggio e di alto ingegno militare, che ha il diritto alle vostre simpatie per gli avvenimenti straordinari accaduti in Italia, del generale Garibaldi!» Ora nessuno meglio di Lord Howden poteva parlare così; egli che, avendo proposto a Garibaldi di sciogliere la Legione mediante un compenso in danaro, si era sentito dire: «Gl’Italiani in Montevideo avere impugnate le armi per difendere la causa della giustizia, e questa causa non potersi abbandonare mai da uomini onorati.[96]» Ed è qui la vera grandezza originale di Garibaldi. Egli nobilitò il nome di soldato di ventura, elevò a missione il mestiere dell’armi, creò il tipo del condottiero disinteressato, che va per il mondo, paladino gratuito della causa della giustizia, senza nemmeno la speranza di condurre in isposa, come i compagni d’Artù, la bella principessa per cui ha dato il sangue, pago sin troppo di riportare alla terra natía il fiero orgoglio delle alte imprese compiute, ravvivato di quando in quando dal ricordo delle gloriose ferite. Pure al Garibaldi che tornava in Italia manca un ultimo tratto, e disgraziatamente è un’ombra. L’America era stata per lui un’eccellente palestra per l’educazione militare, ma non fu, nè poteva essere, una buona scuola d’instituzione politica. Non era certo fra un popolo di passioni veementi, di fazioni perpetue, di rivoluzioni periodiche, dove ogni _caudillo_ che si mettesse a capo d’una masnada di _gauchos_ poteva usurpare la dittatura, salvo ad essere a sua volta rovesciato da un _caudillo_ più fortunato, che un giovane come Garibaldi poteva formare la sua mente politica ed educarsi al culto della legge, all’amore dell’ordine, al giusto concetto della libertà. Ingenuo, fantasioso, inesperto, era naturale che il suo spirito ricevesse come cera l’impronta del paese in cui aveva trovato un asilo ospitale, di cui amava la pittoresca natura e la razza valorosa, con cui aveva stretto sui campi di battaglia un patto indissolubile di fratellanza, e dove infine aveva udito per la prima volta, non più susurrar timidamente ne’ crocchi o nascostamente nelle congiure come in Italia, ma gridar altamente, ma difendere apertamente colle armi que’ nomi di patria, di libertà e d’indipendenza, che erano l’unico patrimonio politico della sua mente e l’unica religione del suo cuore. Trascorsa metà della vita in una consuetudine ininterrotta di corsari, di soldati, di marinai e di pastori, senza ritemprarsi quasi mai nel contatto d’una società più colta e più civile; portato da’ suoi istinti selvatici, dalle sue abitudini marinaresche, dai suoi gusti solitari, e soprattutto dal suo prepotente bisogno d’indipendenza, a vagheggiare quei vasti deserti della Pampa che a lui ripetevano sulla terra un’immagine dei deserti dell’Oceano, e ad ammirare, fors’anco ad invidiare, la sorte dei suoi fieri abitatori; qual meraviglia che a’ suoi occhi il _gaucho_ rappresentasse il miglior tipo dell’uomo libero, ed egli s’abituasse a poco a poco a pensare, a operare, a vestire perfino come quella parte dell’umana famiglia in cui era cresciuto, e che un giorno ne portasse seco in Europa non solo le idee e le credenze, ma le costumanze e le foggie?! [Illustrazione: CARTA DELL’URUGUAY] Un _gaucho_ temprato da un innesto europeo e purificato da un alto ideale umano; un Artigas, meno i puntigli e la vanità; un Ribera, più il genio, il disinteresse e la fortuna: ecco il Garibaldi che l’America rinviava in Italia, e che il tempo e la civiltà potranno, in qualche parte, modificare, ma che resterà, ne’ suoi tratti caratteristici, immutato. CAPITOLO QUARTO. DA NIZZA A MORAZZONE. [1848.] I. La _Speranza_ era ancora nell’Oceano, quando un imprevisto accidente rischiò di seppellire in un punto Garibaldi e la sua fortuna. Una lucerna accesa caduta sul barile dell’acquavite infiamma in un istante la dispensa, e minaccia di comunicare l’incendio al bastimento. I più arditi corrono alle pompe; il dispensiere Solari ripara la sua negligenza d’un istante buttandosi a corpo perduto contro le fiamme, ma non per questo l’allarme a bordo s’acqueta; i legionari, colti da timor pánico per quel nuovo e non mai visto nemico, abbandonano i posti, si rovesciano in disordine sul ponte, s’arrampicano su per le sarchie, accrescono colle grida e col tumulto il pericolo del disastro. Garibaldi solo mantiene l’imperturbabile suo sangue freddo, comanda la manovra, impone la calma, rianima gli atterriti, dirige gli operosi, riesce in brev’ora a domare l’incendio ed a salvare il bastimento, che riprende la sua rotta. I reduci da Montevideo non conoscevano d’Europa che gli avvenimenti del gennaio. La notizia della rivoluzione di febbraio, le barricate di Milano, la sollevazione di Vienna, l’entrata di Carlo Alberto in Lombardia, le prime vittorie dell’esercito piemontese sul Mincio non potevano essere ancora pervenute in America, ond’erano loro interamente ignote. Da ciò ne seguiva che Garibaldi fosse sempre un po’ incerto della mèta precisa del suo sbarco, e l’animo suo ondeggiasse naturalmente tra i consigli del Mazzini che l’avrebbe voluto spingere a sbarcare in Sicilia, gli accordi presi col Medici che in certa guisa lo impegnavano a scendere in Toscana, ed il suo antico e più profondo concetto che lo portava ad andare dovunque fosse più pronta l’occasione di menare le mani senza preferenza di luoghi, di capi e di bandiera. Coi suoi pensieri intanto veleggiava verso l’Italia anche la sua nave, quando, passato di non lungo tratto lo Stretto di Gibilterra, i marinai di prua avvistano giù in fondo all’orizzonte una nave con una nuova e non mai vista bandiera. Tutti gli occhi e tutte le lenti s’appuntano curiosi sull’insolito vessillo, intantochè i due legni continuano a navigare e lo spazio che li divide si vien ristringendo sempre più. Ma che cos’è quella bandiera, a quale nazione può ella appartenere, quali colori drappeggia ella? A prima vista, ancora da lontano, l’avreste detta la tricolore francese; ma più la si riguarda più i due bastimenti s’accostano e più i colori della misteriosa bandiera spiccano e si rischiarano; ancora un po’ e il turchino sfuma e si perde in un’altra tinta; un passo ancora e il rosso, il bianco, il verde del tricolore italiano risplendono in tutta la loro pompa sull’ampia stesa dei mari. «È la bandiera italiana,» urlò per il primo il capitano Pegorini! «È la nostra bandiera,» ripeterono in coro cento voci commosse. A tal punto Garibaldi più commosso di tutti ordina di accostare il legno fratello, e imboccato il portavoce, gli chiede che cosa significhi quella bandiera, e che nuove rechi d’Italia: «Milano è insorta (risponde dal ponte dell’altro bastimento un’altra voce); gli Austriaci sono in fuga; tutta l’Italia è in rivoluzione; viva la libertà!!» Quale effetto producessero quelle parole pronunciate là nel vasto silenzio del mare, sotto l’immensa vôlta del cielo, sull’animo di quegli uomini, proscritti la più parte per l’amore di quell’Italia di cui allora udivano il trionfo, veterani di quella libertà, che avevano cercata e difesa su tutti i lidi della terra, e che s’erano preparato quel giorno di ritorno e di gaudio con una vita intera di battaglie e di sacrifici, lo descriva chi può. Noi siamo dinanzi all’indescrivibile; Dante avrebbe detto: «all’ultimo di ciascun artista.» Marinai e legionari, soldati e capitani s’abbracciano, urlano, piangono, ridono insieme, passano nell’istante medesimo fra i più opposti sentimenti, non sanno se più esultare all’annunzio della patria liberata, o affliggersi per lo sgomento di non giungere più a tempo a combattere le ultime battaglie della sua liberazione: un tumulto babelico di commenti, mille voci confuse di patria, di libertà, di rivoluzione, di guerra, «e suon di man con elle,» corrono per la nave, si levano per l’aria, trasportano per alcuni istanti su quel bastimento l’ebbrezza del nostro 1848. Garibaldi fa ammainare la bandiera di Montevideo, e con un lenzuolo, il panno rosso e le mostre verdi delle casacche de’ legionari improvvisa una tricolore e la issa, fra salve di battimani e urla di tripudio, all’albero di maestra. Uno strumento ed un suonatore dove sono Italiani non mancano mai; e una danza folle, sfrenata s’intreccia intorno a quell’albero portatore di quei tre sacri colori, e il riso delle stelle e i susurri del mare s’accompagnano a quella festa dell’Italia risorta.[97] E la grande novella dell’alto mare è presto confermata. Approdati la sera stessa a Palos presso Cartagine per farvi incetta di viveri per il bastimento e d’aranci per l’Anzani sempre più ammalato, odono ripetere dal Vice-console francese tutte le notizie che il bastimento italiano aveva loro recate; onde l’ultima ombra di dubbio che poteva ancora restare nell’animo de’ nostri reduci, scomparve. Garibaldi poi dal canto suo lasciò ogni esitazione. Ormai la via era tracciata, la mèta era chiara: conveniva senza perdere un istante drizzar la prua verso l’Alta Italia, arrivare al più presto sul teatro della lotta, offrire senza esitare il braccio a Carlo Alberto, se il capitano dell’impresa era lui, e combattere al suo fianco. Pertanto la Speranza salpa la sera stessa dal porto, e Garibaldi senza chiedere, giusta il suo costume, alcun parere ai compagni, mette la prua sul Nord-Est, e fa rombo più veloce che può verso il Mare di Liguria. Egli tuttavia inclinava a prender terra a Genova o in qualche porto vicino; ma i venti avendolo obbligato ad appoggiare, si decise ad approdare a Nizza, e il 21 giugno 1848, alle ore 11 antimeridiane, inalberata di nuovo la bandiera di Montevideo, che a lui, disertore condannato a morte, era una tutela, getta l’áncora nel porto della città natale. II. Era aspettato: l’attendeva dopo dodici e più anni d’assenza la vecchia madre; l’attendeva coi tre figli Anita; l’attendeva, preannunziato dai giornali, la città intera.[98] E fin dal primo spuntare dell’atteso naviglio, la popolazione si versa come un’ondata verso il porto, impaziente di festeggiare e ammirare il glorioso concittadino, e appena ne apparve sulla tolda, in mezzo allo stuolo tricolorato de’ suoi legionari, la bionda testa leonina, abbronzata dal sole delle battaglie e come precinta dall’aureola della vittoria, un urlo d’entusiasmo, una salva d’applausi lo saluta, facendogli suonare all’orecchio, per la prima volta, nel dolce idioma natío quel grido d’ammirazione che da tanti anni non udiva più se non in lingua straniera, sopra terra straniera. Soltanto verso sera scese a terra, e cominciarono subito anche per lui le noie della celebrità; chè al quarto giorno dallo sbarco fu invitato co’ suoi legionari a un banchetto di quattrocento coperti, di cui l’_Echo des Alpes Maritimes_, dava in questo tenore il ragguaglio: «_Cronaca politica_: Nizza, 26 giugno. — Ieri alle 2 pomeridiane nella grande sala dell’albergo _York_ ebbe luogo il fraterno banchetto che i Nizzardi offersero al valoroso generale Garibaldi e ai valenti legionari suoi compagni di esiglio e di gloria. La sala era addobbata di bandiere e adornata di fiori; circa duecento invitati, fra i quali il signor Intendente generale, vi si trovavano riuniti per festeggiare l’arrivo del celebre Capitano, che consacrò la sua vita alla difesa e al trionfo della libertà. »Dopo i discorsi e le felicitazioni, pronunciati da qualche convitato, il Generale prese la parola in lingua francese e si espresse con una certa facilità in questa lingua, quantunque siano quindici anni che ha lasciato Nizza ed abitato il Brasile, ove lo spagnuolo dovette diventare la sua lingua abituale; egli approfittò di questa occasione per riassumere il suo passato e la sua attuale situazione: «Voi sapete, egli disse, se io fui mai partigiano dei re, ma poichè Carlo Alberto si fece il difensore della causa popolare, io ho creduto dovergli recare il mio concorso e quello de’ miei camerati. D’altronde, aggiunse egli, una volta che la libertà italiana sarà assicurata, ed il suolo liberato dalla presenza _del nemico_, io non dimenticherò giammai che sono figlio di Nizza e mi si troverà sempre pronto a difendere i suoi interessi.[99]» Trattenutosi alcuni giorni a Nizza per apparecchiare le cose sue e riordinare la Legione, a cui i Nizzardi avevano recato un primo rinforzo di settanta volontari, il 28 mattina salpa con circa cencinquanta[100] legionari, bene equipaggiati ed armati, per Genova, dove arrivò al pomeriggio del 29, accolto dai Genovesi con quello stesso entusiasmo di popolo, con cui era stato accolto a Nizza e lo sarà d’ora innanzi ovunque, e ricevuto dalle stesse Autorità, che egli per il primo s’era recato a visitare, con ogni dimostrazione d’onore.[101] Ma i primi suoi passi erano stati verso il povero Anzani, che fattosi trasportare da qualche giorno in Genova, si era quivi rapidamente aggravato. Lo trovò infatti quasi moribondo; n’ebbe il cuore lacerato; lo consolò degli alti conforti che l’anima eroica dell’uno era degna di udire dalla voce eroica dell’altro; stette al suo capezzale finchè gli fu concesso; ma alla fine chiamato dalla voce imperiosa della patria, e costretto dalle necessità della sua impresa a recarsi al campo del Re, dal quale s’attendeva aiuti e favori, si staccò coll’anima straziata dalle braccia del venerato amico, e fu per sempre. Prima però di lasciar Genova fu obbligato, parte dalla sua stessa posizione, parte dalla febbre parolaia e festaiuola di quel tempo, ad intervenire ad un’adunanza del Circolo Nazionale di quella città; quindi ad udirvi dei discorsi ed a pronunciarne uno egli stesso. Invitato difatti da un membro del Circolo a dire quale fosse il suo giudizio sulle cose della guerra e sulle condizioni del nostro esercito, si schermì dapprima modestamente, dicendo che a lui, giunto appena dall’America, mancavano i criterii per sentenziare sopra argomento sì grave; ma poi, eccitato dall’opportunità, e lasciando libero il corso ai più intimi pensieri dell’animo suo, con molta misura e molta franchezza insieme soggiunse: «Il maggiore pericolo che ci sovrasta è quello che la guerra si prolunghi e non sia terminata quest’anno. Noi dobbiamo fare ogni sforzo possibile perchè gli Austriaci siano presto cacciati dal suolo italiano, e non si abbia a sostenere una guerra due o tre anni. Ora noi non possiamo ottenere questo intento, se non siamo fortemente uniti. Si dia bando ai sistemi politici; non si aprano discussioni sulla forma di governo; non si destino i partiti. La grande, l’unica questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra dell’indipendenza. Pensiamo a questo solo: uomini, armi, danari, ecco ciò che ci bisogna, non dispute oziose di sistemi politici. Io fui repubblicano (esclama il Generale), ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d’Italia, io ho giurato di ubbidirlo, e seguitare fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli Italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute. Guai a noi, se invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi ed inutili, e peggio ancora se cominciamo a sparger fra noi i semi di discordia. Uniamoci, uniamoci nel solo pensiero della guerra; facciamo per la guerra ogni sorta di sacrificio. Pensiamo che essi saranno sempre minori di quelli che ci imporrebbero i nemici se fossimo vinti.» E queste parole, scrive il giornale d’onde le togliamo, vennero spesso interrotte e seguite da grandi applausi; onde il Presidente disse che rispondevano esattamente ai sentimenti del Circolo, e l’Assemblea chiuse la cerimonia nominando socio onorario del Circolo stesso Garibaldi, che incominciò forse da quel giorno a conoscere la beatitudine d’essere il Socio e Presidente nato e perpetuo di tutte le Società concepibili ed inconcepibili, di cui in qualche parte il bisogno e l’utilità, ma in grandissima l’ozio, il capriccio e la moda, vanno seminando il secolo XIX. Certo le parole del generale Garibaldi erano schiette, e traducevano esattamente il concetto ch’egli si era sempre formato d’una guerra nazionale, nella quale uno doveva comandare, e tutti gli altri obbedire e combattere. Però la lettera a Pio IX del 1847, il discorso su Carlo Alberto del 1848, il programma di Marsala del 1860, non fanno che una cosa sola, non sono che l’applicazione del medesimo pensiero e il contrassegno del medesimo uomo. È sempre lo stesso patriotta puro e disinteressato che predica il suo verbo e si prepara a segnarlo col sangue: far l’Italia con chicchessia e comunque, rimettendo all’indomani le quistioni litigiose del suo ordinamento e della sua costituzione. Che se un giorno egli avrà il torto di metter bocca in quistioni non sue, e disadatto d’ingegno, impreparato di studi, digiuno d’ogni esperienza, volerle col taglio della sua retorica epistolare recidere, come col taglio della sua spada eroica falciava le falangi nemiche, consoliamoci e perdoniamogli ancora: chè quella retorica consumata dalle sue stesse ripetizioni e contraddizioni passò sempre senza lasciare alcuna traccia nociva, nè dare alla patria altro dolore che di vedere il suo eroe, «nato a cingersi la spada,» capovoltare il «fondamento che natura» aveva posto in lui, e tentar, invano per fortuna, di sfabbricare coll’insania delle parole il monumento di gloria ch’egli aveva eretto a sè stesso colla virtù delle opere. III. Frattanto nel giorno stesso che Garibaldi partiva per il Mincio arrivava a Genova il Medici, reduce dalla sua escursione in Toscana, scontento dell’esito, e irritato con Garibaldi che l’aveva piantato e se n’era andato a sbarcare altrove. Ora anche la sua prima visita era stata all’Anzani, e manifestatagli la sua collera per la condotta, a’ suoi occhi poco leale, di Garibaldi, si udì rivolgere dal morente questo profetico consiglio: «Medici, non essere severo con Garibaldi: egli è un predestinato; gran parte dell’avvenire d’Italia è nelle sue mani, e sarebbe un grave errore abbandonarlo e separarsi dalla sua fortuna. Anch’io mi sono qualche volta guastato con lui; ma poi, convinto della sua missione, mi sono sempre riconciliato per il primo.» All’indomani l’uomo che proferiva queste fatidiche parole non era più; ma l’altro uomo che le aveva udite le portò stampate nel cuore per tutta la vita. Raccolto l’estremo sospiro dell’amico, resigli gli ultimi tributi, il Medici partì per Torino; ma scontratosi quivi alcuni giorni dopo con Garibaldi, fu il primo a gettarsi nelle sue braccia, riannodando con lui quel patto d’amicizia, cementata di poi su venti campi di battaglia, che nemmeno i tardi dissensi politici poterono infrangere, e che fin negli ultimi anni rimase quasi arra di pace fra il Quirinale e Caprera. Intanto il nostro eroe era giunto al termine del suo viaggio. Passato in fretta da Novara, dove non l’arrestarono le solite ovazioni; toccato Pavia per visitare il Sacchi, sempre infermo della sua ferita, e che frattanto andava raccogliendo nella sua città natale un nucleo di volontari, arrivò fra il 3 e il 4 luglio al quartier generale di Roverbella, e si presentò immediatamente al Re. Questi lo accolse con principesca cortesia, si mostrò edotto delle sue gesta d’America e le commendò altamente; ma stretto a rispondere alla domanda dell’eroe, la invincibile sua irresolutezza lo riprese; l’antica sua diffidenza delle armi popolari e degli uomini rivoluzionari lo riassalse, e scusandosi, assai male a parer nostro, co’ suoi doveri di Re costituzionale, lo rinviò a’ suoi ministri.[102] E Garibaldi amareggiato da quel nuovo indugio, ma non iscoraggito, piegò al consiglio, e condottosi difilato a Torino si presentò senz’altro al Ministero della guerra e vi ripetè la sua istanza. Teneva quel portafoglio il generale Ricci, brav’uomo e colto militare, ma impregnato di tutti i pregiudizi di quella che allora poteva ben dirsi la sua casta, ed educato a veder subito un intrigante ed un avventuriere in ogni uomo che pretendesse all’esercizio delle armi senza averne presa l’ordinazione sacramentale in uno dei due santuari della famiglia: l’Accademia o la Caserma. Egli cominciò a pagar Garibaldi di quegli arzigogoli legali e di quella retorica evasiva che, fanno sentire mille miglia lontano il rifiuto, sino a che pressato dal condottiero a spiegarsi più chiaro, finì col consigliarlo a recarsi a Venezia; «campo così degno di lui; e dove poteva prendere il comando di qualche flottiglia tanto utile a quell’assediata città.» A questa sortita è fama che Garibaldi rispondesse asciutto: «Signore, io sono uccello di bosco e non di gabbia,» e che voltasse le spalle all’incauto consigliere. Nemmeno quella ripulsa l’aveva sconfidato. Quel che non poteva dal Governo, Garibaldi sperava ottenerlo dagli amici, dagl’Italiani, dal popolo, come dicevasi, e in questa nuova illusione sciupava il suo tempo e i suoi passi. Ora stampavano che gli verrebbe confidato il comando dei Volontari del Caffaro, richiamando il Durando a capitanare la Divisione regolare lombarda; ora si ritornava al pensiero di unire al manipolo de’ suoi legionari altri volontari; ora un progetto, ora un altro; ma infatti i giorni passavano, e nulla si conchiudeva e a nulla si approdava. E diciamo qui tutto il pensier nostro: ogni conclusione ispirata dall’angusto concetto di fare di Garibaldi il comandante d’una guerriglia o d’un Corpo franco qualsiasi, poteva contentar lui e salvare le apparenze, nel fatto era piccina e infruttuosa. O indovinato l’uomo si aveva fede nel suo genio, nel suo patriottismo e nella sua fortuna, e conveniva usarlo per quel che valeva, mettendo nelle sue mani tanta forza e tanta autorità, quante potessero bastargli ad arrestare l’incominciato rovescio; o l’uomo non si capiva e si dubitava di lui, e il baloccarlo con lusinghe, o sciuparlo in sterili schermaglie, era insano, indegno e sleale. Una vera ispirazione del Cielo sarebbe stata quella di affidargli il governo della nostra squadra nell’Adriatico, e in qualche giornale del tempo lo vedemmo suggerito; ma quello che non si comprese nel 1866 si poteva egli comprenderlo nel 1848? Visto pertanto che i ministri erano anche più sordi del Re, e gli avvocati, i tribuni, i ciarlatori dei Club più sterili d’opere del Re e dei ministri, deliberò di togliersi da Torino e di tentare Milano, dove giunse infatti la sera del 15 luglio e l’aspettava miglior fortuna. Sorvoliamo, come al solito, su le feste, le luminarie, le parate. Si era nel 1848 e tanto basta.[103] Tuttavia i passi del nostro cavaliere errante in cerca d’un brano di terra su cui combattere per la patria sua furono, questa volta, meno infruttuosi. Milano era pur sempre la città delle Cinque Giornate, e dove il concetto della guerra popolare e rivoluzionaria era scoppiato, a dir così, dal seno stesso delle barricate; a Milano affluiva la più animosa gioventù, impaziente di armarsi e di combattere; a Milano infine lo stesso Governo Provvisorio s’affaccendava, confusamente sì, ma volonterosamente a reclutare quante più milizie poteva, e non vincolato da obblighi politici e da pregiudizi militari, accoglieva, fin troppo facilmente, quanti venissero a profferirgli il loro braccio, senza guardare tanto sottilmente d’onde venissero, nè quanto valessero, nè quali assise vestissero; peccando piuttosto per eccesso di larghezza che per il suo contrario. A ciò si aggiunga che a Milano era già arrivato sin dal maggio il Mazzini, il quale nel suo giornale l’_Italia del Popolo_ sosteneva, con tutto l’apostolico calore della sua eloquenza, la necessità di render quanto più popolare la guerra, ed aveva perciò immediatamente patrocinato l’idea di affidare all’eroe di Montevideo una parte importante. Molte eran dunque le ragioni che consigliavano al Governo Provvisorio di procedere speditamente; e però il giorno stesso del suo arrivo esso offerse al nostro Garibaldi il comando di tutti i volontari raccolti fra Milano e Bergamo, i quali potevano sommare a circa tremila. Non eran certamente quelli che potessero salvare il paese; ma più di quanto Garibaldi in quel momento potesse desiderare. Quei volontari erano una mescolanza di tutte le razze e di tutti i colori; ma ciò non guastava. Accanto a una legione di Vicentini, dal nome del generale chiamata _Antonini_, discretamente armata ed organizzata, schieravasi il battaglioncino dei Pavesi che il Sacchi aveva formato a Pavia; dietro a un centinaio di giovani egregi, nati dalle più distinte famiglie milanesi, e avanzi, la più parte, delle Cinque Giornate, venivano gli scarti, i transfugi, gli erranti di tutti i Corpi franchi che andavano dallo Stelvio al Caffaro; assieme a una varia schiera di volontari lombardi marciava uno stuolo di Liguri e Nizzardi; e con tutti questi il manipolo dei legionari condotti da Montevideo. E poichè il Governo Provvisorio aveva bensì dati gli uomini, ma non aveva potuto dare nè tutte le vesti, nè tutte le armi, così buona parte di quella gente aveva dovuto pensare ad armarsi ed equipaggiarsi come e dove aveva potuto, e presentava perciò il più variopinto mosaico che la fantasia d’un pittore di accampamenti potesse inventare. Chi era alla borghese, chi alla militare; chi insaccato in un _ritter_, casacca di fatica che i Croati nella fretta del 23 marzo avevano dimenticato a Milano; chi drappeggiato nel così detto costume _all’italiana_, giacca di velluto e cappello piumato alla calabrese; chi portava un fucile a percussione e chi un _silder_ austriaco; chi una carabina svizzera, chi uno schioppo da caccia, chi un catenaccio a focaia, e chi.... niente. Ma Garibaldi a Montevideo doveva aver visto anche di peggio, e quel pittoresco disordine anzichè sgomentarlo lo divertiva e lo esaltava. Conviene anzi soggiungere che egli era il solo che sapesse servirsi di siffatta accozzaglia e all’uopo cavarne un effetto qualsiasi. Ordinatala pertanto in non so quanti battaglioni, dato al più scelto di essi il nome venerato _Anzani_, e postolo agli ordini del Medici, che dopo Torino non s’era mai staccato da lui, nel pomeriggio del 25 luglio, obbedendo a un ordine del _Governo Provvisorio_, lasciò i quartieri di Milano e s’incamminò alla volta di Bergamo.[104] IV. Era già tardi. Si era delirato cinque mesi in un sogno carnevalesco di vittorie senza pugna, di trionfi senza onore, di gloriole senza merito; l’ora del risveglio era suonata. L’esercito piemontese in tre giorni di lotta eroica disfatto; le linee del Mincio e dell’Oglio perdute; quella dell’Adda insostenibile; tutta la Lombardia riaperta agli eserciti di Radetzki; Milano stessa minacciata; ecco le notizie che dal 24 al 30 luglio con incalzante terribilità giungevano nella capitale lombarda. Non spetta a noi narrare quei giorni sciagurati; se c’incombesse, non ci sgomenterebbe, per quanto doloroso, il tèma, convinti che, se l’ambascia di quei ricordi è grande, più grande ancora è il loro ammaestramento. Gl’Italiani hanno più da imparare dal 48 che da tutti i secoli della loro storia. Esso compendiò come in un microcosmo tutta la vita italiana. Tutte le debolezze del nostro carattere, tutte le colpe delle nostre discordie, tutti i danni delle nostre sètte, tutti i frutti della nostra educazione rettorica e parolaia, tutte le conseguenze delle nostre abitudini molli ed anti-militari, tutto il marciume del nostro spirito tra scettico e superstizioso si videro riassunti e rispecchiati nel giro di que’ pochi mesi, come Macbeth vedeva nella fila degli specchi tutta la progenie di Banco. Il 1848 è il nostro grand’anno fatale; fatale nel senso greco della parola; l’anno che doveva essere perchè l’Italia fosse. Esso riepilogò il nostro passato, ma preparò insieme il nostro avvenire. Quella solenne smentita inflitta ai nostri decantati _primati_; quell’amara esperienza della nostra pochezza pagata a prezzo di tante lagrime e di tanto sangue; quell’esame obbligato delle nostre forze; quel lavacro bollente delle nostre vanità; quello sfogo tormentoso, ma igienico, dei guasti umori raccolti da secoli nel nostro corpo, erano necessari, benefici, provvidenziali, affinchè l’Italia vedesse alla fine l’anno della sua salute, e risorgesse. Pure tutto non si poteva nè si voleva credere perduto; e lo stesso Carlo Alberto, nella generosa, ma incauta promessa di voler vincere o morire coi «suoi Milanesi,» aggiunse ai molti altri anche quell’estremo errore e quella estrema illusione. Errore, perchè ogni ragione strategica lo consigliava a ritirarsi oltre il Po e a difendersi sotto Piacenza; illusione, non perchè fosse, a parer nostro, impossibile protrarre lungamente contro soli trentacinquemila nemici la difesa d’una città guardata, tra regolari e volontari, da altrettanti combattenti, protetta da un ricco parco d’artiglierie, abitata da una popolazione numerosa, armata, energica, pronta, se avesse trovato l’uomo capace d’inspirarglieli, agli estremi sacrifici; ma perchè a render fruttuosa, almen di gloria, la resistenza, mancava quella forza che sola produce i miracoli di Sagunto e di Saragozza: la fede. Fede del Re nell’esercito e nel popolo; fede del popolo e dell’esercito nel Re; fede di tutti se non nella vittoria, nella religione de’ forti: soccombere con onore. Tuttavia il magnanimo proposito di Carlo Alberto parve a tutti in sulle prime il solo degno ed accettabile; e se chieder armi, rizzar barricate, bruciar case, offrir vita e sostanze, gridar «guerra e morte,» potevano esser presi per certi segni della deliberata volontà d’un popolo di seppellirsi sotto le ruine della sua città, Milano li diede tutti. Intanto fin dall’annunzio dei primi disastri un _Comitato di Difesa_ s’era costituito, il quale, mentre re Carlo Alberto andava radunando le membra sparte del suo esercito, assumeva di porre in istato di difesa la città, decretava le fortificazioni e l’asserragliamento delle mura e delle vie, cercava armi ed armati, ordinava le milizie popolari raccolte nella città, mandava in Svizzera ad assoldar nuovi volontari, provvedeva al vivere dell’esercito e della popolazione, richiamava infine a Milano quanti Corpi franchi non erano stati tagliati fuori dall’invasione nemica, e fra quelli necessariamente anche Garibaldi. L’ordine lo raggiunse la sera del 3 agosto a Bergamo; e poichè egli pure era consapevole del vero stato delle cose, e le avanguardie austriache bivaccavano già a Cassano d’Adda, non esitò un momento; e fatti nella notte stessa gli apparecchi della partenza, per la via più corta e sicura di Pontida-Brivio-Merate, dopo trent’ore di marcia forzata, verso le due pomeridiane del giorno 5 giunse a Monza. Conduceva seco da cinquemila uomini, e fra essi, confuso co’ gregari del battaglione Anzani, venuto a chiedere in quella suprema distretta della patria il suo posto di combattimento, Giuseppe Mazzini;[105] la truppa era poco agguerrita, ma volonterosa; Monza, finchè Milano resisteva, poteva essere una buona posizione di fianco sulla destra dell’esercito austriaco, e quand’anco gli fosse tolto di penetrare nell’assediata città, l’audace condottiero sperava sempre di poter da quella postura molestare il nemico e recare agli assediati anche dal di fuori un non spregevole soccorso. Troppo tardi. Sfasciato l’esercito; discordi, sfiduciati e istupiditi i generali; riescite sterili o sfortunate anche le prime fazioni combattute sotto le mura; stremati i viveri e le munizioni; smarrita ogni speranza di soccorso; poche, disordinate, inesperte le milizie cittadine; tumultuante, diviso il popolo; impossibile la resistenza, impossibile persino l’eroismo della disperazione, certo l’eccidio della città, e forse con essa inevitabile la ruina del Piemonte e della sua libertà, Carlo Alberto ebbe il triste coraggio di far tutta sua l’onta amara d’una resa che la giustizia della storia distribuisce su molti; e la sera del 4 agosto mandò una proposta d’armistizio al nemico, che l’accettò. Ora quel che ne seguisse è noto. Come il popolo, prima incredulo all’annunzio dell’armistizio, poi infuriato e demente gridasse Carlo Alberto traditore, lo assediasse nel suo palazzo e lo minacciasse della vita; come dopo una invereconda altalena di giustificazioni e di smentite, l’armistizio fosse confermato, e Carlo Alberto, salvato a stento dalla intrepida devozione de’ suoi più fidi, fuggisse notte tempo come un malfattore, tuttociò è vivo ancora nella memoria della nostra generazione, e a noi basta ricordarlo. Ma l’annunzio dell’armistizio Salasco non aveva trovato increduli nella sola Milano; tutta la Lombardia, quanti, può dirsi, avevano in petto scintilla di amor di patria, lo rinnegarono collo stesso sentimento d’incredulità sdegnosa, con cui l’aveva rinnegato la città che n’era la prima vittima. E non parliamo di Garibaldi. In sulle prime, sbalordito egli pure dalla terribile notizia, s’era apparecchiato a ritirarsi da Monza, la quale dopo la caduta di Milano era una stanza pericolosissima; ma appena un certo signor Villa gli scrisse una lettera per assicurarlo che tutte quelle voci erano bugiarde, prende colla credulità del desiderio quella lettera per vangelo, e anzichè pensare alla ritirata delibera di marciare prontamente in soccorso di Milano, e incuora i suoi compagni a seguirlo con un Manifesto che si chiude con queste parole:[106] «Si rinfranchi pertanto lo spirito d’ognuno di voi, ed accorrete ad unirvi alla mia colonna che move sopra Milano a prestare a quei generosi abitanti l’aiuto per discacciarne l’abborrito nemico. »La salute della patria dipende dalla celerità con cui potrete meco sostenere Milano. »Generale GARIBALDI.» Invano! tutto era consumato! l’esercito piemontese era già in ritirata verso il Ticino; l’esodo dei patriotti e dei proscritti era già cominciato; Radetzki, superbo come un conquistatore, passeggiava già le vie di Milano; la Lombardia piegava il capo al duro destino; conveniva che Garibaldi lo piegasse egli pure. E considerata la posizione di Monza, priva, dopo la caduta di Milano, di qualunque punto d’appoggio, preveduto il pericolo d’essere da un istante all’altro assalito e ravvolto dagli Austriaci, Garibaldi decise di ritirarsi su Como, dove almeno poggiava ancora le spalle ai monti e aveva prossimo in ogni estremità il rifugio in Isvizzera. Però egli voleva ritirarsi, non fuggire; molto meno deporre le armi senza aver combattuto. Se l’Italia si rassegnava a credere tutto perduto, egli non lo poteva; sperava sempre che la resistenza fosse possibile; che il paese, scosso il primo sbalordimento del colpo, si leverebbe come un sol uomo, per protestare contro quel che egli, colle parole che erano sulle labbra di tutti, chiamava: _il tradimento del Re_, e continuare da sè, co’ propri petti e le proprie armi, l’impresa che la viltà regia aveva disertata. Forse gli pareva d’essere ancora nell’America spagnuola, dove ogni accolta di bande si chiamava un esercito, e simili eserciti s’improvvisano colla stessa rapidità con cui si sciolgono; dove ognuno può far la guerra per proprio conto e trovar comunque seguaci; dove la natura del suolo e l’indole degli abitanti rendono possibile protrarre all’infinito la guerriglia di partigiani; dove infine il sentimento dell’indipendenza dallo straniero è una seconda religione, e una guerra nazionale non resta, come da noi, abbandonata al solo esercito, martire forzato che deve morire per tutti, ma la combatte senza tregua e senza quartiere, con tutta la ferocia d’un fanatismo religioso, tutto il paese. V. Infiammato pertanto da questi ricordi e ispirato da questa fede, Garibaldi arriva co’ suoi alla Camerlata; ivi prende posizione e si trincera; spedisce frattanto messi al Griffini, al D’Apice, al Manara, all’Arcioni perchè si uniscano e s’accordino con lui per continuare la guerra santa; apre nuovi arruolamenti, invita alle armi il paese. Illusioni: il Griffini per la Val Camonica, il D’Apice per la Valtellina erano già in cerca del confine svizzero; il Manara, il Dandolo, il Durando subendo l’armistizio s’incamminavano verso il Ticino; la sua colonna, anzichè ingrossare di nuovi volontari, perde anche quelli che ha, sinchè da cinquemila è ridotta a men che tremila; il paese, tuttora istupidito dalla fiera percossa, lo guarda trasognato, ed una cosa sola è sicura: che gli Austriaci s’avanzano, e in poche giornate possono averlo avviluppato entro una rete senza uscita. Tuttavia Garibaldi non volle darsi vinto ancora. Levò bensì il campo da Como, dirigendosi verso San Fermo; ma giunto sulla piazza del villaggio, che un altro giorno dovrà render storico, arresta la colonna, fa formare il quadrato e la arringa. Le dice che sarebbe vile deporre le armi; che bisogna continuare la guerra di banda, più sicura di tutte quando si ha fede ne’ capi, costanza e disciplina, ed altre di quelle parole incisive e pittoresche che egli sapeva così ben trovare. Un silenzio eloquente fu la prima risposta a quel discorso; nuove diserzioni a stormi furono il commento di quel silenzio. A quel punto anche il nostro eroe sentì la dura realtà prenderlo alla gola; un sentimento indistinto di nausea e di scoramento si fe’ strada per la prima volta nell’animo suo; e calatosi, come soleva sempre negl’istanti più torbidi, il cappello sugli occhi, marciò senz’altro col resto de’ suoi seguaci a Varese, d’onde, passata la notte del 9, ripartì al mattino seguente per il Lago Maggiore, e tragittato il Ticino a Sesto Calende, approdò la sera del 10 agosto a Castelletto presso Arona. Colà giunto però, la sua natura, un istante soffocata, riprende il sopravvento; la vergogna di ritirarsi, egli, Garibaldi, senza aver combattuto, lo assale; un raggio di speranza di rianimare con un’ardita iniziativa la fiamma dell’insurrezione lombarda, torna a spuntargli nell’animo, e delibera senz’altro di ripassare il confine e di riprendere comunque l’abbandonata impresa. E come se a confermarlo nell’ardito proponimento fosse mestieri di maggiore eccitamento, ecco pervenirgli un ordine del Duca di Genova, che a nome del Governo subalpino gli intima di sciogliere le sue bande e di uscire egli stesso dal territorio sardo. Non si contenne più l’indomito, e risposto fieramente al Duca: «Essere libero cittadino, non riconoscere il Re sardo, nessuno potergli togliere il diritto di cacciare lo straniero dal suolo della patria;» inalbera il vessillo mazziniano _Dio e Popolo_, e pubblica questo Bando agl’Italiani, nel quale troppo naturalmente la violenza della passione spiega la confusione delle idee e la virulenza del linguaggio:[107] «AGL’ITALIANI. Eletto in Milano dal Popolo e da’ suoi rappresentanti a duce di uomini, la cui mèta non è altro che l’indipendenza italiana, io non posso uniformarmi alle umilianti convenzioni ratificate dal Re di Sardegna collo straniero aborrito, dominatore del nostro Paese. Se il Re di Sardegna ha una corona che conservò a forza di colpe e di viltà, io ed i miei compagni non vogliamo conservare con infamia la nostra vita; non vogliamo, senza compiere il nostro sagrificio, abbandonare la sorte della sacra terra al ludibrio di chi la saccheggia e la manomette. Un impeto solo di combattimento gagliardo, un pensiero unanime ci valse la santa civile indipendenza che gustammo, sebbene pochi fra i migliori l’avessero guadagnata ed uniti poscia coi più per inganno la vedessero scomparsa. Ma ora che il pensiero, sciolto l’iniquo freno alla sua manifestazione, ha già diffuso per tutte le menti quella suprema verità che suona a sterminio de’ tiranni; ora che l’opera da infiniti elementi rafforzata si può ordinare e la prestano già numerosi corpi emancipati dagl’interessi legali; ora che sono smascherati que’ traditori che pigliarono le redini della rivoluzione per annichilirla; ora che sono note le ragioni dell’eccidio a Goito, della mitraglia e delle febbri di Mantova, dello sterminio de’ prodi Romani e Toscani, delle codarde Capitolazioni, il Popolo non vuol più inganni. »Egli ha concepito la sovrana sua potenza, la provò e volle conservarla al prezzo della vita, ed io ed i miei compagni che ne ebbimo fiducioso mandato, che accogliemmo qual dono il più prezioso che potesse a noi largire il Supremo, noi vogliamo corrispondergli come ne spetta. Nè vagheremo sulla terra che è nostra, non ad osservare indifferenti la tracotanza de’ traditori, nè le straniere depredazioni; ma per dare all’infelice e delusa nostra Patria l’ultimo nostro respiro, combattendo senza tregua e da leoni la guerra santa, la guerra dell’indipendenza italiana. »Castelletto, 13 agosto 1848. »Firmato GARIBALDI.» Ciò detto e pubblicato, s’impadronisce nello stesso porto d’Arona dei due piroscafi _San Carlo_ e _Verbano_; imbarca in essi e in alcune navicelle a rimorchio i millecinquecento uomini rimastigli; risale tutto il Lago Maggiore e sbarca nella giornata del 14 a Luino, dove s’accampa. Era la prima sorpresa a cui Garibaldi abituava gli Italiani. Invano lo dissuadevano l’esiguità della schiera, la povertà dei mezzi, il crescente sopore delle popolazioni; invano lo osteggiava la natura medesima, assalendolo il giorno stesso della partenza con una terribile febbre: Garibaldi aveva deciso di non lasciare la terra lombarda senza misurarsi collo straniero che la calpestava, e manteneva il voto. Nè l’occasione di scioglierlo gli tardò molto. Fin dal mattino del 15 una colonna di Austriaci, forte press’a poco quanto la garibaldina, partiva da Varese coll’intenzione di attaccarla e forse colla speranza di sorprenderla. Garibaldi era ammalato colla febbre nell’albergo della _Beccaccia_, posto a pochi metri da Luino, sulla strada stessa di Varese. Il Medici però vegliava per lui; e barricata di là dall’albergo la strada, collocati con diligenza gli avamposti, mandati esploratori a scandagliare i dintorni, stava attentamente sull’arme. Difatti non era scoccato il mezzogiorno, che gli esploratori vennero ad annunciare l’avanzarsi del nemico. Il Medici corre tosto ad avvertire Garibaldi, il quale, quasi dimentico del male che lo tormentava, balza di letto, monta a cavallo, spiega una parte della colonna sulla strada e nei campi circostanti, apposta sulla sinistra il Medici col rimanente del corpo, lascia, secondo il suo costume, approssimare il nemico, e scambiati pochi colpi, lo carica alla baionetta, prima di fronte, poi colla colonna del Medici, di fianco, e in poche ore lo sbaraglia, inseguendolo per lungo tratto di via e costringendolo a lasciare sul terreno tra morti, feriti e prigionieri circa centottanta uomini. VI. Ora che la nuova campagna di Lombardia era cominciata, bisognava vederne la fine. Speso il giorno 16 ad aspettare un nuovo assalto del nemico, che non venne, partì il dì seguente per Ghirla e per la Valgana, s’avvicinò a piccole tappe a Varese, dove entrò il 18 alle cinque del pomeriggio. La patriottica città lo accolse in trionfo. Egli vi passò in riposo la giornata del 19, sequestrando e multando alcune persone sospettate, forse a torto, di complicità col nemico, e la mattina del 20, probabilmente avvertito dell’avvicinarsi degli Austriaci, tornò a ritirarsi sulle colline d’Induno, spingendo il Medici ad Arcisate. Difatti nel giorno appresso alcune compagnie di Austriaci accompagnate da pochi cavalieri presentavansi a riconoscere il paese, e raccolte le notizie di Garibaldi ne ripartivano tosto. Ma il 23 tutta la divisione D’Aspre comandata dal suo Generale, forte di circa undicimila uomini, entrava in Varese, mentre due altre colonne austriache, l’una da Luino e l’altra da Como erano già in moto per occupare tutti i passi della Valcuvia e del Mendrisiotto. Garibaldi però ne fu informato, e col suo nativo acume indovinò prontamente che, se lasciava tempo a tutte quelle colonne di compiere le loro manovre, ogni via di ritirata in Isvizzera gli era preclusa ed egli restava irremissibilmente schiacciato. Non esitò un istante; lasciò il Medici ad Arcisate con circa duecento uomini, coll’ordine di tener a bada e molestare il nemico, resistergli più che poteva e all’estremo di rifugiarsi in Isvizzera; egli risalì per un tratto la Valgana per confermare gli avversari nella credenza che volesse difendersi su quegli altipiani, poi a un tratto muta direzione, gira per Valcuvia, scende rapidamente su Gavirate, costeggia il Lago di Varese, e per Capolago e Gazzada, dopo due giorni di marcia forzata, riesce a Morazzone alle spalle del nemico, che lo supponeva sempre di fronte. Il generale D’Aspre non durò a lungo nell’inganno; uno spione gli scoprì l’ardita mossa del nostro condottiero, ed egli deliberò di andarlo ad assalire immediatamente nella sua nuova posizione. Infatti all’indomani stesso (26 agosto), verso le quattro pomeridiane, una colonna di cinquemila Austriaci, taluno disse comandata dallo stesso D’Aspre, compariva improvvisamente innanzi a Morazzone. Garibaldi, convien dirlo, non se l’aspettava, e le sue truppe, spossate dalle marcie de’ giorni precedenti, facevano mala guardia. Il cannone nemico però fu per tutti una sveglia. Garibaldi ha appena il tempo di montare a cavallo e di accorrere in capo alla via principale del paese alle prime difese; in brevi istanti l’attacco è incominciato su tutta la linea, e i Garibaldini, scossa la prima sorpresa, animati dalla voce e dall’esempio del loro Capitano, sostengono intrepidamente l’urto nemico e lo arrestano. Il numero però non avrebbe tardato ad aver ragione del valore, se l’attacco degli Austriaci fosse stato più ragionato ed accorto. Il lato debole della posizione garibaldina era la destra; non solo perchè colà il terreno più basso offriva miglior campo all’attacco, ma perchè dalla destra si spiccavano le strade di ritirata sulla Svizzera, ultimo scampo che ai Garibaldini rimanesse. Il Comandante austriaco invece non vide o non capì nulla di tutto ciò, ed invece di dirigere un forte attacco di fianco da quella banda, e di sbarrare colle sue forze soverchianti quei passi, si contentò d’un assalto tumultuario di fronte, che non gli poteva fruttare che una mezza vittoria. E così avvenne di fatto. Garibaldi riuscì a protrarre la difesa fino a notte inoltrata; poi, apertasi colle baionette una via tra i petti nemici, si butta col maggior nerbo de’ suoi, ancora serrati e minacciosi, nell’aperta campagna, e quivi li scioglie, consigliando loro di guadagnare alla spicciolata il confine svizzero. Egli dal canto suo li imitò, e travestito da contadino, per strade e per sentieri impervii, ospitato e nascosto dagli amici, protetto dalla sua stella, giunge anch’egli a sconfinare presso Ponte Tresa in Isvizzera, dove ad Agno nella casa del signor Vicari riceve la prima ospitalità. Nè molto diversa era stata la sorte del Medici. Assalito il 24 agosto da circa cinquemila uomini che in più colonne movevano ad avvilupparlo, con soli centodieci tenne fronte per oltre quattr’ore ai replicati assalti; finchè, apparsa pericolosa ogni ulteriore difesa, si ritirò anch’egli, ma in bella ordinanza, a bandiera spiegata, nella limitrofa Svizzera, lasciando il generale D’Aspre nella illusione d’aver combattuto l’intera Legione di Garibaldi e d’aver conquistata una grande vittoria.[108] VII. E così finì la prima impresa di Garibaldi in Italia! Chi la riguardasse come una campagna di guerra si dilungherebbe dal vero; ma chi la giudicasse soltanto un tentativo pazzo, insensato, si dilungherebbe dal giusto. Essa fu quello che solamente poteva essere: una protesta armata contro l’armistizio Salasco; protesta che non avrebbe potuto approdare ad alcun fine, e Garibaldi lo capiva quanto chicchessia, se non la secondava la riscossa generale de’ Lombardi; ma che anco abbandonata a sè stessa, restava sempre l’audace disfida d’un eroe e la disperata rivolta d’un patriotta, di cui, al postutto, soltanto l’eroe-patriotta e i pochi suoi seguaci avrebbero sopportate le conseguenze. Militarmente considerata, la mossa di Morazzone fu una delle più ardite che la mente d’un guerillero potesse immaginare; ma la sola, nel suo caso, possibile. Posto tra le branche di tre corpi nemici, che ad ogni ora si rinserravano, s’egli avesse tardato un giorno solo a sfuggire alle loro strette, sarebbe rimasto inevitabilmente strozzato. Chiunque infatti getti una occhiata sulla carta del terreno, sul quale Garibaldi si trovava la mattina del 23 agosto, e pensi che le strade di Luino, Varese, Como erano occupate dagli Austriaci, vedrà che il condottiero di que’ primi mille poteva bensì inebbriarsi della disperata speranza di aprirsi a baionetta calata una porta nel serraglio nemico e riparare, coi laceri avanzi de’ suoi prodi, su qualche punto della Svizzera; ma una lusinga qualsiasi di protrarre d’un sol giorno di più la guerra, non la poteva più nutrire. Garibaldi era innanzi al dilemma: stando fermo, essere certamente schiacciato tra ventiquattro ore; muovendosi, esserlo assai probabilmente fra alcuni giorni; e preferì naturalmente quest’ultima sorte. Oltre a ciò, è egli veramente dimostrato che la marcia Induno-Morazzone, per temeraria che vogliasi dire, non offrisse alcuna probabilità di un successo migliore, almeno della immobilità, o levasse, perchè la questione è questa sola, ogni speranza d’un fine più glorioso? Noi non lo crediamo. Se la mossa di Garibaldi non era subito scoperta; se egli poteva lasciar riposare la sua truppa ventiquattr’ore, nulla gli vietava di piombare addosso di sorpresa alle spalle del nemico; fors’anco, poichè l’effetto delle sorprese è sempre incalcolabile, di sgominarlo. Che se il nemico, cosa probabile, riavutosi presto dall’inopinato assalto, si fosse gettato con tutte le sue forze contro di lui, a Garibaldi restava sempre la soluzione finale offertasegli pochi giorni innanzi in Valgana: armeggiare fin che poteva, farsi largo colla baionetta, ritirarsi o in Isvizzera o in Piemonte, e in ogni caso cadere molto più tardi e con terribile gloria. Comunque, questo è certo, che Garibaldi riuscì a mettere in moto per sè solo e a trarsi dietro per dodici giorni circa quindicimila Austriaci; che egli seppe per tre giorni ingannare sulle sue mosse uno de’ più accorti e provetti generali dell’Impero; che l’ultima cartuccia bruciata su terra lombarda contro lo straniero fu bruciata da lui. Il migliore riepilogo pertanto di quella campagna lo fece lo stesso generale D’Aspre, il quale scoprendo in tutte le azioni del suo avversario i lampi d’un genio militare, che gl’Italiani oggi ancora non hanno finito di riconoscere, diceva pubblicamente ad un magistrato: «L’uomo che avrebbe potuto esservi utile nella vostra guerra d’indipendenza del 1848, l’avete disconosciuto: era Garibaldi.[109]» CAPITOLO QUINTO. ROMA. [1849.] I. Torbidi gli avvenimenti, oscura la mèta, incerto de’ suoi passi, e quel che era più, confitto in letto dal ritorno periodico di quei febbroni onde lo vedemmo assalito la mattina di Luino, e che non l’avevano mai abbandonato durante tutta la campagna, Garibaldi fu costretto a prolungare la sua dimora in Isvizzera, più che non avrebbe voluto. Verso la metà di settembre però potè partirne, e per la via di Francia (forse il passaggio del Piemonte non gli sembrava sicuro) ricondursi a Nizza. Ivi rivede la moglie, i figli, la madre; gusta per alcuni giorni con essi le gioie della famiglia; ma poi, non liberato per anco dalla terzana, ma sensibile anche più alla febbre patriottica che gli bruciava l’anima, si strappa alla quiete del focolare domestico e corre a Genova a cercarvi il solo rimedio alle febbri del corpo e dello spirito: la lotta. Il suo tragitto lungo il littorale fu un continuato trionfo: le popolazioni accorrevano a frotte, da punti rimoti sul di lui passaggio, e i Circoli inviavano a gara le loro deputazioni a felicitare l’eroe di Montevideo e il combattente di Luino. Non erano però viva e battimani che l’eroe cercava: di quelli ne era saturo; erano opere, erano armi ed armati per combattere; era la concordia degli animi che dà la vittoria, la costanza che la assicura ed anche dopo la sconfitta prepara la rivincita. A Genova non trovò tutto questo; l’Italia d’allora non poteva dar tanto; ma almeno nuovi volontari pronti a seguirlo e ben presto nuove occasioni e nuovi campi di prova. Le condizioni d’Italia al finire del settembre erano quelle d’un esercito male costituito dopo una prima rotta. Il disordine era nelle file: tutti volevano comandare, pochi ubbidire. Ciascuno aveva il suo piano di campagna, il suo trovato infallibile e il suo rimedio eroico. Chi era per la rivincita immediata, chi per la lunga aspettazione, chi per la resistenza passiva e chi per la sottomissione paziente; e intanto il nemico si riordinava, si rafforzava, s’assideva. In Piemonte, il Ministero Pinelli resisteva invano al vociare della piazza, alla baruffa dei partiti, al clamore dei Circoli. In Toscana, il Montanelli imponeva a Leopoldo II, che in cuore la malediceva, la sua panacea della _Costituente italiana_; ma non preparava nè gli animi, nè le armi per effettuarla. A Roma, Pellegrino Rossi sprecava il suo ingegno ed il suo patriottismo a risuscitare la popolarità di Pio IX, dopo l’Enciclica del 29 aprile, morta per sempre, ed a piantare in mezzo a popoli divisi tra gli eredi dei Sanfedisti e i figli de’ Carbonari gli ordinamenti temperati d’un governo costituzionale in Napoli, Ferdinando II aveva già assassinata la promessa libertà e invasa con un nuovo esercito la Sicilia; la quale, discorde, priva essa pure d’armi, di milizie, di capitani, nonostante la gagliarda difesa di Messina, stava per soccombere; onde in mezzo a quel turbinare d’errori, a quel diluviare di sventure, a quello scrosciare di rovine, Venezia sola, decretata _la difesa ad ogni costo_, sormontava, arca invitta, al naufragio. E fu appunto in quei giorni che una Deputazione di Siciliani si presentò in Genova a Garibaldi per chiedergli una spedizione di soccorso alla loro Isola pericolante. Non diversi in questo dagli altri loro fratelli italiani, essi stimavano Garibaldi un condottiero di bande e nulla più, e si sarebbero ben guardati dall’offrirgli una parte importante, molto meno il comando d’un esercito. Oltredichè correva l’andazzo dei generali polacchi, e la Sicilia metteva più volentieri il suo esercito nelle mani d’un Mierolaswsky, come il Piemonte lo metterà in quelle d’un Chzarnowsky, piuttosto che affidarlo ad un uomo che aveva fatto bensì la guerra dodici anni, ma non portava brevetti, non vestiva uniformi gallonate e decorate, ed aveva il torto di parlare italiano. Ma sappiamo che Garibaldi non guardava a queste miserie, e, senza prendere un impegno assoluto, promise ai Siciliani che avrebbe dato, per quanto fosse in lui, l’aiuto richiesto. Infatti, già raccolti ed ordinati intorno agli avanzi della sua vecchia Legione e dei commilitoni di Lombardia circa cinquecento volontari, s’imbarca sulla fine d’ottobre col proposito, per allora, di recarsi in Sicilia; ma il 25 d’ottobre, a Livorno, i democratici di quella città gli si mettono d’attorno, lo premono perchè resti in Toscana, e riprenda il comando di quel simulacro d’esercito senza ordini e senza capo, e spalleggi il Ministero del Montanelli e del Guerrazzi, che si trovavano minacciati così dalla Reggia, come dalla piazza e ormai impotenti a governare. Garibaldi che nel 1848 a quanto pare, non aveva nell’impresa di Sicilia la fede che vi prestò nel 1860, si lasciò persuadere da quel concetto e da quelle preghiere, e consentì a sbarcare con tutti i suoi ed a recarsi a Firenze. Ivi, come di consueto, predicò unione, concordia, gagliardia; ma, sia che la prospettiva di far la guardia alla _Costituente italiana_ de’ suoi amici Montanelli e Guerrazzi lo seducesse assai mediocremente, sia che l’immagine di Venezia combattente per mare e per terra contro lo straniero gli balenasse a un tratto, e il suo doppio genio di soldato e di marinaio lo attirasse verso quel lido fortunoso, il fatto è che, scorsi pochi giorni appena, lascia colla sua colonna Firenze e s’avvia per Bologna col disegno di scendere a Ravenna e di là passare a Venezia. Giunto però alle Filigare, trova un inatteso intoppo. Il generale Zucchi (che cominciava allora a macchiare la sua onorata assisa di veterano napoleonico e di soldato della libertà), posto dal Rossi a Commissario straordinario in Bologna, timoroso che Garibaldi mirasse allo Stato pontificio coll’intenzione di agitarlo e sommoverlo, gli aveva inviato incontro un battaglione di Svizzeri coll’ordine preciso di sbarrargli il passo. Il nostro condottiero allora non vidde altro espediente che quello di recarsi egli stesso in persona a Bologna per spiegare allo Zucchi lo scopo del suo viaggio, e persuaderlo a lasciargli proseguire il cammino fino all’Adriatico. Lo Zucchi non volle in sulle prime ascoltar ragioni e rinnovò il divieto; ma essendosi vociferata la cosa e il popolo tumultuando minacciosamente perchè fosse lasciato libero il transito al famoso e già amato Capitano, anche il Generale pontificio stimò bene d’arrendersi, e Garibaldi potè traversare, sicuro, Bologna ed arrivare non molestato a Ravenna. Ma era da soli pochi giorni in quella città intento a reclutare nuovi seguaci,[110] ed a spiare ogni passo ed ogni opportunità che gli schiudesse l’agognata via di Venezia, quando sonarono per tutta Italia i tragici annunzi di Roma: il 15 novembre Pellegrino Rossi assassinato; quindi il Papa assediato nel Quirinale e rassegnato a subire un Ministero Mamiani, ma risoluto a non concedere di più; infine il 21 novembre Pio IX fuggito a Gaeta, la _Consulta governativa_ lasciata da lui rifiutata, il governo affidato alle mani d’una _Giunta Suprema_ eletta dal Parlamento, la _Costituente_ convocata. Un sì inatteso e violento mutamento nella scena principale d’Italia mutò anche tutti i piani di Garibaldi. Ora che gli si apriva sì vicino il campo di Roma, non aveva più mestieri d’andarsi a cercare a Venezia, traverso una via irta d’intoppi e di pericoli, un’altra arena. Eppoi se le attrattive di Venezia erano grandi, il fáscino di Roma era irresistibile. Era essa la larva più luminosa e la rimembranza più sacra della sua giovinezza; là per la prima volta sotto la sua polvere sentì palpitare il cuore d’una grande patria; là, tra quelle rovine, aveva veduto passeggiare i fantasmi di gloria divenuti da quell’istante le guide invisibili ed i compagni inseparabili della sua fortunosa odissea; infine là, verso quelle mura eterne, quella città madre delle nazioni, quel focolare inestinguibile della civiltà del mondo, volarono sempre i sogni, i passi, le ambizioni di tutta la sua vita. II. Naturale pertanto che appena uditi gli avvenimenti di Roma vi corresse senza indugio, e profferisse al di lei nuovo Governo l’opera sua e de’ suoi compagni. Ma alla spontaneità dell’offerta non fu pari la cordialità dell’accoglienza. Il soldato di Montevideo era stato preceduto negli Stati romani da una riputazione orribile. Colui che pei Piemontesi, pei Lombardi, pei Siciliani era al postutto un condottiero di partigiani, per la più parte dei popoli romani, effetto probabile di favole fratesche, era un capo di banditi addirittura; un predone feroce e sanguinario, atto soltanto a incendiare case e svaligiar persone; poco meno, o poco più, che un Gasparone politico e un Mastrilli rivoluzionario. E quanto la rea fama mentisse, noi lo sappiamo. Molti esempi contava la vita del soldato di Montevideo di umanità e di cortesia; di ferocia e di cupidigia nessuno. Forse non si poteva dire altrettanto di tutti i suoi commilitoni, e concediamo facilmente che in un corpo ragunaticcio come il suo, razzolato marciando per la strada, sovente fatto la mattina e disfatto la sera, più d’un vagabondo e più d’un mariuolo vi sarà sgusciato dentro; ma che tutta la Legione fosse un cibreo di galeotti e scampaforche e che il loro capo li proteggesse o li tollerasse, qualche storico settario l’avrà detto, ma da nessun scrittore onesto sarà ripetuto. Qualche requisizione un po’ forzata sarà stata commessa; qualche siepe e qualche muraglia scavalcate; qualche porta di convento scassinata; ma erano fatti isolati, sconosciuti al Capitano, o appena noti tosto repressi e puniti.[111] La guerra è la guerra, e il soldato in campagna, tanto più se lo sforzi la stanchezza o la fame, è sempre disposto a guardare un po’ come cosa sua il paese per cui o contro cui dà la vita, e se i legionari garibaldini dovessero rispondere di qualche pollaio diradato e di qualche vigneto vendemmiato, converrebbe chiamare a loro confronto tutti gli eserciti del mondo. Con tutto ciò la fama era quella, e l’offerta di Garibaldi aveva messo la Giunta Suprema di Roma, composta d’uomini tutt’altro che temerari, in un tremendo impiccio. Dall’un canto non volevano tirarsi in Roma quel famigerato, il quale se proprio non era il masnadiero che la contrada gridava, certamente per le sue idee rivoluzionarie era uomo pericolosissimo; dall’altro temevano, respingendolo duramente, di suscitar lo scontento de’ di lui amici e protettori, principalmente dello Sterbini potente e del Ciceruacchio strapotente, e in quel frangente pensarono uscirne con un compromesso e uno spediente: favorirono al generale Garibaldi un brevetto di Tenente Colonnello, e lo mandarono a svernare a Macerata.[112] Il brevetto era una burla, e Macerata era un confino; ma Garibaldi non vide in tutto ciò che il fatto certo d’essere ormai soldato di Roma, e presa la sua Legione, già cresciuta fino a quattrocento uomini, se n’andò quietamente anche a Macerata. Colà invece, contro ogni aspettazione, l’accoglienza fu buona e il soggiorno migliore. Garibaldi non si occupava quasi punto di politica; badava ad ordinare, ad agguerrire e rinforzare la sua gente, soprattutto a provvederla d’armi e vestiti; e tanto entrò nella stima e nell’amicizia dei Maceratesi, che più tardi, quando furono convocati ad eleggere un deputato alla Costituente, elessero lui. Intanto la rivoluzione di novembre aveva cominciato a produrre i suoi frutti. Da un canto la Giunta Suprema, sospinta e quasi sopraffatta dall’onda dei demagoghi, lavorava ad apparecchiare il terreno alla Costituente, dalla quale doveva uscire armata di tutto punto la Repubblica; dall’altro Costituzionali e Clericali, quelli per orrore all’assassinio, per timore dell’anarchia o per vaghezza di dottrina; questi per odio alla libertà, per cupidigia di dominio, per tradizione di sètta, si studiavano, con speranze e intenti diversi, a seminare d’inciampi il cammino di quella rivoluzione, lorda bensì nella sua culla da una macchia orrenda, ma il cui andare era necessario e fatale. Tuttavia se i Costituzionali si limitavano a combattere colle parole e col voto per la loro ubbía impenitente d’un Papa costituzionale, alla reazione clericale ogni mezzo, giusta la vecchia teoria, era buono; e in attesa che le Potenze cattoliche muovessero all’invito di Pio IX, copriva di trame, solcava di mine tutto lo Stato romano; e in alcuni luoghi, specie nell’Appennino Ascolano e nel confinante Abruzzo, spalleggiata dal Borbone e alimentata dalla prossima fucina di Gaeta aveva coronate le creste di quei monti, antico e famoso teatro del Sanfedismo, di numerose bande brigantesche. Importava quindi che la Giunta Suprema parasse, prima che ad ogni altro, a quel vicino e più urgente pericolo; laonde in sui primi di gennaio deliberò di mandare il colonnello Rosselli a combattere d’accordo col preside Ugo Calindri il brigantaggio dell’Ascolano, e di chiamare il colonnello Garibaldi a Rieti perchè guardasse principalmente quel confine verso Napoli, e s’accordasse col Rosselli e col Calindri per soffocare la rinascente reazione in tutto quel territorio. E Garibaldi come gli fu ordinato partì; e per Tolentino, Foligno, Spoleto arrivò in sullo scorcio di gennaio a Rieti, dove s’accinse senz’altro all’opera prescrittagli. In sulle prime i Rietini (narrava egli stesso ridendo) pareva che avessero più paura di lui e de’ suoi compagni, che dei briganti; ma a poco a poco, conosciutili meglio, si ricredettero, e quantunque il suo mandato fosse arduo ed odioso, e richiedesse di quando in quando severe punizioni e crude rappresaglie, tuttavia il temuto condottiero non lasciò in quei luoghi alcun ricordo di ferocia, alcuna striscia di sangue innocente. Rese invece non spregevoli servigi al Governo romano, perseguendo nel più rigido inverno, con gente male in armi e peggio in arnese, un ostinato malandrinaggio, tenendovi atterrita e rimpiattata la reazione, custodendo fino all’ultimo tutto quel territorio, aperto per tante vie alle insidie nemiche. III. Prima però della sua partenza pel Rietino, Macerata lo elesse suo deputato alla _Costituente_,[113] e fu quello il primo voto che lo mandò in un’Assemblea politica. La tanto sognata, preconizzata e covata Costituente romana s’era infatti, al 12 febbraio, riunita, e Garibaldi dovette, pel mandato assunto, intervenirci. Fu però un intervento da par suo, e solo chi non l’ha conosciuto nè prima nè poi, ha diritto di meravigliarsene. Il 5 febbraio 1849 il Parlamento romano s’adunava per la prima volta, e fu quello che suol dirsi un avvenimento. Assiepati di popolo festante i dintorni del Campidoglio, riboccanti di spettatori le gallerie, pieni gli scanni di deputati, tutta la Giunta di Governo al suo posto, grande in tutti l’aspettazione, solenne il momento. Però l’Armellini, ministro dell’interno, aveva appena finita la lettura di quello che oggi direbbesi discorso inaugurale, e nel punto in cui l’Assemblea, fatta la chiama, stava per procedere alla verifica de’ suoi poteri, ecco Garibaldi alzarsi di scatto dal suo banco e chiedere: si lasciasse ogni formalità; l’Assemblea si dichiarasse in permanenza e proclamasse senz’altro la Repubblica, «solo governo degno di Roma.» La proposta sorprese, ma non convinse nessuno; un altr’uomo eccessivo, il principe di Canino, la secondò; ma l’Assemblea la respinse, e deliberò che la discussione procedesse con tutto il rigore delle formalità prescritte. Fu quello il primo atto parlamentare di Garibaldi, e gli si può applicare il detto: _Ab uno disce omnes_. I Parlamenti non erano aria in cui egli potesse respirare. Quella stessa incapacità a comprendere la santità delle forme, l’utilità delle regole, la efficacia della discussione, da lui dimostrata allora nell’Assemblea romana, lo accompagnerà come un abito incurabile per tutta la vita, e lo costringerà a dibattersi nell’impotenza e nella solitudine in tutti i Parlamenti futuri. Chi però nella proposta del 5 febbraio scorgesse soltanto l’inettitudine o l’antipatia d’un soldato alle procedure parlamentari, s’ingannerebbe a partito; essa nascondeva qualcosa di più, che va notata; nascondeva la inconscia, ma perciò appunto, profonda indifferenza del patriotta ad ogni forma di governo. Di repubblica e monarchia egli intese sempre poco più che i nomi, e nella repubblica voleva l’autorità dittatoria, come nella monarchia amava la libertà sfrenata. Poichè a Roma la repubblica era su tutte le labbra e in tutti i voti, e gli eventi la rendevano fatale, ed essa sola pareva dar concordia agli spiriti e unione alle forze, egli gridava: _Repubblica_. Se la monarchia gli fosse apparsa altrettanto accetta, se un re popolare e guerriero si fosse presentato, pronto a montare a cavallo per la guerra santa, egli si sarebbe levato col medesimo impeto a gridare: _Monarchia_. La stessa fretta con cui egli chiedeva il voto, attesta la poca importanza che in cuor suo gli attribuiva; la stessa mobilità con cui, nel giro di pochi mesi, s’era chiarito pronto a passare dalle insegne d’un papa a quelle di un re, dimostra come di quelli e d’altri tali segnacoli egli faceva un mediocrissimo conto, a come la sola bandiera ch’egli vedesse e capisse era sempre quella sola: l’Italia forte, e libera dallo straniero. L’8 febbraio, al tocco, la Repubblica romana era proclamata. Garibaldi, il quale malato per dolori reumatici e per febbre erasi fatto trasportare alla Camera per assistere all’importante tornata, rammentava al deputato Augusto Vecchi, come nell’ora istessa tre anni innanzi fosse entrato co’ suoi legionari al Salto, dopo la vittoria riportata sui campi di Sant’Antonio. E il Vecchi soggiunge che un tanto anniversario gli parve augurio lieto di altre vittorie.[114] Pagato a Roma il suo debito politico, se ne tornò a Rieti a riprendere il suo ufficio militare: ufficio uggioso, chè se v’era uomo disadatto all’ozio torpido delle guarnigioni e a quelle cure birresche di braccar briganti e spiare preti e frati, era di certo Garibaldi. Ma la Repubblica l’aveva ordinato, e ubbidì e durò nella stanza incresciosa fin verso lo scorcio d’aprile. Nel frattempo gli avvenimenti avevano fatto il loro corso. Il 23 marzo la catastrofe di Novara; il 27 la risposta dell’Assemblea veneta all’Haynau: _Venezia resisterà ad ogni costo_; il 28 l’insensata rivolta di Genova; il 30 l’ultimo giorno della decade bresciana; il 6 aprile Catania cade nelle mani sanguinarie del borbonico Filangeri; il 12 la reazione lorenese restaura in Toscana il Granduca; il 20 Filangeri è alle porte di Palermo; finalmente il 21 aprile salpa da Marsiglia la spedizione francese per Roma; date che raccolte in un quadro fastidiscono e amareggiano, ma che gl’Italiani dovrebbero portare impresse nella memoria per ammaestramento e ricordo perpetuo. L’ultima di queste notizie sorprese Garibaldi ad Anagni, dove era arrivato fin dal giorno antecedente. Ne sia prova questa lettera inedita fin qui, e nella quale i magnanimi sdegni dell’eroe e i gelosi amori del patriotta si confondono e s’accordano ai più soavi affetti del figlio, del marito, del padre, e si senton risuonare come in una scala armonica tutte le fibre dell’uomo: «_Comando della Iª Legione italiana_. Subiaco, 19 aprile 1849. Amatissima Consorte, Ti scrivo per dirti che sto bene, e che sono diretto colla colonna ad Anagni, dove forse giungerò domani, ed ove non potrei determinarti la durata del mio soggiorno. In Anagni riceverò i fucili ed il resto del vestiario della gente. Io non sarò tranquillo, sino ad avere una tua lettera, che m’assicuri esser giunta tu felicemente a Nizza. Scrivimi subito: ho bisogno di sapere di te, mia carissima Anita — dimmi l’impressione sentita agli avvenimenti di Genova e di Toscana. Tu donna forte, e generosa! con che disprezzo non guarderai questa ermafrodita generazione di Italiani — questi miei paesani, ch’io ho cercato di nobilitarti tante volte, e che sì poco lo meritavano. È vero: il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia, noi siamo disonorati, il nome italiano sarà lo scherno degli stranieri d’ogni contrada. Io sono sdegnato veramente di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi; ma non creder perciò ch’io sia scorato! ch’io dubiti del destino del mio paese. Più speranza io nutro oggi, che mai. Impunemente si può disonorare un individuo; ma non si disonora impunemente una nazione. I traditori ormai sono conosciuti. Il cuore dell’Italia palpita ancora — e se non è sano del tutto, è capace ancora di recidere le parti infette che lo travagliano. La reazione, a forza di tradimenti e d’infamie, è pervenuta a sbigottire il popolo — ma il popolo non perdonerà le infamie ed i tradimenti alla reazione. Uscito dallo stupore, egli si rialzerà terribile, ed infrangerà, questa volta, i vili strumenti del suo disonore. Scrivimi, ti ripeto; ho bisogno di sapere di te, di mia madre e de’ bimbi — per me non affliggerti, io sono, più che mai, robusto, e co’ miei milledugento armati mi sembra di essere invincibile. Roma prende un aspetto imponente. Attorno ad essa si rannoderanno i generosi, e Dio ci aiuterà. Presenta i miei saluti ad Augusto, alle famiglie Galli, Gustarini, Court, ed amici tutti. Io ti amo tanto, tanto! e ti supplico di non affliggerti. Un bacio per me ai ragazzi, a mia madre, che ti raccomando tanto. Addio, tuo G. GARIBALDI.[115]» IV. Il 24 aprile l’avanguardia, il dì appresso tutto il Corpo di spedizione del generale Oudinot, portato da dieci navi, forte di ben diecimila soldati di ogni arma, di sedici pezzi da campagna e di sei d’assedio, gettava l’áncora nelle acque di Civitavecchia.[116] Dei motivi, delle peripezie, del fine dell’intervento francese a Roma son piene le storie; noi stessi ne toccammo in altre pagine;[117] e non è tèma sì nuovo e sì gradito che ci invogli a riassumerlo. Due verità però non saranno mai abbastanza ripetute: la prima, che se la spedizione di Roma fu meditata e preparata dal Governo del Cavaignac, come un mezzo per preservare il popolo romano dai pericoli dell’anarchia, e di antivenire per tutela dell’Italia intera una più pericolosa invasione straniera; essa fu poi immediatamente sviata dal suo fine da Luigi Napoleone, il quale la voltò tosto in istrumento della restaurazione del potere temporale ed in isgabello alle sue lunghe ambizioni di regno. La seconda verità poi più trista, ma anche più utile a ricordarsi è, che se l’intervenzione della Francia nelle cose di Roma fu, comunque interpretata e attenuata, un’aperta violazione del diritto delle genti, pel modo subdolo e fraudolento con cui fu condotta ed effettuata degenerò in proditoria aggressione ed in sfrontato misfatto. Perocchè riesce sino ad un certo punto spiegabile, anco scusabile, che una nazione cattolica, presunta erede del retaggio di Carlomagno e della fede di Luigi IX, accecata dal malinteso interesse della religione e della civiltà e forviata da un bugiardo concetto dell’ordine e della libertà, mandi a restaurare colla forza un trono da lei reputato necessario alla salute della Chiesa ed alla pace del mondo; ma non si spiega nè si scusa che quella medesima nazione, sedicente grande, assuma una siffatta impresa, mascherando il suo volto e celando le sue armi come un malfattore, e strisciando tra le oblique ambagi della vecchia diplomazia, cammuffata col vieto pretesto di instaurare l’ordine nella libertà, mova a restaurare, fra un popolo confidente, il perpetuo disordine d’una teocrazia aborrita, ed a strozzare, tra le braccia d’una repubblica sorella, la nascente libertà. E fu soltanto per queste sue sembianze oneste ed amiche che l’esercito francese potè sorprendere la buona fede degli abitanti di Civitavecchia, e aiutato dalla dabbenaggine del Governatore e del presidio, mettere impunemente il piede sul suolo della Repubblica colla stolta lusinga di ricevere la medesima accoglienza dovunque. È ben vero che il Triumvirato romano non s’era lasciato cogliere all’inganno, e fin dal primo apparire del naviglio straniero aveva spediti ordini a Civitavecchia, affinchè lo sbarco fosse impedito, e comunque l’aggressione respinta; ma sia che gli ordini arrivassero tardi e dubitosi, sia che li svigorissero e fraintendessero la dappocaggine delle Autorità e quella perplessità, non scevra di paura e di egoismo, che aveva governato fin dal primo istante la condotta dei Civitavecchiesi, la perdita della principale fortezza della Repubblica fu irreparabile. Oltredichè l’incanto era rotto. Indarno l’Oudinot si studiava di larvare con nuove frodi e nuove frasi i suoi propositi; gli atti suoi, le parole de’ suoi stessi oratori lo tradivano. E noi Italiani dobbiamo essere grati a quel colonnello Leblanc, inviato a Roma dal Generale francese, il quale, frivolo o millantatore che fosse, ebbe il merito di parlar chiaro, apertamente confessando al Mazzini, scopo della spedizione essere la restaurazione papale. Egli rese a Roma il grande servigio di rischiararle tutta la gravità del pericolo che la minacciava, ed uscendo in quella sua buffa, ma schietta guasconata: _Les Italiens ne se battent pas_, fece risalire al cuore, anche de’ più timidi, quel po’ di sangue caldo che stagnava nelle loro vene, e mise gl’Italiani al cimento di provare che il Guascone aveva mentito per la gola. V. Caduti pertanto gli ultimi veli, ormai certa l’aggressione, inescusabile la violenza e manifesto il suo fine, alla Repubblica romana non restava più che difendere, non tanto la vita, preda designata al numero ed alla forza, quanto l’onore, che non era in balía d’alcuna fortuna, e il cui seme, se inaffiato di sangue generoso, rigenera sempre le nazioni. E la difesa di Roma fu pari al cimento e degna de’ suoi giorni più gloriosi. L’Assemblea commette al Triumvirato: «di respingere la forza colla forza;» il popolo sancisce, correndo all’armi, il magnanimo decreto, e i Triumviri sovraneggiati e quasi assorbiti dall’ardente spirito di Giuseppe Mazzini, mirabili di concordia e di energia, e, quando mai, colpevoli soltanto di soverchia generosità per gl’invasori, assumono d’effettuarlo. Giuseppe Avezzana, forse più atto per cuore che per mente all’arduo ufficio, è investito del Ministero della guerra e del Comando supremo dell’esercito; la Guardia Civica viene armata e mobilizzata; la linea di difesa tracciata, i principali punti muniti; i Corpi stanziati di fuori richiamati, quindi da Anagni Garibaldi; tutta infine quella massa eterogenea di truppe regolari ed irregolari, di doganieri e di studenti, di emigrati e di reduci, di Romani e di Italiani d’ogni provincia e colore, accoltasi a quei giorni in Roma, ordinata in brigate attive e in corpi di riserva, così partita e comandata. La Legione Garibaldi, il battaglione dei Reduci, i quattrocento Universitari, i trecento Finanzieri, i trecento emigrati, in totale duemilacinquecento uomini, compongono la prima brigata, e ne riceve il comando Garibaldi, giunto in Roma la sera del 28, riconosciuto finalmente Generale. Della seconda brigata, formata di mille uomini di Guardia Civica, e del primo d’infanteria leggiero, è scelto comandante il colonnello Masi. La Legione romana e il primo di linea, con due pezzi di campagna, fanno, agli ordini del colonnello Bartolomeo Galletti, una colonna di riserva; ottocento Carabinieri obbediscono al generale Giuseppe Galletti; cinquecento Dragoni al colonnello Savini; le artiglierie al Lopez ed ai fratelli Calandrelli; e si dovrebbero aggiungere i Bersaglieri lombardi comandati dal Manara, i quali però, avendo ottenuto dall’Oudinot di sbarcare a Porto d’Anzio, a condizione che non avrebbero partecipato fino al 4 maggio ad alcuna fazione, erano vincolati dalla promessa, data per loro dal Preside di Civitavecchia, di serbare fino a quel giorno la neutralità. Restava a fermare il piano di guerra; ma la topografia della città, le condizioni dell’esercito difensore, le forze degli assalitori chiaramente lo suggerivano. Scartato il concetto di una offensiva in aperta campagna, e deliberato quello d’una concentrata difensiva della Capitale, la difesa non poteva essere stabilita che sulla destra del Tevere, e precisamente lungo quell’arco esterno alle mura d’Urbano VIII, che da Porta Portese per quelle di San Pancrazio e Cavalleggieri va a Porta Angelica; e comprendente, come posizione avanzata, al centro la collina di Villa Pamfili, come baluardo a settentrione il forte Vaticano, e come seconda linea d’appoggio le alture del Gianicolo. Ciò posto, l’ordine di collocazione delle truppe si porgeva da sè logico e naturale. La prima brigata Garibaldi fu collocata tra Porta Portese e Porta San Pancrazio; la brigata Masi distribuita tra Porta Cavalleggieri e Porta Angelica; la riserva, composta della brigata Galletti, dei Dragoni Savini e dei Bersaglieri Manara, schierata tra Piazza Navona, la Lungara e Borgo; i bastioni furono coronati di nuovi pezzi, le batterie del Vaticano rinforzate; e tutto ciò ben disposto ed apparecchiato, Roma si tenne pronta a ributtare l’assalto. VI. La mattina del 30 aprile le vedette di San Pietro annunziavano lo spuntar d’una colonna francese sulla via di Civitavecchia. Non eran più che ottomila uomini, partiti in due brigate sotto il comando dei generali Molière e Lavaillant; traevano soltanto due batterie da campagna; erano per numero, per armi affatto disuguali all’impresa a cui s’incamminavano. Ma li guidava la nativa intrepidezza, li incoraggiva la fiducia del loro Leblanc: «Gli Italiani non si battono;» li rassicurava la pertinace lusinga che Roma li aspettasse a gloria, e poichè in quell’ora le campane di Montecitorio e del Campidoglio suonavano a furia l’allarme, se lo prendevano per un suono di festa e marciavano anche più allegri e fidenti nell’immancabile trionfo. Però tutto quel miscuglio di pregiudizi, di illusioni e di prosunzioni che gorgogliava nelle file dell’esercito francese fin dalla sua discesa in Italia, traspariva come in un’acqua chiara, nel piano d’attacco del loro Generale. Esso non avrebbe potuto essere più semplice, più primitivo e più ingenuo: spezzare a un certo punto il Corpo in due colonne, l’una inviarla ad assalire Porta Cavalleggieri, l’altra Porta Angelica; prender di mira entrambe la Cupola di San Pietro e andarsi a dar la mano nella sua piazza. E qui in verità convien proprio dire che l’Oudinot fosse ancor più dabbene che maligno; chè a nessun Generale, per ammattito che fosse, sarebbe frullato pel capo di andare, senza parco d’assedio, senza lavori d’approccio, senza una breccia, a dar di cozzo contro le mura d’una città bastionata e quasi fortificata, protetta da numerose artiglierie e difesa da forze pari alle sue; se non avesse covato nell’animo uno di questi due profondi forse, ma punto maliziosi convincimenti: o che le mura fossero di mota fresca e i cannoni di cartone dipinto e i difensori comparse da teatro; o che la maliarda eloquenza della sua parlata avesse gettato sul Governo, sull’esercito, sul popolo romano un sortilegio sì potente da trovarseli al suo arrivo disfatti d’amore a’ suoi piedi. Due o tre colpi egregiamente aggiustati dal Calandrelli vennero a rompergli l’alto sonno. Balenarono al saluto inaspettato le schiere assalitrici; ma poichè erano pur sempre Francesi, vantatori cioè, ma prodi, proseguirono, secondo l’ordine divisato, l’attacco. Avanzavano da ogni parte, protetti dalle case, dai vigneti, dall’arte, i nemici; non restavano dal fulminarli, colla mitraglia e coi moschetti, i nostri. Nuocevano ai Romani e più agli artiglieri le carabine dei Cacciatori di Vincennes; ma i nostri cannoni egregiamente serviti e diretti facevano nelle file avversarie vuoti sanguinosi. Un solo vantaggio avevano ottenuto dal principio i Francesi, ma notevole; chè il generale Oudinot avendo ordinato alla brigata Molière di occupar la Villa Pamfili (ordine ben pensato come quello che gli levava dal fianco sinistro una punta minacciosa), il battaglione Universitario della brigata Garibaldi, troppo scarso a contrastar la preziosa posizione, l’aveva dovuto ben presto abbandonare, ritraendosi al riparo dietro il Casino de’ Quattro-Venti. Ma da quella parte, calmo, impassibile, attento a tutte le peripezie della lotta stava Garibaldi, e il trionfar dei Francesi non poteva esser lungo. Infatti il nostro Generale, scorta l’urgenza del pericolo, chiama a sè la Legione italiana, e la lancia a baionetta in resta contro il nemico. Questi non teme l’affronto, e da quell’istante intorno a Villa Corsini, per le aiuole e i prati del parco Pamfili, dietro ogni muro e ogni siepe, s’impegna una lotta petto a petto, palmo a palmo, a vita ed a morte, dalla quale ogni occhio appena esperto travede che pende l’esito della giornata. In entrambi i campi il coraggio: ma nei Francesi il vantaggio delle armi, il favore della posizione, il nerbo della disciplina, l’esperienza dell’arte; tra gl’Italiani la coscienza della giusta causa, la religione della patria, la rabbia dell’iniqua aggressione, la fede nella baionetta e il comando di Garibaldi. Oramai il terreno è già troppo a lungo contrastato, e Garibaldi sente venuta l’ora del colpo decisivo. Chiesto pertanto l’aiuto della mezza brigata Galletti, accorsa prontamente a recarlo, fatta massa di tutte le sue forze, spuntata, quasi trascurandone gli ultimi difensori, la Villa Pamfili, si rovescia per la valle sul fianco destro francese; lo rompe, lo sfonda, lo incalza colla punta alle reni, costringe in brev’ora tutto l’esercito assalitore, già ributtato di fronte su tutta la linea e già minacciato alle spalle, a cercare in una precipitosa ritirata, molto somigliante ad una fuga, l’unico scampo. La giornata del 30 aprile (amiamo lasciarlo dire al Sacchi,[118] comandante quel giorno una coorte della Legione italiana) farà epoca nella storia, ed è una delle più belle pagine militari della nostra indipendenza. Il Generale francese tentò, come è costume dei piccoli vinti, scusarla con sognati agguati e immaginari tradimenti; ma egli cadde nel solo agguato della sua presunzione, e non patì altro tradimento che quello della sua ignoranza. Trecento morti, cinquecentotrenta feriti, dugentosessanta prigionieri, per l’eroismo quasi temerario di Nino Bixio,[119] nelle nostre mani e tradotti a coronar il trionfo in Roma, fecero pagar cara alla Francia l’insana aggressione, e dimostrarono al mondo se gli Italiani si battono. Le perdite degl’Italiani furono, ragguagliate al numero, lievissime; sessantanove morti e poco più che cento feriti; un solo prigioniero, Ugo Bassi; ma le preziose vite de’ prodi rapite ai futuri cimenti della patria, sempre lacrimabili e memorande.[120] Dopo i morti però il primo onore della gloriosa giornata va reso a Garibaldi. Fu questa la voce unanime di tutta Roma nella sera stessa della battaglia; è questo il ponderato giudizio che la storia conferma.[121] L’eroe pugnò tutto il giorno alla testa de’ suoi; ferito, nascose la piaga e non la confessò che a sera, quasi violentato, al dottor Ripari. Capitano, mostrò, unico fra tutti, senso di militare iniziativa; affrontò il nemico in aperta campagna, ne scoperse il lato debole, lo assalì nel punto e nell’istante opportuni, decise della giornata. E avrebbe fatto anche di più, se in quel giorno avesse comandato lui solo e fosse stato ascoltato il suo consiglio di compiere con un pronto inseguimento la disfatta francese. Ma indarno egli lo suggerì; indarno egli pregò iteratamente il Triumvirato perchè gli fosse consentito l’ardito, ma infallibile colpo; il Triumvirato, e dicasi pure il Mazzini, sia che diffidasse del successo dell’impresa, sia che temesse rendere irreconciliabile con una percossa troppo sanguinosa l’inimicizia della Francia, glielo vietò nettamente. E fu errore notato da quanti storici leggemmo e militari e politici: la Francia era stata ormai troppo ferita, non fosse in altro, nell’amor proprio, per perdonarlo ai feritori; mentre non era abbastanza castigata per trarre dalla sconfitta un salutare avvertimento ad andare più guardinga prima d’impegnarsi in una guerra, oltrechè ingiusta nel fine e perfida nei mezzi, difficile anche e probabilmente lunga pel nemico gagliardo che s’era trovato improvvisamente di fronte. Comunque sia, il giorno dopo il generale Garibaldi colla scusa d’una ricognizione si spinse colla sua brigata così presso agli avamposti a Castelguido, che per poco il Governo indugiasse a richiamarlo, o i Francesi s’affrettassero ad andargli incontro, la seconda battaglia che il generale Garibaldi aveva vagheggiata la sera del 30 aprile sarebbe inevitabilmente, e con qual esito Dio solo lo sa, avvenuta la mattina del 1º maggio. Ma Garibaldi fu arrestato in marcia; l’Oudinot dal canto suo pensò a levare il campo, e tutto finì da una parte e dall’altra coll’ansietà d’un combattimento che non avvenne. Dei replicati divieti però Garibaldi serbò memoria non scevra di rancore finchè visse, e noi stessi l’udimmo più d’una volta, parlando del 30 aprile, mormorare con amarezza: «Quel Mazzini che ha sempre avuto la smania di fare il Generale, e non ne capiva.......[122]» VII. Intanto che l’Oudinot riparava, umiliato e febbricitante, a Civitavecchia, e spacciava di là a Parigi bugiardi messaggi, male dissimulanti la batosta del 30 aprile, e l’Assemblea romana lo ripagava di tutte le sue slealtà, rinviandogli liberi e senza riscatto i suoi prigionieri, un esercito austriaco minacciava dal Po le Legazioni; un’armata spagnuola veleggiava per la medesima crociata nel Mediterraneo; e finalmente re Ferdinando di Napoli, fatto leone dalla certezza della facile vittoria, faceva occupare da una divisione Velletri; nel mentre che due altre, l’una di regolari comandata dal generale Winspeare, l’altra di briganti e di disertori guidata dallo Zucchi, s’inoltravano per la provincia di Frosinone fino ai colli Latini. Per quanto la spavalda scorreria fosse pel momento più molesta che pericolosa, il Governo romano non poteva lasciarla più oltre trascorrere, e commise a Garibaldi che evitando i decisivi conflitti, e cogli accorgimenti di cui era maestro, tenesse a bada e molestasse il nuovo nemico. Ora, poichè Garibaldi non era uomo da stillare a lungo i suoi piani, presa seco tutta la sua brigata, più il battaglione testè aggregatogli dei Bersaglieri Manara, la sera del 4 maggio esce tacitamente da Porta del Popolo, s’incammina per Ponte Molle, facendo le viste di marciare a Palo; poi volta a un tratto per la Prenestina, e dopo una marcia notturna faticosissima, ma silenziosa e ordinata, arriva alla mattina dell’indomani a Tivoli, dove s’accampa. Qui è il punto, dove quasi tutti gli storici e biografi del nostro eroe si dilettano a descrivere con gran copia di particolari il campo di Garibaldi; quasi facessero un concorso di pittura sul medesimo tèma. Abbiamo quindi il quadrone a colori scarlatti, a tratti michelangioleschi, per non dir vasariani, del Guerrazzi, ma, come esige la scuola, manierato e fantastico; abbiamo il quadretto a tratti sfumati, a tinte azzurre, a tocchi fini e direi quasi aristocratici d’Emilio Dandolo, ma dominato da non so qual pessimismo partigiano che ne scema la verità; abbiamo i bozzetti veri, ma freddi ed aridi, dell’Hoffstetter; e infine, per coronar la gara, i pasticci del Dumas, il quale mescolati insieme il rosso del Guerrazzi, l’azzurro del Dandolo e il bigio dell’Hoffstetter, e impastatili con un pizzico di _Memorie_ di Garibaldi udite o credute udire, e una buona dose delle sua invenzioni, butta giù in quattro pennellate, alla «Luca fa presto,» il più bell’affresco ad effetto che mai freschista del Seicento abbia immaginato. Quanto a noi pensiamo che un campo garibaldino non sia più una novità per i nostri lettori, e risparmieremo l’oziosa fatica di ridipingerlo. La fantasmagoria variopinta delle uniformi, delle durlindane e dei cappelli piumati, noi l’abbiamo veduta; il parapiglia fiammingo delle figure: qua le gote imberbi d’uno studentello che fanno da chiaroscuro alla faccia barbuta d’un veterano; là un pallido viso di poeta, fors’anche di prete scappato al seminario, che s’allinea col ceffo sinistro d’un vagabondo, forse d’un galeotto scappato al bagno, lo conosciamo; i cavalli sciolti, all’arrivo, sui pascoli e riacchiappati alla partenza col _lazo_; i bovi o gli agnelli presi, in mancanza di proviande, alla baionetta, squartati e affettati in un baleno, infilati in grandi schidioni di legno, e appena rosolati, omericamente divorati, sono storia vecchia: in ultimo Garibaldi stesso, profilo greco, capelli prolissi, barba fulva, tunica rossa, un cappelluccio acuminato e piumato sulla testa, un mantello bianco, foderato di rosso, infilato a guisa di pianeta sulle spalle, squadrone al fianco, pistole e pugnale alla cintola, che spiegando la sua sella americana si fa da sè stesso il letto, e buttando sullo spadone e il fodero confitti in croce, il suo poncio, si rizza la sua tenda; ed ora sbuca da un campanile, ora spunta da un’altura, or visita il campo, ora precorre le avanguardie, vigile, infaticabile, ardito e maraviglioso sempre; tutte queste ed altrettali curiosità sono per noi anticaglie, la cui data risale fino all’America, ed eravamo già tutti e presaghi e persuasi che il Garibaldi di Montevideo non l’avremmo trovato diverso in Italia. Una novità sola va aggiunta alla pittura della Legione italiana accampata a Villa Albani, una compagnia di giovanetti italiani dai dodici ai sedici anni; svelti, arditi, indiavolati, cari a Garibaldi, a cui tra poco salveranno la vita; macchiette quarantottesche, se vogliam dirle, esse pure, ma sempre preferibili, fatto il paragone, alle quarantottate oggi rinascenti, nelle quali è vero che i _bimbi d’Italia_ non fanno più le schioppettate contro gli stranieri, ma concionano dai palcoscenici nei _meetings_. La mattina del 7 Garibaldi aveva già levato il campo, e intorno alla mezzanotte del giorno stesso, sotto un acquazzone torrenziale, giungeva a Palestrina, a poche miglia dalle linee nemiche. Le avanguardie borboniche infatti, appena saputa la sortita dei Romani, s’erano concentrate fra Albano e Valmontone, e forti di seimila uomini, sotto il comando del generale Lanza, si preparavano ad affrontare Garibaldi e, come dicevano, ad annientarlo. Inutile dire che Garibaldi non se ne sgomentava; anzi fin dal giorno 8 alcune scorrerie felicemente riuscite, una delle quali capitanata dal prode Narciso Bronzetti, gli avevano riportata la speranza che il nemico non sarebbe stato così formidabile, come voleva far credere. Prevaleva tuttavia troppo di numero per attentarsi con soli duemila uomini ad assalirlo nelle sue forti posizioni; e risolvette di starsi alla difensiva e di aspettarlo di piè fermo in Palestrina. E l’evento non tardò a dargli ragione. Verso le 2 pomeridiane del giorno 9, due reggimenti di guardie reali per le due strade che convergono a Porta Sole apparivano dinanzi a Palestrina. Garibaldi s’accontentò di stendere in cacciatori una compagnia della Legione, una di guardia mobile, e due del battaglione Bersaglieri, e affidata al Manara la cura della difesa della porta, tenne il resto delle sue genti in serbo, e stette a spiare le mosse del nemico. Il quale, poveretto, veniva innanzi lento, svogliato, trepidante, rispondendo fiaccamente al fuoco, dando le spalle al primo assalto alla baionetta, e lasciando, nella fuga, feriti e prigionieri nelle nostre mani. Ma lo spettacolo che quei prigionieri offersero era più atto certamente ad amareggiare il cuore dell’Italiano, che a inorgoglire la mente del vincitore. In luogo di quei terribili crociati, che a detta del generale Zucchi dovevano annichilire quel Satana di Garibaldi, questi si vide trascinare innanzi un branco d’uomini inebetiti dallo spavento, coperti di reliquie e di scapolari come santoni, tremanti a verga al solo suo nome, e che al primo suo apparire si buttavano a’ suoi ginocchi gridando pietà e misericordia, maledicendo la guerra a cui erano spinti, e intercalando le loro giaculatorie di tanti «mannaggia a Pio IX,» da lasciare incerti gli astanti se ridere di quella farsa pulcinellesca, o gemere sul fondo d’abbiezione in cui tanti secoli di tirannide e di superstizione avevano precipitato uno dei popoli più generosi d’Italia. Oramai però una più lunga stanza in Palestrina poteva divenire pericolosa; oltre a ciò in Roma vociferavasi di un imminente attacco combinato de’ Napoletani e de’ Francesi, e il Triumvirato ordinava che Garibaldi rientrasse prontamente nella Capitale. Nè egli s’attardò sotto la tenda; e la sera dell’11, per sentieri impraticabili, sfilando in perfetto ordine nelle vicinanze del campo nemico, dopo vent’otto miglia di marcia travagliosissima, ricondusse tutto il suo Corpo, non superbo d’una grande vittoria, ma lieto d’un onorato successo, in Roma. VIII. Nel frattempo importanti avvenimenti militari e politici eransi, in Roma e fuori, maturati. Bologna dopo quattro giorni di disperata resistenza aveva gloriosamente capitolato nelle mani del bombardatore Gorkowsky: Ancona, dove teneva il comando militare quel Livio Zambeccari che già incontrammo a Rio Grande, minacciata della medesima sorte, si preparava ad imitare il medesimo eroismo: a Fiumicino s’ancorava, Sancio Panza che annuncia Don Chisciotte, l’avanguardia della spedizione spagnuola: da Gaeta l’Antonelli s’affannava a metter d’accordo i suoi quattro alleati, senza riuscirvi; la Francia finalmente continuava la sua politica a due rovesci: quella delle parole, favorevole a Roma; quella de’ fatti, favorevole al Papa. Diguisachè, mentre l’Assemblea Nazionale, istruita, malgrado le bugiarderíe dell’Oudinot, del vero successo del 30 aprile, decretava che la spedizione francese fosse _ramenée à son premier but_; Luigi Napoleone prima e l’Odillon Barrot dopo inviavano lettere e dispacci occulti all’Oudinot, lodandolo dell’operato, promettendogli rinforzi, ripetendogli l’ordine di entrare per qualunque via, fosse pur quella della forza, in Roma. Infine, come se tanto tessuto di perfidie non bastasse, inventava quella maggiore di tutte, la missione Lesseps. Come un uomo chiaritosi e allora e dopo acuto di mente, retto d’animo ed esperto di pubblici negozi potesse accettare il mandato che il Drouyn de Lhuys gli affidava, un mandato oscuro nella forma, obliquo nel fine, ineffettuabile nella sostanza, nessuno ancora è arrivato a comprenderlo. In apparenza l’Inviato francese doveva procacciare un accomodamento e conciliare insieme la libertà del popolo romano, i diritti della sovranità pontificia, e la dignità dell’intervento francese (quadratura del circolo); in realtà doveva carpire ai Romani la promessa di aprire fraternamente ai suoi le porte di Roma, affinchè dietro ai loro passi potesse rientrar più comodamente il Papato temporale. Missione nella quale un furfante sarebbe riuscito; un galantuomo come il signor Lesseps doveva necessariamente fallire! Ora come entrasse in Roma, con quali speranze vi fosse accolto, con quali lusinghe egli esordisse, è materia diplomatica, e non sapremmo dire quanto ci sia grato non averla a rimestare. Rammenteremo soltanto una cosa che più direttamente si connette all’opera nostra, che il primo effetto dell’arrivo del Lesseps fu una tregua di trenta giorni, tregua verbale, male promessa, male definita, e come al solito slealmente osservata dal Generale francese; ma che alla peggio porse il destro al Governo romano di levarsi dal fianco quella punta fastidiosa dell’esercito borbonico, e di finirla con uno almeno de’ tanti suoi nemici. Nè alla non ardua impresa difettavano le forze; chè l’esercito romano tra il 1º e il 16 maggio s’era venuto via via ingrossando di tanti piccoli corpi, che tuttavia componevano nel loro insieme un non spregevole rinforzo. L’Oudinot aveva restituito, sebbene senz’armi, il battaglione Melara prepotentemente catturato a Civitavecchia; i Corpi distaccati nell’Ascolano erano rientrati; una Legione straniera, di Francesi principalmente, si veniva organizzando; la Legione trentina ed una compagnia del 22mo Reggimento, scappata dagli accantonamenti forzati della Spezia, erano riuscite a penetrare tra l’8 e il 9 in Roma, e fuse insieme andavano a formare un altro battaglione di Bersaglieri lombardi, che aggiunto al 1º, sotto il comando del Manara promosso colonnello, prendeva e corpo e nome di reggimento. Finalmente, venuta fin da Bologna, dopo quindici giorni di marce forzate entrava da Porta del Popolo la divisione Mezzacapo forte di quattromila uomini, e preceduta da quella compagnia di Studenti lombardi e toscani, che il Medici aveva reclutato a Firenze e che formerà il nerbo dei futuri difensori del Vascello. Ora chi sommi queste nuove forze all’esercito già esistente il 30 aprile, vede che Roma poteva disporre di circa diciottomila combattenti;[123] non certo bastevoli a far la guerra alla Santa Alleanza accanitasi contro di lei e nemmeno a vincere la Francia; ma, finchè durava l’armistizio, più che sufficiente a rivedere le spalle al Re di Napoli e a proteggere Roma da qualsivoglia disordine interno o sorpresa esterna. Restava la scelta del Generale supremo, problema perpetuamente insoluto di tutte le nostre guerre. Anche Roma contava falangi d’eroi e manipoli di ufficiali d’ogni grado valentissimi, destinati certamente come i Medici, i Bixio, i Sacchi, e se non fosser soccombuti anzi tempo, come i Manara, i Daverio, i Pisacane, i Bronzetti, i Gorini, a divenire un giorno eccellenti generali; ma un Generale in capo capace di comandare un esercito in campo e di dirigere la difesa d’una città assediata, atto a farsi amare, ma soprattutto a farsi ubbidire, pari insomma all’ufficio suo, e quel che più monta, reputato tale e di cui tutti riconoscessero senza competizione la perizia, il valore e la fortuna, un Generale simile o non esisteva o si nascondeva, o non si sapeva trovarlo. L’Avezzana s’era chiarito tanto inesperto capitano, quanto il tempo andava manifestandolo inabile ministro; il generale Galletti, bravo, ma vecchio, non era raccomandato da alcuna di quelle azioni di grido che impongono la fiducia; il Calandrelli era un ammirabile comandante d’artiglieria, ma non prometteva di più; sicchè al tirar de’ conti restava, unico e solo candidato, Giuseppe Garibaldi. Malauguratamente su di lui pesava quella riputazione di valente condottiero e di inetto generale che gli era stata buttata addosso come una camicia di forza fin dal primo ritorno in Italia, e da cui nemmeno la gloria del 30 aprile era valso a liberarlo. Oltre di che, gli uni per apprensione della sua audacia, gli altri per invidia della sua fortuna; questi per saccenteria, quelli per grettezza; il Governo stesso per timore della sua indisciplinatezza e fors’anco per gelosia della sua popolarità; tutti, qual più qual meno, se ne eccettui qualche giovane entusiasta, qualche popolano ingenuo, e i suoi fedeli d’America, tutti, diciamo, cospiravano a negargli quel bastone del comando che evidentemente egli solo, non per eccellenza assoluta, ma per superiorità relativa era capace di reggere. Siccome però dall’un canto questa superiorità era innegabile, e dall’altro un Generalissimo conveniva pur nominarlo, il Triumvirato fece questa pensata: promosse Garibaldi generale di divisione, componendogliela colla vecchia sua brigata, la brigata Galletti e il reggimento Bersaglieri lombardi, ed elesse Generale in capo il colonnello Pietro Rosselli; quel desso che vedemmo scaramucciare contro il brigantaggio dell’Ascolano; uomo, a dir vero, che aveva studiato la guerra più sui libri che sui campi, ma in voce di grande stratega presso i dotti dell’esercito, beneviso al Mazzini, caro ai Romani e di cui tutti pronosticavano mirabilia. Ora se egli era il Generalissimo, a chi se non a lui commettere il comando della spedizione contro il Borbone? E quale miglior luogotenente e cooperatore gli si poteva dare che Garibaldi? Quello la mente, questi il cuore: il Rosselli, la dottrina, diriga; Garibaldi, la mano, eseguisca e la vittoria è infallibile. Trovato stupendo, a cui non mancavano che due cose semplicissime; l’accordo simpatico della mente e del cuore, e la superiorità reale della dottrina sulla mano. IX. Il Rosselli pertanto s’accinse immediatamente all’impresa. Pensava attaccare i Napoletani accampati da Porto d’Anzio a Valmontone sulla loro destra, spuntarli da questo lato e tagliar loro la ritirata: capitanava diecimila fanti, mille cavalli e dodici pezzi d’artiglieria, che andavano così distribuiti e ordinati: La prima brigata, sotto gli ordini del colonnello Marocchetti e la direzione del colonnello di stato maggiore Haug, composta della Legione italiana, del terzo Reggimento di linea, del piccolo squadrone dei Lancieri Masina, d’una compagnia di Zappatori del genio e due pezzi d’artiglieria (duemilacinquecento uomini circa), dava l’avanguardia. Il corpo di battaglia componevasi di due brigate, a cui erano addetti il reggimento de’ Bersaglieri lombardi, un battaglione del primo di fanteria, il secondo e il quinto reggimento, la Legione romana, due squadroni di Dragoni e sei pezzi di artiglieria; circa seimila uomini; e lo capitanava il generale Garibaldi in persona, assistito dal polacco colonnello Milbitz dello stato maggiore generale. «La riserva e retroguardia era la brigata del generale Giuseppe Galletti che marciava alla testa del sesto Reggimento di fanteria, d’un battaglione di Carabinieri a piedi, del battaglione Zappatori del genio, di due squadroni di Carabinieri a cavallo, e di quattro pezzi d’artiglieria; in tutto duemila e cento uomini. »Comandante l’artiglieria il colonnello Ludovico Calandrelli; quello della cavalleria il generale Bartolucci; capo dello Stato Maggiore generale il colonnello Pisacane, e principava da generale in capo Pietro Rosselli.[124]» Fermato così il disegno e l’ordine di marcia, escono la sera del 16 da Porta San Giovanni; marciano tutta la notte per la via Labicana; arrivano la mattina del 17 a Zagarolo, dove soggiornano; ripartono il giorno appresso per Valmontone, dove il grosso e la riserva s’accampano, mentre l’avanguardia si spinge fino a Montefortino, forte posizione a cavaliere delle due vie che da Valmontone conducono l’una a Velletri, e l’altra a Terracina: val quanto dire sulla fronte e sul fianco dell’esercito napoletano. Questo però non era rimasto così immobile, come forse il Rosselli aveva, nel silenzio del suo studio, escogitato; chè appena avuto vento dell’avanzarsi dei nostri, aveva frettolosamente abbandonato la linea de’ colli Latini e s’era da tutte le parti ripiegato su Velletri. Era una notizia importante: il piano di campagna del generale Rosselli poteva dirsi fallito prima che tentato; conveniva farne un altro e si poteva, ma occorreva prontezza d’occhio e celerità d’esecuzione; il Rosselli invece non affrettò d’un passo la sua marcia, non svelò ad anima viva gli arcani della sua mente; s’accontentò solo d’ordinare all’avanguardia di spingere il 19 mattina ricognizioni fin sotto le mura di Velletri; «mentre (parole stampate dal suo capo di stato maggiore Pisacane[125]) l’armata in ordine compatto, _fiancheggiata_ da tali perlustrazioni, avrebbe secondato il movimento.» Â questo punto però il generale Rosselli scompare, per così dire, dietro la coda del suo esercito; e se noi vogliamo seguire lo sviluppo dell’azione, siamo costretti ad accompagnarci di nuovo al generale Garibaldi, il solo che in quella giornata pensasse (se bene o male lo vedremo), capisse e combattesse. E qui, prima d’intraprendere la narrazione della giornata di Velletri, ci occorre un’avvertenza. Noi scriviamo, per dir così, sotto la dettatura del general Sacchi e del colonnello Cenni, i quali, non solo per aver partecipato come testimoni ed attori ai fatti che narrano, ma per aver seguíto e veduto davvicino durante tutto quel giorno il generale Garibaldi, il primo come comandante in secondo la Legione italiana, il secondo come aiutante di campo, ci sono parsi le più sincere e autorevoli testimonianze che in siffatto caso si potessero desiderare. Nè ci trattiene dal chiamarli tali, la considerazione che il loro racconto discordi in alcuni particolari da quello degli storici che scrissero sul medesimo argomento; essendo per noi indubitabile che nessuno meglio di loro abbia potuto conoscere la verità e nessuno meno di loro avuto motivi per svisarla o tacerla. Nè con ciò vogliamo scemar fede alla diligenza ed alla lealtà degli scrittori che ci hanno preceduto; soltanto vedendo nelle loro pagine regnare le più grandi contraddizioni miste talvolta alla più ligia imitazione: e il Torre, per esempio, scostarsi in molti particolari dall’Hoffstetter;[126] e il Del Vecchio rappresentar i fatti diversamente dal Farini; e il Guerrazzi, che pur ebbe in mano gli appunti del Sacchi e i Ricordi di Garibaldi, ricantare, come eco ignara, i giudizi del Mario o del Vecchi che non li ebbero, e tutti contraddirsi o copiarsi a vicenda, e nessuno presentar un documento o una prova purchessia del loro asserto; allora il sospetto che a tutti questi storici egregi sia mancato il tempo e l’opportunità per vagliare le cose narrate nasce spontaneamente, e posti da un lato tra relazioni contradittorie, incompiute, confuse, e dall’altro tra attestazioni concordi, precise, particolareggiate di due ufficiali che hanno veduto ed udito, non potevamo più dubitar nella scelta. E non abbiamo posto nel conto le _Memorie_ del Rosselli e del Pisacane, non certo per scortese oblío de’ loro autori, meritevoli entrambi, l’uno per la vita illibata e studiosa, l’altro per la fine eroica ed infelice della gratitudine e del rispetto degl’Italiani; ma perchè essi, giudici in causa propria, non scrissero storie, ma apologie e filippiche; apologie di sè, filippiche contro Garibaldi; e non si potrebbe giurar sulla loro parola più che non si potrebbe in un processo dal piato d’una sola parte giudicar del torto o della ragione dell’altra. E poichè dicemmo processo, lo ripetiamo. La storia della battaglia di Velletri non è più da oltre trent’anni che un processo male istruito, in cui Garibaldi ha la parte di accusato, il Rosselli ed il Pisacane quella d’accusatori, gli storici onesti, ma assai male informati, quella di giudici, e che noi, sulla fede di due nuovi testimoni, veniamo a riaprire, sperando che i posteri vorranno scrivere sulla tomba dell’accusato più giusta sentenza. X. Ecco pertanto i fatti. All’alba del 19 l’avanguardia si era già messa in moto; ma fatte poche centinaia di passi il Marocchetti mandava ad avvertire Garibaldi che scorgeva verso Velletri un confuso moto di truppe nemiche, onde temeva di essere da un istante all’altro assalito. A tale annunzio Garibaldi monta immediatamente a cavallo, manda avviso al Generale in capo così dell’allarme come della sua partenza, raggiunge a spron battuto l’avanguardia, e raccolti dal Marocchetti gli ultimi rapporti cavalca ancora innanzi per breve tratto, e va a cercare, come è suo costume, un posto elevato d’onde speculare le posizioni e le mosse del nemico. «Giunto difatti (scrive il Cenni stesso che gli era compagno alle Colonnelle ed all’altezza della vigna Rinaldi) smonta da cavallo; coperto dai canneti e dalle macchie della vigna, s’inoltra fino ad un dosso d’onde l’occhio può correre fin sotto le mura di Velletri; e vede abbastanza chiaro che i Borbonici, se a difesa od attacco, è tuttavia dubbioso; ma per fermo si preparano ad azione imminente.» Frattanto anche l’avanguardia sopraggiungeva; e Garibaldi accertatosi da un secondo e più prossimo osservatorio che il nemico manovrava veramente per l’attacco, spiega a destra e a sinistra della strada, che corre tutta incassata fra poggi e vigneti, la Legione italiana e alcune compagnie del terzo di linea; e montato sul tetto d’una casa in vigna Spalletti, si rimette a spiare gli andamenti del nemico. I quali d’altronde più manifesti di così non potevano essere. I Borbonici avanzavano su tre colonne: il secondo battaglione de’ Cacciatori pei vigneti, a destra ed a sinistra; uno squadrone di Cacciatori appoggiato da un altro corpo di fanteria, e da artiglierie al centro sulla strada. Garibaldi non fece un passo per muover loro incontro; ma li aspettò di piè fermo. Trascorsi infatti pochi minuti, il colpeggiar delle sentinelle presso alla salita di Vallefredda avvertì che il primo scontro era avvenuto. Potevano essere le undici del mattino. Gli avamposti s’eran già ripiegati sulle Colonnelle, dove già dicemmo appostate le fanterie romane; l’attacco era già imminente su tutta la linea; la fucilata era vivissima da entrambe le parti, quando Garibaldi, vista spuntar sulla strada la testa della cavalleria nemica, spicca il Masina, il Murat di quella guerra, coi suoi quaranta Lancieri[127] ad arrestarla. E parte il Masina; e lo seguono, incuorati dall’arguta parola e dall’esempio eroico, i suoi compagni: ma o perchè sopraffatti dal torrente sei volte più gagliardo, come dice il Sacchi; o perchè i loro cavalli fossero nuovi a quel vertiginoso giuoco delle cariche, come vuole il Cenni; il fatto è che al primo cozzo voltano briglia tutti quanti, e abbandonando il loro comandante alle prese col colonnello nemico (che ne riportò per altro la testa spaccata), vanno in fuga precipitosa. Ma lo spettacolo accadeva troppo vicino a Garibaldi, perchè egli potesse starsene inerte spettatore. Scorto il voltafaccia de’ suoi, si butta a cavallo, scortato dal solo moro Aghiar, traverso la via, tentando, col gesto imperioso, colla voce tuonante, colla stessa persona d’arrestare la rotta sfrenata. Tutto invano; chè egli stesso sbalzato di sella, travolto dall’onda commista degli amici e de’ nemici, impigliato il corpo sotto il proprio cavallo e pesto dall’unghie di cento cavalli altrui, stava per cadere certamente morto o vivo nelle mani borboniche, se in buon punto quella compagnia di ragazzi, di cui già discorremmo, appostata lì vicino non avesse con una scarica bene aggiustata fatto un buco nella siepe di cavalieri nemici che già si serravano intorno al caduto, e investendoli poscia alla baionetta non avesse salva la vita del suo Generale. E non pareva tuttavia ch’egli fosse scampato a mortale periglio. Quantunque ferito e ammaccato in più parti del corpo, e coll’impronta d’un ferro da cavallo sulla mano destra, balza rattamente in piedi, rimonta in sella, riprende sereno e imperturbabile, come sempre, la direzione del combattimento. Nel frattempo però gli Ussari borbonici, portati dalla foga de’ cavalli, erano andati a cascar nel fitto delle linee repubblicane e fulminati di fronte e dai fianchi da un fuoco micidiale, forzati a dar volta, lasciando sul terreno feriti e prigionieri, e trascinando nella lor fuga ruinosa la stessa fanteria che li spalleggiava. Ne approfittarono naturalmente i Garibaldini, i quali, slanciatisi tutti insieme alla carica, accompagnarono i fuggenti colle baionette alle spalle fin sotto le mura della città. Colà però era d’uopo arrestarsi. Velletri non è munita dall’arte, ma dalla natura; poggia in alto, ha porte, bastioni, fossati, e il colle dei Cappuccini le fa da sinistra un contrafforte gagliardissimo. Oltre a ciò, era evidente che i Napoletani non avevano esposta fin allora che la minima parte delle loro forze, e poteva parer naturale, a chi ancora non sospettava la pusillanimità de’ loro capi, che essi uscissero di nuovo con milizie fresche a tentare un nuovo e più decisivo assalto. Si tennero invece sulla difesa; munirono di cannoni i Cappuccini, ne puntarono altri ad ogni porta, si stesero da diritta a manca per i vigneti intorno alle mura della città, e stettero a lor volta ad aspettare. Garibaldi vide che il momento era critico. Un assalto a Velletri con forze sì scarse era impossibile; una ritirata, con gente già scompigliata dalla pugna e più atta a caricar con furore che a ritirarsi con ordine, sarebbe stata una follía; altro non restava dunque che sollecitare il Comandante supremo a venire subitamente in suo soccorso, e tenere frattanto in iscacco il nemico con manovre e scaramuccie. E così fece, e nel mentre che spediva a tutta carriera il Padre Ugo Bassi[128] a dar notizie al Rosselli dell’accaduto ed a pregarlo, se aveva cara, non che la vittoria, la salute de’ suoi, a correre senz’altro indugio in suo aiuto; copriva alla meglio le sue truppe dietro tutti i frastagli e gli scoscendimenti del terreno, e attendeva gli invocati rinforzi. Il Bassi intanto riusciva a scovare il Rosselli a Valmontone, donde non s’era più mosso, e dove lo trovò affaccendato a sorvegliare la distribuzione del rancio alla prima brigata. Gli fece l’ambasciata, di cui era incaricato; usò di tutta la sua fervida eloquenza a dipingere la situazione dell’avanguardia; ma il Rosselli, severo e imbronciato, dopo una sfuriata di lagni verso Garibaldi che aveva impegnato battaglia contro i suoi ordini (e vedremo come non fosse vero), rispondeva: «Dover prima aspettare che la truppa avesse consumato il rancio, poi si sarebbe mossa.» Fortuna volle che alcuni Corpi della seconda brigata, tra cui i Bersaglieri lombardi, accorressero da sè stessi al tuonar del cannone, onde Garibaldi a mano a mano che sopravvenivano li poteva condurre a risarcire le file, sempre più stremate, dell’avanguardia. Così entrarono successivamente in linea i Bersaglieri lombardi, la Legione romana, un battaglione del secondo Reggimento, e quel che più contava, parte dell’artiglieria del Calandrelli, che controbattendo gagliardamente le numerose batterie del nemico lo contennero lungo tempo e gli levarono la tentazione, certamente infestissima ai nostri, di ripigliare l’offensiva. Ma tutto ciò a nulla approdava: i nostri non retrocedono, ma si diradano; i Borbonici non avanzavano, ma restavano sempre forti e minacciosi, e ogni istante che fuggiva, andava a loro profitto. Solo uno sforzo concorde di tutto l’esercito poteva assicurare e compiere la vittoria; laonde Garibaldi preso il capitano David, un bergamasco animoso, così aitante di persona come caldo di parola, lo mandò a spron battuto a pregare e a scongiurare di nuovo il Rosselli, affinchè per tutti i suoi santi affrettasse il soccorso. E il David «sferza, sprona, divora la via,» e arriva a sua volta a trovare poco lungi il Generale in capo, che seguíto da tutto il suo stato maggiore se ne viene a passi misurati in perfetta ordinanza, a capo dei quattro o cinquemila uomini che gli eran rimasti. Le precise parole che il David diresse al Generalissimo romano, i nostri cooperatori non le hanno registrate; ma dovettero essere assai energiche e vibrate, se a udirle ufficiali e soldati si scuotono, s’infiammano, rompono le file, brandiscono le armi, chiedono con alte grida di marciare avanti, partono a tutta corsa a rifascio per Velletri, lasciando solo col suo stato maggiore e con pochi seguaci il Generale romano. E noi non batteremo le mani. Un esercito che rompe i freni della disciplina e si ribella a’ capi, anche se la indisciplina sia giustificata da generoso motivo, e la ribellione finisca col fruttar la vittoria, è sempre spettacolo che attrista; ma poichè non era quella l’ora di indagare le cagioni del male o di arrestarne gli effetti, e d’altronde quei soldati comunque venissero, chiunque li inviasse, eran pur sempre amici accorrenti al rinforzo, Garibaldi li prese per quel che valevano, e a mano a mano che sopraggiungevano li avventava a rinforzar la battaglia. La loro venuta anzi gli diede opportunità di tentar qualche mossa, che dapprima la tenuità delle forze gli vietava. Veduto infatti un via vai, sulla strada di Terracina, di truppe nemiche e giustamente sospettando in quel moto un preparativo di ritirata, manda il colonnello Marchetti[129] con un centinaio di fanti e mezzo squadrone di Dragoni a imboscarsi nella selva che fiancheggia spessissima quella via, affinchè piombi di sorpresa sui fianchi e alle spalle del nemico appena gli giunga a portata; e predispone simultaneamente un ultimo e più vigoroso assalto contro il convento de’ Cappuccini, che formava, come dicemmo, la chiave delle posizioni borboniche alla loro sinistra. Intanto però che Garibaldi intendeva a ripigliare l’offensiva, ecco a un tratto il fuoco de’ Napoletani rallentarsi, le loro linee concentrarsi, la strada di Terracina nereggiare sempre più di carri e di soldati, tutto accennare a prossima e totale ritirata. In quel punto arrivava sul luogo dell’azione il generale Rosselli. Era già sera. Garibaldi, dopo aver ragguagliato il Comandante in capo di tutti gli eventi della giornata, lo condusse nella casa Blasi,[130] che aveva servito di specula a lui stesso durante il combattimento, e accennatogli col dito il crescente addensarsi del nemico sulla strada di Terracina gli improvvisò, come suol dirsi, sul tamburo, questo piano: «Egli, Garibaldi, si getterebbe ai fianchi del nemico fuggente; il Rosselli coll’artiglieria, la linea e i Carabinieri della riserva, resterebbe a difender la posizione espugnata e appoggerebbe l’attacco di Velletri.» Ma non era al dotto Rosselli che il manesco Garibaldi poteva darla ad intendere. Per la sua sapienza quei nemici che sfilavano in confuso sulla strada di Terracina erano reggimenti e brigate in moto a predisporre un nuovo assalto per l’indomani; per la sua metafisica militare, la ritirata dell’esercito borbonico era una manovra. «Ma che manovra! (ribatte seccamente Garibaldi); non vedete che quello è un esercito che fugge?» — e lasciando al Generale in capo passar tranquillamente la notte nei soffici letti della casa Blasi, se n’andò a dormire digiuno sotto una siepe. Al nuovo mattino non c’era più in Velletri un solo Borbonico. XI. Questa veracemente la giornata di Velletri; questo il fatto d’arme, nel quale Garibaldi fu accusato d’aver colla sua temerarietà e indisciplinatezza guastato i disegni del suo Generale e resa impossibile la totale disfatta del nemico. Però qual conto meritino siffatte accuse, chiunque ha seguíto a passo a passo la battaglia lo può attestare. E prima di tutto si disse che Garibaldi mancò al suo dovere due volte: abbandonando arbitrariamente il grosso dell’esercito; impegnandosi nel combattimento contro gli ordini del suo Generale in capo. Certo in un esercito bene ordinato, dove tutti stanno al loro posto, sanno il loro mestiere e fanno il loro dovere, questo non sarebbe avvenuto. In quell’esercito si sarebbe bensì osservata la regola, che chi comanda un corpo in marcia ne comanda necessariamente tutte le sezioni; ma non sarebbe stata violata l’altra norma non meno importante, che il Comandante in capo marcia alla testa della colonna tra il grosso e l’avanguardia, ond’essere in caso di governarne da un punto centrale tutte le parti. Ora dov’era il Rosselli la mattina del 19? Noi lo vedemmo alla coda della riserva! In tutt’altro luogo dunque che al suo posto; in luogo tale, dove, checchè accadesse, non poteva dirigere nè il grosso nè l’avanguardia, nè vedere quel che accadeva davanti o intorno a lui, nè formarsi un concetto qualsiasi delle intenzioni del nemico e delle condizioni sue. Ciò essendo, che doveva fare Garibaldi quando sentì che l’avanguardia stava per essere attaccata, e che perciò tutto l’esercito poteva da un istante all’altro essere forzato a combattere? Quello che ogni buono e vero Generale avrebbe fatto nel caso suo: montare a cavallo, spedire un avviso del fatto al Generale in capo, e correre all’avanguardia a giudicare cogli occhi suoi dello stato delle cose. Se non che al suo arrivare vede che il nemico è in procinto d’attacco, e giudicando pericolosa, oltrechè disonorevole, la ritirata, prende una posizione difensiva e sta ad attendere. Che vi è in tutto ciò di scorretto, d’irregolare, di contrario alle norme dell’arte e della disciplina militare? Forsechè il generale Garibaldi doveva lasciar assalire e magari massacrare l’avanguardia senza nemmeno darsene per inteso; forse che egli poteva informare il generale Rosselli di quello che accadeva avanti, se non lo vedeva e non lo giudicava da sè stesso? Ma si replica: egli non doveva attaccare; e il generale Rosselli glielo mandò a vietare espressamente. Abbiamo tante volte ridetto che il generale Garibaldi _fu attaccato, non attaccò_; che il ripeterlo sarebbe sazievole. Circa però all’ordine del generale Rosselli, anzitutto il general Garibaldi affermò sull’onore di non averlo ricevuto che tardi, quando oramai la lotta era impegnata ed è probabilissimo; in secondo luogo l’ordine, per confessione esplicita dello stesso general Rosselli, non era già di evitare ad ogni costo lo scontro e quasi fuggire davanti il fuoco, ma soltanto «di andar cauti, di fermarsi a quattro o cinque miglia da Velletri,» e di non impegnarsi prima ch’egli fosse giunto in tempo da spalleggiarlo. E capisce ognuno che le quattro o cinque miglia non erano oltrepassate; che le cautele dell’arte non erano state violate; che venne meno soltanto la condizione di non impegnarsi prima che il Generale in capo fosse giunto, per la ragione semplicissima che il Rosselli non giunse mai. Pure non è questo il più grosso fallo di Garibaldi. Il vero peccato mortale, la imperdonabile colpa sua è d’aver sciupato, come dicono, lo stupendo piano di guerra del suo Generalissimo, e per usar l’espressione d’Alberto Mario, «perduto il Regno, rendendo impossibile il precogitato movimento di circuizione del nemico.» Davvero trasecoliamo! Il solo disegno buono, ma per nulla stupendo, che il Rosselli abbia manifestato, fu quello di assalire i Napoletani sui colli Latini, girandoli per la destra; e noi abbiamo già veduto che la sera del 17 quel disegno, per la ritirata precipitosa dei Napoletani, era già sventato. Altro disegno, nè buono nè cattivo, il Rosselli non partecipò ad alcuno; l’avrà covato, ma nol partorì. Durante tutto il giorno 19 se ne stette dove l’abbiamo veduto, e da dove certamente nessun piano di guerra, per napoleonico che fosse, nè potevasi porre in atto, nè governare. Finalmente alla sera del 19 il Rosselli viene, vede e non capisce ancora: scambia i preparativi di ritirata del nemico per manovre di assalto; risponde a Garibaldi, che gli propone di rinnovar la battaglia, piombando sulle spalle dei nemici fuggenti: a domani; e l’indomani non c’è su tutto l’orizzonte un solo Borbonico; e l’indomani, di tutti i piani rosselliani non resta più che l’eco della battaglia sotto Velletri, combattuta per sei ore dal solo Garibaldi e vinta solo da lui; eppure ci sono ancora degli amici di Garibaldi, de’ bravi soldati, delle menti elette, come il Vecchi, il Mario, il Guerrazzi, che scrivono e ripetono: la vittoria di Velletri essere stata sciupata da Garibaldi; egli aver lasciato scappar i Borbonici, che il Rosselli avrebbe presi; egli perduto il Regno, che il Rosselli col «precogitato movimento di circuizione» avrebbe conquistato! E di più non aggiungiamo: il buon senso giudichi. Se Garibaldi sia stato o no un grande capitano, non è quesito cui vogliamo rispondere ora; la fine della sua vita e di questo libro lo chiariranno. Quello che per ora ci importa assodare è questo solo: che nessun argomento potrebbe essere meno idoneo a dimostrare la sua inettitudine alla grossa guerra, della giornata di Velletri. Che se quella giornata poteva essere una grande vittoria e restò una incompiuta fortuna, a tutti poteva esserne attribuita la colpa, fuorchè a Garibaldi. E non basta nemmeno, a parer nostro, cercarne le cagioni nell’inerzia del Rosselli che non combattè, o nella vigliacchería del Re borbonico che fuggì. Per avere in mano tutto il segreto della fallita impresa conviene risalire ancora a quella causa vera e prima, che accennammo dapprima: l’antagonismo dei due capitani che comandavano nel medesimo campo. Non si mandano alla stessa impresa due generali pari di grado, disuguali di valore, diversi di origine, antipatici di carattere, senza che o prima o poi il disaccordo della loro eterogenea natura scoppi violentemente e danneggi l’opera stessa per cui sono associati. V’era tra il Rosselli e Garibaldi una incompatibilità irreconciliabile: l’uno pretendeva alla superiorità della scienza, l’altro alla superiorità della esperienza; l’uno ostentava i suoi studii, l’altro citava le sue campagne; l’uno parlava di guerra come un Vegezio o un Jomini; l’altro non sapeva, come i grandi pittori, dare compiuta ragione di quello che faceva, ma ogni pennellata era una vittoria. Create ora, se vi riesce, da quel disaccordo l’armonia; fate nascere, se potete, da quella antinomia l’unità, e suscitate da quella antipatia l’amore. Il Governo romano non capì prima il suo grande errore; non lo capì a Velletri, non lo volle capire dopo; Roma continuava ad avere due generali in capo, l’uno di nome e l’altro di fatto; e i Francesi, aiutati da quel dualismo, saliranno la breccia un mese prima del tempo. XII. La mattina del 20 il Rosselli mandò sulla strada di Terracina qualche squadra volante di fanti e di cavalli a perseguitare la coda de’ fuggenti; e il tentativo non dispiacque a Garibaldi; ma non gli bastò. L’idea sua era di buttarsi nel Regno e accendervi le faville d’una rivoluzione novella. Ne scrisse perciò il giorno stesso al Rosselli in questa lettera, la quale per quel po’ di famigliarità che abbiamo contratta coi modi e lo stile del nostro eroe, la diremmo tutta di suo pugno: «Velletri, 20 maggio 1849. »Generale! »Io profitto della vostra compiacenza ad ascoltarmi e vi espongo il mio pensiero. Voi avete mandato ad inseguire l’esercito napoletano da una forza nostra; ed è molto bene. Domani mattina dobbiamo col corpo d’esercito tutto prendere la strada di Frosinone e non fermarci fino a giungere sul territorio napoletano, le popolazioni del quale bisogna insurrezionare. La divisione che seguita la strada di Frosinone deve impegnarsi con forze superiori e ripiegarsi sopra noi in caso d’urgenza; ciò che potrò farò anche traverso le montagne, non impedito dal peso dell’artiglieria. »G. GARIBALDI.» Il Rosselli trasmise, com’era debito suo, la proposta al Ministro della guerra, contentandosi a esporre le difficoltà dell’impresa e a dichiarare che, pur ubbidendo, ne rinunziava la responsabilità. E questa volta aveva ragione lui e torto Garibaldi. E più ragione forse nel rispetto politico che nel militare. Poichè era più probabile che Garibaldi riescisse a battere l’esercito borbonico, numeroso sì, ma inabile, ed a racchiuderlo nelle sue fortezze, che a far insorgere popolazioni sbalordite ancora dai rovesci e dai disinganni dell’ultima lotta, parte atterrite dalle persecuzioni, parte infralite dalla corruzione, attorniate dallo spettacolo della reazione stravincente in tutta Europa, e prive d’ogni speranza di aiuto e d’ogni lusinga di vittoria. Oltre di che non era colle forze destinate a difender Roma che doveva tentarsi una simile impresa. Oramai le cose erano giunte a tale in Italia, che il partito più saggio era concentrar la difesa in pochi punti dov’era ancora possibile e là cadere gloriosamente. Pensare ad altra riscossa era sogno; divider le poche forze per seminarle a ravvivare la favilla d’una rivoluzione era stoltezza. Il Governo romano poteva di leggieri intender tutto ciò e dir chiaro a Garibaldi: tornate in Roma. Posto invece tra i due generali creati da lui, prese il partito solito di accontentarli entrambi: richiamò il Rosselli a Roma col grosso delle forze; lasciò a Garibaldi una brigata coll’incarico apparente di spazzar i confini dalle masnade dello Zucchi, col reale, di tentare l’impresa del Regno. E Garibaldi partì. Il 23, sera, era coll’avanguardia a Frosinone, da dove il vecchio Zucchi era già partito; il 25 a Ripa; il 26 sconfinava a Ceprano, e saputo che Rocca D’Arce, munitissimo luogo, era occupato dai Napoletani, inviò tosto i Bersaglieri lombardi ad assalirlo. E i Bersaglieri, scambiati pochi colpi cogli avamposti, si slanciano arditi su per l’erta scoscesa, aspettandosi ad ogni passo d’essere salutati dalle mitraglie nemiche e arrivando invece, senza dare nè ricevere un colpo, fino al sommo del paese, dove con grande loro meraviglia, non trovano anima viva. «I soldati (scrive Emilio Dandolo testimonio) erano sdegnati di questa diffidenza; ma mercè le calde ammonizioni di Garibaldi, arrivato allora colla sua Legione, e particolarmente del Padre Ugo Bassi (che conobbi allora quanto fosse fervente di carità e di patriottismo), non fu tocca una busca in quel paese deserto, non abbattuta un’imposta. Sedemmo per terra sulla piazza. Ma gli spauriti abitanti, quando dalle cime vicine videro quest’ordine ammirabile, calarono in tutta fretta, corsero ad abbracciarci, aprirono le case e le botteghe, e in pochi istanti il paese tornò alla consueta attività. Ci raccontarono allora quante superstiziose credenze avessero i soldati napoletani sparse fra loro. A sentirli, noi eravamo tanti folletti inviati dal demonio a divorare i bambini ed abbruciare le case. Il vestire bizzarro di Garibaldi e de’ suoi accresceva singolarmente la paurosa ignoranza di quei paesani.[131]» Garibaldi frattanto aveva ordinato di riprendere la marcia per il mattino vegnente; risoluto, se la voce che un corpo di Svizzeri l’aspettasse a San Germano s’avverava, a misurarsi con loro e a farla finita al più presto. Nessuno gli aveva levato di mente che vincere una battaglia contro quell’esercito fosse facile, e che una vittoria bastasse ad aprirgli le porte del Regno: «Qui (diceva a’ suoi ufficiali raccolti sulla piazza d’Arce) qui si decidono i destini d’Italia. Una battaglia vinta sotto Capua ci dà nelle mani l’Italia.[132]» Altri però erano in quel momento i pensieri del Governo romano. L’invasione austriaca s’innoltrava minacciosa; un esercito del Wimpfen aveva già cominciato l’investimento d’Ancona; un altro agli ordini del Lichtenstein marciava su Perugia; Roma poteva essere in pochi giorni serrata tra branche di ferro, anche più tenaci di quelle francesi: far argine a tanto pericolo era prudenza. E il Triumvirato si era lusingato per un istante di poterlo, essendogli parso che durante l’armistizio, e prossimi i negoziati Lesseps, giusta la pia sua credenza, a conchiusione felice, nessuno, nemmeno l’Oudinot, avrebbe potuto vietargli di mandare la parte disponibile dell’esercito a combattere quelli Austriaci, che ingenuamente pensava aborriti, prima che da altri, dagli stessi Francesi. Perciò, col capo dentro in questa fitta d’illusioni, ordinava che una spedizione per le Marche s’allestisse in Roma, e che frattanto Garibaldi fosse richiamato a marcia forzata dal Regno. E Garibaldi, saputo il motivo del richiamo, ubbidì, può dirsi, con gioia; e con somma diligenza ripassava il confine il 28; rientrava in Frosinone il 29; era ad Anagni il 30; il 1º giugno a Roma. Da Frosinone peraltro aveva scritto al Masina questa singolarissima lettera, dalla quale traspaiono due cose poco sapute fino ad ora: ch’egli affidava a quell’intrepido il comando in capo della Legione italiana; e che gli rideva in cuore la speranza di poterla adoperare ben presto contro il secolare nemico, di cui tutti sanno il nome. Ed ecco la lettera: più degna certamente d’un _caicco_ di turbe indiane, che d’un eroe civile; ma nella sua selvaggia inspirazione, viva, pittoresca, terribile: «_Comando della 1ª Divisione._ »_Repubblica Romana._ »Frosinone, 29 maggio 1849. »Colonnello Masina, »Io vi incarico sempre delle più ardue e disagiate imprese colla coscienza del vostro coraggio e della vostra capacità a disimpegnarle. Voi siete uno di quei compagni che la fortuna mi ha fatto felicemente incontrare per l’adempimento dei destini dello sciagurato nostro Paese, e per cui ogni impresa mi diventa facile. Io vi amo e vi stimo dunque doppiamente, come amico dell’anima, poichè lo meritate personalmente — come campione della santa nostra causa, per cui tanto avete fatto e tantissimo farete ancora. Io vi raccomando la Legione. Credetemi. Voi solo dovete comandare quei valorosi giovani, quel nucleo delle speranze della Patria. Voi non dovete limitarvi a condurla sul campo di battaglia, ma bensì, ciò che ben sapete fare, tenerla qual famiglia vostra, vegliarla, custodirla, staccarvi da quella meno che sia possibile. Voi avete sperimentato certamente come la fanteria è il vero nucleo della battaglia; e la Legione italiana, vedete, vittoriosa tre volte, sarà vittoriosa sempre. »Voi avete bisogno pure del vostro Corpo de’ Lancieri e ne avete veduta la necessità. Essi con Voi saranno inseparabili dalla Legione e non saranno meno utili. Ma la fanteria abbisogna veramente di tutta la vostra cura. State con essa, Colonnello, io ve la raccomando intenerito. La vita della prima Legione italiana appartiene caramente e indispensabilmente all’Italia. I Legionari, noi stessi non possiamo valutarne l’importanza. L’onore italiano — e sapete se importa l’onore ad una nazione caduta — l’onore italiano per la maggior parte è stato salvo dai nostri bravi Legionari. Ed un popolo disonorato sarebbe meglio che sparisse dalla superficie della terra. Voi avete combattuto sempre alla fronte della Legione e la Legione vi conosce, vi stima. Il valore, credetemi, è la prima qualità; almeno la più fascinante; quella che serve al capo ad affezionarsi il subalterno; e Voi foste brillante di valore. Dunque Voi reggerete e guiderete bene la Legione, e bramo ve ne occupiate indefessamente. In Roma potremo supplire ai bisogni dei nostri militari e non abbiamo tempo da perdere. Il più terribile, il più abbominato de’ nostri nemici ci aspetta sulle vie delle Romagne ed io.... mi suona un grido di vittoria nell’anima. Da questo momento Voi preparerete la Legione ad uno scontro co’ Tedeschi. Dite ai Legionari che si famigliarizzino con quell’idea, che ne facciano il pensiero d’ogni minuto della giornata, il palpito d’ogni sonno della notte. Che si famigliarizzino ad una carica a _ferro freddo_, e conficcare una pungente baionetta (le affileremo a Roma) nel fianco di un cannibale. Carica a ferro freddo senza degnarsi di scaricare il fucile. Date un ordine del giorno alla Legione che obblighi i Legionari alla seguente preghiera: — Dio, concedetemi la grazia di poter introdurre tutto il ferro della mia baionetta nel petto di un Tedesco senza essermi degnato di scaricare il mio fucile, la cui palla serva a trucidare altro Tedesco non più lontano di dieci passi. — Dunque all’opera, mio caro Colonnello, state sulla Legione come l’avaro sul suo tesoro. Preparate i Legionari ad un giorno di trionfo. Forse dovremo combattere più compatti. Si assuefacciano dunque a miglior disciplina, a marciare uniti; a comparire il più decorosamente che sia possibile. Vinceremo allora e profitteremo della vittoria. »GIUSEPPE GARIBALDI.» XIII. Quando la colonna di Garibaldi rientrava in Roma, le trattative Lesseps erano già fallite. Nè poteva essere altrimenti. La missione di pace dell’Inviato straordinario era apparente, gli ordini di guerra del Generale in capo reali; il Governo romano agiva con lealtà più che cavalleresca, il Governo francese con doppiezza peggio che volpina; a Parigi come a Londra, a Gaeta come a Vienna, a Madrid come a Napoli, si voleva la morte della libertà romana e la risurrezione del Papato: impossibile che, esaurito l’ultimo sforzo delle armi, ciò non avvenisse. Il 1º giugno l’Oudinot alla lettera ingenua del Rosselli, il quale chiedevagli nientemeno che di prolungar l’armistizio fino a che l’esercito romano avesse, con suo comodo, battuto gli Austriaci, rispondeva: gli ordini del suo Governo prescrivergli di entrare in Roma al più presto; aver già denunziato l’armistizio alle Autorità romane; per solo riguardo ai Francesi residenti in Roma consentire a differire l’attacco fino a lunedì mattina. Ciò voleva dire in tutte le lingue del mondo fino al 4 giugno: nel calendario, non sappiamo se dire gesuitico, del Generale francese, significò sino alla mattina del 3. E di questa perfidia inaudita negli annali militari, la coscienza della storia ha già gridato vendetta; e a noi parrebbe quasi femminile piagnisteo ridirne di più. Sull’assisa dell’Oudinot, duca di Reggio, il figlio del _Bajard de l’armée_, è stampato un marchio che nessuna acqua lustrale di gloria potrà lavare; quanto al fosco riflesso che ne rimase sulla bandiera francese, amiamo pensare anche noi che il sangue di Magenta e di Solferino l’abbia deterso. È noto adunque che all’alba del 3 giugno i Francesi, sorpreso quasi nel sonno il sottile battaglione Melara, occupavano con due brigate la Villa Pamfili, e ben presto, avviluppati da ogni parte i loro bravi, ma pochi difensori, anche le posizioni adiacenti del convento di San Pancrazio, e di Villa Corsini, chiamata pure Casino de’ Quattro-Venti, e formanti colla Pamfili un solo altipiano, cadevano in loro potere. Nessuno attendeva l’inopinato assalto; però il fragore della pugna scosse la città intera come colpo di fulmine. Garibaldi stesso, così vigile, dormiva nel suo modesto letto in Via delle Carrozze, e non lo svegliò che il cannone. Ma non era sveglia sgradita. In un baleno è in piedi, in pochi istanti è in sella; trae seco la coorte della Legione italiana, acquartierata poco lontano; ordina alle rimanenti di seguitarlo, parte al galoppo, arriva alla Porta San Pancrazio; misura con un’occhiata tutta l’estensione del pericolo; distribuisce le truppe man mano che gli giungono tra i bastioni, la Porta e il Vascello, e slancia primi i Legionari alla riconquista di Villa Corsini. E la Legione, comandata dal Sacchi, preceduta dal Masina, accompagnata dal Bixio, va, traversa sotto una grandine di palle lo scoperto terreno seminandolo de’ suoi migliori, e arriva sino al vestibolo della casa; ma colà, fulminati di fronte e dai lati, dalle finestre, dalle siepi, dalle muraglie, da migliaia di nemici appostati al coperto, e quasi invisibili, son costretti a voltar le spalle ed a rifugiarsi nel Vascello, che da quel momento diviene l’antemurale estremo e più tenace dei difensori di Roma. Le veci allora sono mutate. Gli assalitori di dianzi diventano assaliti: i Francesi sboccano dai ripari, irrompono da ogni parte; ma i Legionari, protetti dal massiccio edificio convertito in fortezza, folgoravano da cento feritoie la morte: il Vascello è avvolto da una bufera di fuoco, ma resiste impavidamente. Ed ecco in quel punto, scoccavan le otto, giocondi, entusiasti, impazienti di pugna, arrivare i Bersaglieri Manara. Era tempo: Garibaldi appena li vede apparire ne prende la prima compagnia, e la spinge ad arrestare l’avanguardia nemica. Ed anche i Bersaglieri, capitano Ferrari, luogotenente Mangiagalli, preceduti dal loro stesso Colonnello, si precipitano capofitti come i Legionari, rigano del loro sangue il cammino mortale; onde i Francesi balenano, indietreggiano, sono risospinti fino alla spianata della Villa. Ancora uno sforzo ed il contrastato baluardo è nostro. Garibaldi lo vede (fu detto non abbastanza in tempo), e manda la seconda compagnia di Enrico Dandolo a spalleggiare i vittoriosi, mentre stacca parte del secondo battaglione ad assalire, per il convento di San Pancrazio, l’estrema destra del nemico. Ma era tardi. Il Dandolo tradito dalla voce, dal gesto amichevole del capitano francese cade in un agguato, e trafitto in mezzo al petto da piombo traditore soccombe; il giovinetto Morosini lo assiste, lo difende, combatte disperato; ma sopraffatto dal numero, anche la sua compagnia dà volta, mentre ai Quattro-Venti non restano già più a fronteggiare i Francesi che il Manara, il Ferrari, il Mangiagalli, capitani senza soldati. Il secondo assalto era fallito: ripresa lena, bisognava ritentare il terzo, il quarto, fino alla vittoria, fino alla morte. Le artiglierie del Calandrelli non avevano mai cessato di battere le posizioni nemiche, nè partiva colpo che non facesse breccia, e già San Pancrazio, Villa Corsini, Villa Valentini erano foracchiate in più parti, quando una granata cascò in mezzo alle stanze della Corsini e vi appiccò le fiamme. Era quello il momento del terzo assalto, o nessun altro, e non sfuggì a Garibaldi. Legionari, Bersaglieri, Studenti, fanti romani, quanti erano venuti raccogliendosi via via tra Porta San Pancrazio e il Vascello, fanno massa, si precipitano a rifascio, s’avventano furiosi contro la Villa infernale, da tempio di delizie mutata in fucina di morte, e ne ritentano la ripresa. E i Francesi per la terza volta l’abbandonano, e per la terza volta tornano grossi e inferociti, e per la terza volta la Villa è perduta. L’avreste detta l’ultima. Spento il fiore dei prodi, decimate le file, stremate le forze, quasi consunte le munizioni, i Francesi gagliardamente trincerati nelle riconquistate posture, la giornata poteva dirsi perduta. Garibaldi solo non lo volle credere, e verso sera fu udito ancora dire, come un sonnambulo, a Emilio Dandolo: «Andate con una ventina de’ vostri più bravi a riprendere Villa Corsini.» Il bravo ufficiale guardò trasognato l’uomo che gli dava ordine sì strano; ma Garibaldi replicò: «Pochi colpi e subito alla baionetta,» e il Dandolo prontamente: «Stia tranquillo, Generale, m’han forse ucciso il fratello e farò bene.» E come gli fu ingiunto, partì, e in men d’un ora, tornò con soli sei uomini, ferito egli e il sottotenente Sartorio, ultimi combattenti di quella giornata. XIV. S’era fatto notte. Il destino aveva detto per quel giorno l’ultima sua parola. Garibaldi non aveva più un uomo valido intorno a sè. I Francesi, occupato a tradimento il campo, l’avevano difeso coll’usato valore, pagando di largo sangue la non dovuta conquista; ora la ragione invincibile del numero l’assicurava a loro. Quattro furono gli assalti ordinati da Garibaldi; ma quelli tentati da manipoli isolati, ad arbitrio, a capriccio, per sfoggio di bravura, o a sfogo di rabbia, innumerati, innumerevoli. Non conosciamo, nella storia delle guerre, giornata, in cui il valore individuale abbia fatto tanta copia di sè come nel 3 giugno. Non fu una battaglia; fu un grande duello, una giostra della prodezza col numero, una sfida dei petti ignudi alle muraglie armate, un palio d’eroi alla mèta della morte; per questo sublime, pur non lodevole sempre. Taluno più che a combattente devoto alla patria s’atteggiò a gladiatore nell’arena, tal’altro parve più ambizioso della morte che della vittoria; laonde tra l’ammirazione e la pietà s’insinua, non so quale senso di amarezza, quasi rampogna a quei valorosi d’aver sfoggiato in vana mostra il non dubbio valore, e sprecato il nobile sangue sacro all’Italia. Di quella pagina d’eroico poema, Francesco Domenico Guerrazzi tentò un abbozzo; ma nemmeno a lui, signore della prosa terribile, riuscì ritrarne la immortale bellezza. Omero solo, forse, non tremerebbe all’assunto. Noi, pedestri cronisti, possiamo per debito di reverenza e d’amore ricordare; un grande poeta soltanto potrebbe glorificare. Il Masina, ferito al primo assalto, fasciata in fretta la piaga, si lancia a cavallo su pei gradini di Villa Corsini, e avvolto di nemici, rotando il ferro terribile, squarciato il petto da una palla, procombe ruinoso, formidabile. Il Mangiagalli a Villa Valentini mena strage di Francesi; spezzata la spada, combatte col troncone e tiene la Villa con pochissimi fino a tarda sera. Lo Scarcele, gentile vicentino, lega morendo tutto il suo alla patria. Il Monfrini, sergente dei Bersaglieri, quantunque gravemente ferito, vuol riprendere il suo posto nelle file; e al Manara che gli dice: «Vattene, qui non servi a nulla;» — «Lasciatemi stare, Colonnello, almeno faccio numero,» e alla prima carica il valoroso è morto. Il Rozà, ferito due volte, torna due volte alla pugna, e alla terza soccombe. Angelo Bassini s’avventa, quasi solo, contro Villa Corsini e ne torna pesto, insanguinato, sereno. Il milanese Dalla Longa raccoglie sulle spalle il caporale Fiorani, mortogli allato, e mentre va ritraendosi lentamente col caro peso, una palla lo trapassa, e cade in un fascio col carico suo. Emilio Dandolo erra ferito per tutto il campo in cerca della spoglia del lagrimato fratello. Narciso Bronzetti va, notturno, traverso le scolte francesi per rapire ai nemici il corpo del suo servo fedele. I Legionari del Medici, avvistisi che una delle case da essi difesa tutto quel giorno è preda alle fiamme, d’onde il nome di Casa Bruciata,[133] si rammentano dei cadaveri dei compagni, e affrontano di nuovo la grandine dei _Vincennes_ per sottrarli al rogo inglorioso e dar loro onorata sepoltura. Memoranda e gloriosa giornata, scrisse l’Oudinot; ma poteva soggiungere: meno per sè che per noi. I Francesi, che avevano combattuto quasi sempre dai ripari, contarono dugentoquarantadue feriti e quattordici morti; noi diciannove ufficiali uccisi, trentadue feriti, e circa cinquecento soldati tra feriti e morti; e ci sdegna il pensiero che in tanta foga d’erudizione spigolistra, in tanta smania di scavar dagli archivi le più rancide e tarlate pergamene, i nomi dei caduti di Roma non sieno ancora tutti scoperti, scritti e incisi ne’ marmi. Però, lieti di aggiungere ai nomi già noti alcuno fino ad oggi coperto dall’oblío, tutti ad uno ad uno religiosamente li raccomandiamo. Morirono, oltre i nominati: il vecchio colonnello Pollini d’Ancona, veterano di molte battaglie; l’aiutante maggiore Peralta, il capitano Ramorino, Emanuele Cavallero, Canepa, Sivori, Pedevilla, Anceo, Caroni, Minuto, Gnecco, Pegorini, Gruppi, Costa, Rodi, Coglioli, De Maestri, tutti ufficiali della Legione di Montevideo, poscia della italiana; i tenenti Cavalieri, Bonnet e Grossi; i sott’ufficiali Savoia e Bonduri, della Legione italiana; il capitano Meloni di Imola, del reggimento _Unione_; i tenenti conte Loreta di Ravenna e Gazzaniga di Roma, del terzo Reggimento, e i tenenti Bacci d’Ancona e Marzari di Macerata, del sesto; il tenente Covizzi, dell’artiglieria; il carabiniere Battelloni e il dragone Rambaldi di Lugo, morto d’un colpo di cannone col grido sulle labbra: «Viva la Repubblica!» Furono più o meno lacerati da ferite: Nino Bixio all’inguinaia, Goffredo Mameli al ginocchio, il capitano Strambio alla gamba, poi Alessandro Duzelisiaux francese, Binda di Cremona, Bini di Nepi, Marocchetti, Bassini, Frattini, Graffigna, Sartorio, Boldrini, Bignami, Mambrini, Zanetti, Magni, Zanucchi, Tassoni, Grioli, Zuccala, Vigoni, Sanpieri, Righi e Tressoldi, tutti della Legione italiana; Silva, Colombo, Mancini, Signoroni e Scarani, dei Bersaglieri lombardi; Marcucci, della Legione Medici; gli ufficiali d’artiglieria Pierani, Tiburzi e Viviani; Visanetti di Cesena, capitano; Luzzi, Mazza, Castaldini, tenenti dei Bersaglieri romani; il colonnello De Pasqualis e il capitano Del Pozzo, del primo Reggimento; Lucci, del sesto; il sergente Giorgieri di Massa, ch’ebbe sfracellata la mano dal moschetto d’un Francese, mentre in lotta a corpo a corpo tentava strapparglielo; e se v’ha chi possa aggiungerne ancora, venga e scriva a onore dei morti, a conforto dei viventi, ad esempio dei venturi.[134] E nulla diciamo di Garibaldi, che già non s’immagini. In balía al pericolo, forato il _poncho_ da cento palle, impassibile, invulnerabile in mezzo alla strage, come il Dio della Guerra, comparendo quasi onnipresente in tutti i punti del campo, ora slanciandosi egli stesso alla testa degli assalitori, ora ponendo il suo cavallo attraverso l’onda dei fuggenti e gridando loro la classica rampogna: «Voi sbagliate strada, il nemico non è qui;[135]» infiamma ed alimenta se non guida la pugna, ne è davvero l’anima, se non vuol dirsene la mente. Fu più soldato in quel giorno che capitano!; noi pure lo riconosciamo, nè sapremmo dargliene intera lode; ma il suo esempio tenne luogo d’arte, il suo bianco mantello svolazzante nel più folto della mischia, di guida e di bandiera. XV. E noi crederemmo averne detto abbastanza, se anche in quel giorno, il solo accusato, il solo responsabile della fallita vittoria non fosse stato ancora Garibaldi. Egli sprecò in spicciolati assalti il sangue più generoso; egli assalì di fronte posizioni trincerate con forze disuguali, anzichè batterle di fianco e circuirle; egli non seppe tentar un solo assalto con ampiezza di disegno e accordo di movimenti; egli non usò altra arte che l’impeto e l’ardire; egli «si mostrò in quel giorno tanto inetto generale di Divisione, quant’era apparso contro i Napoletani esperto guerrillero.[136]» E tutto non contestiamo. C’è in questa accusa molto di vero; e a rigor di scienza, posto il problema a tavolino e a tavolino risolto, Garibaldi generale poteva e doveva far meglio. Ma si pongano, i ripetitori di quest’accusa, una mano sulla coscienza! non resta alcuna scusa a questi errori; non v’è nessuna circostanza attenuante per quel colpevole? E anzi tutto dov’erano quelle grandi forze, colle quali Garibaldi poteva manovrare di fronte e di fianco, assaltare i nemici, e via dicendo? Sul teatro dell’azione fino a metà della giornata non vedemmo comparire che la Legione e i Bersaglieri, e soltanto nel pomeriggio arrivano, sempre però uno dietro l’altro, spicciolati e divisi, gli altri Corpi. Ora a chi se ne debba attribuire la colpa, se a Garibaldi che non richiese in tempo debito tutti i necessari soccorsi, o ai Comandanti supremi che non seppero inviarli prontamente, nessuno l’ha finora chiarito; ma è più ragionevole supporre che Garibaldi li abbia chiesti, e che da Roma, per il timore d’altri assalti, non siano stati mandati, che sospettare il contrario. In ogni caso Garibaldi nemmeno verso sera riuscì ad avere sotto mano più di quattromila uomini; e con questi doveva guardare le porte e i bastioni, munire il Vascello e le adiacenze, custodire i propri fianchi e combattere di fronte, per lo meno due divisioni francesi, che non stavan soltanto sulla difesa, ma da ogni lato sovrastavano e irrompevano. Ora ognuno vede che la situazione non era sì semplice, come a’ censori sembrò. Se egli impegnava tutte le sue forze, si privava di ogni riserva e si esponeva al primo rovescio ad essere aggirato a sua volta e forse disfatto; se invece pensava soltanto a guardarsi i fianchi e le spalle, non poteva spingere all’assalto che poche forze disuguali al cimento; e in ambo i casi egli si trovava serrato da un dilemma, da cui soltanto l’impetuosità dell’assalto, l’ardimento de’ colpi e l’eroismo de’ combattenti potevano scamparlo. E v’ha di più: l’altipiano Pamfili, cinto da alte muraglie, fiancheggiato da quattro massicci edificii, come da quattro maschii di fortezza, protetto da siepi, da frane, da scoscendimenti, da macchie, è una posizione, a forze uguali, quasi imprendibile. Avviluppare, girare, son belle parole; ma chi conosce quella posizione sa che senza truppe numerose, cui resti il tempo di fare un lungo giro e di manovrare caute e coperte, sa, dico, che non si gira, nè si avviluppa. Bisognava non perderla Villa Pamfili: una volta perduta, il riconquisto ne diveniva, per chicchessia, qualunque ne fosse l’arte o la forza, sanguinosissimo. Infine, e per tagliar corto, dov’erano i Generali, i Ministri, i Consiglieri, gli accusatori, gli strateghi in quel giorno? Per quanti libri abbiam consultato, dove al 3 giugno fosse il generale Rosselli non ci venne fatto scoprirlo. Perchè non comparve mai a Porta San Pancrazio, o comparsovi non corresse gli errori del suo divisionario e colla sua sapienza non li riparò? Perchè non gli mandò almeno le truppe disponibili in soccorso? Non era egli evidente che le sorti di Roma si decidevano in quel giorno fuori di Porta San Pancrazio? E perchè non concentrò egli pure colà tutte le sue forze? I Francesi, è vero, minacciavano da più parti; è vecchio strattagemma di guerra; ma non è ella arte altrettanto vecchia di non lasciarsi cogliere alle finte, di scernere tra i tanti punti minacciati il punto decisivo e di convergere su quello tutti gli sforzi? Il generale Rosselli contava in Roma circa tredicimila uomini: n’avesse anche lasciati la metà a guardare Porta del Popolo, Porta San Giovanni, Ponte Molle e Monte Mario; gli restava ancora tutta l’altra metà, colla quale spalleggiare Garibaldi a Porta San Pancrazio, e forse guadagnar la giornata. E ci basti. Garibaldi poteva e doveva far meglio; poteva e doveva ad ogni assalto, anche fatto da pochi (tuttavia i Prussiani nell’ultima loro guerra usarono questa tattica), tener pronte più grosse colonne che accorressero a rincalzare gli assalitori e ad occupare le posizioni espugnate; poteva e doveva essere più economo del sangue de’ suoi e far costar più sanguinoso il trionfo ai nemici. Ma egli solo infine, di tutti i generali di Roma, il 3 giugno, combattè; egli solo pagò di persona, ispirò gli ardimenti, sorresse la costanza, capitanò per dieci ore un combattimento contro un nemico tre volte superiore formidabilmente trincierato; e non hanno diritto d’accusarlo e condannarlo coloro che non seppero nè secondarlo, nè illuminarlo, nè correggerlo. Tanto più che converrebbe condannare con lui il prode de’ prodi di quella giornata, il primo eroe, dopo Garibaldi, del 3 giugno; come lui più gregario che capitano; come lui sprezzante della vita propria e de’ soldati; come lui credente più nel «ferro freddo» della baionetta, che nell’arti e negli accorgimenti della tattica, Luciano Manara. E ne valga a documento questa lettera, inedita sin qui, scritta al Triumvirato nel tumulto della pugna, e nella quale, tramezzo alle ansietà, alle speranze, alle ebbrezze di quell’ora, traluce in tutta la sua chiarezza la fiera anima lombarda del campione delle Cinque Giornate, che non ha idoli di nomi e di sistemi; che combatte come che sia, dovunque, per la patria e la libertà; che monarchico di core e aristocratico di costumi, grida: «Viva la Repubblica,» se in quell’istante la Repubblica è l’Italia. «_Repubblica Romana._ »_Triumvirato._ »Roma, 3 giugno 1840. »Cittadini, »_Riceviamo in questo momento dal colonnello Manara le notizie che qui trascriviamo._ »ALL’ASSEMBLEA. »Dei nostri furono sensibili le perdite, perchè immenso lo slancio con cui si sono gettati sul nemico. »Più di dieci volte il nemico venne caricato alla baionetta. Del mio solo Reggimento duecento fuori di combattimento, fra cui dodici ufficiali, ma tutti morti da grandi, tutti spiranti col santo nome di Patria, di Libertà in bocca. I celebri tiragliatori d’Orléans dovettero fuggire più volte davanti a noi. I Francesi non entreranno in Roma, per Dio! Oggi devono essersi persuasi che hanno dinanzi a sè dei bravi che loro fanno pagar caro l’infame loro progetto. »Viva la Repubblica! »SAN PANCRAZIO. »Firmato MANARA.[137]» XVI. Non sta a noi rifare il diario dell’assedio di Roma: basta al nostro assunto disegnare i sommi contorni del quadro, soffermandoci soltanto a lumeggiare qua e colà quei punti ne’ quali il nostro eroe campeggia. Padroni di Villa Pamfili, i Francesi intraprendono, quasi fosse una piazza forte di prim’ordine, l’assedio di Roma. Nella notte dal 4 al 5, milleduecento uomini di fanteria inquadrati fra centoventi zappatori, tracciano, a trecento metri, una prima parallela destinata a scrollar con due batterie i bastioni sesto e settimo; dal canto loro, scoperta al mattino vegnente l’opera nemica, le batterie romane del Testaccio, di Sant’Alessio, del bastione sesto, aprono un fuoco vivissimo, controbattono con tiri aggiustatissimi le batterie degli assedianti, le conquassano e le sfiancano. E da quell’istante incomincia la penosa, triste e monotona vicenda dell’assedio. Di fuori i Francesi forti di numero, di disciplina, di valore, guidati da uno de’ più valenti ingegneri militari del secolo (poichè il vero vincitore di Roma fu il generale Vaillant), potenti di artiglierie e di munizioni, ricchi di qualsivoglia stromento di offesa e di difesa, riforniti di continuo dalla gran via del mare, s’avanzano lenti e metodici, tracciano ogni giorno una nuova parallela, s’accostano senza posa alla piazza, scavano ad ogni ora un palmo di breccia; di dentro gl’Italiani, i quali, sebben costretti a difendere da un vero e regolare assedio una città che non fu mai una fortezza,[138] e condotti da un genio militare, ardito, infaticabile, ingegnoso, ma scarso di cannoni, di braccia, di materiali d’ogni sorta, contrappongono intrepidi offesa ad offesa, trincea a trincea, scavano vie coperte, alzano cortine, restaurano senza sosta le cannoniere smontate, tentano, a dir vero, con poca arte e minor fortuna le loro sortite, molestano, come ponno e come sanno, il nemico vigile ed agguerrito; suppliscono infine colla fortezza de’ petti alla debolezza delle muraglie, e prolungano colla sola virtù la loro gloriosa agonia. Qual parte toccò a Garibaldi in quel secondo periodo? La principale ancora. Scelto per quartier generale il Casino Savorelli, che da una costa del Gianicolo presso San Pancrazio dominava tutta la stesa dell’assedio, e presa tutta per sè la torretta che sovrasta al Casino, Garibaldi se ne fa insieme la sua specula e la sua stanza prediletta, e tutte le poche ore di quiete che il nemico gli concede le passa a frugar coll’occhio tutti i più ascosi avvolgimenti del campo assediante. I Francesi, naturalmente, appena seppero che lassù era il nido del famoso guerrillero, se lo presero per uno dei punti di mira più favoriti; ed era una gara tra i cacciatori di Vincennes e i cannonieri di Villa Corsini a chi meglio imberciava nel segno. Non per questo egli aveva mutato una sola delle sue abitudini: come al solito tornava ogni giorno ad osservare dalla sua specula le mosse nemiche, come al solito andava nei brevi riposi a fumare il suo sigaro a cavalcioni della terrazza che contornava la bersagliata torretta. Pareva anzi che così per lui, come per i suoi ufficiali, quel saltellío di bombe, quel ronzío di palle, quel rovinar di pietre e di travi fossero una festa. Perciò aneddoti a josa tragici e comici. Un giorno una palla piombando nella stanza terrena dove Garibaldi teneva l’ufficio, mutila mostruosamente la gamba del Dragone di guardia, e poco manca che il Generale stesso non ne resti stroncato. Un altro il Manara, dopo la morte del bravo Daverio assunto all’ufficio di capo di Stato Maggiore ed abitante perciò presso il Generale, si porta seco al Casino Savorelli certo Bergamasco, burattinaio famoso, non sappiamo se per mestiere o per spasso, e lo conduce a dare una rappresentazione a Garibaldi nella sala frescata da Salvator Rosa; e s’immagini con che risate di tutta la brigata. Se non che a un certo punto quando occhi e orecchi son tutti intenti alla rappresentazione, una bomba casca con gran rombo nel Casino, una gragnuola di palle entra per le finestre, e tutti sono a un punto d’averne rotte le ossa; ma tutti altresì, vero miracolo, sani e salvi. Tuttavia nemmeno le delizie del Casino Savorelli eran tali da distrarre Garibaldi dalle maggiori e più urgenti cure del suo ufficio. Non passava giorno che egli non visitasse il campo, intento a ispezionare trinciere, a dirigere lavori, a ordire colpi di mano, a capitanare sortite, tra le quali va ricordata quella del 9, contro le trincee della fronte, dove fu ucciso, sfidando la morte, il prode capitano Rozat; e quella del 10, guidata da Garibaldi in persona, e distinta col nome d’incamiciata. Se essa fosse parte di quella grande sortita escogitata dal generale Rosselli, di dodicimila uomini, o cinque brigate, che dovevano «formarsi in battaglia e con movimenti a scaloni, per la diritta,» piombare sui fianchi e alle spalle degli assedianti, o una sortita parziale e indipendente da quella, non ci fu dato, nè dai libri stampati, nè dalle memorie manoscritte, rischiarare.[139] Certo è che Garibaldi, riuniti la sera del 10 in Piazza San Pietro circa seimila uomini e ordinato che ciascuno, per riconoscersi nelle tenebre, tirasse sopra le assise la camicia, esce colla Legione polacca all’avanguardia; l’italiana, i Bersaglieri lombardi, il reggimento Pasi al centro; il reggimento Masi alla retroguardia, da Porta Cavalleggieri e s’avvia per le viottole del Monte Creta, alle spalle di Villa Pamfili, mèta della spedizione. Se non che, fatta breve strada, cominciano i guai. Sorta la luna, batte in pieno sugl’_incamiciati_ e riga di bianchi fantasmi tutta la campagna, onde il Generale è obbligato a comandare che siano nascoste le camicie, divenute non più segno di riconoscimento agli amici, ma pericolosa insegna denunziatrice ai nemici. Poco dopo la testa della Legione italiana, che doveva girare per una via, s’abbatte nella coda dell’avanguardia che le converge incontro per l’altra, onde a vicenda si scambiano per nemici e a vicenda s’allarmano; mentre che in altro punto una scala a piuoli adoperata da alcuni Legionari a perquisire una casa sospetta, si scavezza, cadendo con grande fracasso coi soldati che porta, e accresce, col misterioso rovinío, lo spavento e la confusione, nei già spaventati e confusi, i quali certi oramai d’avere addosso tutta l’oste francese, vanno sossopra, s’accavallano, si moschettano l’un l’altro nel buio, rigurgitano fino al centro della colonna. Indarno il Sacchi, il Manara, l’Hoffstetter, il Ferrari, tutti i più valorosi, si sforzano colle preghiere, colle minacce, colle percosse di sfatare quel pánico e di far argine al rigurgito; indarno il generale Garibaldi menava, bestemmiando, il suo scudiscio sopra i fuggiaschi, apostrofandoli di «canaglia;» fu necessario che i Bersaglieri facessero barriera e incrociassero le baionette per farli risensare e contenerli. Pertanto il colpo era fallito ed era prevedibile. Garibaldi passando la notte stessa vicino al Manara gli disse: «Abbiamo avuto torto di non destinare i bravi vostri Bersaglieri all’avanguardia;» ed erano fiducia e lode meritate; ma se con quelle parole volle dire che la colpa dell’abortita impresa dovesse cadere tutta, e soltanto sul capo dei soldati, sicchè bastasse mutarli per mutare l’evento, errava, a parer mio, di molto, o per lo meno diceva cosa da una grande pluralità di casi contraddetta e smentita. Siffatte spedizioni notturne, _incamiciate_ o no, rarissime volte riescono con truppe veterane ed agguerrite; con giovani ed inesperte quasi mai; e basta sempre il più lieve accidente: lo scalpitar d’un cavallo, lo scoppio involontario d’una fucilata, un grido, un’ombra a trarle in rovina. All’indomani i Legionari, saputo quant’era grande contro di loro la collera del Generale, inviarono deputati a supplicarlo perchè volesse perdonarli della svergognata fuga della notte precedente, chiedendo, per riscatto, d’essere d’allora innanzi mandati pei primi a qualsivoglia più arrischiato cimento. E il Generale, come padre irritato contro gli scapati figliuoli, li accolse accigliato e nulla volle promettere per allora; ma si capiva bene che il perdono era già nel suo cuore, e che al primo tonar del cannone la grazia sarebbe stata concessa.[140] XVII. Intanto la cinta d’assedio era venuta d’ora in ora serrandosi, e il duello tra le mura e il cannone, se così fosse lecito chiamarlo, si andava facendo sempre più accanito. Gli assedianti in meno d’otto giorni avevano rizzato sei batterie, compiuta la prima e aggiunta una seconda parallela, e collegate tutte le trincee a’ loro _Depositi_: gli assediati, a lor volta, afforzate le batterie sesta e settima, bersaglio fisso del nemico; poi condotte due vie coperte, una al Vascello, l’altra rasente i bastioni; indi restaurate cannoniere; risposto, colpo per colpo, al nemico; difesa più d’una volta la propria, assalita talora la trincea avversaria; pagato ogni giorno nuovo e largo tributo di sangue generoso; operato tutto ciò che l’arte, l’ardire, il santo sdegno dell’ingiusta aggressione suggerivano. La mattina del 13 però i Francesi smascherano tutte le loro batterie e con trenta bocche da fuoco battono per sette giorni e sette notti i bastioni sesto e settimo, e la sera del 21 vi spianano in tre punti la breccia. Ora non restava più ai Francesi che di salirla; ai Romani di difenderla; e forse con maggior vigilanza lo potevano. Ma la notte tra il 21 e il 22 i Francesi, taciturni, rapidi, ordinati, tentano l’assalto; il battaglione del reggimento _Unione_, che vi stava di guardia, si lascia prima sorprendere, poi intimidire, poi voltare in fuga; e gli assalitori, solleciti a trar profitto del pánico, checchè n’abbia novellato l’Oudinot,[141] son padroni quasi senza combattimento delle mura di Roma. XVIII. A questo punto però il nostro eroe è chiamato a rispondere dell’opera sua. Presa la breccia, il Rosselli, divenuto audace a un tratto, propone che ne sia tentata la ripresa, la notte stessa, immediatamente; il Mazzini, che aveva in grande stima il dottrineggiare del Generalissimo, creatura sua, lo seconda; l’Avezzana si mostra dello stesso parere, e tutti insieme vanno da Garibaldi, il quale, smantellata e resa inabitabile Villa Savorelli, s’era trapiantato pel momento al palazzo Corsini, e gli propongono, quasi direbbesi lo pregano di mettersi a capo dell’immaginata conquista, profferendogli, se acconsentisse, quante forze gli fossero per occorrere. Garibaldi, cosa maravigliosa in lui, dapprima si rifiuta alla prova, affermando stanche e scoraggiate le truppe; poi, sollecitato di nuovo, promette di mala voglia di cimentarsi per le cinque della sera; però, venuta anche quell’ora, si disdice per la terza volta e dichiara ineseguibile l’impresa. Il Mazzini se ne sdegna, vede nella risoluzione di Garibaldi la caduta di Roma e ne scrive irritatissimo al Manara, quasi sperasse farsene un alleato od un proselite. Pure Garibaldi, letta la lettera del Triumviro, mormorò poche acerbe parole, ma non mutò divisamento. Egli persisteva a credere che l’assalto alla breccia, specialmente notturno, con truppe stanche, sfiduciate, insospettite dalle voci di tradimento, orbate, pei ripetuti combattimenti, dei migliori loro ufficiali, sarebbe inevitabilmente fallito; e che oramai la sola risoluzione provvida e urgente da prendersi fosse quella di riparare dietro una nuova linea, ch’egli aveva già ideato, e di ripigliare più ampiamente dietro di essa la difesa. Avesse torto o ragione, ci mancano i criterii per sentenziarne. Certo chi consideri l’indole di Garibaldi e rammenti che tanto più un’impresa lo allettava, quanto più gli appariva arrischiata, penserà come noi, che se egli si arretrava dinanzi a quella, piena di tanta gloria, doveva avere le sue buone e forti ragioni: nè si lascierà persuadere sì di leggieri ch’egli volesse usare violenza alla propria natura, e rischiare in un punto solo la sua popolarità e la sua fama per un vano capriccio od un fanciullesco puntiglio. Ma la questione non è qui: la questione è se Garibaldi disubbidì, siccome molti pretesero, a ordini espressi, o rigettò puramente un consiglio, e contraddisse una proposta. E posto in siffatti termini il quesito, la risposta non è dubbia. Tutti gli storici parlano di _proposte_, di consigli, di preghiere; nessuno di comandi precisi e categorici.[142] Il Rosselli propone l’attacco e offre le truppe; l’Avezzana e il Mazzini appoggiano la proposta; Garibaldi acconsente, poi dissente: ecco tutto quello che ne dicono gli storici, anche i più avversi al Nizzardo. Ora non è così che si procede in guerra; non è così che parlano i capitani d’esercito e i governanti degli Stati. Il Rosselli, se era convinto del fatto suo, doveva comandare, il Governo sancire coll’autorità sua il comando del Generale in capo e il Generale subalterno ubbidire od essere deposto, e l’impresa condotta a termine ugualmente. Ma per parlare e operare così conveniva non avere nel cuore di Roma la piaga di due generali: l’uno di nome, l’altro di fatto; conveniva che il Generale in capo comparisse un po’ più di sovente sul campo di battaglia, e il Triumviro si immischiasse un po’ meno di cose di guerra; conveniva sopra ogni cosa che ognuno fosse al suo posto, che tutte le forze lavorassero sotto l’impulso d’un solo motore; che una mente, una volontà sola governassero e difendessero Roma, al fine di glorificarne la morte, se più non era possibile salvarne la vita. Ed eran questi i motivi che apparentemente scusavano, se non eran quelli che in segreto animavano la mente di Pietro Sterbini la mattina del 22. Dicendo «esser venuto il momento di concentrare nelle mani d’un solo la somma delle cose,» e inetto il Rosselli e fiacco il Triumvirato; va prima da Garibaldi a proporgli la dittatura; questi disdegnosamente la ricusa; non per questo lo Sterbini si smarrisce, e disceso presso Ponte Sisto arringa i soldati, acclamando dittatore il generale Garibaldi; prosegue ripetendo il grido per Piazza Colonna, applaudito dalle turbe e spalleggiato fin là dai facinorosi; quando un ardito giovane fattosi incontro all’agitatore l’apostrofa acerbamente: «Ai magistrati portasse le accuse e non sulle piazze, cessasse per Dio dall’agitare la face della discordia anche in quelle ore supreme; e perchè non cessava, gli appunta al petto un archibuso e lo pone in fuga.» Ciò non ostante due o trecento sollevatori recaronsi alle stanze dei Triumviri, ma il Mazzini ammonì severamente gli oratori loro; e quando l’Assemblea ebbe a deliberare sulla proposta introdotta in un’adunanza segreta per dare a Garibaldi la dittatura, ossia «il Governo supremo della difesa» come lo Sterbini diceva, fu vinto il partito contrario, «e fu meno male che Roma non saggiasse anche lo Sterbiniano imperio.[143]» XIX. Abbiamo voluto narrare l’episodio quasi colle parole stesse di Luigi Carlo Farini, affinchè si vegga che nemmeno il caldo avversario di Garibaldi potè accagionarlo d’aver mestato nell’insano complotto. Fu tutto pensiero ed opera dello Sterbini, che il Garibaldi ripudiò. La dittatura era forse la sola forma di Governo ch’egli intendesse, e l’aveva perciò proposta all’Assemblea romana fin dai primordii della Repubblica; ma nel giorno in cui lo Sterbini, che pur l’aveva la prima volta combattuta, veniva a proporgliela in quel modo, egli l’aveva giudicata, peggio che inutile, ruinosa e come tale rigettata. Perduta la breccia e la speranza di riconquistarla, ai Romani non resta fuori di Roma che il Vascello; solo, ma formidabile sempre; e dentro Roma che il tratto dei bastioni di Porta San Pancrazio e Porta Angelica, e come seconda difesa la linea tracciata meglio che formata dai logori avanzi del Muro Aureliano. Questa linea era sostenuta al centro dalle batterie così dette del Pino; ad occidente dal bastione ottavo, e dalla Villa Spada; ad oriente dai conventi di San Callisto e di San Cosmate sulle falde dell’Aventino. Gli è perciò intorno a queste posizioni che sta per rinnovarsi la lotta. I Francesi, gagliardemente trincerati nella breccia conquistata, avviano una terza parallela e bersagliano le posizioni nemiche, scatenando notte e giorno sulla città una pioggia di bombe, che vanno spesso a danneggiare i monumenti e i capi d’arte più famosi: i Romani afforzano Villa Spada, affidano al valore d’una compagnia di Legionari del Medici la ripresa della casa Barberini (colà ebbe fracassato un braccio il capitano Gorini, e il corpo lacerato da diciassette ferite Gerolamo Induno, e la spalla forata di baionetta il giovinetto Cadolini), e non lasciano al nemico che un monte di rovine; armano di nuovi pezzi le batterie del Pino, afforzano Villa Spada, tempestano di colpi bene assestati le batterie francesi, sopportano con invitta costanza i disagi dei lavori notturni, i guasti del bombardamento, i vuoti della morte. Tutti ingrandisce la coscienza d’un alto dovere. Il Medici, fatta del Vascello una fortezza, con un manipolo di prodi, d’approccio in approccio, di piano in piano, di pietra in pietra, lo difende. Bersagliato notte e giorno dalle artiglierie di Villa Corsini, tormentato senza posa dalle carabine dei famosi Cacciatori d’Affrica, sfabbricato in gran parte l’edificio che gli serviva insieme di asilo e di rôcca, nulla basta a scrollar la sua fredda, impassibile fermezza. Squarciato il secondo piano, scende al primo; crollato anche il primo, passa al pian terreno; diroccato questo pure, ripara nella cantina; minata anch’essa, s’accampa all’aperto; ma non cede un sasso della sua ruina e la rende immortale. Nè meno maravigliosi i difensori delle batterie; e innanzi a tutti i cannonieri. Disuguali d’armi, mal coperti da terrapieni improvvisati, costretti a combattere con pezzi di campagna contro pezzi d’assedio, più d’una volta fan tacere le batterie nemiche, ne conquassano o ne demoliscono le opere, strappano, per la giustezza dei tiri e l’intrepidezza della difesa, grida d’ammirazione agli stessi nemici.[144] Pure v’era un uomo che compendiava in sè tutti gli eroismi, e pareva abbellire colla calma la morte e render credibile coll’invulnerabilità il miracolo: ancora Garibaldi. Lasciata pure Villa Spada, s’era fatto costruire un capanno di stuoie presso la batteria del Pino, la sua prediletta; e là, fra il rombo assordante delle bombe francesi, passava i giorni e le notti speculando attento le mosse del nemico, dirigendo il fuoco della batteria, spacciando i suoi ordini a ogni parte del campo, e trovando ancora il tempo di accordare qualche udienza, persino al bel sesso, e modo di dormire tranquillamente come in casa sua.[145] XX. L’ora pertanto s’appressava. Dal 27 al 29 sette batterie francesi, munite di trentuna grosse bocche da fuoco, avevano tirato con brevi intervalli sopra tutte le posizioni romane, e malgrado la virtù de’ difensori fatto di esse mucchi di rottami e di sepolcri. Al mattino del 29, il Casino Savorelli era distrutto, la Porta San Pancrazio sfiancata, il bastione nono e la Villa Spada gravemente danneggiati, la batteria del Pino conquassata, infine il bastione ottavo, punto di mira dell’assediante, ridotto una maceria e la quarta breccia aperta ne’ suoi fianchi. Quei tre giorni costarono ai difensori di Roma centottantacinque uomini tra colpiti da morte e feriti; ma non per questo smarrirono l’animo: la breccia era aperta; bisognava difenderla: questo fu il giuramento, e fu tenuto. La mattina del 30 due colonne francesi, sostenute da riserve, muovono di fronte e da sinistra all’assalto della breccia; i Romani li respingono disperati; assaliti e assalitori si trovano ben presto corpo a corpo: un fiero combattimento _a ferro freddo_ s’impegna sul terrapieno. Emilio Morosini, diciottenne eroe, gentil sangue ticinese, fa colle sole armi sue eccidio di nemici, e sebben ferito due volte, non resta dalla pugna: chè trasportato da’ suoi alle ambulanze, ma abbandonato in cammino e sopraggiunto dai Francesi non s’arrende ancora, e mena di sciabola finchè gli basta la lena; finchè una seconda palla nel ventre gli trapassa il bel corpo e ne invola l’anima eroica. Pure la breccia è salita, ma non vinta ancora; le batterie della Montagnuola fanno strage degli assalitori: i Francesi pagano ogni palmo di terreno col sangue de’ loro capitani; gli artiglieri si fanno tagliare a pezzi sui loro cannoni, ma non s’arrendono;[146] esauste le polveri, spezzate le baionette, fracassati anche i calci de’ fucili, restano ancora a far barriera i petti dei superstiti e i cumuli dei morti; fino a che, ahi gloriosa, ma vana ecatombe!, il numero ha ragione un’altra volta; i Francesi irrompono da ogni lato; l’unica via di ritirata è minacciata, e non resta ai sopravviventi altro riparo che Villa Spada. E quivi Garibaldi, richiamata al Casino Savorelli la Legione Medici, ormai dopo la perdita della seconda linea inutile al Vascello, asserragliata Villa Spada, appoggiate le spalle a San Pietro in Montorio, la sinistra a San Callisto, l’estrema destra al bastione nono, tuttora in piedi, tenta improvvisare una terza linea di difesa. La notte però sospende il combattimento; il dì vegnente sarà l’ultimo di Roma repubblicana. Preceduti e spalleggiati dal fuoco incrociato di tutte le batterie, i Francesi montano da ogni parte all’assalto; ma il loro obbiettivo è sempre Villa Spada. Colà si decide l’estrema sorte di Roma; colà Garibaldi, il Manara, il Sacchi, i Legionari, i Bersaglieri, quanti uomini son vivi e atti a impugnare un’arma, si preparano all’estrema disfida. Il tetto, le mura, le porte della casa, bombardati come un bastione, crollano da ogni lato sui difensori; e spesso le rovine uccidono quelli che le palle risparmiano, ma nessuno parla di resa. Il Manara infiammato d’ardore eroico, aspirando la strage e quasi desiderando la morte, corre da un capo all’altro della casa, incoraggia i combattenti, conforta i caduti, provvede dovunque alla difesa, governa la lotta; ma nel punto in cui s’affaccia ad una finestra per osservare le mosse d’un cannone nemico, una palla gli entra nelle viscere, e lo stramazza agonizzante fra le braccia di Emilio Dandolo, a cui poco dianzi aveva detto, come Ney a Waterloo: «Non ci sarà dunque nessuna palla per me?» XXI. Un altro come lui aveva cercato, in quel baratro infocato di Villa Spada, la morte; ma come se questa non osasse troncare a mezzo il grande destino a cui era serbato, non volle ascoltarlo. Il Manara in quel giorno fu grande; Garibaldi parve terribile. «Egli rivelava (scrive, coll’autorevolezza di chi ha veduto, Augusto Vecchi) egli rivelava in quel giorno qual’uomo si fosse. Ruotava d’ogni lato la spada; faceva mordere la polvere ai mal venturosi che gli si spingevano dinanzi. Pareva Leonida antico alle Termopili. Pareva Ferruccio nel castello della Gavinana. Io tremava ch’egli avesse a cadere da un istante all’altro; ma egli saldo ristette siccome il destino.» A mezzogiorno tutto era finito: Villa Spada era perduta; Garibaldi si ritirava coi laceri avanzi de’ suoi corpi per la Lungara, sperando ancora di arrestare il nemico a Ponte Sant’Angelo; quando un rappresentante del Popolo venne ad annunziargli che l’Assemblea aveva bisogno d’interrogarlo sullo stato delle cose, e l’attendeva in Campidoglio. — Credete voi che in un’ora saremo di ritorno a Villa Corsini? — chiese egli al Vecchi, che lo scortava. — Lo credo.... — Allora partiamo, — e al galoppo, sordido di polvere, intriso di sangue, fiammeggiante il volto per l’ardore della pugna recente, salì il Campidoglio. Al suo apparire l’Assemblea ruppe in una salva d’applausi. Informato che il Mazzini aveva proclamato: «Tre sole vie rimaner aperte: capitolare; difendere la città a palmo a palmo; uscire da Roma, Governo, Assemblea, Esercito, e portare la guerra altrove;» e invitato a salire la tribuna onde esporre il parer suo, rispose: «La difesa oltre Tevere impossibile: possibile ancora al di qua del fiume la guerra di barricate; ma a patto che tutta la popolazione si ritiri e s’interni nella città; e che tutto ciò sia effettuato entro due ore. Dover suo soggiungere che anco siffatta difesa non avrebbe potuto durare che pochi giorni. Solo la dittatura d’un uomo energico (e tutti sentivano a chi egli alludeva) poteva salvar Roma. Egli la propose fin dal 9 febbraio: non fu ascoltato; oramai era tardi. Quanto a lui, null’altro restavagli che uscir di Roma col resto de’ suoi prodi, e tener alta la bandiera della patria fino all’estremo.[147]» Ciò detto laconicamente, tornò al suo campo; e l’Assemblea, respinta ogni idea di resistenza, votò il Decreto ormai celebre: «In nome di Dio e del Popolo »L’Assemblea Costituente Romana cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto.» E poichè per effetto di questo Decreto il Triumvirato aveva rassegnato l’ufficio, al Municipio romano, rimasta unica autorità legittima, spettò negoziare col vincitore i patti della resa. Se non che avendo il Generale francese rifiutate le più oneste condizioni, tra le altre quella del rispetto delle persone e delle cose, Roma sdegnosamente ruppe ogni negoziato, preferendo subire l’estremo arbitrio del vincitore al disonore di sottoscrivere con lui una resa, che avrebbe dato alla conquista brutale l’aspetto d’una vittoria civile; e tolto a lei, vittima, di levare un’estrema protesta contro quella bugiarda sorella, che dopo averla assalita con perfidia, combattuta talvolta col tradimento, vinta colla sola virtù del numero, veniva a negarle in faccia quel supremo diritto della incolumità delle vite e degli averi, che persino l’austriaco Gorgowscky aveva riconosciuti a Bologna. CAPITOLO SESTO. DA ROMA AL SECONDO ESIGLIO. [1849-1854.] I. A mezzogiorno del 2 luglio, non per anco entrati i Francesi in Roma, Garibaldi radunava sulla Piazza del Vaticano le milizie della sua divisione, e fatto formare il quadrato le arringava press’a poco così:[148] «Soldati, io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me. Non posso offrirgli nè onori nè stipendi; gli offro fame, sete, marcie forzate, battaglie e morte. Chi ama la patria mi segua.» Strepitose acclamazioni a Garibaldi e all’Italia risposero al laconico appello; a seguirlo però non, si profferirono che al più tremila uomini;[149] i resti cioè della Legione italiana, buona parte della polacca e del battaglione Medici, grossi manipoli di finanzieri, di studenti e d’emigrati, i superstiti Lancieri di Masina, circa quattrocento Dragoni; ma dei Bersaglieri lombardi pochissimi. Ma a lui, avvezzo alle _guerillas_ dell’Uruguay, paiono anche troppi. La sera del giorno stesso esce furtivo da Porta San Giovanni; e lasciando tutti incerti della sua mèta, s’incammina per la Tiburtina. Gli cavalca al fianco, in vesti virili, già incinta del quarto figlio, pronta a tutti i cimenti la sua Anita; gli fa da guida Ciceruacchio, fuggente esso pure co’ figli l’abbominio della vista straniera; l’accompagna Ugo Bassi, avido di martirio; ne seguono le sorti Sacchi, Marocchetti, Montanari, Hoffstetter, Cenni, Livraghi, Isnardi, Sisco, Ceccaldi, Chiassi, Stagnetti, Bueno, Müller, l’eletta de’ suoi ufficiali superstiti. Giunto in sull’alba del 3 a Tivoli, divide la sua truppa in due legioni, ripartita ciascuna in tre coorti, e affida il comando della prima legione al Sacchi; pone la cavalleria agli ordini del Bueno; dà l’unico cannone al Müller; compone il suo Stato Maggiore di: Marocchetti capo, Hoffstetter ufficial di dettaglio, Cenni aiutante di campo, Montanari, Torricelli, Stagnetti, e altri, ufficiali di ordinanza; nomina Gianuzzi e Fumagalli commissari alle proviande; fa sparger voce che mira al Napoletano. Al tramonto infatti, levato il campo, marcia buon tratto verso mezzogiorno; indi volge improvviso a settentrione, pernotta a Monticelli, e la mattina del 4 s’accampa a Monterotondo.[150] Qual era pertanto il suo disegno? dove andava? a che mirava? Degli storici che abbiamo sott’occhi, l’uno gli attribuisce il pensiero di chiudersi a Spoleto, munitissima altura, e di continuare colà la resistenza; altri gli affibbia il proposito di sollevare le Marche e l’Umbria; altri di gettarsi in Toscana, e assalirvi gli Austriaci; questi di avviarsi a Venezia, quegli di rimeditare l’impresa del Regno; e in verità se egli volgeva in mente tutte queste ed altrettali cose, e se a tutte pareva ugualmente disposto, secondo le opportunità e gli eventi, una sola ne voleva chiaramente e saldamente: cadere ultimo; tener viva la fiamma finchè le bastasse soffio di vita; morire, se era d’uopo, avvolto tra i laceri brani della sua bandiera; ma non patteggiare collo straniero.[151] Frattanto, facile a prevedersi, la persecuzione era già cominciata. L’Oudinot gli sguinzaglia contro due colonne, l’una delle quali guidata dal generale Molière gli dava la caccia fin sotto Albano; l’altra comandata dal Morris l’andava a cercare sulla via di Civita Castellana; il borbonico Statella gli moveva alle spalle dal Tronto; gli Spagnuoli di Don Consalvo appostati a Rieti gli sbarravano la destra; e gli Austriaci del D’Aspre, accampati nell’Umbria, l’aspettavano di fronte a Foligno e gli chiudevano le due vie di Perugia e d’Ancona. Come si vede, eran quattro eserciti che lo serravano da ogni parte entro una maglia di ferro, e guai se l’inseguíto sbagliava una mossa: era perso inevitabilmente. Ma l’inseguíto si chiamava Garibaldi; quella guerra l’aveva fatta dieci anni in America; si può quasi dire che l’aveva inventata lui; ed era bravo davvero chi lo coglieva. Levare il campo quasi sempre di notte, e mai ad ora fissa; marciare con pochi impedimenti; accampare nei luoghi nascosti; frugar senza posa il terreno d’ogni intorno; spinger scorribande in tutti i sensi; accennare ad una mèta e camminare improvviso per l’altra; partire ostensibilmente per la via maestra e fuori di vista scappar per le traverse; calcolare il tempo e studiare il passo come in un ballo; mangiar poco e in fretta, ma incettar viveri oltre il bisogno per parer più numerosi; aver per fede che con pochi valorosi si fa assai più che in molti timidi e fiacchi: ecco l’arte colla quale egli sperava di uscire anco quella volta dalla grande pania che gli era tesa; e forse lasciare ai quattro nemici che lo braccavano come belva un ricordo imperituro della sua arte. E questa arte egli non usò mai con tanta perfezione di disegno e di opera come in quella ritirata, capolavoro del guerrillero. II. Nel pomeriggio del 3 stacca la marcia da Monterotondo; il 6 è a Confine; il 7 a Poggio Mirteto; l’8 a Terni, dove s’incontra col colonnello Forbes, che viene a portargli una colonna di ottocento uomini, resti di molti corpi sbandati nella campagna, e due altri pezzi di cannone. Ma Terni è centro di cinque vie; per essa si può tanto salire a Foligno, quanto ridiscendere a Rieti; come voltare per Narni e Viterbo, come salire a Todi e Perugia; quale sarà la buona? Garibaldi non cerca a lungo. Lancia in ogni passo scorribande per ingannare gl’inseguenti; spinge un’avanguardia di cavalli fino a San Gemini sulla strada di Todi e il dì appresso (9 giugno) vi si conduce egli stesso col grosso del corpo. Colà però l’orizzonte comincia a intorbidarsi. Troppo facile batter le mani da Piazza Vaticana, al programma «fame, sete, battaglie;» ma eseguirlo giorno per giorno, punto per punto, qui la difficoltà, hoc opus, hic labor, e s’intende che nemmeno a tutti coloro cui bastava l’animo bastasser parimente le forze. Tanto più che, sarebbe vano nasconderlo, della gente che Garibaldi traeva seco non tutti certamente erano quel fiore d’eroi, e quella quintessenza di galantuomini che il Capitano nella credula mente aveva sognato. Molti aveva spinto sotto le sue insegne indomito amor di patria, o innocente vaghezza di avventure, ma non pochi altresì la vita famelica e disperata, la gola di bottino, la speranza di pescare nel torbido, o perdersi nel fosco; se pur, a dir tutto, non v’era taluno cui non era discaro di coprire col camiciotto del volontario qualche vecchia e incomoda magagna di polizia. Però nulla di più naturale che sintomi di scoramento, di stanchezza e d’indisciplina fossero apparsi nelle file sin dai primi giorni; che le diserzioni prima a frotte, poi in massa, fossero già cominciate e andassero crescendo; che i reati di violenza, di ladroneccio, d’insubordinazione sempre più spesseggiassero, e malgrado la espressa volontà del capo di reprimerli energicamente, non fossero sempre scoperti e puniti; che infine, per tutte quelle cagioni che erano inseparabili da siffatta impresa, la colonna ne restasse ogni giorno più assottigliata, indebolita e scompigliata. Aggiungasi che le popolazioni sobillate da chierici venivano manifestandosi sempre più ostili; sicchè grande la difficoltà di procacciarsi viveri, ricoveri, guide, notizie, quanto ad una truppa in guerra, specie a quella, sarebbe stato indispensabile; impossibile poi ottenere checchessia da frati e monache, che sbarravano in faccia ai Garibaldini le porte de’ loro conventi, li accoglievano talvolta a schioppettate, sguinzagliavano contro di loro, come in quel di Todi, persino i mastini di guardia; rendevano necessari castighi e rappresaglie, che di contraccolpo inasprivano i conflitti e assiepavano di nuovi triboli e maggiori perigli la via già tanto tribolata e perigliosa. Infine, cosa più grave, due dei quattro inseguenti s’avvicinavano a gran passi, e il terreno sul quale Garibaldi poteva manovrare andava sempre più restringendosi. Concordi notizie infatti recavano che da un lato i Francesi del Morris erano già mossi da Viterbo in marcia per Orvieto, e che dall’altra gli Austriaci concentrati a Foligno, come annunziava in un suo bando il generale Stadion, si preparavano a marciare su Todi, «per ridurre al dovere le masnade che infestano le terre occupate dalle vittoriose armi dell’Impero.» Ora, chi pensi che Todi è quasi al centro del trivio Orvieto-Perugia-Foligno, intenderà quanto fosse arduo il problema che a Garibaldi veniva imposto. Se marciava per la via di Foligno o di Perugia, dava di cozzo negli Austriaci; se per l’altra d’Orvieto, andava ad urtar nei Francesi; se fermava il campo a Todi, rischiava d’averli sulle spalle entrambi. Tutto considerato, non gli restava sui nemici che un vantaggio di poche miglia e di poche ore; e avendo indovinato che in quelle poche ore e in quelle poche miglia stava la salvezza, se la conquistò da par suo. Manda a scorazzare la strada di Foligno per far credere che egli mira di là; spedisce il Müller con i suoi cavalli scortato da una compagnia della Legione a perlustrare i dintorni d’Orvieto, coll’ordine di spingere esploratori fin sulla strada Montefiascone-Viterbo; seppellisce i due cannoni del Forbes e non serba che il cannoncino di montagna; e quando è assicurato dai suoi scorridori che i due nemici sono tuttora tanto lontani da potervi scivolare in mezzo, lascia Todi la sera del 12, passa il Tevere a Ponte Acuto, e s’incammina per Orvieto non tuttavia per la maestra, ma per la viottola più montuosa ed obbliqua di Brodo, dove nella giornata del 13 pianta il campo. E Brodo, basta un’occhiata alla carta per accertarsene, offriva ancora un altro grandissimo vantaggio: lo allontanava d’una tappa così dai Francesi come dagli Austriaci, senza scostarlo per questo dalla Toscana, sua mèta; verso la quale era sempre libero di camminare, sia per la grande strada Orvieto-Siena, sia per Val di Chiana, per mezzo della quale poteva sbucar sotto Arezzo. Ma il 13 sera, essendosi per altre perlustrazioni accertato che il generale Morris era ancora lontano, si decide a staccare la marcia per Orvieto, presso la quale città giunge sul mattino del 14. Quivi però, saputo che i Francesi avevano ordinato quattromila razioni di pane, segno della loro vicinanza, e visto l’animo ostile degli Orvietani che per prima accoglienza gli serrarono le porte in viso, decide saviamente di tornare all’aperto, prendendo, per ogni evento, una buona posizione a cavaliere della strada di Ficulle, verso cui s’incamminava. A sera però gli Orvietani, ridesti da una scintilla di patriottico pudore, apersero le porte, cedettero a Garibaldi il pane destinato ai Francesi, e vollero essi pure festeggiare il famoso uomo che consentì a salire in città. Ma non per questo egli s’indugia, e nel pomeriggio del 15, mezz’ora prima che i Francesi entrassero in Orvieto, aveva già levato il campo e marciava di buon passo verso Ficulle. Vi arriva a sera; e a ciel sereno, in un bel prato, una fresca fontana poco lunge, la moglie accanto, le stelle sul capo, i nemici d’ogni intorno, ma sempre la speranza nel cuore, si accampa e riposa. Non perde però tempo: i Francesi lo serrano alle calcagna da Orvieto; gli Austriaci gli muovono novamente incontro da Perugia, e bisogna studiare il passo. Parte la mattina del 16; fatte poche miglia, abbandona la strada maestra e si butta a Sole, dove rifiata poche ore; la notte del 16, per alpi disabitate e sentieri impervii, sotto una pioggia dirottissima e in mezzo a tenebre fitte guadagna tuttavia il confine toscano e giunge al mattino del 17 a Cetona; dove la popolazione, cosa rara, gli muove incontro festosa, onde, nota l’Hoffstetter, «fu quella la prima volta che la brigata, dacchè era uscita da Roma, dormì acquartierata.» Ma _uno avulso non deficit alter_: liberatosi da uno dei persecutori, perchè i Francesi non possono sconfinare in Toscana, gliene restano sempre di fronte altri due: gli Austriaci che scendono da Perugia a sbarrargli il passo; e i Toscani che tenevano presidii tra Sarteano e Chiusi e potevano, se non arrestarlo, impacciare i suoi movimenti e molestarlo. Pure non se ne sgomenta. Fortificatosi a Cetona, circondati i suoi fianchi d’imboscate, coperte le sue spalle di pattuglie, manda celeremente una grossa squadriglia a battere la strada Sarteano e Chiusi, e quando gli riportano d’averne snidati e messi in fuga pochi Toscani[152] ivi appiattati, ripiglia la marcia; dorme il 17 a Sarteano; entra il 18 a Montepulciano, dove uomini, donne, frati, fanno a chi più lo colma di cortesie, di carezze, di banchetti; e dove, esaltato probabilmente da quelle accoglienze strepitose, pubblica un ardente manifesto ai Toscani, col quale li invita ad insorgere contro la tirannide domestica e straniera. Fu però l’illusione d’un istante: l’appello si perdette nella profonda indifferenza delle popolazioni, come un tizzone in un’acqua morta; e Garibaldi, presago oramai di quello che l’attendeva in Toscana, ma parato ad ogni fortuna, continua il suo fatale cammino. Giunto però sull’albeggiare del 20 a Torrita, prende una grande risoluzione! Visto l’effetto del manifesto di Montepulciano, e forzato da troppi indizi a convenire, che se mai v’era cosa, in quei giorni, impossibile era un’insurrezione toscana, delibera istantaneamente di mutar obbiettivo e schacchiere, di abbandonare al più presto il Granducato e il centro d’Italia e di prendere per nuova mèta l’Adriatico e Venezia! A che pro infatti sforzarsi a galvanizzare de’ popoli morti, se Venezia viveva ancora? Perchè ostinarsi a suscitare da ceneri estinte l’incendio? Là sulla Laguna ardeva sempre quel grande focolare, in cui si concentrava ancora quanto di fuoco esisteva in Italia! Venezia era tutto per Garibaldi! A Venezia l’Italia; a Venezia la libertà; a Venezia l’onore; a Venezia la guerra; a Venezia infine due campi: la terra per il soldato del 30 aprile, il mare per l’ammiraglio di _Las Cruces_; due campi a lui famigliari come all’anfibio i meandri del suo fiume e i recessi delle sue rive, e nei quali egli poteva ancora, favorendo la fortuna, rinnovare i prodigi di Montevideo, e colla duplice natura donatagli da Dio servire due volte la patria. Però fin da quel giorno Garibaldi ha già fermato il suo piano: salire fin presso Arezzo; passare, riguadagnando qualche marcia sui Tedeschi, dal Subapennino al grande Apennino; scendere tra Pesaro e Ravenna all’Adriatico; imbarcarsi nel punto più opportuno e veleggiare per Venezia. III. E con tale proposito parte per Foiano, dove sosta alcune ore; alle 5 di sera del 21 luglio traversa la Chiana e arriva a Castiglion Fiorentino; ivi, acchiappato un cacciatore tirolese travestito alla contadina, gli scopre indosso un biglietto che il Comandante di Perugia scriveva al Comandante d’Arezzo, per dirgli che in quella notte gli arriverebbero in Arezzo altre quattro compagnie; non fucila perciò il messo, ma fa tesoro dell’avviso e stende le sue reti per cogliere di sorpresa l’annunciato nemico. Disgraziatamente il rinforzo austriaco si arresta a Cortona; e Garibaldi, giudicando imprudenza aspettare di più, muove con tutta la sua gente per Arezzo, in faccia alla quale arriva sul mattino del 21 ed a cui manda a chiedere transito, viveri e quartiere per un giorno. Ma gli Aretini, soffiati dal bernesco Guadagnoli che dipinge i Garibaldini come un’orda di scampaforche e di saccomanni, sbattono loro le porte sul viso; i contadini, ancora ossessi dallo spirito reazionario d’Aprile, corrono alle armi per respingere i diabolici invasori; la poca truppa austriaca di guardia, forse un cento di uomini, sta di rinfianco; e Garibaldi, cui non conviene indugiarsi a combattere, è costretto ad appagarsi de’ viveri e a serenar sotto le mura. Pure non è ancora quello il pericolo maggiore; il pericolo sta nelle colonne austriache che lo premono da ogni parte, e possono in poche ore aver chiuso il loro anello di ferro e tolto ogni scampo. Infatti da occidente avanza per la strada di Siena-Arezzo l’avanguardia del Stadion; da mezzogiorno salgono quelle quattro compagnie che vedemmo a Cortona; a settentrione occupa Anghiari con una seconda colonna veniente essa pure da Toscana l’arciduca Ernesto; da oriente infine altre colonne, spiccate da Rimini e da Pesaro, convergono tutte verso il medesimo punto, e compiono il cerchio. Ma Garibaldi vegliava, e affidatosi ancora al suo infallibile talismano del moto perpetuo, abbaglia, stanca, confonde con innumerevoli andirivieni a destra, a manca, alla fronte, alle spalle, il suo quadruplice nemico;[153] e colto il tempo e la mossa, come uno schermidore, spianta le tende da Arezzo, lascia che la sua retroguardia baratti alcune schioppettate colle punte d’avanguardia del Stadion arrivata per l’appunto, volta rapido per Monterchi, a metà cammino tra Arezzo e Città di Castello; vi riposa tutto il 23; e la notte fa un celere fianco sinistro e va, per i più aspri sentieri della montagna, a piantare il campo sulle alture di Citerna. Il luogo alpestre munito dalla natura, la sua postura al centro del quadrivio pel quale s’avanzava il nemico, lo rendono adatto così ad esplorare gran tratto di paese ed a difendersi da forze superiori, come a dare alle colonne, decimate e affrante, un po’ di quel riposo, di cui avevano tanto bisogno: e Garibaldi se ne fa un campo trincerato e vi dimora parte del 24 e tutto il 25. Ma in sulla sera del dì stesso, avvertito da’ suoi esploratori che l’arciduca Ernesto era già coll’avanguardia a Borgo San Sepolcro e che le altre due colonne gli si serravano addosso da Arezzo e da Città di Castello, non s’indugia più oltre e risolve estemporaneamente il passo decisivo. Lancia sulla strada di Città di Castello forti pattuglie per trarre i nemici nell’inganno che egli volesse aprirsi il varco per quella via; ne spinge altre verso Borgo San Sepolcro col medesimo intento; e lasciando gli Austriaci scaramucciare colla sua retroguardia, che essi scambiano per la sua avanguardia, ripassa, notte tempo, il Tevere presso Borgo San Sepolcro, scende a San Giustino e vi riposa la notte del 26; poi allo spuntar del giorno intraprende la salita del monte Luna, in cima dell’Apennino centrale, il sommo dell’arco che egli descriveva. «La strada (dice il Carrano, traducendo l’Hoffstetter[154]) la strada corre su pel monte per molte giravolte. Per queste andava l’assottigliata schiera, quasi segnando grandi spire fino alla sommità. Cavalcava innanzi il Garibaldi colla sua moglie e collo Stato Maggiore in mantelli bianchi: seguivano i pochi Lancieri dell’estinto Masina; poi l’altra cavalleria a due a due, i cui piccoli cavalli montavano nitrendo e sbuffando; poi i saccardi[155] che si cacciavano innanzi non meno di quaranta muli carichi di salmerie, gridando, bestemmiando, scudisciando; veniva appresso una mandra di buoi bianchi dalle grandi corna e ricurve; seguiva poco discosta la prima legione, condotta dal Sacchi, che si distingueva per i cappelli puntuti alla calabrese; poi veniva il piccolo cannone tirato da quattro cavalli; poi la seconda legione, guidata dall’inglese Forbes, in camiciotti di tela; in ultimo, uniti a pochi finanzieri, i superstiti Bersaglieri del Manara. In tutto non erano più di duemila uomini, disposti a far fronte in dietro a ogni momento per respingere i sempre aspettati assalti del nemico; e serenarono sulla vetta del monte.» IV. All’alba del dì seguente la colonna comincia la discesa del versante opposto e seguendo, giù sempre per profondi e selvosi burroni, il corso del Metauro, andò a sostare, verso le dieci del mattino, nel villaggio di Mercatello. Sennonchè alcuni scorridori inviati di colà, costume solito, a perlustrare la strada, riportano che una colonna austriaca proveniente da Pesaro è presso a Sant’Angelo in Vado; mentre altri messaggi, da altre bande, recano che altre colonne occupano già Borgo San Sepolcro, Pieve Santo Stefano e Sestino, vale a dire tutti i passi di Toscana e di Romagna. Nuova stretta, nuova strategica per uscirne; la prima idea di Garibaldi fu di assalire la colonna di Sant’Angelo in Vado e di aprirsi la strada all’Adriatico colla baionetta; ma poco stante, meglio esplorate le posizioni e la forza del nemico, mutò divisamento. Dappoichè suo scopo non era tanto combattere quanto arrivare, apposta un forte distaccamento a guardare Sant’Angelo in Vado; un altro ne lascia a Mercatello a tener a bada il nemico che s’avanza da Sestino; indi per un sentiero di montagna, poco prima scoperto, spunta col grosso della colonna la posizione di Sant’Angelo in Vado, trapassa dalla Valle del Metauro in quella del Foglia, traversa questo torrentello, continua per Macerata Feltria, dove la sera del 29 s’accampa. Era scampato da un altro frangente; aveva girato a destra un’altra volta il nemico, in quella ultima con qualche perdita materiale e con maggior danno morale. Infatti il distaccamento Dragoni lasciato a guardia di Sant’Angelo, sorpreso, per negligenza sua, da uno squadrone d’Ussari, va in rotta così precipitosa, che Anita stessa, la quale cavalcava alla retroguardia, frustava i fuggenti collo scudiscio e li apostrofava col nome di codardi. E il fatto sarebbe stato per sè solo insignificante, se l’effetto del brutto esempio non si fosse ripercosso in tutta la colonna, e non avesse dato a quelle milizie già scorate, sfinite e decimate ad ogni ora dalle diserzioni e dalle malattie, un colpo mortale. Oltre di che gli Austriaci ebbero il modo di scoprire più prontamente la direzione della colonna principale e di ritornare novamente sulle sue orme. E, come dicemmo, la colonna principale fin dalla sera del 29 era già a Macerata Feltria accampata in buona posizione colla fronte a Sant’Angelo; i fianchi ben guardati; numerosi fuochi al bivacco ostentati ad arte e tenuti vivi tutta notte, affinchè il nemico s’addormentasse nella sicurezza che anche il campo garibaldino dormisse. Ma i fuochi ardevano tuttavia, e Diana non era ancora apparsa sull’orizzonte, che Garibaldi, fatti sfilare innanzi gli impedimenti, spianta, in men che non si dica, l’accampamento; sempre pei calli più dirupati e nascosti guadagna verso il mezzodì del 30 le alture di Carpegna, ne riparte sul vespro, traversa la Valle del Conca, rifiata alcune ore in un bosco, e al tocco dopo mezzanotte ripiglia la marcia alla volta di San Marino. A San Marino. E perchè? Qual fine lo guidava? Quali speranze aveva egli fondate, Garibaldi, sopra la famosa Repubblichetta rimasta dai giorni dell’Alberoni inviolata? Mirava egli soltanto a guadagnar tempo ed a transitare per il suo territorio, o ne sperava qualcosa di più? Ma non sapeva dunque che San Marino era Stato neutrale e che le leggi della neutralità vietano il passo a gente armata, in guerra con Stati amici? O si lusingava forse che, trattandosi di soldati perseguitati e infelici d’una Repubblica sorella, il Governo di San Marino avrebbe fatto uno strappo anche alla sua Costituzione, e non che aperto le porte della sua capitale, aiutati, se occorreva, i fratelli che vi si rifugiavano? Forse sì! Chi conobbe Garibaldi sa che nessuna idea durò mai maggior fatica a entrare nel suo cervello, dell’idea di legge. Egli è morto, certamente, senza intendere, soprattutto senza essere persuaso, che la legge è vincolo inviolabile, universale, uguale per tutti, e perenne, finchè un’altra legge, allo stesso modo deliberata da un legislatore altrettanto legittimo, non l’abbia abrogata e mutata. Per lui non vi furono mai altre leggi che quella della sua coscienza; e tutte le volte che egli trovò sul suo cammino la legge civile, se n’ebbe la forza la infranse, se no ne subì il giogo; ma giudicandola in cuor suo una violenza e una tirannía. Epperò la legge della neutralità di San Marino che cos’era ella mai in faccia a quell’altra gran legge superiore, che impone a tutti di soccorrere la virtù sventurata e di proteggere i deboli perseguitati; od al cospetto di quell’altro dovere d’un ordine meno alto, ma non meno imperioso, che prescrive a tutti gl’Italiani, e i Sanmarinesi lo erano bene, di difendere i loro fratelli di patria contro lo straniero? Per questo, senza affermarla recisamente, ripetiamo l’opinione nostra che la prima idea, onde Garibaldi fu mosso verso San Marino, fu quella di chiedere alla Repubblica, se non propriamente un’alleanza pubblica, una complicità segreta; e che soltanto più tardi, forzato dagli eventi, mutò i suoi propositi e moderò le sue pretese. V. Ma che non gli restasse più oramai altro rifugio fuorchè il Titano, lo dimostra da sè solo il fatto che se un altro ne fosse esistito, egli l’avrebbe scoperto. Oramai la sua non era più una ritirata: era una fuga; fuga di leone ferito che si rivolta di tratto in tratto, e mostra le zanne al branco dei cacciatori che lo persegue, ma fuga irreparabile. La colonna austriaca girata a Sant’Angelo in Vado, appena scoperta la sua direzione, gli si era posta tostamente alle calcagna; la colonna dell’arciduca Ernesto continuava ad inseguirlo dal lato opposto; un’altra colonna era già in moto da Rimini; San Marino era, può dirsi, circondato, e non lasciava più altro spazio di mezzo, se non quello per l’appunto che occorreva alla colonna Garibaldi per continuare a fuggire. Ed anche il fuggire diveniva d’ora in ora più difficile. Le retroguardie garibaldine toccavano quasi l’avanguardia degli Austriaci; e uno scontro era imminente. Garibaldi però studiava il passo; e la sera del 30 luglio, giunto a poche miglia dal Titano, spediva innanzi il Padre Ugo Bassi per chiedere al Governo della Repubblica il passaggio della colonna sul territorio sanmarinese, e i viveri occorrenti. Il Primo Capitano Reggente Belzoppi accolse benignamente l’oratore; ma rispose che i doveri della neutralità gli vietavano assolutamente di assentire alla prima sua domanda: «Quanto ai viveri era questione d’umanità, e se le truppe di Garibaldi avevano fame, la Repubblica le avrebbe fornite del necessario; all’indomani, però, ed al confine, che non dovevano in qualsivoglia caso oltrepassare.» Il Bassi accettò per conto suo i patti; ma ripartito per riferirli al suo Generale, lo trovò già in cammino. Gli Austriaci infatti, raggiunta la retroguardia garibaldina, l’avevano attaccata, e poichè ormai lo sconforto e la demoralizzazione avevano spento ogni valore, messala facilmente in rotta, mietendone feriti e prigionieri e togliendo loro l’unico cannoncino, che scaraventano, grande trofeo e grande vendetta, in un vallone. Allora il Condottiero si persuase che tutto era finito, e senza aspettare nemmeno la risposta del Bassi, si decise a varcare il confine della Repubblica; e alle 7 antimeridiane del 31 luglio giunse sotto le mura di San Marino. Grande al suo apparire fu l’allarme de’ Sanmarinesi; ed altro non potendo, inviarono a Garibaldi per intimargli non oltrepassasse la porta della città. E di ciò furono paghi incontanente, chè Garibaldi stesso si pose in faccia alla porta per impedire alle sue truppe sopravvegnenti che passassero oltre, ordinando loro s’arrestassero nel Borgo e nel Piazzale esterno, chiamato lo Stradone. Ma circa alle 9 del mattino stesso avendo il Reggente mutato consiglio e invitato Garibaldi a salire in città, questi non se lo fece ripetere; e cavalcato più che frettoloso al palazzo della Reggenza, vi trovò il Belzoppi disposto a qualsiasi transazione potesse conciliare la dignità e la incolumità della Repubblica coi doveri dell’asilo e dell’umanità. Però neppure il Condottiero fu esigente. «Solo una forza maggiore della mia volontà, disse, mi costrinse a violare il territorio della Repubblica; non chiedo per me e la mia gente che il vitto quotidiano e un temporaneo rifugio. Quanto alle armi siamo pronti a deporle, se il Governo di San Marino s’impegna a farsi nostro mediatore presso i Comandanti austriaci, e ottenerci salve la vita e la libertà.» E il Reggente assentì a tutti i patti; accettò il mandato della mediazione, assicurò de’ viveri, e null’altro scambio richiese che una rigorosa disciplina ai soldati e la sicurezza delle persone e delle sostanze. «Ed io vi ringrazio (replicò Garibaldi), e vi prometto che nella breve mia sosta, _se i Tedeschi non mi attaccano, io non li attaccherò_.» Così accommiatatosi, andò a prender stanza nel convento dei Padri Cappuccini, posto fuori della città in un luogo alto, pittoresco e strategico insieme, d’onde poteva dominare tutti gli accessi della città. Ivi Garibaldi, fatto sgombrare il convento dai soldati che vi si erano arbitrariamente acquartierati, e raccomandato loro con severe parole la disciplina, il rispetto alle persone e alle cose, comminando la fucilazione a chiunque vendesse oggetti d’equipaggio e d’armamento; si ritrasse a scrivere l’ordine del giorno ormai noto, col quale scioglieva la sua colonna e lasciava libero ognuno di tornar alla vita privata: «San Marino, 31 luglio 1849. Soldati (egli diceva), noi siamo giunti sulla terra di rifugio, e dobbiamo il miglior contegno ai nostri ospiti. In tal modo noi avremo meritato la considerazione che merita la disgrazia perseguitata. Da questo punto io svincolo da qualunque obbligo i miei compagni, lasciandoli liberi di ritornare alla vita privata, ma rammento loro che l’Italia non deve rimanere nell’obbrobrio, e che meglio è morire che vivere schiavi dello straniero.» VI. Intanto il Governo di San Marino faceva il primo passo per ottenere dall’Autorità austriaca i patti da Garibaldi richiesti. E poichè noi troviamo di que’ negoziati ampio ragguaglio nello scritto d’un Aretino, reazionario nell’anima, ma che, per la sua qualità di consultore militare della Repubblica di San Marino, potè attingere le prove de’ particolari narrati a fonti sicure, e come suol dirsi, ufficiali; così cediamo a lui per breve tratto la cura del racconto.[156] «Frattanto, la Reggenza aveva spedito al general maggiore De Hahne, a Rimini, il segretario generale di Stato consigliere Giovanni Battista Bonelli, e il tenente Giovanni Battista Braschi al generale maggiore arciduca Ernesto, che inoltravasi nella direzione di Fiorentino, con incarico di partecipare l’accaduto agli austriaci duci, di scandagliarne le intenzioni e d’intercedere una capitolazione a favore di Garibaldi. Il tenente Braschi, che per la fretta aveva lasciato d’indossare l’uniforme, videsi arrestato dai Bersaglieri imperiali della prima linea, e a stento, mostrando il dispaccio e declinando la qualità di parlamentario, potè giungere sino al Vascone di Fiorentino, ove incontrò l’Arciduca con duemilacinquecento uomini trafelati dal caldo, esasperati dalle inutili marce, e impazienti di combattere e terminare con una decisiva fazione la disagiosa campagna. »Rassegnato il dispaccio al Principe, il nostro Inviato pregavalo di avere commiserazione di quelle bande, accordando loro men dure condizioni, ed a risparmiare il terribile flagello della guerra all’innocente Repubblica. Rispondeva l’Arciduca che, operando in nome del Sommo Pontefice contro i nemici del Governo legittimo, non poteva concedere ad essi loro altre condizioni che la resa assoluta alla grazia del loro Sovrano; e in questo senso scriveva su due piedi col lapis alla Reggenza. Prometteva bensì che avrebbe risparmiato lo più possibile la Repubblica, e che a di lei riguardo non avrebbe ingaggiato mai per primo il combattimento. »Interrogava poscia l’Ambasciatore dove fosse il confine sanmarinese, e all’udire che lo aveva già passato mezzo miglio indietro, mostravasene dolente, e scusavasene col dire: che non avendovi trovato nè guardie nè segni (nella credenza che la Repubblica non si estendesse al di là del monte Titano, ed inseguendo un nemico che andava sempre innanzi quasi fosse in casa propria), non aveva nemmeno sospettato di calcar già il suolo repubblicano. Però, onde evitare che la colonna, inoltrantesi per Monte Maggio, incorresse in pari errore, faceva dar subito nelle trombe, e quella fermavasi e non incedeva più oltre. »La promessa ottenuta dal Braschi era tranquillizzante, ma il rifiuto di accordar condizioni alle truppe garibaldine poteva spingerle a qualche atto disperato, e questo renderla vana. Ciò temè la Reggenza, allorchè conobbe la risposta del Principe, e più allorchè conobbe in qual modo era stata accolta da Garibaldi. Egli infatti aveva respinto disdegnosamente la resa a discrezione, ed erasi accinto alla difesa piuttostochè sottomettervisi, disponendo le sue genti nell’orto dei PP. Cappuccini, nella Murata dei PP. MM. Conventuali e negli altri siti propizi all’ardito divisamento. »In tanto frangente, a ore 4 pomeridiane spedissi di nuovo il Braschi all’Arciduca, latore di una lettera, con cui la Reggenza informava l’Arciduca stesso del rigetto della proposta dedizione incondizionata da parte di Garibaldi, e dell’assunta minacciosa attitudine. — Questa volta alla Cella del Sirone gli Austriaci bendarono il Braschi, e così bendato il guidarono al Vascone davanti al Principe, il quale cortesemente trattollo, e fecegli intendere che, se la città avesse per brevi istanti tenuto fermo impedendo ai Garibaldini di rifugiarvisi, egli in brevi istanti avrebbeli avviluppati e distrutti. Ma il Braschi gli fece saviamente osservare, che la città mancava di difensori, che le mura erano in varii punti di facile accesso, e che i Garibaldini, astretti da lui ad abbandonare le posizioni esterne, vi si sarebbero introdotti e avrebberle cagionato infiniti guai. L’Arciduca parve soddisfatto dalle addottegli ragioni, e nel congedare il Parlamentario, reiterò l’assicurazione di non attaccare quando non venisse attaccato. »Poco mancò d’altronde che l’Inviato non restasse vittima del falso allarme, che mise repentinamente in moto il campo garibaldino mentre ei tornavasene in città, e poco mancò che l’assicurazione non cadesse di subito a terra a cagione dell’allarme medesimo. È da sapere che i Garibaldini, supponendosi assaltati, occuparono in un attimo tutte le alture, rafforzarono i posti avanzati e si prepararono a respingere la sognata aggressione, e che il Braschi ebbe a rimanere offeso dalle palle di alcuni di loro, che tiravano non si sa a chi. »L’affare diventava ognor più imbarazzante pel Governo, e da un momento all’altro poteva avvenire uno scontro d’armi esiziale per la Repubblica. L’unica speranza di salute era omai riposta nel segretario Bonelli mandato a Rimini, nè tale speranza, la Dio mercè, andò fallita. Imperciocchè il De Hahne mostrossi fin da bel primo meno avverso dell’Arciduca a secondare le premure del Governo sanmarinese, e finì coll’aderirvi, incaricando il primo tenente Adolfo De Fidler di portarsi sul Titano insieme al nostro Diplomatico, e munendolo dei poteri necessari onde stipulare coll’Eccelsa Reggenza una Convenzione in proposito, salva l’approvazione del generale di cavalleria Gorzkowsky comandante in capo. »Era sul fare della sera, quando il Bonelli, il menzionato uffiziale ed un’ordinanza giunsero presso al borgo di San Marino, e poichè quei di Garibaldi allarmaronsi scorgendo delle uniformi bianche, il Segretario si fe’ avanti, espose ad un uffiziale l’oggetto della venuta di quegli Austriaci, e potè liberamente passar oltre ed entrare coi medesimi in città. Ivi il reggente Belzoppi e il tenente De Fidler segnarono un atto intitolato: _Condizioni per accettare la mediazione del Governo legittimo della Repubblica di San Marino riguardo alla truppa comandata da Garibaldi_, il quale venne tosto recato dall’Austriaco al proprio Generale a Rimini, e dalla Reggenza partecipato all’Arciduca e a Garibaldi. »Giusta l’atto stesso, le armi e la cassa della Banda garibaldina dovevan consegnarsi ai Rappresentanti della Repubblica e da essi all’Autorità militare austriaca; — la Banda doveva sciogliersi, e i di lei membri, divisi in piccioli drappelli, dovevano portarsi sino alle rispettive provincie e quindi rimandarsi liberi e sicuri alle loro case, non rimanendo soggetti che alle conseguenze dei delitti comuni; — la Repubblica doveva indennizzarsi delle straordinarie spese con cavalli ed altri oggetti alla Banda appartenenti: — Garibaldi, la sua moglie e qualunque della famiglia doveva ricevere un passaporto, coll’obbligo sulla parola d’onore di trasferirsi in America; — fino alla sanzione della Convenzione per parte del generale Gorzkowsky residente a Bologna, i Garibaldini non dovevano passare in nessun luogo i confini repubblicani, nè dovevano farsi scambievolmente ostacoli od attacchi; — e per garanzia del mantenimento di tali patti, dovevano mandarsi al Quartier generale a Rimini, l’indomani a mezzogiorno, colla risposta due rappresentanti sanmarinesi e due uffiziali superiori garibaldini in qualità di ostaggi. »Queste furono le condizioni che poteronsi ottenere, nè erano da disprezzarsi affatto, considerata la spinosa situazione in cui trovavasi il Garibaldi. Egli all’invece ne ascoltò la lettura in aria piuttosto sdegnosa, ne chiese copia per sottoporla allo Stato Maggiore e disse al Reggente: — Quando avrò udito il parere del Consiglio, vi renderò noto se le accetto o le rifiuto; ma in ogni caso non mi scorderò mai di ciò che avete fatto a pro di me e de’ miei sventurati amici. — Sembra d’altro lato (da quanto si è ricavato dipoi) che non gli piacesse il patto di tornare in America, nè la esclusione dei delitti comuni dall’amnistia, perchè quelli tra i suoi uomini che ne erano macchiati non avrebbero potuto goder completamente del di lei beneficio; e sembra che peculiarmente temesse la niegativa del Gorzkowsky di ratificare la Convenzione, e d’essere infrattanto accerchiato per modo da doversi arrendere a discrezione. Fors’anche Garibaldi non ebbe mai in animo di accettare condizioni, e forse ne mostrò desiderio sol per acquistar tempo ed aver agio di sottrarvisi colla fuga.» VII. E qui il cronista s’inganna; e l’Hoffstetter, che ci riferì i pensieri del Generale nell’ultima ora, ce ne fa fede. Temeva, bensì, che tutto quel temporeggiamento fosse un agguato; dubitava, è vero, che il Gorzkowsky non fosse per ratificare la Convenzione; ma il sentimento che sopra tutto lo dominava, era la ripugnanza di scendere a patti collo straniero. Gli eroi son fatti così: è sempre un affetto, spesso una chimera dell’anima loro che li muove; la considerazione dei pericoli, dei danni, dei vantaggi non entra che dopo, spesso assai tardi, nei loro giudizi, ma non ne è mai il primo e precipuo movente. Però Garibaldi ha risoluto: verso le undici della sera chiama i migliori suoi ufficiali e i pochi suoi fidi, e svela loro l’incrollabile suo proposito di sottrarsi ancora una volta ai patti dello straniero. «A chi vuol seguirmi, soggiunge, io offro nuove battaglie, patimenti, esiglio; patti collo straniero mai.» Le parole cadono come stille roventi sull’animo degli ascoltanti; ma a pochi, ed è naturale, bastarono l’animo e le forze di ascoltare il nuovo appello. Non sono più di duecento quelli che paiono disposti a seguirlo; ma Garibaldi non li conta; lo segue inseparabile, indomita, pronta a tutti i rischi, la sua Anita; l’accompagnano ancora Ugo Bassi, Ciceruacchio, Forbes, Ceccaldi, Liveriero e Livraghi; ed egli allo scoccar della mezzanotte, preceduto da tre guide paesane per l’unico sentiero di montagna che ancora rimanga aperto, scende il Titano; guizza non visto tra le scolte nemiche; traversa la Marecchia; passa Montebello; e camminando tutta la giornata del 1º agosto, verso le dieci di sera penetra improvviso a Cesenatico, sulla spiaggia di quel mare che era da dieci giorni la mèta del suo cammino. E ben s’intende che colà non perde tempo. Fatti prigionieri i Carabinieri e i pochi soldati austriaci colà sorpresi, s’impadronisce di tredici bragozzi chiozzotti, vi imbarca durante la notte la sua gente e i prigionieri, e allo scoccar delle sei con vento in poppa veleggia arditamente verso Venezia.[157] La sorpresa, l’affaccendamento, l’affanno degl’Imperiali all’annunzio della sparizione di Garibaldi da San Marino sono indescrivibili. Il generale Hahne di Rimini ne accusa il Governo sanmarinese, che a stento riesce a farsi riconoscere innocente. Il Gorzkowski dirama da Bologna un bando selvaggio, in cui era minacciato di fucilazione immediata chiunque soccorresse quei «masnadieri fuggiti alla galera ed alla corda;» e aggiungevasi tra gli altri contrassegni per iscoprirli, «che v’era con Garibaldi una donna incinta da sei mesi.[158]» I Governatori di Cesenatico e di Rimini mandano rapporti su rapporti in cui vedono il fantasma di Garibaldi dappertutto, ingrossano colla fantasia il numero de’ suoi seguaci, narrano in suono lamentoso i particolari della sua fuga e del suo imbarco; mentre nuove truppe sono in moto da Rimini per riacchiapparlo a Cesenatico (vi arrivarono, ahimè! un’ora troppo tardi), da Ferrara per impedirgli lo sbarco nell’Estuario, da Forlì per vietargli la Romagna; infine da Brondolo una squadra di quattro legni da guerra per affrontarlo in mare, e averlo nelle mani o vivo o morto. In sulle prime al fuggitivo arrise col vento la fortuna; ma verso sera, rinfrescato il vento e ingrossando il mare, il navigare con più battelli da pesca diventava arduo e cimentoso. Pure si va; quando le vedette segnalano all’orizzonte la flottiglia austriaca che s’avanza a vele spiegate e a tutto vapore contro i bragozzi. Ma per Garibaldi il pericolo non ha più sorprese. Rinato a un tratto uomo di mare, ritto sulla poppa del suo barco, concepito con rapidità fulminea il suo piano, comanda ai bragozzi di sparpagliarsi per poco onde confondere sul loro numero e la loro mèta le navi nemiche; e ciò fatto di orzare rapidi, e con tutto il vento correre verso Punta di Maestra, dove le basse acque li avrebbero protetti dall’inseguimento e le batterie di Venezia dal cannone nemico. Ma i Carniglia ed i Griggs non sono più là ad ascoltarlo: egli comanda a timidi pescatori ed a marinai forzati, e alle prime bordate, alla prima minaccia delle scialuppe nemiche che vengono loro incontro a voga arrancata, i bragozzi si sbandano, si scompigliano, vanno in precipitosa rotta. Ripete, urla il comando Garibaldi; prega, bestemmia, maledice: invano; otto barche scontano tosto la paura cadendo prigioniere nelle mani degli inseguenti; e a Garibaldi non resta che buttarsi sulle coste di Magnavacca, dove fu un altro miracolo d’arte e di fortuna se potè afferrare. VIII. Ma la terra non era più sicura del mare: squadre di Gendarmi e di Croati la frugavano per ogni verso, intanto che gli incrociatori austriaci ne battevano le coste; la natura stessa del suolo, vasto padule intersecato da canali, attorniato da boscaglie, frastagliato da canneti, sparso di rari casolari, ne rendeva del pari difficile al forastiero l’entrata e l’uscita, la dimora e la traversata. Importava dunque apparecchiarsi con virtù nuova alla nuova caccia che cominciava, e per prima necessità, poichè i fuggiaschi eran pochi per combattere e troppi per nascondersi, separarsi. Ugo Bassi e il capitano Livraghi presero per una via; Ciceruacchio e i suoi figliuoli per un’altra; i rimanenti si disseminano a caso per altre direzioni, e Garibaldi restò solo con Anita e il capitano Leggiero. Ma ohimè! la povera Anita non era più la robusta Amazzone che per settimane intere poteva correre a cavallo, col figlio al seno, le foreste del Brasile, e caricar a fianco del marito entro il fitto delle schiere nemiche! Di lei viveva ancora lo spirito, ma il corpo era consunto. Gravida di sei mesi, attrita dagli stenti e dagli affanni dell’ultima odissea, assalita fin da San Marino da una febbre insidiosa che lentamente la struggeva, straziata da atroci crampi di stomaco, arsa di sete, priva da giorni d’ogni cibo riconfortante, scalza, lacera, seminuda, la misera donna era all’estremo della sua possa; e se un pensiero la sorreggeva ancora e le dava la forza di dissimulare il suo male, era quello di non cagionare inciampi alla salvezza del marito e di dividere in ogni caso fino all’ultimo il suo destino. E certo il marito l’intendeva e ne soffriva di contraccolpo; ma poichè unico mezzo di salute a entrambi era il lasciare all’istante quella spiaggia scoperta, già presa di mira dal nemico, Garibaldi abbandona alla sua sorte la barca che lo aveva portato senza nemmeno levarne i miseri cenci e i pochi soldi che vi aveva riposti, prende sulle sue braccia Anita, e scortato da Leggiero e guidato da un contadino che il caso gli aveva condotto dinanzi, traverso macchie e canneti, più trepidante per il caro peso che per sè, ma pur da esso traendo la lena a proseguire, arriva finalmente a una deserta capanna, dove la comitiva trova almeno un nascondiglio e Anita, sopra un giaciglio di frasche, un po’ di riposo. Non era però scorsa un’ora dacchè i fuggitivi se ne stavano in quel ricovero, incerti ancora del dove avrebbero nuovamente diretti i loro passi, che Garibaldi vide comparire all’improvviso sull’uscio della capanna un giovanotto in vesti signorili, che lo salutava rispettosamente e gli faceva de’ cenni misteriosi. Garibaldi portentoso ritenitore delle fisionomie, senza sospettare un istante solo d’ingannarsi, nè curarsi dell’incognito che pur gli giovava di conservare, «Bonnet!» esclamò, e si gettò, come naufrago che abbia trovato improvvisamente la sua tavola, tra le sue braccia. E il giovanotto era infatti Giovacchino Bonnet di Comacchio, primogenito di una famiglia di patriotti,[159] e patriotta ardentissimo egli stesso, volontario in Lombardia ed a Bologna, conoscente di Garibaldi fin dal di lui soggiorno a Ravenna, e che avendo dalle finestre d’una sua casa di campagna veduto prima l’approdare dei Garibaldini, poi la caccia degli Austriaci, veniva ora, sfidando rischi non pochi, a cercar Garibaldi in quel suo asilo e ad offrirgli nella terribile distretta il suo soccorso. Pochi istanti dopo infatti il Bonnet conduceva la raminga brigata nella casa, non lontana, d’un suo amico fidato, e Anita dopo tanti giorni potè essere adagiata sopra un letto e ricevere i primi soccorsi che il suo stato aggravatissimo richiedeva. E là, intanto che l’inferma riposava, Garibaldi e il suo salvatore, sdraiati su un carro rovesciato entro un rustico capanno di canne, rinfrescavano le labbra arse con un cocomero, e s’intrattenevano a parlare delle sorti d’Italia, rammentando con pia memoria le gesta di quei bravi, vittime del loro amore di patria e del loro eroismo. Ma anche quel primo ricovero poteva, abitato troppo a lungo, divenire pericoloso, e il Bonnet insistette perchè passassero nella giornata stessa nella casa d’un suo parente, fratello d’un suo cognato, dove avrebbero trovato la stessa sicurezza e le medesime cure, e potevano aspettar più tranquillamente l’esito dei nuovi tentativi che il Bonnet si preparava a fare per provvedere alla loro salvezza futura. L’opera del Bonnet non poteva dirsi perfetta se non quando egli fosse riuscito a condurre i suoi protetti fuori delle valli di Comacchio, dalle quali però, chiunque abbia le buone ragioni di Garibaldi per cansare le strade maestre non può uscire, se non traverso il labirinto dei canali, e avendo perciò dalla sua i molti guardiani che li sorvegliano. Con questo disegno pertanto il Bonnet partì difilato per Comacchio, ed ivi dando ad intendere che si trattasse d’un suo fratello e promettendo lauti compensi, induce alcuni guardiani di sua conoscenza a traghettare il finto suo fratello ed altri suoi compagni dalla villa di suo cognato al posto ch’egli stesso avrebbe loro indicato. Sennonchè tornato il Bonnet in compagnia d’un amico all’asilo de’ suoi profughi, ode e vede tutti i suoi piani minacciati di rovina ed ogni cosa rimessa nuovamente in forse. La padrona della fattoria, indovinato che gli ospiti fino allora ricoverati erano Garibaldi e sua moglie, gridava e smaniava che non voleva più tenerli in casa; l’amico mandato a sorvegliare i guardiani veniva a dirgli, che scoperto l’inganno del supposto fratello e spaventati dalle minaccie delle molte pattuglie che battevano i dintorni, si rifiutavano al promesso tragitto. Fu pel bravo Bonnet un momento angoscioso, e non vide altra speranza che in una disperata audacia. Corre dai guardiani, confessa loro che colui che trattavasi di salvare era realmente Garibaldi, ma li ammonisce che se nol faranno ne va della loro vita; che nessuno degl’Italiani avrebbe lasciato impunito un tanto misfatto, che essi possono guadagnare, se lo aiutano, una bella somma, ma quando si ostinino nel rifiuto egli non rispondeva più di quel che poteva loro accadere. Il discorso fatto da un uomo autorevolissimo fra i Comacchiesi, corroborato da quei due argomenti sempre validi pel cuore umano: la paura e l’avidità, fece istantaneamente l’effetto suo, e i guardiani ripromisero che avrebbero fatto quanto il signor Bonnet richiedeva. Allora questi ritorna al Generale, lo traveste dei suoi abiti, gli dà il passaporto di suo fratello Gaetano morto in Roma;[160] fa trasportare sulla barca Anita, le compone sotto alla persona materassi e guanciali e ve l’adagia, coll’aiuto del marito, come in un letto, e sparsa ad arte la voce che il Generale si fosse imbarcato con una mano d’armati al Po di Volano diretto a Venezia, appena s’è assicurato che tutte le pattuglie nemiche sono incamminate a quella volta, ordina ai guardiani di prendere l’opposta direzione di Ravenna, fissando loro per prima tappa la fattoria del marchese Guiccioli posta alle Mandriole presso Sant’Alberto. IX. Era la notte del 3 agosto, e quando il Bonnet vide in moto la barca fatale partì per Comacchio, onde addormentare colla sua presenza i sospetti della Polizia e prendere egli stesso un po’ di riposo. Ma quale sorpresa! quale colpo di fulmine per lui nel vedere il mattino dopo entrare in camera la sorella tutta conturbata e udirla dire: «I guardiani essersi rifiutati a proseguire il cammino e aver gettato Garibaldi sulla Costa di Paviero.» Balzò dal letto, mandò un suo fidato alla barca sì per guidar Garibaldi, come per mettere al dovere i guardiani, ed egli stesso, quantunque zoppo, salta in biroccino per correre alla fattoria Guiccioli a riconoscere lo stato delle cose. E il pensiero fu ottimo, poichè là potè accertarsi di più fatti: che Garibaldi non era ancor giunto; che la fattoressa in assenza del marito era ben disposta a ricevere gli ospiti annunciati; che infine dovunque si trovassero in quel momento non correva voce che fosse accaduta loro alcuna disgrazia. Rassicurato di nuovo, l’infaticabile uomo parte a carriera per Ravenna, sguscia con arte e felicità somma in mezzo ai perlustratori tedeschi che scontra sul suo cammino: a Ravenna concerta con un suo amico, il maggiore Montanaro, il modo con cui Garibaldi potrà penetrare in città e di là passare in Toscana; e ciò fatto, nel mattino del 5 agosto torna nuovamente alla fattoria Guiccioli, dove ode dal fattore Ravaglia questa lugubre novella: Garibaldi, condotto dai noti guardiani sin presso a Sant’Alberto, aveva potuto procacciarsi, non sapremmo dire con qual mezzo, un biroccino e trasportatovi sopra la moglie agonizzante era giunto con essa alla fattoria. Colà però il dottore Nannini, che per caso vi si trovava, esaminata l’inferma capì che le restavano pochi minuti di vita. Infatti appena adagiata in letto, ella chiese con voce semispenta un po’ d’acqua fresca, ne trangugiò alcuni sorsi e spirò, come di colpo, nelle braccia del marito. «Fu sepolta?» chiese il Bonnet. «Ah no! (rispose il Ravaglia). La povera Anita era appena spirata, che gli Austriaci comparivano in faccia alla casa; onde il Generale ebbe appena il tempo di fuggire, lasciandomi per ultima preghiera che dassi io onorata sepoltura a sua moglie, fino a che potesse tornare egli stesso in ora più propizia a riprendere i sacri resti mortali!» Così morì il 4 agosto 1849 verso le 4 di sera Anita Garibaldi. Della sua agonia e della sua morte fu scritto sino ad ora con poesia, non con verità; ed era naturale che fino al giorno in cui questa fosse interamente scoperta, la fantasia impietosita intessesse di poetiche invenzioni la luttuosa catastrofe, e coltivasse sulla tomba della martire il gentil fiore della leggenda. Persino il romanzo di Garibaldi, che prima di riprendere la sua fuga trangosciata scava colle sue mani la fossa e dà sepoltura alla donna del suo cuore, non è più credibile. Come vedemmo, Garibaldi non potè adempiere a quell’ultimo ufficio, che pur avrebbe sparsa di qualche balsamo la grande piaga del suo cuore; ciò non vieta che lo spettacolo di quell’uomo costretto a staccarsi dalle spoglie della sua donna appena morta, ed a lasciarla insepolta in balía d’estranei, non sia tragedia ancora più pietosa e terribile. Quindici giorni dopo, alcuni contadini videro una mano sbucare da un monte di sabbia: chiamata l’Autorità e scavata la terra, fu trovato il corpo di una donna sfigurata dalla incipiente putredine, colla lingua schizzata fuori dai denti sprangati, la trachea rotta, il collo segnato da un cerchio livido, un feto di sei mesi nelle viscere. X. Era Anita Garibaldi. Ma perchè sepolta a quel modo? Perchè quel cerchio livido intorno al collo? D’onde il deturpamento e il nuovo strazio di quel misero corpo? Il medico delegato dal Governo pontificio all’autopsia del cadavere vide in quei segni altrettante prove di strangolamento,[161] onde la voce che Anita Garibaldi fosse stata strozzata dalle mani stesse che l’avevano sepolta, alimentata con infami artificii dalla polizia pretesca, si diffuse e s’accreditò siffattamente nei popoli delle Romagne, che il povero Ravaglia fu segnato a dito, per molti anni, come l’unico autore del sacrilego assassinio, e poco mancò che il famigerato Passatore, eroe teatrale del masnadierume romagnolo, erettosi esecutore della vendetta popolare, non gli facesse scontare colla vita l’immaginario delitto.[162] Era un errore: se pure non gli va dato un più triste nome; e lo stesso Bonnet si studia, nelle sue _Memorie_, di chiarirne le origini ed i motivi. «Il fattore Ravaglia (egli dice), anzichè tener nascosto il cadavere d’Anita e sparger la voce che non era morta, onde poterla trasportare nella notte in luogo sicuro, spinto dal timore d’essere scoperto, aveva creduto unico spediente di seppellirla come che fosse. Io non approvai il fatto, e studiandomi d’acquietar la sua paura gli dissi, che nella sera bisognava disotterrare il cadavere d’Anita e con un biroccino portarlo nella Pineta, e colà in luogo nascosto e remoto darle sepoltura, che a suo tempo poi sarebbe stata portata in tomba più adatta e conveniente. Lo ammonii inoltre esser quella una funzione da fare soli e senza alcun testimonio; che se non si sentiva capace me lo dicesse francamente, che sarei rimasto io stesso per aiutarlo all’opera pietosa. Il fattore promise, ma, a quanto pare, non potè mantenere; in conseguenza di che essendo la morta malamente sepolta venne trovata, e la Curia appena ne fu consapevole fece fare l’accertamento da distinti professori che errarono nel giudizio e dissero che Anita era stata strangolata per derubarla. Questa voce ben presto si propagò nelle Romagne senza che nessuno pensasse che Anita morta in istato di gravidanza poteva essere stata soffocata da un riflusso di sangue; onde tutti quei segni di strangolamento che trassero in inganno il primo medico visitatore. E si corresse bensì il giudizio, ma assai tardi; e per molto tempo ne restò infamato il nome e minacciata la vita del misero fattore, che aveva, come si vede, esposta a rischio la sua per salvarla.» XI. Tale la fine miseranda di Anita Ribeira Garibaldi. Essa fu una martire dell’amore. Oscura figlia del Continente brasiliano, destinata a nozze pacifiche, ella sarebbe probabilmente vissuta felice senza neppure conoscere che esisteva un’Italia, se un giorno, nel breve tragitto dalla sua casa alla fontana, non si fosse abbattuta in quella maliarda figura d’eroe che l’affascinò coll’inesprimibile sortilegio della sua leonina bellezza, e ghermitala nel suo pugno poderoso la trasportò seco nel fortunoso ciclone della sua vita. Ed ella, come sappiamo, non discusse, non vacillò, non resistette. Come Ernani a Doña Sol, Garibaldi le offerse di Dormir sur l’herbe, boire au torrent, et la nuit Entendre, en allaitant quelque enfant qui s’éveille, Les balles de mousquets siffler à votre oreille, Être errante avec moi, proscrite, et s’il le faut Me suivre............. à l’echafaud! e come Doña Sol a Ernani, ella rispose semplicemente: _Je vous suivrai_. Divenuta in un istante schiava felice di quel bello e terribile Signore, la sua coscienza ammutì e la sua volontà s’infranse. Per esso sostenne di lacerare il cuore del padre e di portarne sul capo per tutta la vita la maledizione; per esso affrontò impavida la tenebra d’un avvenire malfido, pieno di nembi e di procelle; per esso si esiliò volontaria dalla sua contrada nativa e dal suo domestico focolare, e con esso partì. Chiunque si fosse quell’angelico o satanico sconosciuto, ella l’amava; dovunque la portasse, qual si fosse la sorte ch’egli le preparava, ella s’era data a lui, non col sensuale capriccio d’una ganza, ma col voto religioso e perpetuo d’una moglie, e si sentì sua per sempre. Il fato d’amore, D’amor che a nullo amato amar perdona, l’aveva presa nelle sue spire, e come Francesca si lasciò turbinare, beata, nella sua rapina. E non appena ella fu tra le braccia del suo eroe, s’incarnò con esso e, come Giovanna d’Arco, da fanciulla casalinga e romita si trasformò per lui in amazzone ed in eroina. Per non abbandonarlo mai, per trovarsi sempre al suo fianco, qualunque fosse la ventura e il periglio; per esser pronta ad ogni istante a coprirlo col suo petto nelle pugne, a medicarlo colle sue mani nelle ferite, a premiarlo prima del suo amore nelle vittorie, imparò a trattare un moschetto come un cacciatore, a bracciar una vela ed a sfidare un fortunale come un marinaio, a cavalcare nelle marcie, a caricare nelle mischie come un cavaliere, a serenare ne’ bivacchi, a durar nelle vigilie come un veterano, a disprezzar le delicatezze, dissimular le necessità, domar talvolta i tormenti del suo corpo di donna e del suo seno di madre per tornar più utile e più cara all’uomo che adorava. Gravida di Menotti, lo portò nove mesi in seno tra stenti e perigli mortali, lo partorì in una capanna, lo scaldò del suo fiato, lo vestì co’ suoi cenci, lo allattò a cavallo combattendo e marciando, gli diede per cuna i tronchi delle foreste, per giocattoli il fischio delle palle, lo scrosciar de’ torrenti e il bramir delle fiere. Al combattimento navale di Santa Caterina mette ella stessa la miccia al cannone; alla fazione di Santa Vittoria durante la battaglia è la provvidenza de’ feriti, che va a curare sotto il grandinar delle palle; a Coritibani guida ella stessa la scorta delle munizioni. Avvolta da una squadra di cavalli nemici, sdegna d’arrendersi; ma atterrato da una palla il suo cavallo, e tradotta prigioniera davanti al capitano nemico, ne rintuzza colla fiera parola i sarcasmi, come poco prima aveva rintuzzato l’assalto de’ suoi soldati col virile ardimento. Disgiunta però dal marito e sparsasi fra i nemici la voce della morte di lui, l’amore la rende umile e la pietà eloquente, e impetra unica grazia dal vincitore di andare ella stessa sul campo a cercare, vivo o morto, il corpo del perduto consorte. E il vincitore incauto consente; ond’eccola come Argia errare una giornata per la funerea campagna, frugandone tutti i recessi, interrogandone ogni cadavere, tremando ad ogni vaga somiglianza di vesti o di persona, rivolgendo i corpi dei caduti boccone per leggere nei loro volti la sentenza del suo destino. Invano; ma poichè ogni delusione ravvivava in quel caso una speranza, decide di andare a cercare tra i vivi colui che non aveva potuto trovare fra i morti, e colta una notte in cui i suoi custodi giacevano assonnati dal vino, fugge dal campo nemico e ripara nella capanna più vicina, nella speranza d’un momentaneo rifugio e di un soccorso. Era Erminia che andava alla cerca del suo Tancredi, ma col cuore di Clorinda. Se non che appena entrata la prima cosa che le si offre alla vista è un mantello.... il mantello di suo marito. Quale tremenda sorpresa! Quel mantello è egli un testimonio di vita o di morte? Fu egli perduto per caso nel campo o strappato da un predone nemico dal corpo d’un caduto? Cresce a quella scoperta piena di paurosi problemi l’ambascia della fuggitiva e delibera di troncare all’istante ogni indugio; non vuol partire però lasciando in mani straniere la preziosa reliquia, e non avendo con che riscattarla, offre in cambio alla donna che l’ospitava il suo proprio mantello. E poichè l’ospite non aveva che a guadagnare nel baratto, l’accetta prontamente; e Anita senz’altra dimora avvolta in quella cara spoglia, che forse aveva raccolto gli ultimi battiti del suo Garibaldi morente e che la sorte le inviava forse come un augurio e un talismano, si lancia alla ventura nella direzione di Layes, dove sapeva che i Repubblicani s’erano ritirati, e al cader della notte s’inselva nel folto della foresta che lungheggia quella contrada. E là sola, digiuna, senz’armi, senza guida, senza viatico, comincia per essa una terribile prova. «Colui soltanto (scriveva suo marito) che ha veduto le immense foreste che coprono la Serra dell’Espinasso, co’ suoi colossali _taquari_ che sembrano sostenere il cielo e formare le colonne di quel magnifico tempio della natura; può formarsi un concetto della virtù occorsa, delle difficoltà vinte dalla valorosa Brasiliana per arrivare, traverso venti leghe di cammino, tante ne corrono da Coritibani a Layes, al termine del suo pellegrinaggio.» E non era soltanto la natura inanimata che le moveva guerra; ma la viva e l’umana. Poichè gli abitanti stessi avversi alla repubblica nel perseguitare gli sperperati avanzi degl’insorti perseguivano lei pure, onde più d’una volta si trovò avviluppata dalla muta feroce degl’Imperiali, salvata soltanto dal suo meraviglioso ardire e dalla sua fortuna. Vinto un pericolo, ne sorgeva un altro; anzi pareva che l’uno pullulasse dall’altro colla fecondità d’un’idra. Passata la foresta, sorgeva il monte; delusa la furia degli uomini, si scatenava quella degli elementi. E fu allora che gli abitanti di Layes e di Vaccaria ebbero uno strano spettacolo. Per due giorni un fantastico cavaliere, montato sopra un nero cavallo, fu visto saltar al galoppo dirupi, tragittare a nuoto torrenti, traversare a volo come uno spettro di Bürger la tenebra d’una notte tempestosa, comparire, scomparire tra i tuoni e le folgori, or sulla vetta de’ monti, or nel fondo delle valli, lasciando esterrefatti sul suo passaggio abitatori e viandanti, mettendo in fuga col suo sovrumano fantasma gli stessi cavalieri imperiali mandati alla sua caccia.[163] Era Anita, che, procacciatasi, colla facilità consueta a que’ paesi, un generoso cavallo, e sorpresa, ma non atterrita, da un uragano, continuava la sua corsa fortunosa, e già pianta dallo stesso marito, per il medesimo inganno ond’ella aveva pianto lui, riusciva dopo otto giorni di disperata separazione a trovarlo nei dintorni di Layes, ed a cadere beata nelle sue braccia. XII. Da quell’istante fino a Montevideo Anita e Garibaldi non si separarono più, e per quali nuovi patimenti e perigli siano passati assieme durante quella travagliatissima ritirata da Layes all’Uruguay, noi lo sappiamo. A Montevideo però, fosse la volontà del marito, fossero le cure crescenti della maternità,[164] la vita guerriera di Anita ha una tregua, e da eroina la vedete tornar di nuovo ritirata e casalinga. E fu a Montevideo, come vedemmo, che Garibaldi volle consacrare coi riti della Chiesa le sue libere nozze, e che Anita diventò anche per le leggi del mondo, come lo era stato sempre per quelle del suo cuore, sua legittima moglie.[165] Non fu per questo nè più tranquilla, nè più felice. Quel vedere il marito partire per le lontane e perigliose spedizioni, e non poterlo accompagnare; quell’udire dalla sua casetta di Montevideo, quella casetta così povera che non aveva lume, il fragore delle cannonate e il tumulto della battaglia, e non potervi partecipare; quel sapere insomma il suo eroe in balía ad ogni istante alla morte, e non poter essergli al fianco per proteggerlo e soccorrerlo, erano all’innamorata donna, muta, ma inconsolabile doglia. Oltre di che il troppo ardente amore aveva generato il suo serpe: Anita era gelosa. La gelosia nasce generalmente da un sentimento di inferiorità, ed ella povera creola non bella, non colta, quasi selvaggia, si sentiva troppo inferiore a quel suo bellissimo e celebrato amante, per non tremare ad ogni istante di perderlo. Egoista, in questo, al pari di tutti gli innamorati, ella l’avrebbe voluto brutto per essere sola ad ammirarlo, talvolta l’avrebbe persino desiderato oscuro per non aver rivali a glorificarlo. La bellezza che l’innamorava era il suo tormento, la gloria che l’inebbriava il suo martirio. Quel nome del suo Garibaldi su tante labbra femminili, la inquietava; tutte quelle donne che nei ritorni trionfali della Bojada e del Salto s’affollavano sul di lui passaggio, e lo plaudivano e gli sorridevano e lo coprivano di fiori, persino la cura singolare ch’egli aveva della nettezza della sua persona e dell’eleganza della sua acconciatura, la turbava e ingelosiva. Un giorno Garibaldi fu visto comparire tra i suoi Legionari colla barba e i capelli accorciati. — O come va, Colonnello (chiese taluno), che s’è fatto tagliare i suoi stupendi capelli! — Cosa volete, _amigo_,[166] mia moglie è gelosa, e pretende che porto i capelli lunghi per dar nell’occhio alle belle. Però mi ha tanto tormentato per questi benedetti capelli, che io, per la pace di casa, ho finito ad accontentarla. — E quella gelosia l’accompagnerà anche negli anni più maturi e morirà molto probabilmente con lei. Un’altra volta durante la ritirata da Roma, giunta la colonna garibaldina a Montepulciano, uomini e donne fanno a chi più festeggia il famoso condottiero; ma quell’entusiasmo delle Montepulcianesi non va punto a sangue alla nostra creola, e maledice la proterva e lusingatrice bellezza delle Italiane; vede in ogni occhiata e in ogni sorriso un tradimento; punge il marito di querele e di sarcasmi, e non è contenta se non quando squilla il segnale della partenza, e può trascinar seco lontano da quella Capua insidiosa il troppo vagheggiato consorte. XIII. Venne così il 1848; venne il giorno in cui per volontà del marito dovette lasciare il suo Continente nativo, e partir coi figli per quell’Italia che si sforzava ad amare ed ammirare, poichè era la patria del suo eroe; ma nella quale il suo istinto di donna le faceva presagire che avrebbe trovato la più terribile delle rivali, e forse, in un giorno non lontano, la fine del suo bel romanzo d’amore e la tomba. E fu quella la sua sorte. Sbalestrata di repente fra gente e costumanze straniere, separata dal consorte dall’immensità dell’Oceano, torturata da un amore pieno di sospetti e di gelosie, Anita non ebbe più, dal suo arrivo in Italia, una sola ora di pace. Penelope gelosa ella attendeva il suo Ulisse, colla stessa fedeltà dell’antica; ma non colla stessa rassegnazione. E quando finalmente l’ora del ritorno suonò, e quella nave sospirata spuntò sull’orizzonte, e s’accostò e gettò l’áncora ed ella potè alla fine vederlo, abbracciarlo e sbramarsi di lui, oh come fu breve quella gioia comperata a prezzo di tante lagrime e di tante angoscie! Non eran scorsi tre giorni, divisi essi pure tra le cure dell’armi e della politica, che Garibaldi si staccava nuovamente da lei e ripartiva per quegl’infelici campi di Lombardia, dove l’attendeva Morazzone. È ben vero che tre mesi dopo ella lo rivedeva ancora; ma per quanto tempo e in quale stato! Triste, irritato, ramingo, colla grave ferita d’Italia infissa nel petto: _infixum sub pectore vulnus_; risoluto più che mai, finchè gli restava un’arma e gli si apriva un campo, a ricominciare la lotta, venuto a dare un abbraccio fuggevole a sua madre, a sua moglie, a’ suoi bimbi; ma impaziente di ripigliare da capo la sua procellosa ventura. Quella volta però le fu concesso d’accompagnarlo; sicchè dall’ottobre del 1848 al marzo del 1849 la troviamo ancora con lui a Bologna, a Ravenna, a Macerata, a Rieti, fino al giorno in cui il marito, sollecito di risparmiarle i pericoli della campagna imminente e desideroso che tornasse a rivedere i figli, decise di allontanarla e la fece ripartire per Nizza. Ed ecco Garibaldi a Roma, e Anita nuovamente sola. La rincoravano, è vero, la bontà della suocera, le lettere del marito, le novelle divulgate delle sue prodezze e de’ suoi trionfi; ma che importava se egli era là solo, esposto ogni giorno a ignoti pericoli a faccia a faccia colla morte, forse ferito, forse morente, e, pensiero non meno angoscioso, incolume, ma in braccio d’un’altra donna e dimentico di lei! Però la lontananza e l’incertezza cospirano talmente ad accrescere le smanie della solitaria, chè, giunto l’annunzio del terribile 3 giugno, ella non regge più all’affanno e toltosi per guida e cavaliere Felice Orrigoni,[167] un veterano di suo marito venuto d’America con lui, parte per Roma. Era la mattina del 14 giugno: Garibaldi, il quale, sfabbricato il Casino Savorelli, aveva trapiantato il suo quartier generale a Villa Spada, vi stava facendo colazione col Sacchi, il Bueno, il Cucelli ed altri uffiziali, quando a un tratto la porta della sala si spalanca, Garibaldi getta un grido; e si trova un istante dopo tra le braccia d’Anita. Come fosse venuta, come avesse traversato tanto paese nemico deludendo in Toscana le spie austriache, e intorno alle porte di Roma le vedette francesi, e tant’altre interrogazioni e spiegazioni, tutto ciò s’immagina e si tralascia. Quel che non si può facilmente immaginare è la gioia di quelle due anime; ella estatica d’essersi ricongiunta al suo eroe, egli lieto d’aver trovato la sua scudiera ed amazzone di Laguna e di Coritibani, e superbo di mostrarla a’ suoi nuovi compagni d’armi d’Italia come il modello delle spose e delle madri; un’eroina degna di marciare al loro fianco. XIV. Da quell’istante non si separarono più. Le peripezie della ritirata da Roma sono note; e già sappiamo che la intrepida donna se non fu di stimolo ai pigri, di conforto agli abbattuti, d’esempio ai forti, non fu mai di fastidio o d’impedimento ad alcuno. Fame, sete, guerra furono le promesse del Capitano a’ suoi soldati, ed essa le accettò tutte come l’ultimo dei gregari. Quel che dovesse soffrire incinta di sei mesi, sotto quei sollioni di luglio, in quelle notti senza sonno, in quelle marcie senza ristoro, in quegli incessanti allarmi e quei perpetui batticuori, lo pensino le madri; ma non un lamento usciva dalle sue labbra, non un segno tradiva il suo martirio. Beata del suo amore ringiovanito, pareva fatta insensibile a tutte le sofferenze del corpo. Finchè poteva dividerli col suo amante, nè i travagli nè i pericoli, che pure fiaccavano i più gagliardi, le sembravano maggiori delle sue forze. Che se più d’una volta un malore repentino l’aveva avvertita che era donna ed era madre, il primo suo studio era stato quello di nasconderlo persino a sè stessa, affinchè nessuno potesse crederla un inciampo all’impresa dei forti, e il marito soprattutto non avesse mai alcun motivo, nemmeno quello pietoso della sua salute, di fermarla per via e di allontanarla da sè. Pure a San Marino la natura reclamò alla fine i suoi diritti, e la febbretta, che da giorni le covava nel sangue, non le accordò più tregua, e divampò con tutti i caratteri d’una violenta perniciosa. Non le fu più possibile allora l’infingersi; pure quando Garibaldi la consigliò d’arrestarsi in quel luogo ospitale e pronunciò quella odiosa parola di separazione, essa non volle a nessun patto ascoltarla, e simulando ancora una forza che ad ogni istante l’abbandonava, si ostinò a voler proseguire il suo fatale cammino. Era un suicidio; e non è troppo il dire che la soverchia arrendevolezza del marito ne fu complice involontaria. Pochi giorni dopo infatti, della forte Anita non restava più che un corpo agonizzante; e il disperato marito, dopo averla portata sulle sue braccia traverso l’acque e le boscaglie d’una contrada irta di agguati e di pericoli, dovrà credere ancora somma ventura se la pietà coraggiosa di alcuni amici gli porgerà un letto su cui adagiarla, una stilla d’acqua con cui bagnarne le labbra spiranti, risparmiando alla morente l’ultimo oltraggio del destino, di finir come belva traccheggiata, dalla muta feroce, nel canneto d’una maremma. Era pietà che la luttuosa tragedia finisse, e il 4 agosto 1849 Anita Garibaldi non era più. Ella aveva invocato suprema grazia dal marito di non essere separata da lui che morta, e il suo voto fu esaudito. Anita morì come aveva sognato, tra le braccia del suo caro, specchiando fino all’ultimo anelito i suoi occhi moribondi in quel volto tanto adorato; ma chi potrebbe dire ch’ella sia morta felice? Chi può affermare che il pensiero di lasciar solo sulla terra, bandito e cerco a morte, l’uomo dell’anima sua, non abbia funestato i suoi ultimi istanti, e che l’oscura visione del suo eroe, tradotto fra uno stuolo di soldati, moschettato contro una muraglia, appeso ad una corda infame, non sia passata come meteora sanguinosa, nella tenebra della sua agonia, perseguitando fino all’orlo della fossa il suo spirito fuggente? Innanzi a questo pensiero il cuore si stringe e la penna s’arresta. Se la poesia tornerà alle eccelse sorgenti dell’ideale, e questa Bradamante troverà il suo Ariosto, tutta l’intima bellezza di codesta eroina dell’amore sarà conosciuta, e la mesta plejade di Francesca e di Sofronia, di Tecla e di Margherita, avrà una stella di più. Povera fanciulla strappata dal fato all’ombra della sua casa natía, travolta nel turbine d’un arcangelo ribelle, trapassata sulla terra in una vicenda incessante d’affanni e di perigli, consacrata volontaria ad un olocausto perpetuo di fede, di devozione e d’amore, venuta infine a morire in Italia per una causa non sua, un solo dolore, forse, le fu risparmiato, ma il supremo: quello di vedere il suo eroe profanare d’amori senili l’epica bellezza del suo amore giovanile, e il suo idolo sgretolato dagli anni mostrare il torso di creta dell’Adamo volgare. XV. Al punto in cui Garibaldi lasciava la stanza mortuaria d’Anita e dava le spalle alle Mandriole, le _Memorie_ di Gioachino Bonnet si fermano, e a noi non restano delle vicende del fuggitivo, sino al suo arrivo in Toscana, che poche e sommarie notizie.[168] Raccolto, a poca distanza dalle Mandriole, dal Montanari e dal Soldi, fu condotto a Sant’Alberto, dove nell’osteria di Ferdinando Matteucci trovò un primo ricovero. Essendo corsa però la voce dell’avvicinarsi di due battaglioni austriaci, parve maggior sicurezza nasconderlo nella casa del signor Antonio Moreschi, d’onde poco dopo fu fatto passare nel bosco della _Scorticata_, di proprietà dei signori Buffa di Ravenna. Il luogo però non essendo apparso abbastanza sicuro allo stesso Garibaldi, si deliberò di condurlo il giorno medesimo nella Pineta di Ravenna e di là subito dopo alla Valle Guiccioli, detta Marubio. Colà venne a prenderlo in consegna il popolano Giuseppe Savini di Ravenna, che tenutolo per alcuni giorni rimpiattato in un casolare delle Paludi di Ravenna, dette anche Valli di Canna, lo passò ad Antonio Fuzzi, ravennate esso pure, che lo affidò a sua volta a Don Giovanni Verità, onesto e patriottico sacerdote di Modigliana, mercè il quale, traverso il Passo della Futa, sconfinò in Toscana. Da allora, passando sempre da mano amica in mano amica, sgusciando sovente in mezzo alle ronde mandate alla sua caccia, sedendo talvolta nelle osterie alla stessa tavola coi Croati sguinzagliati alle sue peste, udendoli persino pronunciare, tra un sorso e l’altro, il suo nome, e non ostante la sua testa singolare e la sua barba caratteristica, che non volle radersi mai, passando dovunque irriconosciuto, valica protetto fidamente dalla sua stella, che poteva ben dirsi la sua provvidenza, i due versanti dell’Appennino, e verso la fine dell’agosto può dirsi, se non interamente salvo, scampato dai pericoli e dalle distrette maggiori. Giunto però il 25 agosto al Molino di Cerbaja, presso Prato, un assistente di strade lo riconosce e si fa riconoscere suo amico, e da quell’istante tutte le stazioni del suo itinerario tornano a divenire note e precise. Il 26 agosto un fidato dell’assistente lo conduce nascostamente a Poggibonsi, di là un’altra persona lo porta a Pomarance, dove Antonio Martini lo ospita. In appresso, sempre sotto finto nome, Camillo Serafini lo tragitta a San Dalmazio, dove lo raccomanda al Guelfi, il quale a sua volta condottolo prima a Massa Marittima, poi a Follonica, lo commette finalmente alle mani di Paolo Azzarini, marinaio di Rio, ma oriundo genovese, che si offre di portar Garibaldi in terra di salute, e narra egli stesso le vicende del suo viaggio così: «Di buon mattino imbarcai l’eroico generale Garibaldi e il capitan Leggiero, e mi diressi all’Isola dell’Elba. A Capo Castello sbarcai mio padre, e un marinaro di Capoliveri, perchè vi fosse sempre il numero. Il Deputato di sanità mi firmò abusivamente la patente, e la sera feci vela per il Golfo della Spezia. All’indomani a mezzogiorno si era giunti in vista di Livorno, ove si vedevano passeggiare le sentinelle tedesche. Il giorno dopo giunsi felicemente a Porto Venere. Colà sbarcai l’eroico Garibaldi con Leggiero. Garibaldi mi diede per ricompensa un piccolo scritto di sua propria mano, che conservo come la pupilla de’ miei occhi. Esso era così concepito: »_Il padrone Paolo Azzarini, che la fortuna mi fece incontrare in terra italiana, dominata dai Tedeschi, mi ha trasportato su questo luogo di asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente e senza interesse._» Garibaldi era salvo, ma non tranquillo ancora. Fattosi portare da una vettura a Chiavari, appena l’Intendente di questa provincia, conte Di Cossilla, seppe il di lui arrivo, corse a lui, e pregatolo di non dar molestie alla città lo fece tradurre sotto scorta di Carabinieri a Genova, dove arrivò la sera del 7 settembre; e dove il La Marmora, ubbedendo agli ordini del suo Governo, lo tenne «non prigioniero, ma in arresto,» come dirà più tardi il ministro Pinelli, in realtà chiuso e guardato a vista nel Palazzo ducale. La notizia però dell’arresto del favoloso eroe, proprio nel punto in cui dopo tanti travagli toccava il libero suolo di quello Stato, dove egli era cittadino, destò nella parte più liberale del popolo piemontese una viva impressione di scontento, e la Sinistra del Parlamento subalpino se ne fece tostamente l’interprete. Presentata dal deputato Sanguinetti una petizione dei Chiavaresi, colla quale «reclamavano contro l’arresto del generale Garibaldi, suddito sardo,» s’accendeva intorno ad essa una vivacissima discussione. Il Pinelli si trincera malamente dietro una povera ragione di leguleio; il Rattazzi vede nell’arresto di Garibaldi offeso il diritto di cittadino, violata la legge, e una trasgressione patente dello Statuto; il Baralis esclama, tra gli applausi della tribuna: «Il generale Garibaldi non può esser reputato reo che delle sue prodezze;» il Lanza propone quest’ordine del giorno, in cui proclama: «La violenza usata a Garibaldi è un insulto fatto alla Nazione;» e la Camera finalmente vota una mozione del Tecchio, ancora più esplicita ed energica:[169] «La Camera, dichiarando che l’arresto del generale Garibaldi, e la minacciata espulsione di lui dal Piemonte, sono lesioni dei diritti consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e della gloria italiana, passa all’ordine del giorno.» Ma è vecchia arte di tutti i Governi fiacchi, epperò ipocriti, che i decreti de’ Parlamenti, quando non si possono prendere di fronte, si eludono; onde il Pinelli, che aveva egli pure nel sangue il terrore superstizioso del Diavolo rosso, s’accorda segretamente col La Marmora perchè induca Garibaldi a espatriarsi, assegnandogli, se consentisse, una pensione mensile di trecento lire; ponte d’argento a nemico che fugge. E il La Marmora si tolse l’incarico, trattando, è vero, con cavalleresca cortesia l’eroe; ma anch’egli, checchè se ne dica, violando un ordine del Parlamento che aveva due soli giorni di data. Comunque, egli riuscì perfettamente nel suo assunto; e la lettera, con cui ne ragguaglia il Dabormida, è documento interessantissimo che fa onore all’abilità ed alla penetrazione del Generale piemontese; ma che onora anche più la lealtà del Capitano nizzardo. «Garibaldi (scrive il La Marmora,[170] alludendo alla promessa fattagli di tornare entro due giorni da Nizza) Garibaldi ha mantenuto la sua parola, come ne ero certo. Gli feci intendere come il Governo desiderasse il suo allontanamento, non perchè temesse di lui, ma perchè i turbolenti avrebbero col pretesto suo compromesso molte persone e lui stesso: che d’altronde stando in paese era impossibile dargli un impiego, mentre andando egli all’estero poteva il Governo accordargli un sussidio mensile. Piegò egli con garbo a persuadersi alle mie proposte, e fummo facilmente d’accordo che egli se ne andrebbe a Tunisi, e che il Governo gli farebbe una pensione di trecento lire al mese, finchè egli colà rimane.[171] Infatti tutto è preparato e ordinato perchè il vapore, che parte domani per la Sardegna, da Cagliari prosegua fino a Tunisi. »Garibaldi non è uomo comune, la sua fisionomia, comunque rozza, è molto espressiva. Parla poco e bene: ha molta penetrazione; sempre più mi persuado che si è gettato nel partito repubblicano per battersi e perchè i suoi servigi erano stati rifiutati. Nè lo credo ora repubblicano di principio. Fu grande errore il non servirsene. Occorrendo una nuova guerra, è uomo da impiegare. Come abbia riuscito a salvarsi quest’ultima volta, è veramente un miracolo.» XVI. E quel che Garibaldi promise attenne. Il 16 settembre 1849 egli s’imbarcava sul _San Michele_, alla volta di Tunisi, per ricalcare una seconda volta l’amara via dell’esiglio; proscritto con garbo, ma proscritto da quello Stato d’Italia che, a que’ giorni, era l’unico asilo de’ proscritti; sospettato d’essere una cagione d’inquietezza e di molestia a quella patria, alla quale era venuto, traverso l’Oceano, a dare il suo sangue senza chiederle se fosse repubblicana o monarchica, senza levare altra bandiera che quella della sua indipendenza e della sua unità, nè invocare, così dai Re come dai Triumviri, altra grazia che quella di combattere e morire per essa. Ma partendo, quante memorie non lasciava a quella patria; quante belle pagine di valore, quanti nobili esempi di virtù non aveva scritto nel primo volume del suo risorgimento! L’Italia l’aveva ricevuto famoso dal primo esiglio, lo mandava nel secondo glorioso. La sua figura s’era ingrandita, in que’ soli due anni, di molti cubiti; il suo nome noto soltanto, prima del quarantotto, alla classe ristretta degli studiosi ed all’Italia sotterranea dei patriotti e dei cospiratori, era divenuto a un tratto popolare e solenne. I militari, i tecnici discutevano ancora se egli fosse più condottiero o capitano; ma una vasta legione di giovani soldati da lui istruita, e per lui sempre pronta a morire, non conosceva altri generali che lui; lo nominava «il Generale» senz’altro, il generale per antonomasia, l’unico generale vero per essa, come i discepoli di Palestina chiamavano «Maestro» senza più il figliuolo del fabbro nazzareno, che aveva saputo toccare i loro cuori e accendervi la fiamma d’una fede novella. Egli aveva aperta una nuova scuola di guerra; una schiera di valenti ufficiali creati ed educati da lui ne continuava dall’esiglio la tradizione, ne meditava gli insegnamenti, si preparava, quando la tromba suonasse di nuovo, a rinnovarne, su altri campi, gli esempi e la gloria. La leggenda cominciava già a sbocciare intorno alle sue gesta: e la Storia medesima non sapeva scriverne senza chiedere a prestito alla Poesia le sue immagini e i suoi colori. La breve campagna di Lombardia non era parsa che un saggio di ardimento generoso, ma sterile; la campagna di Roma era sembrata un poema, e la sua ritirata un miracolo. E poichè questa ritirata riassume tutta l’epopea garibaldina di quell’anno, e fu, a parer nostro, una delle più maravigliose imprese di lui, e per giunta impresa tutta sua, combattuta e vinta unicamente dalla sua perizia e gagliardía, alla quale si direbbe che le sue milizie non parteciparono che per guastarla; così vogliamo che ella sia giudicata da tale, sul cui giudizio non possa cadere pur l’ombra d’un sospetto di tenerezza per l’eroe nostro, e di parzialità per la causa che difendeva: da Alfredo De Reumont, storico insigne e amante delle glorie italiane, ma Tedesco, clericale, diplomatico, rappresentante della Prussia presso il Granduca di Toscana, prima e dopo la ristaurazione: tutto quello che di più antigaribaldino e antirivoluzionario l’Europa del 1815 abbia generato:[172] «Garibaldi tenne quasi il mezzo tra il Fra Monreale del 400, ed Alfonso Piccolomini di Montemarciano del 600, servendo come quello una effimera Repubblica romana, senza lodarne i capi; e come questi andando inseguíto attraverso l’Umbria, la Toscana, le Romagne, colla sola differenza con tutti e due che, più destro o più fortunato di essi, non venne nè decapitato come l’uno, nè appiccato come l’altro. »In modo veramente maraviglioso l’ultimo pugno dell’armata repubblicana romana andò a finire sul territorio dell’infima Repubblica italiana, mettendo a repentaglio l’esistenza di quel modestamente felice San Marino, che dai tempi del cardinale Alberoni in poi non aveva attraversato simile burrasca. »Il modo con cui Garibaldi giunse fino a San Marino, confina col miracoloso. Sarebbe fargli torto il porlo fra il comune degli uomini. Si può giudicare come si vuole le sue opinioni politiche e persino la sua moralità; ma come condottiero di bande libere ha mostrato un raro talento, e la sua condotta in Roma, tanto prima, quanto durante l’assedio, lo ha fatto conoscere sotto un aspetto più favorevole di quello che si avesse motivo d’aspettarsi. Ha conservato la disciplina nella sua truppa raccogliticcia, in cui v’erano anche avventurieri della peggior specie; ha combattuto da coraggioso soldato, se non sempre come comandante; quando s’accorse che si sagrificavano infruttuosamente vittime umane, e che tutto era inutile, lo dichiarò apertamente ai Triumviri, senza badare ai loro acerbi rimproveri. Alla resa della città, si ritirò quietamente ed ordinatamente coi suoi rimastigli o quei pochi che gli si erano aggregati negli ultimi momenti, senza neppure essere ringraziato da coloro pei quali aveva arrischiato la vita. La risolutezza ed il sangue freddo non si possono negare neppure al nemico.» [Illustrazione: CARTA ITINERARIA della ritirata di Garibaldi da Roma — 1849.] XVII. Ma la pena dell’esiglio richiede, oltre la terra che vi sfratta, un’altra terra che vi raccolga, e a Garibaldi mancò per lungo tempo anche questa. Egli era anche più increscioso alla Francia repubblicana che al Piemonte monarchico; e il Governo di Luigi Napoleone aveva già fatto intendere al Bey di Tunisi, come avrebbe veduto assai di mala voglia che egli desse ricetto al rivoluzionario condottiero, che dal 30 aprile al 15 luglio aveva dato tanta faccenda agli eserciti della grande nazione. Il Bey, pertanto, che amava restare nella grazia del potente vicino d’Algeria, tenne il monito imperiale per comando e vietò che Garibaldi sbarcasse in qualsiasi porto di Barberia, costringendolo a ripartire con un altro bastimento per Malta, o per dove meglio gli piaceva. Malta però non sorrideva al nostro proscritto, e ottenne dalla condiscendenza del capitano d’essere sbarcato all’Isola della Maddalena, la maggiore del gruppo d’isolette che fanno arcipelago nel Golfo di San Bonifacio. E fu ventura. Pietro Susini, sindaco della Maddalena, padre di quel Susini Millelire che Garibaldi aveva lasciato capitano nella Legione di Montevideo, tenne a singolare onore d’accogliere al suo focolare l’uomo favoloso che di là dall’Oceano era stato meglio che capo, amico, secondo padre a suo figlio; e Garibaldi passò nell’isoletta ospitale, nel consorzio di quei poveri e semplici pescatori, i giorni forse più riposati e tranquilli della sua vita procellosa. Viveva di nulla, passava la giornata alla caccia e alla pesca, imparando a memoria tutte le calanche e tutte le macchie delle isole circonvicine; e cominciando probabilmente fin d’allora ad innamorarsi di quella Caprera che preferirà un giorno alle più splendide dimore d’Italia, e renderà celebre quanto il suo nome. Ma era detto che nemmeno nel più oscuro e pacifico angolo d’Italia egli potesse vivere oscuro e pacifico; com’era detto che il ministro Pinelli non potesse godere un istante di sonno, finchè quel terribile orco della rivoluzione errava sui lidi d’Italia. Un giorno infatti del 1850, che è, che non è, si presenta nelle acque della Maddalena il bastimento di guerra _Colombo_ coll’ordine di prender Garibaldi a bordo e di portarselo a Gibilterra. E Garibaldi, ormai rassegnato a tutto, lasciò fare e partì. Pochi giorni prima s’era buttato a nuoto per salvare un canotto sardo che naufragava; e fu quello il solo tributo di riconoscenza che potè pagare a’ suoi ospiti generosi, e insieme la sola azione peccaminosa dopo la ritirata di San Marino e la fuga di Comacchio, ch’egli compì in Italia. Nemmeno Gibilterra però lo voleva. Il Governatore inglese gli permise lo sbarco per alcuni giorni, ma non un soggiorno più lungo; il Console spagnuolo, interpellato se la Spagna l’avrebbe raccolto, rispose seccamente di no; per cui sbandito dall’Italia, perseguitato dalla Francia, cercato a morte dall’Austria, congedato dall’Inghilterra, respinto dalla Spagna, assai probabilmente internato dalla Svizzera, e della Germania e della Russia non si discorre, è manifesto che in tutta la vecchia Europa l’unico ospizio ancora aperto al nostro perseguitato era la mussulmana e barbara Turchia. Fu allora che il Console degli Stati Uniti d’America e seco lui gli ufficiali della sua squadra, indignati della codarda persecuzione onde l’eroe era fatto segno, gli offersero di prenderlo sotto l’egida della loro bandiera e di trasportarlo gratuitamente nel loro paese. Ma Garibaldi non sapeva ancora decidersi e mettere fra sè e la patria, l’Oceano; forse un ultimo filo di speranza lo teneva ancora avvinto all’Italia; e saputo che a Tangeri era console di Sardegna il signor Carpaneti di Genova, suo vecchio conoscente, si risolvette di tentar novellamente la terra d’Africa, e di recarsi da lui. E il Carpaneti l’ebbe caro come un fratello; l’accolse in sua casa, lo protesse della sua autorità; gli avrebbe fatto obliare che quella era terra d’esiglio, se gli esuli potessero obliare. Garibaldi invece come pellegrino che, giunto in luogo di sicurezza e di riposo, rifà colla mente il cammino percorso e ne racconta a sè medesimo le vicende; provò per la prima volta il bisogno di narrare «sè stesso ai posteri» e di scrivere i suoi ricordi. A Tangeri infatti furono incominciate quelle _Memorie_, che fino ad ora il mondo conosce nelle traduzioni di Dumas padre e di Elpis Melena, che fino al 1848 furono a noi storici la scorta più fidata, che un giorno, quando veggano la luce in tutta la loro interezza, saranno forse uno dei più preziosi documenti e dei più curiosi monumenti della nostra storia e della nostra letteratura. Nemmeno a Tangeri però dimorò a lungo. Garibaldi non era pervenuto ancora a quell’età, in cui, divenuto impossibile l’operare, il solo ricordare le cose operate tien luogo d’azione. Garibaldi contava appena quarantadue anni; aveva ancora le braccia sane, teneva un’arte nobile e fruttuosa alle mani, sentiva sempre, come a’ suoi più giovani anni, il virtuoso orgoglio di non dovere che a sè stesso la propria esistenza, e non potendo appagarsi di quell’ozio larvato di scombiccherare quaderni, nè volendo abusare più a lungo della generosità dell’ospite amico, risolvette di lasciar Tangeri e di andar a cercare in altri lidi pane e lavoro. Congedatosi pertanto dal Carpaneti, sull’aprile del 1850 s’imbarca per l’Inghilterra; approda a Liverpool; vi è assalito per la prima volta da quell’artritide che lo accompagnerà fino alla sua morte; ma appena riavuto, parendogli poco propizia a’ suoi progetti di lavoro anco l’Inghilterra, veleggia per gli Stati Uniti e sbarca in quell’anno stesso a New-York. XVIII. E colà il problema del pane quotidiano gli si presenta di nuovo in tutta la sua crudezza. Aveva chiesto, cercato, aspettato più mesi un comando di bastimenti (fosse stato anche in _secondo_ se ne sarebbe accontentato), e il comando non veniva; aveva picchiato a tutte le porte d’amici e conoscenti alla busca d’un mestiere purchessia, ma il mestiere non si trovava; aveva bighellonato per settimane in uno sciopero forzato per tutte le vie di New-York, e si era uggito e vergognato insieme; quando il caso gli fece incontrare un altro Genovese, certo Meucci, proprietario d’una fabbrica di candele, che non potendo offrirgli nulla di meglio, gli offerse un posto nella sua fabbrica. E doveva essere davvero uno spettacolo curioso: il vincitore del 30 aprile contornato di sugna e di stoppini, affaccendarsi da mane a sera a manipolare, ad impaccare e spedire candele ai due mondi, di cui lo dicevano l’eroe: curioso e toccante insieme; chè nulla commove di più della vista d’un uomo già grande, il quale, sdegnando vivere parassita della sua passata grandezza, corregge l’errore dell’avversa fortuna colla dignità del lavoro. Più l’opera sua par bassa, e più la sua figura s’innalza; più le sue mani sono sudicie, più la sua anima brilla di sublime candore. Per ventura sua l’aspra prova non durò più d’un anno, ed alla fine potè tornare novellamente al suo elemento e rivivere alla sua arte. Eletto da una Società italo-americana a comandante di un bastimento che doveva battere gli scali dell’America centrale, in sul finire del 1851 salpa da New-York; arrivato però a Panama, una febbre potente, che lo riduce quasi in fin di vita, lo sforza a rinunciare il bastimento; scampato tuttavia mercè la sua gagliarda tempra da quel nuovo pericolo, incontra nel Porto stesso di Panama quel Carpaneti che l’aveva ospitato a Tangeri, e che allora navigava con un altro bastimento, detto il _San Giorgio_, per Lima; onde raccolto coll’antico affetto dall’amico, s’imbarca con lui, e salpa ben presto per il Pacifico e la capitale del Perù. Ivi però nuova fortuna. Il signor Don Pedro De’ Negri, intraprendente genovese, arricchitosi al Perù, specialmente nelle miniere d’argento del _Cerro_ e di _Pasqua_, simpatizza prontamente col già famoso suo compatriotta e gli offre di fare per conto suo un viaggio alla China con un doppio carico di grani e d’argento. Era la prima volta che s’apriva a Garibaldi la possibilità di varcare il Grand’Oceano. Il bastimento, battezzato _La Carmen_, non era più nuovo, portava appena ottocento tonnellate, e aveva bisogno di molti raddobbi; ma per quel capitano avvezzo alle garapere e alle tartane, poteva parere un _Leviathan_. Fornito il carico all’Isola di Cincia (costa Sud del Perù a trecento miglia dal Callao), tornato in brevi giorni a Lima per compirvi le provviste e l’equipaggio, nei primi di gennaio del 1852 spiegò lietamente le vele per le coste d’Asia, e dopo novantaquattro giorni di navigazione felice getta l’áncora nel Porto di Hong-Kong. Di tutta quella traversata soltanto un sogno parve memorabile a Garibaldi; ma un sogno sì strano e terribile, che soltanto narrato dalla stessa penna di colui che lo ebbe, può parere credibile. «Solo una volta (scrive Garibaldi stesso),[173] io raccapriccio nel rammentarmela, sull’immenso Oceano Pacifico, tra il Continente americano e l’asiatico, colla Carmen, ebbimo una specie di _tifone_, non formidabile come quelli che si sperimentano sulle coste di China, ma abbastanza forte per farci stare parte della giornata, 19 marzo 1852, colle basse gabbie — e dico tifone, perchè il vento fece tutto il giro della bussola, segno caratteristico del tifone, ed il mare si agitò terribilmente come suole in quel grande temporale. »Io ero ammalato di reumatismi, e mi trovavo nel forte della tempesta addormentato nel mio camerino sopra coperta. Nel sonno io ero trasportato nella mia terra natale; ma in luogo di trovarvi quell’aria di Paradiso ch’ero assuefatto di trovare in Nizza, ove tutto mi sorrideva, tutto mi sembrava tetro come un’atmosfera di cimitero; tra una folla di donne ch’io scorgeva in lontananza, in aria dimessa e mesta, mi sembrò di scorgere una bara — e quelle donne, quantunque movessero lentamente, avanzavano però alla mia volta. Io con un fatale presentimento feci uno sforzo per avvicinarmi al convoglio funebre, e non potei movermi, avevo una montagna sullo stomaco. La comitiva però giunse al lato del mio giaciglio, vi depose la bara e dileguossi. »Sudante di fatica, avevo inutilmente cercato di sorreggermi sulle braccia. Ero sotto la terribile influenza d’un incubo — e quando principiai a movermi, a sentire accanto a me la fredda salma d’un cadavere, ed a riconoscere il santo volto di mia Madre, io mi era desto; ma l’impressione di una mano ghiacciata era rimasta sulla mia mano. »Il cupo ruggito della tempesta ed i lamenti della povera _Carmen_ spietatamente sbattuta contro terra, non poterono dileguare interamente i terribili effetti del mio sogno. »In quel giorno ed in quell’ora certamente io ero rimasto privo della mia genitrice, dell’ottima delle madri.» Rammentiamoci infatti che il 19 marzo 1852 la signora Rosa non era più. A Hong-Kong però avendo saputo che il corrispondente commerciale del De Negri, Mr King, era partito per Canton, il Generale stimò opportuno raggiungerlo colà; trovatolo di fatto e ricevuto l’ordine di riportare il carico ad Amoy, salpa a quella volta, vi scarica e vi vende ad ottimi patti, ritorna subito dopo a Hong-Kong, rimonta il fiume omonimo fino a Wampoo, rifà un nuovo carico da trasportare a Lima, e nell’autunno di quell’anno, battendo la stessa rotta, senza avventure notevoli, riapproda colla stessa fortuna nel porto d’onde era partito. Non restò per altro a terra lungo tempo, chè al cominciare del 1853 è rinviato dallo stesso Negri a New-York a prendervi il comando del _Commonwealth_, un tre alberi di mille duecento tonnellate, destinato a caricare carbone in Inghilterra e trasportarlo in Italia. E infatti il nostro Capitano marittimo parte quasi subito per New-Castle e vi fa il carico assegnatogli; appena lesto, spiega la vela; e dopo cinque anni di lontananza, cominciando il 1854, viene a dar fondo nel Porto di Genova, e rivede quell’Italia che era stata su tutti i lidi la stella polare e la mèta suprema del suo cammino.[174] Nè alcuno gli aveva contrastato lo sbarco. Il Governo piemontese era guarito de’ suoi puerili terrori, la sua politica aveva già preso colore più vivo di italianità: il Governo era passato nelle mani del conte di Cavour, e basti. Il Capitano del _Commonwealth_ non fu dunque molestato; ed egli potè liberamente metter piede a Nizza ad abbracciare i suoi tre bambini che non rivedeva da cinque anni; a salutare, almeno nella tomba, la sua povera madre, a cui aveva date sì torbide gioie e sì scarse consolazioni. E in Nizza stette tutto quell’anno 1854, tranquillo e quasi dimenticato, contento d’avviare con un altro bastimentuccio, detto l’_Esploratore_, un po’ di cabotaggio per i mari vicini; arrischiandosi, una volta, fino a Marsiglia, dove pare che la Polizia napoleonica fosse disposta a chiudere un occhio e a lasciare in pace il suo antico perseguitato. Le sue corse più frequenti però erano ancora per la Sardegna, dove già andava mulinando di fissare la sua dimora; e fu appunto in una di esse che sorpreso da un grosso fortunale nelle Bocche di San Bonifacio, e resogli impossibile il continuare la rotta per Porto Torres, si gettò a rifugio sulla costa della Maddalena; e colà dimorando alcuni giorni, gli balenò per la prima volta l’idea di comperare una parte dell’Isola di Caprera. Aveva riscossi alcuni residui de’ suoi stipendi di Montevideo; nei suoi ultimi viaggi marittimi aveva messo da parte qualche peculio; una sommetta aveva raccolta dall’eredità del fratello Felice; onde gli pareva venuto il momento di metter a profitto i suoi modesti capitali, e che nessun impiego fosse migliore di quello.[175] XIX. La Caprera, come è noto, sorge tra il lato orientale della Maddalena, e il capo settentrionale della Sardegna, dalla quale è divisa soltanto dal piccolo golfo d’Arsachena. All’aspetto è un masso granitico oblungo che s’avvalla ad occidente, s’innalza al punto opposto e scende da quella banda a picco sul Mediterraneo. Un monte, detto il Teggiolone, alto non più che trecento metri sul livello del mare, lo corre da nord a sud, e cominciando da Punta Galera, sua estremità settentrionale, va a finire, traverso valloncelli e frane e scoscendimenti, alla così detta Punta Rossa, che forma a mezzodì uno de’ corni del golfo di Arsachena. Misura tre chilometri di larghezza e cinque di lunghezza; la nuda roccia dominante su tutta l’Isola è spalmata a intervalli da sottili strati di terra vegetale, su cui verdeggia a stento fra folte macchie di lentischi e di arbusti qualche oasi erbosa. Il clima vi è, come in tutte le nostre isole, temperato e l’aere salubre; ma scarsissima l’acqua, incessante il giuoco de’ venti e turbinoso il Maestro. Pescose le rive, ma irte di punte, di secche, di scogliere; innumeri perciò le anse, i seni, le calanche, ma di veri porti nessuno; unici punti d’approdo, per barche mezzane il porto dello Stagnarello a settentrione e l’insenata d’Arsachena a mezzodì. Nel 1855 Caprera era divisa tra due soli proprietari: il Demanio sardo, che vi occupava il lato settentrionale e l’aveva già partito in piccoli lotti per metterlo in vendita, ed i signori Collins, inglesi stanziati alla Maddalena, che vi possedevano il meridionale più ad uso di caccia che per speranza d’un frutto qualsiasi. Nel rimanente due famiglie di pastori, di cui si perdevano tra gli anfratti della valle le povere capanne; qualche branco di capre e di pecore erranti tra gli scogli in cerca d’una magra pastura; qualche volo di pernici e di beccaccie migrate dalla vicina Sardegna annidiate tra le macchie; poche coppie di caproni selvatici inerpicati su pei greppi del Teggiolone: ecco i soli esseri viventi del luogo. Nessuna amenità di sito adunque, nessuna feracità di suolo, nessuna varietà di flora e di fauna; ma in cambio il mare profondo, la solitudine immensa, la libertà imperturbata: tutto quanto bastava agli occhi di Garibaldi per trasformare l’orrido scoglio in un orto d’Esperia. Oltre di che l’aveva preso la passione dell’agricoltura, cosa meno strana di quel che appaia, poichè l’amor de’ campi e l’amore del mare sono fratelli e nascono entrambi dal bisogno della vita libera, solitaria, e dal profondo sentimento della natura infinita. Alleandosi pertanto le illusioni dell’agricoltore alla misantropia dell’uomo ed alla fantasia del poeta, Garibaldi decise comperare la maggior parte di que’ lotti vendibili, e di trapiantarvi stabilmente le nomadi tende della sua vita. Ma per far tutto ciò, una prima cosa era necessaria: rendere l’Isola abitabile, costruirvi cioè una casa. E a questo pure Garibaldi aveva pensato; ma a modo suo, quanto dire primitivo e singolare sempre. E punto primo, la casa dovrà essere una riproduzione perfetta di quelle di Montevideo: un semplice quadrato di quattro camere poste su d’un piano solo, coperto da una terrazza bianca e liscia che serva insieme di tetto e di vasca alle acque piovane, che vengono poi raccolte per via d’un canale in un serbatoio interno, ecco la reggia fastosa che Garibaldi edificherà da sè stesso nel suo nuovo regno di Caprera. Quanto poi ai lavoratori, egli e quattro o cinque amici, Basso, Menotti, Gusmaroli, Froscianti, si spartiranno le faccende ed i mestieri, e coll’aiuto e la guida di qualche maestro muratore e falegname basteranno alla bisogna. Di necessità, durante i lavori, si vivrà accampati sotto le tende, alla militare; la caccia e la pesca dei dintorni provvederanno al vitto quotidiano, e al difetto di pratica supplirà l’ingegno, la lena e l’allegria. XX. E fu ancora in quell’anno ch’egli s’era tolta l’impresa della liberazione dei prigionieri di Santo Stefano. Pochi anni or sono il fatto era noto a pochissimi; le _Memorie_ del Settembrini e le _Lettere_ al Panizzi, di recente pubblicate, l’hanno reso notorio. Ventidue condannati politici, tra i quali Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, Gennaro Placco, Filippo Agresti, giacevano da quattro anni nelle carceri di Santo Stefano; rei, come diceva la legge borbonica, «del delitto di maestà;» rei d’amor patrio. Come è natura dei prigionieri, degl’innocenti principalmente, il pensiero della fuga era incessante; quindi i disegni, i conati, i tentativi innumerevoli, arditi, strani talvolta, ma vani fino allora tutti. Sulla fine del 1854 però Antonio Panizzi, non mai dimentico della sua Italia e partecipe, più che non paresse, d’ogni congiura diretta al suo bene, combina col Settembrini a Santo Stefano e con Agostino Bertani a Genova un nuovo e più arduo progetto. I prigionieri penseranno essi a scappare dall’ergastolo forando con ferri, nascostamente introdotti, la vôlta della loro camera, e calandosi di là per i tetti, e le muraglie in una nascosta insenata a oriente dell’isola. Di fuori invece un piroscafo noleggiato da amici, e «comandato da _un uomo unico_,» passerà in una notte senza luna davanti a Santo Stefano, portando per segnale all’albero, o agli alberi, _una fiamma bianca_, o _delle fiamme bianche_, le quali s’abbasseranno per qualche momento, poi giunto vicino all’ergastolo si rialzeranno; il bastimento di giorno s’allontanerà, al tornar della notte s’avvicinerà di nuovo all’isola, ed a mezza notte manderà una lancia o due al seno indicato; colà i prigionieri porteranno una lanterna accesa rivolta alla parte della lancia, questa s’accosterà pronunziando la parola d’ordine: _Panizzi_; i prigionieri risponderanno colla parola: _Settembrini_; e ciò fatto la lancia toccherà terra, imbarcherà i fuggitivi e il piroscafo li rapirà con sè. E questo progetto tenne occupati, speranzosi, angosciati per più d’un anno i poveri cattivi; finchè ai primi di settembre del 1856 fu scritta loro la notizia che il piroscafo destinato alla fuga aveva naufragato sulle coste d’Inghilterra; e il disegno per allora completamente fallito. «L’uomo unico,» di cui parlava il Panizzi nella sua lettera al Settembrini, era Giuseppe Garibaldi; e si converrà che se v’era uomo adatto a rischiare e condurre alla fine quella nobile impresa era lui; se non l’unico, il primo innegabilmente. XXI. Il 6 agosto 1856 Garibaldi era in Genova; e tra lui e Felice Foresti, il compagno di Spielberg di Giorgio Pallavicino, succedeva questo dialogo:[176] _Garibaldi._ — Tieni tu un assiduo carteggio col marchese Pallavicino? _Foresti._ — Ci scriviamo di quando in quando. _G._ — Ma dunque scrivigli, Foresti mio, che io sono importunato e messo continuamente alle strette da molti bravi giovinotti, che pur vorrebbero ch’io mi mettessi alla loro testa per incominciare un ardito movimento nazionale. _F._ — D’onde vengono costoro? _G._ — Dall’Italia centrale e dalla Sicilia; e parecchi appartengono all’Emigrazione italiana qui stanziata. _F._ — Ma cosa rispondi tu alle loro inchieste insistenti? _G._ — Che perseverino nel loro divisamento nobile e patriottico; ma in quanto ad attuarlo è forza che abbiano pazienza ancora un poco. Perchè, a dirti il vero, io reputo che sarebbe mal fatto di mettersi in campagna, o sull’Appennino con bande, prima della vegnente primavera. _F._ — Ma io non comprendo come non si debba poter combattere anche d’inverno. Napoleone ha ripetutamente provato che lo si può fare. _G._ — Io ho anche delle ragioni particolari per indugiare fino alla primavera: oggi non posso dirtele, ma te ne dirò una, e forse la principale. Io veggo che dobbiamo fare tesoro delle forze piemontesi regolari e volontarie: quindi la spinta al movimento, almeno indiretta, dovrebbe venirci dal Governo. Ma io non so.... non capisco. Mi pare che vi sia un’inerzia, un ritegno, un’indifferenza. Infine che cosa fa questo Partito Nazionale? _F._ — Davvero non lo so propriamente: congetturo che s’adoperi per la causa italiana. _G._ — Consenziente il Re? _F._ — Non lo so. _G._ — Ma, santo Dio, dovremmo pur saperlo! io offro il mio braccio, la mia vita all’Italia, e per essa alla Corona sabauda; ma vorrei vedere preparativi, udire assicurazioni d’appoggio, maneggi, movimento, vita. _F._ — Lo desidero anch’io, ma non è che un desiderio. _G._ — Giorgio Pallavicino e gli altri, che più facilmente avvicinano il Re ed i Ministri, si dieno le mani attorno; che mettano insieme de’ mezzi; che non mi lascino così sull’arena. _F._ — Sì, te lo prometto. E ciò, superfluo a dirsi, non perchè nell’animo dell’eroe si fosse intiepidita la fiducia nella rivoluzione e nelle armi popolari; ma per quella ragione già espressa al Foresti: che vedeva ormai la necessità di far tesoro delle forze piemontesi regolari e volontarie, e di attendere dal Governo la spinta. Era in sostanza l’idea che Daniele Manin e Giorgio Pallavicino si studiavano in quei giorni d’incarnare nel nuovo partito nazionale da essi immaginato: sottoporre ogni ragione di parte ed ogni questione di forma all’intento supremo dell’indipendenza e dell’unificazione d’Italia; accettare la Monarchia di Savoia, se essa accettava di fare l’Italia; fidare al Governo di Vittorio Emanuele l’arbitrato e l’imperio dell’impresa nazionale, spingendolo coll’agitazione, secondandolo, se era d’uopo, coll’insurrezione, ma lasciando a lui solo la scelta del modo e dell’istante. Ora nessun documento, a parer nostro, rispecchia più fedelmente le idee e le opinioni del nostro Garibaldi in quell’anno, del dialogo da noi riferito. Era il momento in cui i conati d’insurrezione e i progetti di spedizioni pullulavano da ogni parte. Il Mazzini apparecchiava una delle sue solite scorrerie nell’Appennino apuano; il siciliano Francesco Bentivegna chiamava alla riscossa, con ardimento infelice, l’Isola natía; i patriotti napoletani, capitanati principalmente da Enrico Cosenz, tramavano, colla Legione anglo-italiana, uno sbarco nel Regno,[177] e tutti questi, e quanti altri com’essi covavano progetti di sommossa o di congiure, mettevano capo a Garibaldi; e quali per capitano, quali per iniziatore, quali per ausiliare, tutti facevano assegnamento sulla virtù del suo braccio e sulla magía del suo nome. E Garibaldi non si rifiutava, non poteva rinnegare la propria natura, ma non incoraggiava nemmeno; prometteva di seguire, ma rifuggiva dall’iniziare; suggeriva, stile insolito, cautele e temporeggiamenti, e si teneva sciolto da ogni impegno. E qui si conviene esser giusti. Il programma dell’egemonia piemontese, o come altri lo dice, dell’unità sotto Casa Savoia, non fu un trovato esclusivo e privilegiato di chicchessia; scaturì per virtù propria dalle viscere stesse della nostra storia, si svolse naturalmente da tutte quelle serie di avvenimenti che dal Quarantotto in poi corressero, se non mutarono, l’indirizzo della rivoluzione italiana e ne apparecchiarono il trionfo. La impotenza sempre più manifesta dei partiti puramente rivoluzionari, la sfacciata complicità dei Principati domestici colle signorie straniere, l’uso sapientemente moderato della libertà fatto dal popolo subalpino, la politica schiettamente nazionale del suo Parlamento e del suo Governo, e infine, più possente di tutte, la proverbiale lealtà di Vittorio Emanuele ai patti giurati; queste furono le prime e vere cagioni di quel grande e provvido primato della Monarchia piemontese, d’onde sorse l’Italia. Senza l’accordo provvidenziale di questi tre grandi fatti; senza la condotta antinazionale e liberticida degli altri Principi d’Italia, che spegnesse nelle collere popolari le ultime reliquie delle fazioni municipali; senza il fallimento ripetuto della parte repubblicana, che faceva parer accettabile anche a’ più radicali la Dittatura regia, certo l’assorbimento dei vecchi partiti rivoluzionari in un grande partito nazionale, monarchico ed unitario sarebbe stato assai più lento; e il risorgimento italiano, tra martirii e strazi novelli, differito a un giorno imprevedibile. E certo l’ultimo tratto alla bilancia lo diede la spedizione di Crimea. Invano s’ostinavano a negarlo gl’increduli, a fraintenderlo i ciechi, a schernirlo e ripudiarlo i settarii; l’alto fatto parlava da sè. Quella schiera di prodi che il conte di Cavour spediva col vessillo tricolore in pugno a combattere fra i primi eserciti d’Europa, portava nelle pieghe del suo vessillo, l’Italia; quella modesta, ma onorata vittoria di Traktir, era vittoria italiana; quelle alleanze, o quelle amicizie, onde il grand’uomo di Stato afforzava e muniva il Piemonte, erano forza e scudo d’Italia; quella voce ardita ch’egli faceva suonare ne’ Consigli europei era per l’Italia; tutta, insomma, quella breve, ma gloriosa pagina di storia del piccolo paese a piè dell’Alpi, era storia ormai di tutta Italia; e la nazione in suo segreto non esitava più a commettere le sue sorti a quel Re e a quel Ministro, che l’avevan difesa a viso aperto e fatta rivivere fra le genti civili. XXII. Tutto ciò però ampiamente concesso, importa restituire a ciascuno il suo. Grande il merito del Piemonte, grandissimo quello di Vittorio Emanuele e del Cavour; ma non spregevole, non dimenticabile, quello degli uomini, i quali indovinarono per i primi il segreto della loro politica e ne propagarono l’idea. E tanto più meritevole, in quanto che essi medesimi, cresciuti in una fede diversa della monarchica, dovevano troncare il filo della propria tradizione e rompere in visiera coi partiti, ai quali erano sino a quel giorno appartenuti. Però la difficoltà vera dell’impresa assunta da Daniele Manin e da Giorgio Pallavicino era non tanto di dare una formola ad un concetto per sè definito e palese, quanto di evangelizzarlo fra genti diverse; di farlo accettare insieme dai repubblicani, dai rivoluzionari e dagli autonomisti di tutti i colori, di scomporre i fasci de’ vecchi partiti, e di ricomporre coi loro frammenti il fascio d’un nuovo grande partito nazionale. Ed al compimento di questo disegno potrà essere dubbio se più abbia cooperato il patrocinio onde li fiancheggiava il conte di Cavour, o l’adesione aperta che gli aveva data Giuseppe Garibaldi; ma infine, nella misura delle forze e delle influenze loro, tutti concorsero all’opera, e Garibaldi, pel primo, li secondò, poi li precorse e fin’anco li superò. Di Garibaldi anzi conviene mettere in sodo un punto. Egli accettò il programma «della Dittatura sabauda,» come egli lo chiamava, senza riserva e restrizione di sorta. Avrà avuto in petto egli pure come il Mazzini un giorno, o come il Manin in quell’anno, il suo: «se no, no;» ma non lo espresse mai; e tutto quanto egli concesse, fu con incondizionata fiducia. Diverso in questo dagli stessi componenti il _Comitato dell’Associazione nazionale_, che litigavano se il laborioso programma dovesse dire: «_finchè_, o _purchè_, o _perchè_, la Monarchia di Savoia sarà fedele ai patti promessi;» diverso dallo stesso Giorgio Pallavicino, che non sapendo guarire da’ suoi vecchi sospetti contro il Cavour,[178] ricompariva ad ogni istante a mettere condizioni, a esprimere diffidenze, a richiedere pegni che facevan, senza fallo, testimonianza del suo geloso amor patrio; ma che non erano certo buone prove del suo acume politico. Garibaldi invece è come donna innamorata; una volta che si è dato, s’abbandona interamente. Il 13 agosto visita per la prima volta il conte di Cavour, e il Foresti, che l’accompagnava, così descrive l’incontro: «Il nostro Garibaldi era a Torino il 13 corrente, ed io ve lo accompagnai. Cavour l’accolse con modi cortesi e famigliari ad un tempo, gli fece sperar molto, e l’autorizzò ad insinuare speranza nell’animo altrui. Pare ch’ei pensi seriamente al grande fatto della redenzione politica della nostra Penisola.... Insomma Garibaldi si congedò dal Ministro come da un amico, che promette e incoraggia ad un’impresa vagheggiata.[179]» Più tardi, apertasi dalla stampa governativa la sottoscrizione pei cento cannoni d’Alessandria, e dalla democratica, quella per l’acquisto de’ centomila fucili, Garibaldi sottoscrisse, con patriottica neutralità, per entrambi; scontentando molti de’ suoi vecchi amici, ma più ancora sforzandoli col suo esempio ad imitarlo. Alcune settimane dopo, essendo ai bagni di Voltaggio, e volendo ringraziare gli abitanti che l’avevano accolto con dimostrazioni di simpatia, scriveva loro, tra l’altre, queste significantissime parole: «Sì, giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compire il sublime concetto di Dio, emanato nell’anima dei nostri grandi di tutte le epoche: l’unificazione del gran popolo che diede al mondo gli Archimedi, gli Scipioni, i Filiberti. A voi, guardiani delle Alpi, vien commessa oggi la sacra missione; non vi è un popolo della Penisola che non vi guardi, e che non palpiti alla guerriera vostra tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia. Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l’abituro dei vostri fratelli, ha la paura e la morte nell’anima. »Gli Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al glorioso vessillo che vi regge, ed io giubilante di compiere il mio voto all’Italia, potrò, Dio ne sia benedetto!, darle questo resto di vita. »Dallo Stabilimento idroterapico dei signori Ansaldo e Romanengo. »GIUSEPPE GARIBALDI.[180]» Finalmente quando nel maggio 1857 fu invitato, assieme al Pasi e al Medici, ad aderire pubblicamente al programma dell’Associazione nazionale, egli solo non esitò un istante a dare il suo consenso, e lo espresse al Pallavicino così:[181] «Caprera, 20 maggio 1857. »Pregiatissimo amico, »Io imparai a stimarvi ed amarvi dal nostro Foresti, e dalle vicende dell’onorevole vostra vita. Le idee che voi manifestate sono le mie, e vi fo padrone quindi della mia firma per la dichiarazione vostra. »Vogliate contraccambiare co’ miei affettuosi saluti Manin, Ulloa e La Farina, ch’io vo superbo d’accompagnare in qualunque manifestazione pubblica. »Sono di cuore vostro »GIUSEPPE GARIBALDI.» Però il Pallavicino aveva ragione di chiamare la solenne adesione di Garibaldi «un fatto immenso.» Esso scioglieva in due il vecchio partito repubblicano, non lasciando al Mazzini che il manipolo dei dottrinari; raccoglieva sotto i segni della Monarchia gli erranti delle vecchie fazioni municipali; trascinava sotto le insegne della Dinastia di Savoia tutta la gioventù operosa e militante d’Italia; poneva il suggello al patto d’alleanza tra la rivoluzione e la Monarchia. Certo non era in potere di Garibaldi impedire che questa alleanza si facesse; ma nessuno negherà che fosse in sua mano il ritardarla. S’immagini per un istante Garibaldi avverso alla Monarchia di Savoia, e serrato intorno a lui, come a Capitano e Dittatore, tutto il vario stuolo de’ repubblicani, ingrossato dagli autonomisti e dagli scontenti di tutte le specie, e si dica quel che poteva accadere in Italia dopo Villafranca? Probabilmente una discordia fratricida, ed un’anarchia quarantottesca in metà della Penisola; certo la spedizione di Marsala o fermata dal conte di Cavour, o annientata dal Borbone, o sfruttata dal Mazzini; e in qualsivoglia caso, lo stupendo moto del nostro risorgimento o sviato, o impedito, o funestato. CAPITOLO SETTIMO. DA VARESE ALLA CATTOLICA. [1859.] I. Il grande anno intanto era spuntato. Napoleone III aveva già apostrofato il barone Hübner colle celebri parole: «Duolmi che le nostre relazioni col vostro Governo non siano più così buone come per il passato;» Vittorio Emanuele aveva già pronunciato nel Parlamento subalpino il fatidico motto dei «gridi di dolore,» e nessuno in Europa, non che in Italia, poteva fraintendere il senso di sì eloquenti responsi. Oramai ogni dubbiezza spariva, i frutti dell’alleanza di Crimea venivano a maturanza, e il segreto delle escursioni autunnali di Plombières cominciava a trapelare. Nessun fatto l’attestava chiaramente, ma ognuno nella mente sua ne era certo: il Piemonte e la Francia, meglio dire re Vittorio e l’imperatore Napoleone, avevano patteggiato la cacciata dell’Austriaco dall’Italia; e solo restava a «percorrere quello spazio oscuro (come dice Amleto), pieno d’incertezza e d’ansietà, che corre tra la risoluzione d’un disegno e la sua esecuzione.» Nè l’Italia chiedeva a quali patti quell’alleanza fosse conchiusa. Come nel 1848 non v’era tradimento, per quanto assurdo, a cui gli Italiani non fossero disposti a credere; così nel 1859 non v’era generosità, per quanto sovrannaturale, di cui non fossero pronti a lusingarsi. Per essi il disinteresse della Francia era un dogma, al pari della lealtà di Vittorio Emanuele. Indarno il moltiforme stuolo de’ repubblicani, de’ radicali, de’ diffidenti per indole e dei malcontenti per progetto andava susurrando: pericolosa l’alleanza forestiera, certi i compensi promessi a Napoleone, unica mèta del conte di Cavour un regno dell’Alta Italia, e l’unità rinnegata e la libertà pericolante: tutte queste voci passavano senz’eco traverso l’anima credente della nazione e non la turbavano un istante. Assennata da’ suoi errori, l’Italia del 1859 aveva finalmente compreso: suprema necessità l’acquisto dell’indipendenza; vana, accademica, insolubile ogni altra questione prima che fosse risolta quella a tutte anteriore dell’essere; ogni mezzo valere a siffatto fine; provvida perciò anche l’alleanza forestiera, se le forze nazionali non bastavano all’opera, e tanto più se di quell’alleanza stava garante quel Re galantuomo, che, oltre al non poter tradire, era interessato per il primo a non barattare il suo piccolo, ma sovrano retaggio in una più grande, ma tributaria corona di vassallo. Però il ricordarlo potrà spiacere a taluno, ma la verità è questa sola: l’alleanza francese era nel 1859, e rimase fino alla scoperta dei capitoli di Nizza e Savoia, popolarissima in Italia; e molti tra coloro che oggi rifatti liberi mercè sua la ripudiano e la maledicono, dimenticano d’averla in quell’anno festeggiata e benedetta. Nessun ricordo del grande inganno del 1796; nessun rancore della più recente aggressione del 1849. Così il Francese conquistatore e prepotente del primo Bonaparte, come il Francese cocollato e liberticida del terzo, s’erano interamente ecclissati nella memoria popolare, per far luce al tipo, fantastico in parte esso pure, d’un terzo Francese, cavalleresco, disinteressato, paladino di un’idea, mosso unicamente dall’onesto orgoglio di dare egli il primo strappo ai trattati del 1815, e di vendicare nel nipote i torti fatti allo zio. Erano fratelli che venivano a liberare fratelli; era la nuova rivincita della stirpe latina contro il secolare nemico teutonico; e i calcoli della politica e i sillogismi della ragione non potevano scrollare la bella fede. Quindi quel giubilo, trepido tuttora e segreto, ma universale, al primo annunzio del grande avvenimento; poi quell’entusiasmo aperto, e crescente man mano che la promessa si faceva certezza; finalmente, manifestazione più significativa di tutte, quell’accorrere della più eletta gioventù italiana sotto la bandiera di quel Re, al cenno di quel Ministro, che avevano ordita quell’alleanza e preparata quella guerra, arre certissime della redenzion della patria. II. Fin dallo scorcio di dicembre del 1858 il conte di Cavour faceva chiamare a segreto convegno il general Garibaldi, e questi, lasciata in tutta fretta la Caprera, giungeva a insaputa di tutti a Torino, e strettosi a conferenza col Conte riceveva da lui la confidenza di questo disegno.[182] Una insurrezione era predisposta ne’ Ducati: verso il 1º d’aprile Massa e Carrara darebbero la mossa; due bande di volontari irromperebbero contemporaneamente da Lerici e da Sarzana a spalleggiare la rivolta e Garibaldi stesso le capitanerebbe. Frattanto una compagnia di Bersaglieri, composta de’ più validi e attuosi elementi della Guardia Nazionale di Genova, si doveva organizzare in quella città, e sarebbe il primo nucleo delle forze popolari destinate a fiancheggiar colla rivoluzione l’esercito regolare. Giubilò Garibaldi alla proposta e diede senza ritegno tutto sè stesso; e lieto di portar seco la certezza che ormai la guerra d’Italia fosse imminente, si ridusse di nuovo alla sua Isola, da dove non rifiniva di lodare il gran Ministro, che chiamava «suo amico,» di predicare a tutti i suoi la necessità della Dittatura regia, di patrocinare l’armamento nazionale, e soprattutto di raccomandarsi perchè al primo segnale s’affrettassero a chiamarlo, inviandogli, se occorreva, un apposito piroscafo per levarlo da Caprera. Ma la nuova piega degli avvenimenti e l’accalcarsi crescente dei volontari in Piemonte consigliarono il conte di Cavour, se non ad abbandonare, a porre in seconda linea quel disegno, ed a pensare un mezzo, a parer suo più efficace ed espediente, per trar profitto di Garibaldi e de’ suoi seguaci. Infatti il 2 marzo 1859 (quella volta chiamato dal Re stesso) Garibaldi tornava in Torino, e il suo arrivo improvviso parve a tutti indizio di prossime novità.[185] Di quel dialogo tra il Re Galantuomo e l’eroe popolare, le parole testuali andarono perdute; almeno a noi non fu dato scoprirle; ma il senso ne fu ben presto palese. Tornato a Genova, Garibaldi convocò i suoi più intimi, Medici, Sacchi, Bixio, e nell’usato suo stile diede loro quest’annunzio: Ho veduto Vittorio Emanuele; credo che il giorno di ripigliare le armi per l’Italia non sia lontano; state pronti; io spero di poter fare ancora qualcosa con voi! E le parole furono decisive. Dicemmo come molti de’ più radicali si fossero rifiutati di ascriversi all’_Associazione nazionale_ del Pallavicino, non per avversione all’idea, ma perchè preferivano tenersi sciolti da ogni impegno, pronti sempre a gettarsi nelle fila del primo partito che combattesse. Ora però la condizione da essi posta s’adempiva; e poichè non un partito, ma un governo, un popolo intero si metteva a capo di quell’impresa, per la quale essi medesimi s’eran serbati, ogni ragione di esitanza o di dubbiezza scompariva, ed essi promettevano a Garibaldi tutto il loro concorso, come Garibaldi l’aveva promesso a Vittorio Emanuele ed al Cavour. Ed era quella, tra le molte, una delle più preziose conquiste del conte di Cavour. Che l’Italia fosse con lui, nessun dubbio; ma era mestieri che tutti lo sapessero e lo credessero del pari; che lo credesse e sapesse prima di tutti la vecchia Europa conservatrice, la quale probabilmente non avrebbe tardato a domandargli con qual diritto egli, piemontese, si arrogava di parlare in nome di tutti gli Italiani. Ora la risposta a questa domanda egli voleva averla pronta; e l’aveva già nel fatto. Tutti quei giovani d’ogni classe e condizione, che traverso a rischi e travagli infiniti convenivano da ogni regione della Penisola in Piemonte, impazienti di combattere e di morire sotto le insegne di quel che che s’era fatto campione della causa nazionale, erano l’Italia, e facevano anche agli occhi della più cieca diplomazia tale un plebiscito unitario, che nessun altro più eloquente. Tuttavia v’era un modo per rendere ancora più fruttuoso quel soccorso e più espressivo quel suffragio: ordinare quella valorosa gioventù in corpi speciali, che stessero a fianco dell’esercito come rappresentanti distinti di quell’elemento popolare e di quell’Italia rivoluzionaria, che il conte di Cavour s’era assunto di dimostrare metamorfosata, mercè la sua politica, in una pacifica e ordinata milizia, giurata alla sua impresa, obbediente al suo freno e soggetta al suo comando. Nacquero da questo concetto i _Cacciatori delle Alpi_. L’idea d’un corpo ausiliario dell’esercito, che operando alla partigiana suscitasse o spalleggiasse l’insurrezione delle popolazioni, non fu indubbiamente estranea alla loro istituzione; ma importa assodare che quell’idea non ne fu nè la causa generatrice, nè il fine principale. Certo il merito d’averli istituiti resta sempre; e foss’anche vero che il conte di Cavour se ne sia fatto uno stromento della sua politica, fu uno stromento utile e una politica patriottica, e nessuno ha diritto di biasimarlo. Solo conviene esaminare il fatto in tutti i suoi aspetti, e, nemmeno per ammirazione dovuta ad un grand’uomo, alterarne il senso, o magnificarne la proporzione. Dei Cacciatori delle Alpi doveva essere più l’apparenza che la sostanza; più l’effetto morale che il vantaggio materiale, e più il significato politico che l’importanza militare. Simboleggiare la rivoluzione alleata alla Monarchia, offrire un pegno prudente ai radicali e un trattenimento gradito a Garibaldi, dare una mano, occorrendo, al grand’esercito italo-franco, questo l’ufficio e lo scopo dei Cacciatori delle Alpi: tutto il di più fortuito ed eventuale, come le sorti della guerra. III. Eravamo giunti così ai primi di marzo. Entrambi i contendenti, l’Austria e il Piemonte, reiteravano proteste di pace, ed entrambi gareggiavano in segreto a chi più s’armava e si premuniva. La gran lite era apparentemente commessa all’arbitrato della Diplomazia, in realtà stava tutta nelle mani del Cavour. Guai se in quell’armeggío di proposte oblique, di concessioni ambigue, di transazioni capziose egli avesse sbagliato una sola mossa: l’occasione d’Italia andava per quell’anno certamente perduta. Il soccorso francese era a condizione che l’Austria non fosse assalita per la prima, onde al Cavour quest’arduo giuoco: alimentare co’ fatti lo sdegno del grande nemico, e a parole chetarlo; provocare e aver l’aria di essere provocato; accettare tutte le condizioni pacifiche che le Potenze proponevano, sottomano congiurando perchè all’avversario restasse tutto il torto di rifiutarle; far la parte della vittima rassegnata, confidando che l’Austria si stancherebbe per la prima e gli getterebbe quel guanto di sfida ch’egli era impaziente di raccogliere. E il giuoco gli riuscì; ma per un istante fu tale lo spavento di perderlo, che a guisa di tutti i giuocatori disperati pensò al suicidio. E poichè uno dei più efficaci mezzi di provocazione, la vera banderuola rossa sugli occhi del toro infuriato, era la formazione dei Volontari italiani, essa fu irrevocabilmente decisa, e proprio nei giorni stessi in cui i Gabinetti di Torino e di Parigi accettavano la proposta del Congresso europeo, Garibaldi fu richiamato da Caprera per capitanarli. Ed egli venne, traendosi seco i suoi più fidi commilitoni; e senza pretese, giova rammentarlo, senza riserve, senza condizioni di sorta, proprio come un vecchio ufficiale richiamato in attività di servizio si prese il posto che gli era assegnato, e si pose all’opera. A lui tuttavia non fu lasciata nell’organizzazione grande balía; non lo si credeva molto idoneo a quell’ufficio, si voleva che il corpo ritraesse quanto più fosse possibile dell’ordinamento militare piemontese, e parve conveniente che un Generale dell’esercito sardo ne togliesse l’assunto. Però la scelta cadde su Enrico Cialdini, che appunto tra i Generali di quell’esercito aveva caldeggiata più d’ogni altro quella istituzione de’ Volontari, e per la mente larga e spregiudicata, le origini rivoluzionarie, i vincoli d’amicizia con parecchi tra i più eminenti uomini del partito d’azione, era additato a maneggiare meglio di chicchessia quell’aspra e diversa materia e darle la forma conveniente. Nel primo pensiero i Volontari italiani dovevano chiamarsi, dal fiume che bagna Cuneo, luogo del loro primo deposito, _Cacciatori della Stura_; in appresso, pensando al teatro della loro probabile azione, furono battezzati col fiero nome di _Cacciatori delle Alpi_. Dovevano essere tre reggimenti; ma poichè non contarono mai più di due battaglioni, restarono infatti mezzi reggimenti, forti tutt’al più di mille cento uomini ciascuno. Ordinamento, disciplina, istruzione rigorosamente piemontesi, quindi buone; i quadri scelti dagli avanzi di Venezia, di Roma e del Tirolo, frammisti a pochi ufficiali licenziati dall’esercito sardo, quindi eccellenti. Nello Stato Maggiore il maggiore Carrano, dei difensori di Venezia; il capitano Corte, della Legione anglo-italiana; il capitano Cenni, dei difensori di Roma. Al comando del primo Reggimento, il tenente colonnello Enrico Cosenz, allievo della Scuola d’artiglieria di Napoli, emulo di Rossarol a Malghera; a quello del secondo, il tenente colonnello Giacomo Medici, l’eroe del Vascello; a quello del terzo, il colonnello Arduino, veterano del 21, soldato valoroso in Ispagna, comandante un reggimento della brigata Fanti nel 49. Sotto di loro poi, a capi di battaglione, Sacchi, Marocchetti, Bixio, Quintini; e ufficiali nelle compagnie, Bronzetti, De Cristoforis, Ferrari, Gorini, Alfieri, Susini Millelire, Chiassi, Cairoli, Migliavacca, Cadolini, Landi, Airoldi, Fanti, tutti nomi noti, o che lo diverranno tra poco. Finalmente, disseminato nelle file, un vivaio di studenti, di medici, di avvocati, di poeti, di patrizi, di patriotti; il fiore dell’intelligenza, del cuore, e del valore italiano. Circa alle armi poi, mediocrissime, e circa all’assisa, sgraziatissima. Prendete un bel giovanotto dalle spalle quadre, dalle membra snelle, dal viso intelligente, insaccatelo nel cappottone turchino e nei pantaloni grigi del fantaccino regolare infilati entro le ghette di cuoio; calcategli sull’orecchio un gramo berrettuccio blù colla croce sabauda proprio di fino; cingetegli sulla schiena uno zaino a pelo, e attorno ai fianchi un cinturone nero colla sua brava giberna; girategli a tracolla il sacco a pane, la boraccia e la gamella di munizione; infine buttategli sulle spalle un vecchio fucilaccio a percussione che diverrà ben presto nelle sue mani un catenaccio irriconoscibile, e, per chiudere, se amaste i contrasti, mettetegli negli occhi l’allegria, nel cuore l’entusiasmo, nello stomaco l’appetito, e sulle labbra la perpetua canzone: _Addio, mia bella, addio_; e avrete il Cacciatore delle Alpi. Nel rimanente, punto Artiglieria, punto Genio, punto, fino a campagna inoltrata, Intendenza. S’aggiunga un’ambulanza sceltissima, guidata dal dottor Bertani; una squadra di cinquanta cavalieri decorati del nome di Guide, capitanati da Francesco Simonetti, montati la più parte su cavalli propri; un manipolo di quaranta Carabinieri genovesi, tanto pochi quanto valenti, armati delle loro carabine svizzere, ed ecco rassegnata tutta quanta la così detta brigata dei Cacciatori delle Alpi: una brigata di tremila cinquecento uomini, quando fu completissima, e che, senza cannoni, senza materiali, senza cavalleria, male armata, male equipaggiata, doveva rappresentare la rivoluzione italiana e precedere i grandi eserciti alleati sui fianchi del nemico; o per usar l’espressione del conte di Cavour, «non ostante i difetti di istruzione e di coesione, mercè l’esperienza e l’abilità del suo capo, rendere utili servigi all’esercito, di cui sarà un aggregato.» IV. La fase diplomatica era esaurita; tutte le proposte di mediazione, di congresso, e di disarmo generale, quali frustrate dall’abilità del conte di Cavour, quali rigettate dal superbo disdegno della Corte di Vienna, erano fallite, e l’Austria ormai allo stremo della pazienza, consigliata, per fortuna nostra, più dalla collera che dalla saggezza, decise di rompere colla spada quella maglia insidiosa di trafitture e di ingiurie che il conte di Cavour gli aveva ordito d’intorno, e di appellarsi un’altra volta all’ultima ragione del suo vecchio e certo formidabile esercito. La sera del 23 aprile due Inviati austriaci presentavano al conte di Cavour l’_Ultimatum_ del loro Governo: o disarmo immediato, o guerra inevitabile; e la risposta non poteva essere dubbia. Annunzio di nozze non giunge più gradito a fanciulla innamorata di quello che al Ministro sardo quell’intimazione di guerra. Finalmente quel cartello di sfida tanto provocato, tanto desiderato, egli lo teneva nelle mani; finalmente la guerra era certa, la Francia vi era impegnata, l’Austria l’intimava essa stessa e non poteva sfuggirla. Infatti, prima ancora che il conte di Cavour consegnasse ai messaggeri austriaci la sua risposta, Garibaldi, risposta ancora più espressiva, riceveva l’ordine di portar la sua brigata a Brusasco sulla destra del Po; e val quanto dire in prima linea. E, poichè chi doveva ubbidire era anche più impaziente di chi comandava, i due primi reggimenti de’ Cacciatori (il terzo non era ancora giunto) presa a Savigliano la ferrovia, arrivavano la mattina del 26 a Chivasso e nella giornata stessa a Cavagnola e Brusasco, dove s’accantonavano. V. Fino a quel giorno naturalmente era dubbio quale sarebbe stato il teatro della guerra. Il nemico concentrato sul medio e basso Ticino, da Abbiategrasso a Pavia poteva tanto operare al mezzogiorno, quanto al settentrione della linea del Po; tanto mirare a Torino per le valli della Dora Baltea e della Stura, quanto mirare a Genova per la valle della Scrivia; ed all’esercito piemontese abbandonato ne’ primi giorni a sè stesso e costretto con cinquantamila uomini a fronteggiarne centocinquantamila, non restava miglior partito che tenersi in osservazione lungo tutta quella linea, guardando i passi principali e proteggendo da un colpo di mano la Capitale. E così fece; e fu conseguenza di questo primo appostamento de’ due eserciti avversari che la brigata dei Cacciatori delle Alpi fosse chiamata a Brusasco. Suo mandato era guardare il Po da Brusasco a Gabbiano, difendere la strada militare Casale-Torino, e chiudere gli intervalli vacanti tra la divisione Cialdini che guardava la Dora Baltea, e le batterie di Casale che proteggevano più a mezzogiorno i passi del Po. Però sin dal primo giorno il Comandante in capo l’esercito regio dovette accorgersi che il Comandante dei Cacciatori delle Alpi era uomo che conosceva il suo mestiere, e pure ubbedendo agli ordini ricevuti li sapeva all’uopo saggiamente interpetrare. Infatti avendogli il Ministro della guerra comandato di porre un presidio nel castello di Verrua, il generale Garibaldi avvertì tosto, e giustamente, che se quel presidio aveva per iscopo di guardar la strada militare da Casale a Torino, non lo raggiungeva affatto, perchè Verrua era discosto troppo dalla detta via per poterne sbarrare il passo. Invece esplorando coll’usata sua solerzia il terreno datogli in custodia, aveva osservato che allo stesso ufficio provvedevano assai meglio le alture di Brozzolo; onde inviando la compagnia del Gorini (la prima del secondo Reggimento) a presidiar Verrua, mandò avviso al generale Cialdini, suo capo immediato, ch’egli andava in quel giorno stesso ad occupare Brozzolo e vi piantava il suo Quartier generale. E della risoluzione presa n’ebbe la miglior lode che mai potesse lusingarlo; poichè lo stesso generale Cialdini nell’ora medesima in cui il suo Brigadiere gli annunziava di aver fatta quella mossa, gli spediva, ignorando d’esser stato prevenuto, l’ordine di farla. Però la disparità delle forze era tale che nessuna postura, per quanto felice, avrebbe salvato Torino per lo meno da un assalto, e l’esercito sardo da una percossa più o meno forte, se l’Austriaco avesse agito con maggior prontezza ed energia, e fosse stato governato da un concetto e da un uomo. Tutto ciò invece, per sventura sua e per ventura nostra, gli mancava. Il generale Giulay aveva innanzi a sè due vie: operare per il basso Po, sbucando da Pavia e da Piacenza, e assalita la destra piemontese prima che i soccorsi francesi l’avessero raggiunta, voltarsi a battere questi man mano che arrivavano in linea; o varcare il Ticino tra Magenta e Bereguardo e lasciato un corpo sufficiente a osservare Casale, rompere col rimanente le fragili linee della Baltea e della Stura, e marciare su Torino. Certo fra queste due vie quella che poteva condurre ad un risultato militare sicuro e completo, era la prima; la seconda invece non offriva che il vantaggio politico, importante per fermo, di impadronirsi della Capitale, e s’intende che un mediocre generale, insuperbito dalla momentanea superiorità delle sue forze, potesse vagheggiarlo. Ma in tal caso conveniva saper eseguire; conveniva cioè marciar rapido e manovrare energico; aver passato il Ticino fino dal 27 mattina, minacciare e, meglio ancora, sforzare colla metà dell’esercito i ponti del Po tra Casale e Valenza, prima che gl’Italo-Sardi vi si fossero concentrati d’attorno, e coll’altra metà, per Novara-Vercelli sfondate le fragili linee della Baltea e della Stura, correre sulla Capitale per rovesciarsi poi sull’esercito sardo e metterlo tra due fuochi. Il generale Giulay, all’opposto, aspettò di varcare il Ticino al 29 sera; andò vagando tre giorni tra Mortara e Vercelli in cerca d’un nemico che non c’era; non fece alcun serio tentativo nè sul Po, nè verso la Dora; e lasciando scorrere inutilmente tre giorni preziosissimi per lui, si pose nell’impossibilità di trar profitto così della lontananza de’ Francesi, come della debolezza numerica degl’Italiani, e di vincere con poche difficoltà una prima grossa battaglia. L’esercito sardo invece, appena conobbe le mosse del Generalissimo austriaco, s’appigliò al solo partito saggio e logico che gli restasse; si concentrò tutto sulla destra del Po tra Casale e San Salvatore, fiancheggiandosi con Alessandria, e lasciò che il Generalissimo nemico avanzasse se l’osava. E non l’osò per ventura sua; chè ormai nella giornata del 30 giunte a Torino ed Alessandria le avanguardie francesi, se gli Imperiali si fossero cacciati avanti, pochi di loro, assai probabilmente, avrebbero potuto ripassare il Ticino. VI. Compiuto pertanto questo provvido concentramento, il comando supremo dell’esercito sardo reputò ormai superflua la presenza della brigata Alpi sul Po, e ordinava al generale Garibaldi che levasse pel dì seguente, 1º maggio, il campo, e per Chivasso, Ivrea, Biella spiccasse la marcia verso il Lago Maggiore, campo assegnatogli fin dall’aprire della campagna. E Garibaldi s’apprestava ad ubbidire; quando un secondo ordine del generale Cialdini, scritto nella notte stessa dal 30 aprile al 1º maggio, veniva a revocare il primo, ingiungendogli di trasportare nel giorno stesso la sua brigata a Ponte Stura; mentre egli, il Cialdini, si sarebbe messo in marcia da Chivasso alla volta di Casale. Nè il cambiamento d’ordine era privo di ragione. Gli Austriaci si fortificavano a Vercelli, stormeggiavano intorno alla sinistra del Po, e molti indizi facevano dubitare che essi, abbandonata l’ubbía di correre su Torino, pensassero a sforzare il passaggio del gran fiume tra Casale e Valenza; onde nessuna forza era superflua a frustrarne il tentativo. Ed ecco come la brigata dei Cacciatori delle Alpi sostò ancora diciassette giorni sulle rive del Po, e potè prendere parte non piccola e non infeconda a tutta quella serie d’operazioni che la sinistra dell’esercito sardo, ora per contrastare il passaggio del Po, ora per tentare quello della Sesia, fece dal 1º al 18 maggio tra Casale e Vercelli. E poichè questa parte fu circostanziatamente descritta dal capo dello Stato Maggiore dello stesso Garibaldi, noi vi sorvoleremo, bastandoci di registrarne compendiosamente per sola memoria le azioni principali e le date. Il 4 maggio i Cacciatori delle Alpi stanno a custodia di Ponte Stura; il 5, richiamati da una lettera del Cialdini,[186] marciano sotto un diluvio a Casale. Il 6, ordinata una sortita generale da Casale per riconoscere il nemico, e incettare vena e paglia, Garibaldi ha il comando della sinistra e alla testa di undici compagnie di Cacciatori, di un battaglione del diciassettesimo di linea, di una sezione d’artiglieria, si spinge sino a Bolzola e Rive; l’8 gli Austriaci vengono essi in ricognizione fino alla testa di Ponte di Casale, e i Cacciatori delle Alpi, specialmente la terza compagnia del capitano De Cristoforis gareggia di valore coi Bersaglieri e ributta alla baionetta il nemico. Nel giorno stesso Garibaldi parte per il Quartiere generale principale di San Salvatore, e ne riporta questa lettera autografa del Re, della quale, a dir vero, era più facile e doveroso ammirare le intenzioni che eseguire le prescrizioni: «San Salvatore, 8 maggio 1859. »Il signor generale Garibaldi partirà nella doppia mèta di cercare d’impedire al nemico di marciare sopra Torino, e di recarsi a Biella per Ivrea, onde agire sulla destra austriaca al Lago Maggiore nel modo che meglio crederà. — Io ordino pertanto a tutte le Autorità civili e militari, a tutte le Amministrazioni comunali di prestare ogni sorta di facilitazioni al predetto signor generale Garibaldi, onde egli possa fare sussistere la sua truppa e ripararla dalle intemperie. — Il generale Garibaldi è autorizzato a riunire sotto li suoi ordini tutti i volontari che già siano riuniti a Savigliano, Acqui ed altrove, come ad arruolare volontari ovunque si presenteranno a lui, sempre quando egli creda poterli accettare.[187]» VII. Come ognuno vede, la balía data al generale Garibaldi non poteva essere più ampia; ma i mezzi? Comunque, ubbidiente agli ordini sovrani, il Generale contromarcia immediatamente per Brozzolo, dove giunge la sera del 9; dirige su Gattinara tutte le reclute, i malati e magazzini rimasti a Savigliano; invita il colonnello Boldone, comandante i _Cacciatori degli Appennini_ organizzati ad Acqui, di marciare subito per Chivasso; il che però non ottiene, avendo il Ministro della guerra cassato ad arbitrio suo l’ordine del Re, e vietato a quel reggimento di muoversi fino a che non fosse in tutto punto per uscire alla campagna. Quali le conseguenze di questo contr’ordine, avremo a discorrere tra poco; intanto il nostro Generale, prescritto alla brigata di proseguire per Chivasso, parte al mattino del 10 per Torino, dove il Cavour l’aveva richiamato; ne riparte la sera stessa pel suo campo; ma a Chivasso vi è raggiunto da un nuovo ordine di pugno del Cavour stesso in cui era invitato ad avviare la sua colonna verso San Germano ed a mettersi a disposizione del generale Sonnaz per le operazioni dirette a scacciare i Tedeschi da Vercelli. La lettera poi soggiungeva: «Liberata quella città, potrà proseguire a seconda delle istruzioni ricevute da Sua Maestà.» E naturalmente Garibaldi ubbidisce sollecito; e la brigata portata per la ferrovia da Chivasso a San Germano, vi arrivò nella giornata del 12 e si pose senz’altro agli ordini del vecchio Sonnaz. Il 13 la brigata udì il grato annunzio che avrebbe partecipato in prima linea all’attacco di Vercelli, combinato tra il generale Sonnaz che doveva assalire dalla sinistra, e il generale Cialdini che doveva irrompere dalla destra; e già i nostri Cacciatori erano in posizione, impazienti di combattere, quando un’ordinanza del generale Cialdini venne ad avvisare essere sospeso per quel giorno l’attacco, avendo il nemico preso una posizione di fianco sulla Sesia, pericolosa per l’assalitore. Allora il generale Sonnaz si contentò d’una ricognizione, nella quale stimò degno di lode il contegno de’ Cacciatori, e nel pomeriggio rimandò tutte le truppe ai loro accampamenti intorno a San Germano. E là, battuta giorno e notte da una pioggia sottile e ostinata, sprofondata fino al ginocchio nelle risaie, il capo sotto una doccia, il corpo dentro un bagno perpetuo, la brigata bivaccò ancora quattro giorni, occupata in esplorazioni e in tasteggiamenti; finchè, ormai entrato in linea da Novi ad Alessandria tutto l’esercito francese e dileguato il timore d’un colpo di mano su Torino e sul Po, Garibaldi ricevette l’ordine, e quella volta fu l’ultima, di muovere per Biella alla divisata sua incursione in Lombardia; e infatti nel mattino del 18 potè incominciare la marcia. VIII. Prima di seguirlo però, ci sia lecito un’osservazione. In quei venti giorni Garibaldi non aveva operato nulla di meraviglioso e di straordinario; ma tutto quello che gli era stato comandato l’aveva eseguito esattamente e puntualmente. Certo egli divide questo merito co’ suoi tre principali luogotenenti, il Medici, il Cosenz, l’Arduino, e questi con tutti i Cacciatori delle Alpi, i quali, nuovi quasi tutti alle armi, avvezzi la maggior parte agli agi ed alle delicatezze della vita, sopportarono le fatiche e le privazioni di quello scorcio di campagna colla disciplinatezza, la costanza e la imperturbabilità di veterani. Però nemmeno essi avrebbero potuto in così breve tempo meritar questo giudizio, se il loro Generale non avesse saputo trar partito così delle loro eccellenti qualità, come de’ loro inevitabili difetti. Quel che Garibaldi fece in que’ giorni per istruire, disciplinare, agguerrire i suoi volontari, potrebbe essere materia di non poche pagine. Oggi con un ordine del giorno o una parlata, domani con un esperimento o una manovra in piazza d’armi; il tal giorno addestrandoli ad aspettare il nemico a brucia pelo, il tal altro a battere in ritirata ultimi e ordinati; e dando sempre egli stesso l’esempio dell’attività, dell’ordine e della disciplina, era riuscito ad ottenere in quei pochi giorni di pratico tirocinio più che altri con mesi di caserma e di piazza d’armi. E questo dell’ordinatore: come capitano poi, nessuna delle posizioni da lui prese ebbe bisogno d’esser corretta da’ suoi superiori; talvolta, come a Verrua, corresse egli stesso le sviste altrui; e se il 13 maggio fosse stato ascoltato, assai probabilmente Vercelli sarebbe tornato nel giorno stesso in potere degl’Italiani. Sottoposto per tre settimane al comando di capi diversi, abballottato sovente tra ordini contradittori, li seppe conciliare e ubbidire tutti. Quanti l’accostavano ne sentivano il fáscino. Come le popolazioni, in mezzo alle quali passava, non rifinivano dal magnificare la sua cortesia, la sua affabilità, il suo delicato rispetto alle cose ed alle persone; così i suoi superiori restarono ammirati della sua arrendevolezza, della sua sottomissione e della sua disciplina. Il Cialdini, il De Sonnaz, il Cavour, il Re erano subitamente diventati suoi amici. Infatti avrebbe potuto dolersi di tante cose, e nol fece. Aveva bisogno di un Commissario di guerra, e non gli fu dato che tardi; domandò replicatamente il materiale d’ambulanza, e non potè ottenerlo; chiese due pezzi da montagna, e gli furono negati; pregò per i brevetti de’ suoi ufficiali, e non li ebbe mai; il Re gli concesse i Cacciatori degli Appennini, e il Ministero glieli portò via; era mandato a impresa rischiosissima, e se ne vedeva lesinati con mano avara i mezzi; pure non un lamento dalla sua bocca, non una difficoltà dal suo Quartier generale, mai un segno di dispetto e d’indisciplinatezza. E dicasi pure che la disciplina e la subordinazione sono i doveri elementari d’ogni buon soldato; non è una lode che chiediamo per lui, amiamo soltanto chiarire un fatto e assodarlo. Passato repentinamente dalle più sciolte abitudini della milizia irregolare alle rigide norme della regolare, egli si spogliò di quelle e s’investì di queste senza dar segno di sforzo o di disagio veruno. Il Garibaldi d’America e di Roma s’era nel 1859 totalmente trasformato. Il _gaucho_ era divenuto per amor di patria una _vecchia giberna_; per osservanza al Regolamento s’era persino fatto radere la barba, e se ne eccettui la sella americana buttata sul suo cavallo, e nelle marcie il fazzoletto rosso svolazzante sulle sue spalle, nessuno avrebbe riconosciuto sotto la tunica gallonata del generale piemontese l’antico partigiano di Montevideo. IX. Il 18 sera i Cacciatori delle Alpi entrarono in Biella, e collocati gli avamposti nelle due strade di Vercelli e di Gattinara, attesero alacremente a riordinarsi e rifornirsi dell’occorrente per il più lungo viaggio che dovevano intraprendere. Il Carrano nota che fu quella la prima città in cui Garibaldi fu popolarmente acclamato. «Il Vescovo, che per molti anni aveva fatto il missionario in Oriente e del vivere orientale si chiariva non leggiero gustatore,» volle ospitarlo e mancò poco che il Generale non attraesse il buon Prelato e il Vicario e il Segretario di lui a prendere un moschetto per l’indipendenza d’Italia. Il pensiero però di Garibaldi era di rendere, quanto più lo fosse possibile, leggiera e spedita la brigata, liberandola da tutti gl’impedimenti soverchi, o da quelli che a lui parevano tali. Ordinò quindi (se provvidamente è disputabile) che tutti i Cacciatori deponessero in appositi magazzini il loro zaino, e che a sostituirlo fosse cucita nel cappotto una gran tasca, nella quale i militi avrebbero potuto riporre gli oggetti più necessari. E non appena finita quell’operazione, Garibaldi, raccolti i varii posti sparsi nei dintorni, comandò che per il mezzogiorno del 20 la brigata si mettesse in marcia colla destra in testa per la volta di Gattinara, prima stazione sulla strada del Lago Maggiore e della Lombardia. Quantunque sino dal giorno antecedente gli Austriaci avessero già sgombrato Vercelli e ripassato la Sesia, e tutto il loro sforzo ormai si volgesse alla destra, tenuta dall’esercito francese, tuttavia una marcia di fianco con un grosso nemico a una tappa di distanza non era certamente scevra di pericoli. Occorreva per cansarli diligenza somma, tanto più che la colonna s’era, in quel continuo andirivieni, di molto assottigliata e non aveva cavalleria sufficiente per spazzar il terreno d’attorno e guardarsi il lungo fianco. Tuttavia le guide del Simonetta si centuplicavano, e, lanciate innanzi a grande distanza, frugavano, spiavano, riferivano al Generale tutte le voci, rendevano quasi impossibile la sorpresa. Così la brigata giunse senza guai a Romagnano; vi passò, sopra un ponte di travi fatto preparare dal Simonetta medesimo, la Sesia, e nel declinare del giorno stesso entrò in Borgomanero. Quivi sostò ventiquattr’ore; e il Generale provvide tosto perchè fossero adoperate a ripulire le armi, a risarcire le cartuccie, ad alleggerire i bagagli, dandone l’esempio egli stesso col farsi un leggerissimo fardello di biancheria, che involse in un pezzo di tela cerata. La suprema cura di quel giorno però era preparare l’entrata in Lombardia. Garibaldi non aveva esitato un istante a scegliere per punto di passaggio quel tratto di terreno chiuso tra Arona e Castelletto, dove il Ticino esce dal Lago Maggiore, e fassi fiume giù per le aride brughiere. Più basso sarebbe incappato nella estrema destra del grande esercito austriaco; più alto avrebbe dovuto avventurarsi al tragitto del lago padroneggiato dai piroscafi nemici, per grossa imprevidenza del nostro Ministero della guerra abbandonato alla loro balía. X. Però, come sempre, la difficoltà cominciava dall’esecuzione. Fortuna volle che fra i Cacciatori ci fosse Francesco Simonetta. Pratico de’ luoghi, possessore di case e di poderi così sul Lago che sul Ticino, autorevole e quasi popolare in quelle rive, lungo le quali ad ogni passo contava amici e conoscenti, ardito, accorto, intraprendente, egli era l’uomo di quell’impresa. Però l’unico merito che nel passaggio del Ticino spetti a Garibaldi è d’aver scelto ad apparecchiarlo il Simonetta. Questi pertanto nella giornata stessa del 21, travestitosi da borghese, lascia celatamente Borgomanero, scende fino alla sua casa di Varallo lungo il Ticino, risale il lago fino ad Intra a esplorare il terreno e scandagliare gli animi; ma accertatosi sempre più che il tragitto del lago è impossibile, ritorna a Varallo e chiamatovi a convegno il suo amico di Sesto-Calende, Viganotti, concerta con lui (poichè la difficoltà somma stava nella mancanza di barche, confiscate quasi tutte dagli Austriaci) che per la notte dal 22 al 23 si sarebbero trovati a Castelletto, presso la riva del giardino Visconti, quanti barconi gli fosse dato radunare; e tutto ciò ben prestabilito e concordato, torna a raggiungere Garibaldi a Borgomanero e a ragguagliarlo dell’opera. Garibaldi non perdette un’ora, e tra le due e le tre pomeridiane del 22, sotto pioggia dirotta, ormai compagna inseparabile de’ nostri Cacciatori, s’avviò coll’intera brigata ad Arona. Lungo la via fece spesseggiare le pattuglie e raddoppiare le cautele; presso Oleggio nel timore che il _Radetzky_, vapore austriaco, potesse dal lago scoprir la colonna marciante, la fece arrestare fino al calar della sera, e quando le prime tenebre cominciavano a scendere ripigliò la discesa verso Arona. Nessuna marcia, fin allora, era mai stata sì celere e ordinata. Il pensiero che tra poche ore avrebbero calcato il suolo di Lombardia, che per molti di loro era lo stesso suolo natío, dava le ali ai Cacciatori e trasfondeva nel sangue dei più fiacchi una lena novella. La canzone prediletta dei coscritti: Addio, mia bella, addio, L’armata se ne va; echeggiava con squilli insoliti d’allegria e di passione da un capo all’altro della colonna, e l’ultima strofa: Andremo in Lombardia Incontro all’oppressor, pareva uscir dalle gole tra mezzo a compressi singhiozzi di gioia! Pure man mano che la colonna s’avvicinava al lago i canti volontariamente smorivano, la gioia, come risospinta dalla paura di tradirsi, rientrava ne’ cuori, i piedi parevano fatti di feltro, e ognuno si studiava di smorzare il passo quasi gli Austriaci fossero appiattati ne’ dintorni e dovessero sentirli. Dal canto suo il Generale non aveva tralasciato di usare il vecchio, ma sempre efficace strattagemma. Molte ore prima l’infaticabile Simonetta era partito per Arona coll’ordine di requisirvi, tanto colà che a Meina, viveri e alloggi e foraggi per tremilacinquecento Cacciatori e cencinquanta cavalli; e poco dopo Garibaldi stesso smontava alla stazione d’Arona come uomo che si prepari ad entrarvi. Così tutto poteva far credere che i Cacciatori avrebbero pernottato ad Arona; e però che lo scopo loro fosse di sconfinare per il lago. A notte calata invece la brigata ripiglia la marcia; giunta alle prime case d’Arona, fa un rapido mezzo giro a destra e infila, sempre più serrata e silenziosa, la strada di Castelletto; ma intanto che il primo e il terzo Reggimento, comandati dal Cosenz, sostano fuori del paese a guardia de’ fianchi e delle spalle, il secondo si trafora nelle tenebre, come un gran serpe nero, nel parco Visconti, e trovati alla riva i barconi del bravo Viganotti, compagnia per compagnia, in profondo silenzio e in ordine mirabile, vi s’imbarca, afferra l’opposta riva, l’occupa militarmente; mentre la terza compagnia del De Cristoforis, scelta d’avanguardia, si spinge franca dentro Sesto-Calende, immersa nel sonno e impreparata alla sorpresa, e coglie nel loro letto Commissario, Intendente, doganieri, gendarmi, croati, tutta la tedescheria imperiale e regia colà annidata. XI. La mattina del 23 maggio la situazione degli eserciti belligeranti era questa: gli alleati ancora di là dalla Sesia e dal Po, tra Vercelli e Voghera; gli Austriaci in faccia a loro, padroni tuttavia delle due rive della Sesia e del Ticino, e può ben aggiungersi, come vedemmo, di tutto il Lago Maggiore, che gl’Italiani per inconsulta noncuranza avevano loro abbandonato. In questo stato di cose Garibaldi poteva dirsi come campato in aria, e i suoi Cacciatori considerarsi come una scorribanda perduta nel cuore del campo nemico. Divelto da ogni base d’operazione, tronca, in caso di rovescio, ogni via di ritirata, tolta ogni speranza di aiuto, al nostro Condottiero si parava dinanzi il dilemma: o vincere subito e ad ogni costo, o andar disperso pe’ monti per rifugiarsi quando che sia in Isvizzera. E a ragion militare veduta, ognuno converrà che de’ due eventi il men probabile non era certo il secondo. L’Austria signoreggiava sempre la Lombardia con circa dodicimila uomini; poteva ricevere e riceveva di fatto soccorsi dal centro dell’Impero; occupava con un forte presidio Milano; allacciava i suoi distaccamenti e sorvegliava le sue comunicazioni con frequenti colonne mobili che potevano all’uopo correre sui punti minacciati, e opporre al Condottiero italiano una forza sempre maggiore della sua. A lui invece unici ausiliari la perizia e l’audacia; unico punto d’appoggio la speranza d’una rivoluzione incerta tuttora e problematica, e sulla quale tanto egli quanto il Cavour facevano un assegnamento sproporzionato alla probabilità. Pure se anco fosse stato dell’indole sua l’indietreggiare, non era più in suo potere. Fermato pertanto rapidamente il suo disegno, scartata, senza nemmeno discuterla, l’idea di marciare per la pianura su Milano, fisso l’occhio sull’antico suo scacchiere del 1848 tra il Verbano e il Lario e mirando al centro di essi, delibera nel giorno stesso la marcia su Varese. XII. Intanto però la nuova del suo sbarco era volata; egli stesso, con un fiero proclama, scritto di sua mano, ma diresti inciso colla sua spada, l’aveva annunziato,[188] e non v’era umile terra de’ dintorni che vi restasse insensibile. Da Laveno, Gallarate, Besozzo, Ispra, Varese, quali spontanei, quali inviati da’ lor Comuni e da’ lor Comitati patriottici, accorrevano festanti, imbandierati, tricolorati, i più fervidi patriotti de’ luoghi, impazienti di accertarsi del fatto, di mirar da vicino il famoso, di invocare una parola d’ordine, di offrirgli l’opera loro per la lotta imminente. E a tutti l’eroe, con quella voce, que’ gesti, quei sorrisi che direste un’arte sopraffina, se non fossero natura, distribuiva parole d’incitamento e di conforto. All’Inviato di Varese principalmente, che a nome del suo generoso Podestà gli chiedeva istruzioni pel contegno da tenersi,[189] rispondeva di suo pugno: «Qualunque cosa facciate contro il nemico comune in pro della santa causa italiana, sarà da me approvata e vi sosterrò validamente.» Parole che nella loro apparente indeterminatezza servivano, per quell’ora, meglio di qualsivoglia istruzione, e denotavano come a quell’uomo fosse famigliare la legge delle rivoluzioni, le quali per riuscire non vogliono mai essere intimate a un’ora fissa e dietro un disegno prestabilito, ma lasciate alla loro spontaneità, ai loro impeti, alle loro forze, e come direste della poesia, alla loro ispirazione. E ciò fatto, s’apparecchiò alla partenza. La marcia da Sesto-Calende a Varese non poteva essere attraversata di fronte; bensì essere pericolosamente molestata alla coda ed al fianco o dal presidio di Laveno, se pensava ad una sortita, o da quel qualsiasi corpo che fosse già avviato da Milano su Gallarate e che poteva da un istante all’altro comparire. Oltre di che, prima di inoltrarsi nel paese importava afferrare sul Lago Maggiore un punto di sostegno qual si fosse, e impadronirsi di uno almeno de’ tre piroscafi che il nemico vi teneva. Guidato pertanto da questi varii concetti, il Generale ordinò il suo movimento così: il Bixio con un battaglione del terzo Reggimento marci per la strada lacuale di Sesto-Calende; toccato Angera, stacchi una compagnia che tenti predarvi il _Ticino_, ivi ancorato: giunto ad Ispra, sosti e si informi esattamente del presidio di Laveno e di tutte le altre forze austriache del lago; ciò fatto, converga su Brebbia e si spinga fino a Sant’Andrea, borgo che cavalca la via Laveno-Varese, e vi s’accampi gagliardamente. A Sesto poi resti la compagnia del capitano De Cristoforis; coll’istruzione di sorvegliare il passo del Ticino, d’acchiappare, se gli si porgesse il destro, qualcuno dei vapori nemici, e soprattutto di guardare la strada Sesto-Gallarate, attirandovi e trattenendovi il nemico; ma battendo in ritirata su Varese, se assalito da forze superiori. Con queste cautele e questi accorgimenti, di cui ogni occhio appena militare scorgerà la saviezza,[190] Garibaldi conseguiva, o almeno vi mirava, tutti i molteplici scopi ai quali gli conveniva tener fissa la mira: guardarsi alle spalle e ai fianchi, sviare il nemico da’ suoi passi, e forse, se il colpo sul _Ticino_ riusciva, aprirsi il transito del Lago Maggiore e principiare a possedere una flottiglia. Tutto ciò esattamente prestabilito, spinta un’altra pattuglia a Gallarate, così per esplorare il terreno, come per mascherare una volta di più la sua mossa; verso le 5 di sera stacca la marcia, e per le vie traverse di Corgegno, Varano, Bodio, Capolago, camminando entro una tenebra fitta, egli attento a tutti i bivii e sollecito a tutti i rumori, la truppa stanca, ma elettrizzata dal contatto di quella terra tanto agognata, s’accosta a Varese, dove in sul far delle 11, incontrato da musiche e da fiaccole, accolto da una calca di popolo in delirio, entra in trionfo. Chi vide Varese in quella notte non lo dimenticherà più. Di tutte le terre di quell’angolo di Lombardia, Varese fu, in ogni tempo, delle più patriottiche, e il pensiero d’essere la prima nel 1859 a sventolar nuovamente quella bandiera, che era stata l’ultima a ripiegare nel 1848, infiammava la sua fede e il suo entusiasmo. Già vedemmo come i Varesini fossero dei primi a muovere incontro allo sbarcato di Sesto-Calende; ma ora, udito il suo fiero appello, rompono gl’indugi, abbattono gli stemmi stranieri, sostengono i gendarmi e i magistrati sospetti, diseppelliscono dai nascondigli i vecchi tricolori, gridano il governo liberatore di Vittorio Emanuele, s’apprestano a dare al suo Capitano non solo feste ed omaggi, ma braccia e soldati. E non bastò. Sentito in sulla sera del 23 che una colonna austriaca mossa da Como era pervenuta ad Olgiate, e dubitando d’una sorpresa notturna, Varese non si smarrisce, non nasconde, giusta il costume degli eroi ormai famigerati della sesta giornata, le bandiere e le coccarde; ma arma tutti i pochi giovani che le restano in paese colle armi già acquistate nella vicina Svizzera, asserraglia le sue vie, dirama pattuglie ed avamposti e s’appresta a resistere al nemico, onde arrestarne, almeno per quella notte, la marcia. Così Garibaldi entrava in città totalmente italiana e deliberatamente sollevata. XIII. Avviatosi difilato al Municipio, come uomo che sa a memoria la strada, vi incontra e vi abbraccia il Podestà; loda, infiamma, affascina come al solito quanti l’ascoltano, e prima di ritirarsi pronuncia queste testuali parole ch’egli invecchiando dimenticò, come tante altre, ma che la storia non può dimenticare: «Qualunque bene diciate di Vittorio Emanuele, non sarà mai troppo. Voi sapete che _io non sono realista_: ma dopo che avvicinai Vittorio Emanuele, dovetti riconoscerlo per un gran galantuomo. Egli non solo ha per l’Italia un amore immenso, ma un culto, un’idolatria.[191]» Ma quello che più importava era provvedere alla difesa. L’Austriaco, scossa la prima sorpresa, serrava da ogni banda. Non appena conosciuta l’invasione garibaldina, il generale Giulay dal suo quartiere di Garlasco bandiva, quasi risposta a quello del generale Garibaldi, un suo proclama feroce, nel quale, dopo aver annunziato prossimo l’arrivo di imponenti soccorsi dagli Stati ereditarii del suo Sovrano, soggiungeva, con accento meritevole di troppa fede: «Do la mia parola che i luoghi, i quali facessero causa comune colla rivoluzione, impedissero il passaggio ai rinforzi della mia armata, distruggessero le comunicazioni, i ponti, ec., verrebbero puniti col fuoco e colla spada. Emetto in questo senso le opportune istruzioni ai miei sottocomandanti. Spero che non mi si obbligherà a ricorrere a tali mezzi estremi, e che alle conseguenze della guerra, senz’altro disastrose per il paese, non si vorranno aggiungere anche i terrori della guerra civile.[192]» Nè eran parole soltanto. Il giorno stesso si spiccava dal grand’esercito una colonna che a marcia forzata accorreva sul nuovo teatro di guerra; mentre da Milano il Governatore, generale Melezes di Kellermes, spediva su Gallarate e Somma un altro corpo di circa quattrocento fanti, due pezzi e uno squadrone; e fu quello per l’appunto che il 25 mattina andò ad attaccare in Sesto-Calende il capitano De Cristoforis, e che questi, con strattagemmi degni d’una pagina di Vegezio, seppe illudere e deludere così bene, da tenerlo in iscacco per più d’un’ora con forze quattro volte inferiori, e sgusciargli di sotto gli occhi a mezzo tiro di moschetto, lasciandolo solo a cannoneggiare le povere case di Sesto, dove fin dal mattino non c’era più l’ombra di un garibaldino. Ma se la colonna di Gallarate non si chiarì molto temibile, non si sapeva ancora che pensare di quella che era venuta a formarsi, frammista di varii corpi, attorno al nucleo della colonna partita da Oleggio, e di cui i Varesini avevan visto spuntar ad Olgiate l’antiguardo sino dalla sera del 23. Si componeva di circa quattromila[193] uomini con due mezze batterie e due squadroni; la comandava quel tenente maresciallo Urban, croato d’origine, salito in voce di esperto partigiano nella campagna di Transilvania del 1849; in Italia famigerato soltanto come luogotenente di Haynau e assassino dell’innocente famiglia Cignoli di Casteggio. XIV. Varese giace come in una conca di colline, quali popolate da splendide ville e da ameni giardini, quali vestite ancora di macchie e di boscaglie, che formano al tempo stesso la sua delizia e il suo baluardo. E tramezzo a siffatte colline nella direzione dei quattro punti cardinali corrono cinque strade principali: a oriente quella che dalle falde di Biumo conduce, per Malnate, a Olgiate e Como; a mezzodì quella che, lambendo le pendici di San Pedrino e di Giubiano, va per Gallarate e Tradate a Milano; a occidente quella che traverso i poggi di Masnago e Comerio mena per Gavirate a Laveno; a settentrione, infine, le due strade di Induno e di Sant’Ambrogio, che spaccando le prealpi di Valcuvia e di Valgana portano al Lago Maggiore ed alla Svizzera. Se non che a chi riconsideri questa topografia, due cose sono notabili: la prima, che la strada di Induno o di Valgana si allaccia, presso Biumo Inferiore, alla strada di Como, in guisa da formar con essa un angolo retto; la seconda, che il poggio di Biumo Superiore s’incunea a dir così nel quadrivio testè descritto, Varese-Sant’Ambrogio-Induno-Como, e colla forte postura ne tiene la chiave e lo domina. Ciò posto, e per quanto fosse manifesto che l’attacco principale sarebbe venuto dalla via di Como, non era da trascurarsi il supposto, assai probabile, che l’Urban l’avrebbe compíto con un movimento aggirante per la via di Induno; nè molto meno a rigettare come improbabile il caso che i corpi lasciati a Gallarate dal De Cristoforis e il presidio di Laveno si movessero a rincalzare di costa e alle spalle l’assalto principale, tentando di mettere i Garibaldini fra tre fuochi. Importava dunque guardarsi da tutti i lati, e guardarsi in modo da poter all’evenienza far fronte da ogni parte, senza assottigliare di troppo la propria linea e disseminare le forze. Si sottintende che Garibaldi non titubò. Immaginate due linee di difesa, una esterna lungo l’arco Biumo-Giubiano-San Pedrino, e l’altra interna rasente gli sbocchi delle principali vie di Varese, occupa coi Carabinieri genovesi e un battaglione del terzo Reggimento la Villa Ponti, centro di Biumo Superiore, e vi pianta il suo Quartier generale; mette a guardia di Biumo Inferiore un battaglione del secondo Reggimento, ed erigendo due barricate (una appoggiata alla Villa Litta Modignani a custodia della strada d’Induno, l’altra tra la chiesetta di San Cristoforo e la casa Merini a sbarrare la via di Como) assicura con queste disposizioni la sua sinistra. Indi apposta un battaglione del primo mezzo Reggimento in faccia a Giubiano, e intorno alle alture circostanti di Boscaccio e vi appoggia il suo centro; colloca tra la Villa Pero e la Villa Decristoforis a San Pedrino il rimanente del primo Reggimento sotto il comando del Cosenz, e fatta asserragliare anche quella strada afforza la sua destra dal lato di Milano; richiama il Bixio da Sant’Andrea, giustamente pensando che il nemico meno temibile stava da quella banda, ma non tralascia di far battere da frequenti pattuglie a grande distanza la strada di Laveno; munisce di barricate coll’opera de’ cittadini tutti gli sbocchi di Varese e provvede così alla seconda linea; infine, prescritte come eventuali linee di ritirata le strade di Induno e Sant’Ambrogio, tutto visitato co’ suoi occhi, a tutti comunicando la sua intrepidezza e la sua fede, attende di piè fermo il nemico. XV. Ed egli non si fece aspettare lungamente. Già fin dalla sera del 25 gli esploratori l’avevano segnalato a Olgiate; un breviloquente manifesto del Commissario regio Emilio Visconti Venosta: «Varesini, voi foste i primi a salutare la bandiera tricolore in Lombardia, voi sarete i primi a difenderla,» n’aveva propagata la certezza. I Varesini erano pronti, i Cacciatori impazienti; e al mattino seguente, sullo scoccar delle otto, il nemico apparve innanzi a Belforte e il combattimento cominciò. Del fatto d’arme di Varese (sarebbe ridevole iperbole chiamarlo _battaglia_) discorse lungamente il capo di Stato Maggiore dello stesso generale Garibaldi;[194] e noi, più desiderosi di raccoglierne gli insegnamenti che vaghi di pennelleggiarne gli aneddoti, ne ridiremo succintamente. Dei quattromila uomini circa che il generale Urban traeva seco, una parte, forse un battaglione, l’aveva lasciata in riserva a San Salvatore, forte posizione tra Binago e Malnate; un altro battaglione di Granatieri comandati dal tenente colonnello Bioll l’avea inviato per Casanuova e Cazzone ad eseguire quel movimento aggirante sulla strada d’Induno che il generale Garibaldi aveva preveduto; e cogli altri, duemilacinquecento fanti circa, la cavalleria e quattro pezzi veniva ad assalire direttamente Varese. Facilmente impadronitosi del poggetto di Belforte, annunziò con alcuni razzi il suo attacco; e mosse simultaneamente contro la sinistra e contro il centro garibaldino. Ma nessuno balenò; i Cacciatori attesero, come Garibaldi aveva prescritto, a mezzo tiro de’ loro grami moschetti l’assalitore e con pochi colpi bene assestati l’arrestarono di botto. Tornò egli tuttavia colla medesima tattica ad un secondo e più gagliardo assalto; due movimenti risoluti e aggiustati, comandati a tempo dai colonnelli Medici e Cosenz, lo frustrarono ancora. Infatti, non appena il nemico fu presso alla barricata della grande strada di Como, e spuntò al centro sulle alture di Boscaccio, il Medici con una brillante carica alla baionetta di fronte, il Cosenz con un abile controattacco di fianco, con poche forze, ma con grande valore, ributtarono insieme l’assalitore fin sotto alle falde di Belforte e lo sforzarono a battere in ritirata su tutta la linea. «Il nemico si ritira!» esclamò Garibaldi dal belvedere di Villa Ponti, donde aveva osservato, colla sua consueta serenità, tutte le vicende della pugna: «Bisogna inseguirlo;» e scendendo di galoppo sulla strada, si pone egli stesso a capo dell’inseguimento. Il generale Urban intanto arrivava a San Salvatore, dove aveva lasciato la sua riserva, ed ivi più nell’intento, crediamo noi, di proteggere la sua ritirata e di aspettare novelle del corpo del tenente colonnello Bioll, ingarbugliato tra le borre di Cazzone, che per velleità di rinfrescare la battaglia, s’apparecchia a sua volta a sostenere l’assalto. Garibaldi non aveva con sè che un terzo delle sue forze: il battaglione del Bixio mandato sulla destra, un battaglione del Cosenz sulla strada e alcune compagnie del secondo Reggimento del Medici. Del rimanente, parte era rimasto in riserva a Varese, e parte, condotto dal Medici stesso, s’era avviato su verso Cazzone, dove un balenío di baionette aveva fatto sospettare la presenza d’un corpo nemico. Tuttavia, quantunque la postura di San Salvatore sia fortissima e serri la strada quasi come un contrafforte, Garibaldi non esitò ad ordinarne l’attacco, e occupato il poggetto Roera fronteggiante San Salvatore e fatto ripiegare il Bixio che s’era troppo inoltrato, continua a barattare col nemico un vivissimo fuoco di moschetteria, finchè sceso da Cazzone il Medici, cui non era riuscito di raggiungere la colonna del Bioll, certamente ritiratasi per Casanova, spinge ad una carica di baionetta tutta la sua linea e costringe nuovamente l’Austriaco a lasciare a precipizio anche quella seconda posizione e a non arrestarsi più che ad Olgiate. XVI. Questa in compendio, così nel primo come nel suo secondo periodo, la fazione di Varese: fazione vinta prima che combattuta, e di cui la gagliardía delle posizioni garibaldine, i sagaci provvedimenti del Capitano, il numero di poco disuguale, la tanto disuguale prodezza de’ combattenti, e più d’ogni altra cosa, gli spropositi del Generale austriaco avevano anticipatamente decisa la sorte. Per dir degli spropositi soltanto, essi furono tanti e sì madornali, che nessuna forza e nessuna fortuna li avrebbe potuti correggere. E non parliamo della fiacchezza dell’assalto, della semplicità quasi puerile delle manovre, dell’incoerenza, della lentezza dei movimenti; non dell’errore di lasciare a San Salvatore una così forte riserva; non del più grosso sbaglio di non far appoggiare la mossa dalla colonna di Gallarate e dal presidio di Laveno; parliamo del fallo capitale di non avere fatto attaccare a rovescio Biumo Superiore dalla via Induno; senza di che nessuna forza avrebbe potuto sradicar Garibaldi da quella forte postura.[195] Ma egli lo vide, si dice, e l’ordinò; ed a quel fine doveva operare il battaglione di Granatieri del tenente colonnello Bioll staccato ad Olgiate per Casanova. Peggio ancora, se dopo aver concepita l’idea, d’altronde evidente, non seppe effettuarla. E certo se non fu effettuata, a lui solo tutta la colpa. Infatti obbligando il colonnello Bioll a partire da quel punto lontano, lo pose nella quasi impossibilità di eseguire il movimento aggirante, di cui era incaricato. E basti a dimostrarlo questo solo: che da Casanova a Induno non v’era nel 1859 strada diretta, sì che per arrivare a quel punto era giocoforza fare un lunghissimo giro per Olgiate, o inerpicarsi per sentieri aspri e selvosi di montagne, traverso i quali non era possibile che un corpo pesante (Granatieri) potesse camminare ordinato e spedito per arrivare ad un’ora fissa, a uno scopo determinato. Però il tenente colonnello Bioll, fatte poche miglia fuori di Cazzone, fu costretto ad arrestarsi, ed ecco perchè l’assalto a Biumo, tanto preveduto ed atteso dal generale Garibaldi, voluto, ma non saputo preparare dal generale Urban, non avvenne mai; e fallito il quale, la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro furono certe ed irrevocabili. XVII. Ancora più vergognosa fu la rotta toccata all’Urban sotto Como, e davvero se era quegli il più famoso capo di partigiani che l’Austria possedeva a que’ giorni, si può dire che il nostro non ne sarebbe stato vinto mai. All’annunzio della vittoria di Varese l’agitazione patriottica, che ancora non poteva dirsi insurrezione, delle popolazioni circonvicine, s’era rinfocolata ed estesa, e i patriotti di Como avevano immediatamente inviati oratori segreti a Garibaldi per dirgli che la loro città lo aspettava fremendo; che molte pievi del Lario s’eran già sollevate, ed alcune centinaia di giovani armati avevano già occupati i vapori del lago, volontariamente passati alla causa nazionale. E Garibaldi non penò molto a promettere che sarebbe marciato alla volta di Como, non però col proposito d’impadronirsene tosto, ma di occupare in faccia ad esso una buona posizione che gli permettesse di dar la mano agl’insorti del lago e di riassalire di conserva con loro l’Austriaco. Date pertanto le sue disposizioni per la cura dei feriti, per la provvigione dei viveri, per la sicurezza di Varese, all’alba del 27 col primo Reggimento in testa s’incamminò con tutta la brigata per la via postale, più volte nominata, che per Olgiate e Cavallasca mette a Como. Il generale Urban a sua volta, rinforzato da due nuove brigate (Augustin e Schaffgotsche), onde la sua colonna venne a sommare a circa diecimila uomini,[196] aveva preso una posizione difensiva fra la strada medesima e l’altra più settentrionale che da Cavallasca per San Fermo piomba su Como; e colla sinistra dietro il Lura tra Brebbio e Brecchia, il centro a San Fermo, la destra al Prato di Parè sul lago, si preparò a sostenere l’assalto. Se non che, male esperto delle abitudini di Garibaldi, egli se l’aspettava principalmente nel piano, alla sua sinistra; quindi rinforzato questo punto, indeboliti malaccortamente tutti gli altri. Garibaldi invece aveva l’occhio fisso ai monti; sicchè giunto ad Olgiate arresta la colonna, mette in posizione tutto il primo Reggimento in aspetto di chi prepari un assalto da quella banda, ristà e tiene a bada il nemico per alcune ore, e allo scoccar del mezzogiorno, sempre coperto dal reggimento Cosenz, volta repentino a sinistra per le erte viottole che salgono a Geronico al Piano ed a Parè, e giunge a Cavallasca in faccia a San Fermo. E quivi spiate attentamente dal campanile di Cavallasca le posizioni nemiche, il generale Garibaldi ideò prontamente il suo piano e ne ordinò con pari celerità l’esecuzione. Toccò la prima prova al colonnello Medici ed al suo reggimento; la terza compagnia del De Cristoforis sostenuta da un’altra attacchi di fronte la chiesa di San Fermo; la quarta compagnia del Susini-Millelire l’attacchi di costa per la sinistra; quella del Vacchieri fiancheggi per la destra; altre compagnie condotte dal Gorini e dal Medici in persona calino sulla strada San Fermo-Rondinello e minaccino la ritirata nemica. Il primo cozzo fu tremendo; i Cacciatori austriaci armati delle loro eccellenti carabine, appiattati intorno al parapetto del piazzale della chiesa, che s’innalza sopra un poggio a guisa di bastione, e dietro le finestre di due case circostanti, balestrano con un fuoco micidiale di fronte e di fianco i primi assalitori; la compagnia De Cristoforis, che forse s’era mossa troppo presto all’assalto,[197] riga del sangue de’ suoi migliori la via infuocata; cade, colpito al cuore, il tenente Pedotti; cade, lacerate le viscere, il capitano De Cristoforis; cade, fracassata una spalla, il tenente Guerzoni; la compagnia decimata balena, s’arresta un istante, ma non indietreggia: intanto l’assalto ai due fianchi si spiega e incalza; un battaglione austriaco si lancia alla corsa da Rondinello, ma incontra sui suoi passi il Medici in persona che lo arresta, lo carica, lo rovescia; altre compagnie subentrano a rinfrescare l’assalto, e il nemico ormai circuito, diviso, sgominato, va in fuga precipitosa verso Camerlata e Como. XVIII. È questo però il primo periodo dell’azione. Garibaldi non indugia un istante ad occupare fortemente le posizioni espugnate; il Medici s’afforza tra Rondinello e Breccia; il Bixio col suo battaglione chiude gl’intervalli tra San Fermo e Rondinello; il maggiore Quintini si pianta col suo battaglione ed alcune compagnie del secondo Reggimento a San Fermo; altre compagnie si stendono a sinistra verso Cima-la-Costa; ma il nemico non si dà vinto ancora, e il generale Augustin, raccolte le forze che teneva nei prati di Pasqué e a San Giovanni presso Como, le spinge parte a destra su Cima-la-Costa per spuntarvi la nostra sinistra; parte a manca per riafferrare l’altura di Sopra-la-Costa, e di là controbattere San Fermo. E la mossa fu condotta con certa rapidità; ma vegliava Garibaldi, vegliavano i suoi Luogotenenti; onde appena l’assalitore giunge a mezzo tiro della nostra linea, il Cosenz a sinistra da Cima-la-Costa, il Medici a destra da Sopra-la-Costa, lo respingono, di svolta in svolta, di poggio in poggio, giù per la strada dond’era venuto, fino a che Garibaldi, adocchiata da Cima-la-Costa quella seconda più ruinosa ritirata, vede possibile quello che prima non pensava, cioè la presa di Como, e si prepara a discendervi. Prescritto infatti che fossero raccolte e riordinate le forze, spedito il Simonetta con altre due guide ad esplorare la città, lasciate alcune retroguardie a proteggere San Fermo, s’incammina a notte calata giù per la tortuosa via di Borgo Vico, e ormai accertato dagli esploratori che l’Austriaco ha abbandonato Como, vi penetra risolutamente. Tralascio il descrivere la sorpresa della città; il destarsi in soprassalto de’ cittadini riscossi nel sonno da quel grato suono d’armi e d’armati; e lo spalancarsi istantaneo delle porte e delle finestre; e il brulicar rapido delle vie inondate quasi per incanto da una piena di popolo trasognato ancora, ebbro, farneticante. Tralascio Garibaldi baciato, benedetto, toccato come un santo, portato in trionfo sino al palazzo del Comune; e le campane a gloria e le fiaccole e le bandiere, e i viva e gli abbracciamenti e le lagrime, e il tumulto e il baccanale; perchè ormai codeste scene ricorreranno troppo frequenti in questa Vita, e, vorrei anche dire, in Italia, perchè giovi il descriverle e non sia troppo facile l’immaginarle. Diciamo piuttosto che Garibaldi non smarrì un istante solo la mente, e che non era appena in città che già pensava a custodire le sue spalle, inviando il Medici, infaticabile quanto lui a vegliar la strada di Camerlata, dove ancora s’accalcava minaccioso il nemico, ed a munirvisi. XIX. L’alba dell’indomani però chiarì che l’ultimo Tedesco era scomparso da Camerlata; e che oramai tutta la colonna dell’Urban s’era riconcentrata tra Barlassina e Monza sulla strada di Milano. Allora Garibaldi, incapace d’immobilità, pensò di approfittare della ritirata del nemico, e per usar una delle sue frasi predilette, «di far qualcos’altro.» Affidata a Gabriele Camozzi, commissario regio per Bergamo, l’organizzazione militare; lasciata la compagnia del Fanti a proteggere Como, a reclutar volontari, a raccogliere armi; inviata collo stesso ufficio la compagnia del Ferrari a Lecco; lodati, stimolati i suoi Cacciatori e concessa loro per riposo tutta quella giornata del 28; la mattina del 29, all’improvviso, senza svelare ad alcuno il suo disegno, fa battere l’assemblea, e contromarcia col resto della brigata, di molto assottigliata dai morti, dai feriti, dagl’infermi, dai distaccati,[198] per Olgiate e Varese. Dove si andava? a che mirava? s’affretta a chiedergli qualcuno del suo Stato Maggiore. «Andiamo, rispose, a incontrare i nostri cannoni a Varese.» Infatti il Ministro della guerra s’era finalmente deciso ad inviare ai Cacciatori delle Alpi quattro obici di montagna, che dovevano, nella mente sua, sostituire i quattro cannoncini che il conte Francesco Annoni aveva regalati a Garibaldi fin da Torino e che s’erano arrenati per via, non sappiamo nè come nè dove. Ma i cannoni erano un pretesto, o tutt’al più un fine accessorio: altro era l’intento di Garibaldi. Egli non aveva mai deposto il pensiero di assicurarsi una base sul Lago Maggiore; quindi d’impadronirsi di Laveno, che ne era uno dei punti dominanti. Marciava perciò a quello scopo, e fidando sulla ritirata e lo scompiglio del nemico, sulla rapidità e segretezza delle proprie mosse, sperava riuscirvi. Ora fino a qual punto quello scopo fosse utile a conseguirsi, e se esso compensasse i pericoli di quella contromarcia rischiosa, lo discuteremo in appresso; per ora seguiamo i passi dei combattenti e vediamo i fatti. Passata la notte del 30 a Varese, muove all’alba dell’indomani per la gran strada di Laveno; giunto a Gemonio, sosta, studia il piano, raccoglie notizie del forte a cui mira; quindi deciso di tentarne la notte stessa la sorpresa, s’inoltra colla brigata fino a Cittiglio; lascia dietro di sè a Brenta sulla strada di Valcuvia, sua linea di ritirata, il secondo Reggimento, ed a Gemonio, sulla strada di Varese, donde era possibile, se non probabile, una comparsa dell’Urban, il terzo; manda segretamente il Bixio e il Simonetta sull’altra sponda del lago, perchè vi raccolgano barche ed armati, con cui tentare un abbordaggio contro qualcuno de’ vapori austriaci ancorati presso Laveno; e ciò fatto volta a sinistra per Mombello e va a collocarsi a due chilometri dal forte di Laveno, diramando tosto i suoi ordini per attaccarlo. E gli ordini erano stati buoni; i soli possibili forse: se a frustrarli non avesse cospirato quel nemico quasi fatale di tutte le imprese notturne, generatore inevitabile di confusione, d’equivoci, di terrori: il buio. E invero, e tralasciando i particolari, il capitano Bronzetti, che doveva con una compagnia cogliere di sorpresa il forte di Castello dal lato settentrionale, viene abbandonato dalle guide, perde la via e non arriva al posto; il capitano Landi, cui spettava penetrare non visto con un’altra compagnia dal lato meridionale, è scoperto prima del tempo dalle vedette, incontra un’inattesa strada coperta, guernita di nemici là dove credeva trovare un orto indifeso, combatte un’ora valorosamente, lascia sul terreno feriti i luogotenenti Gastaldi e Sprovieri, sino a che, ferito egli stesso, è costretto a ritirarsi nella fretta e nel disordine inevitabili a tutte le imprese notturne fallite. E il forte, naturalmente, desto dall’inopinato allarme, dà fuoco a tutte le sue batterie, tempesta di palle il terreno circostante, comunica l’allarme ai vapori, i quali accortisi delle barche condotte dal Bixio e dal Simonetta le ricevono a bordate e mettono ben presto lo spavento nella ciurma inesperta, che urlando «a terra a terra» si sgomina, e nonostante le preghiere, i comandi, le minaccie de’ suoi intrepidi condottieri, volta precipitosamente le prue. Potevano essere le due dopo mezzanotte, e Garibaldi calato il berretto sugli occhi, soffocando l’ira nel cuore, borbottando: _maledetta paura!_ (e rispetto agli assalitori del forte abbiamo veduto che aveva torto e che paura non ci fu), ordina la ritirata su Cittiglio, e colà si ricongiunge in buon ordine ai corpi che aveva lasciati a Brenta ed a Gemonio. XX. Il sole del 31 maggio doveva essere foriero di una non lieta novella. Anzitutto il generale Urban s’accostava minaccioso e ringagliardito a Varese, e Garibaldi, che aveva tutto predisposto per ritornarvi, dovette prudentemente mutar pensiero e risalire la via di Valcuvia, dove poteva, protetto dai monti, attendere gli eventi. Dal canto loro i Varesini, sgomenti, ma non avviliti, dall’annunzio del pericolo imminente, inviano a Garibaldi per richiederlo d’aiuto e di consigli; ma a lui non restava altro che a rispondere: «Uscissero i cittadini validi, portando seco le armi e le munizioni e riparassero ai monti.» Consiglio disperato, ma l’unico effettuabile in quel caso. Non tramontava difatti la giornata del 31, che il generale Urban compariva con due colonne da Tradate e da Gallarate sulle alture di Giubiano e di San Pedrino che da quel lato attorniano Varese, e vi si accampava militarmente. Conduceva dodicimila uomini d’ogni arma e diciotto pezzi d’artiglieria; sbuffava fuoco e fiamme; annunziava alla ribelle città strage e rovina; la multava dell’assurdo tributo di tre milioni e di proviande in pazza quantità; prendeva statici anche fra i più innocenti e li minacciava ad ogni istante di morte; esigeva per sè e pe’ suoi ufficiali strane leccornie di vini e di vivande; e non soddisfatte le sue insensate pretese (nè potevano esserlo da una città non ricca e vuota de’ suoi abitatori), apriva contro di essa un furibondo bombardamento e l’abbandonava per parecchie ore al saccheggio.[199] Intanto che Varese fuggiva e si riparava alla meglio da quel flagello, più per confortare di sua vicinanza la tribolata città e spiare davvicino le mosse del nemico, che per deliberato proposito di cercargli battaglia, Garibaldi scendeva da Valcuvia fino in faccia di Santa Maria del Monte; e di là nella mattina del 1º giugno giù fino a Sant’Ambrogio e Robarello, discosti un’ora di cammino da Varese. E certo più bella occasione di vendicarsi di quel brigante di Garibaldi, al Generale austriaco non si poteva porgere. Aveva tanto giurato e sacramentato di volerlo appiccare con tutti i suoi; ed ecco che lo teneva, può dirsi, nell’ugne; era tornato espressamente a Varese con forze quadruplicate per schiacciare con un colpo magistrale l’aborrito nemico, e la fortuna glielo faceva incontrare a un tratto di cannone, in una posizione quasi disperata; o perchè dunque non lo assaliva? Perchè se ne stava immobile dietro Varese, occupato soltanto a bombardare una vuota ed inerme città, quando Garibaldi scendeva a sfidarlo così da vicino? Perchè lasciò scorrere tutta quella giornata del primo senza muovere un passo, senza tentare nemmeno una ricognizione a fondo, e soltanto la sera del giorno stesso si decise ad occupare la posizione di Biumo Superiore; quel Biumo, come dicemmo, chiave di tre vie e baluardo bifronte che il Garibaldi italiano aveva subito afferrato, appena entrato in Varese, e il Garibaldi austriaco, come chiamava sè stesso, contemplò da lontano tre giorni prima di conoscerne l’importanza? E si fu appunto perchè il Generale austriaco non s’era accorto di Biumo, che Garibaldi rivolse in mente per alcune ore l’idea di prender egli quell’offensiva, che il nemico più forte non sapeva prendere; e soltanto verso sera, quando seppe occupata quell’importante postura, ne depose il pensiero. XXI. Intanto più grossi avvenimenti erano accaduti sul maggior teatro della guerra. Fra il 27 e il 28 l’esercito alleato iniziava quel grande movimento di fianco dal Po sul Ticino, che fu l’unica manovra strategica di tutta la campagna; il giorno 30 dello stesso mese l’esercito piemontese sforzava i passi della Sesia e colla seconda vittoria di Palestro se n’assicurava il possesso; in conseguenza de’ quali fatti tutto l’esercito franco-sardo veniva a trovarsi ammassato tra Mortara e Novara, pronto, vorremmo dire, a varcare il Ticino, se la prontezza fosse stata la dote della mente direttrice di quell’esercito. Ora questi avvenimenti erano affatto ignoti al generale Garibaldi, poichè nessuno al Quartier generale principale aveva pensato a mandargliene pur un cenno; ma non lo erano naturalmente al generale Giulay, il quale, penetrato il segreto della mossa nemica e accortosi oramai che lo aspettava una battaglia difensiva sull’alto Ticino, aveva pensato a rinforzarsi su quel punto quanto più poteva, e non attribuendo, giustamente, alcuna importanza alla diversione di Garibaldi,[200] s’era affrettato a richiamare la divisione Urban da Varese dandole per obiettivo Turbigo. L’ordine, a quanto assicura uno storico,[201] giunse al Generale austriaco in sulla sera del 1º maggio; e può essere; certo egli non lo eseguì immediatamente, perchè la mattina del 2 era ancora in battaglia sulle sue posizioni del giorno precedente. Comunque, oramai da Garibaldi egli non aveva più nulla da temere; chè il nostro condottiero, considerati i rischi d’un combattimento sì disuguale, ignaro, come dicemmo, di tutte le mosse degli alleati, epperò anche dell’ordine di ritirata ricevuto dal suo avversario, s’era a sua volta deciso di ripiegare su Como; e nella stessa mattina aveva appoggiato ad Induno ed Arcisate, che erano appunto le prime stazioni della via che s’era proposto di percorrere. Però, com’è suo costume, egli aveva mascherato sì bene il suo movimento, che il generale Urban non ne ebbe sentore; anzi vedendolo appostarsi fortemente nei dintorni d’Induno, lo prese piuttosto come un preparativo di nuove operazioni offensive, che di ritirata; e sollecito assai più di guardar sè stesso che di tentare il nemico, si accontentò di far correre il terreno circostante da piccoli drappelli, che non giunsero mai nemmeno a tiro delle vedette italiane. In realtà erano due avversari che pensavano a ritirarsi: l’Italiano obbligato dalla esiguità della forza e dalla debolezza delle posizioni; l’Austriaco dagli ordini del suo Generalissimo e dal precipitar degli eventi. Perciò, intanto che Garibaldi levava il suo nuovo campo d’Induno, e per Arcisate, Rodero Casanova s’avviava su Como; l’Urban lasciava una forte retroguardia di circa duemila uomini a guardia di Varese e Como, e col grosso della sua divisione contromarciava su Gallarate diretto al Ticino. XXII. Se non che Garibaldi, cui era mancato ogni indizio per supporre quella ritirata, continuava a marciar molto circospetto, guardingo, come uomo che non sia ben sicuro nè della sua testa, nè delle sue spalle. Poichè convien sapere, e forse abbiamo tardato troppo a narrarlo, che fino dal 31 maggio, cavalcando egli tra Sant’Ambrogio e Robarello, incontrava per via una bella signorina, la marchesa Giuseppina Raimondi, la quale, dicendosi arrivata allora allora da Como traverso i monti della Svizzera, veniva a portargli l’annunzio che la sua città era minacciata a un tempo dagli Austriaci di fuori e dagli austriacanti di dentro, e bisognevole perciò d’un immediato soccorso. Qual effetto producesse sull’animo, o sui sensi, di Garibaldi l’inattesa vista dell’audace messaggiera, vedremo un giorno; intanto egli la invitò a entrar con lui nella locanda di Robarello e le consegnò questo biglietto: «Robarello, 1º giugno 1859. »Signor Visconti, »Io sono a fronte del nemico a Varese; penso di attaccarlo questa sera. Mandate i paurosi e le famiglie che temono fuori della città; ma la popolazione virile, sostenuta dal Camozzi nostro, le due Compagnie, i Volontari e le campane a stormo, procurino di fare la possibile resistenza.» Pur tuttavia, come esser certi che quell’avviso fosse pervenuto al Visconti Venosta, e che Como volesse e sapesse resistere, e che gli ordini del Generale avrebbero potuto essere comunque eseguiti? Grande dunque l’incertezza così in lui, come ne’ suoi Luogotenenti consapevoli del segreto; tormentoso in ognuno il dubbio di trovar le strade di Casanova sbarrate dai nemici: più frequenti perciò e più ansiose le esplorazioni e le cautele man mano che la colonna s’avvicinava a Como. Aveva bensì Garibaldi spedito due nuovi messi all’altro commissario Camozzi per avvertirlo che marciava a quella volta e ordinargli di occupar San Fermo; e del pari il Camozzi non aveva tralasciato di inviargli l’annunzio che tutte le posizioni da lui indicate erano occupate, e che l’aspettava; ma questa rassicurante risposta, sviatasi, non sappiamo come, per via, non fu consegnata a Garibaldi che al suo arrivare in Como; onde il fitto buio della notte aggiungendosi all’oscurità de’ fatti, accresceva negli animi l’inquietezza ed il sospetto. Quale consolante sorpresa però, quando, giunta la nostra avanguardia presso San Fermo, si udì squillare un _alt-chi-va-là_ in pretto italiano; e quale gioia di tutti nell’udire levarsi per l’aria le grida di _Viva l’Italia_ e _Viva Garibaldi_, segno troppo eloquente che si era in paese amico, tra braccia d’amici. E da quell’istante la strada pareva sparire sotto i piedi; la marcia non fu che un continuato tripudio sino a Como, la quale tremante quattro giorni di rivedere ad ogni istante gli Austriaci, si vendicava con urla di gioia e suoni di musiche e passeggiar di fiaccole dallo spavento passato. L’indomani era la giornata di Magenta, e ne sono stampati nella memoria degli uomini gli errori, le prodezze ed i beneficii. Ventiquattro ore dopo l’intero esercito austriaco era in ritirata sull’Adda; le avanguardie degli alleati entravano in Milano, ed anche il piccolo obbliato corpo de’ Cacciatori delle Alpi poteva proseguire la sua marcia fortunosa. XXIII. Prima però di seguirlo, volgiamoci un istante a riguardare l’opera del nostro eroe in quel primo periodo della Campagna.[202] Noi siamo i primi ad assentire che i risultati da lui ottenuti furono scarsi; ma non si deve da essi misurare la grandezza dell’uomo che li ottenne. Noi non vogliamo magnificarli più del ragionevole, ma non crediamo siano stati ancora bastevolmente riconosciuti ed estimati. Certo se riguardiamo l’impresa commessa a Garibaldi ne’ suoi effetti pratici, principalmente militari, può dirsi sterile; ove la consideriamo nel modo con cui fu condotta, deve stimarsi ammiranda. Passato il Ticino, e nemmeno quella fu la più facile delle opere, gli ordini dati, gli accorgimenti adoperati per coprire la sua marcia da Sesto-Calende a Varese, sono degni di qualsiasi più provetto capitano: il combattimento di Varese dovrebbe essere dato nelle nostre Scuole militari come modello della tattica di posizione; la pronta decisione di riprendere all’indomani stesso l’offensiva è più facile ammirarla che prenderla; la dimostrazione su Olgiate diretta a mascherare l’attacco di San Fermo, e tutti i particolari della marcia e del combattimento, meriterebbero d’essere studiati da qualsiasi giovane ufficiale; infine l’ispirazione venutagli sul campo di battaglia di San Fermo di calare su Como, molti Generali la possono invidiare, ma a pochi è concessa. È certamente disputabile la contromarcia su Varese e la spedizione su Laveno; ma ogni ragione ponderata e vagliata, noi ci peritiamo ad affermare che fra tutti i partiti era quello il migliore. Che cosa restava infatti a Garibaldi dopo la presa di Como? L’immobilità difensiva intorno alla presa città? Nessuno, speriamolo, l’avrebbe consigliata. La marcia su Milano? Basti pensare a’ suoi tremila duecento uomini, senza cavalli e senza cannoni, e a’ quindicimila Austriaci d’ogni arma che gli stavan contro in paese raso e scoperto,[203] per levarne a chicchessia il capriccio? La ritirata su per la Valtellina? Certo era un partito sicurissimo; ma appunto perchè troppo sicuro non si confaceva a Garibaldi, nè al suo mandato. La Valtellina poteva essere un rifugio in caso di rovescio; ma non mai una base d’operazione per un corpo destinato ad una missione attiva e militante. Come avrebbero potuto i Cacciatori delle Alpi molestare ed indebolire l’estrema destra dell’Austriaco, se andavano ad inerpicarsi su pei monti a centinaia di chilometri da lui? Come sollevar la Lombardia, se andavano a portar la rivolta dove non poteva avere nè eco nè propagazione, nè soccorrere gli amici, nè infastidire i nemici? La ritirata in Valtellina significava la paralisi per molto tempo di tutta la colonna garibaldina; la spedizione di Laveno aveva i suoi rischi, ma assicurava, se il colpo fosse riuscito, una base salda all’intero corpo che gli avrebbe permesso di restare nello scacchiere, Lago Maggiore-Milano-Varese-Como,[204] fino all’entrar in linea del grande esercito, e di serrar sempre dappresso i fianchi del nemico; che solo per tal modo poteva sentire la molestia della diversione ordinata contro di lui. Il solo guaio fu che la sorpresa di Laveno fallì; e ne diamo, se vuolsi, la sua parte, la maggior parte di torto, a Garibaldi; ma poteva anche riuscire, e mancò poco non riuscisse: e in ogni modo ogni scolaro c’insegna che non si deve mai giudicare d’un concetto strategico dagli errori o dagli eventi dell’azione tattica diretta ad attuarlo; come nessun storico di quell’anno cessò di lodare la conversione strategica dell’imperatore Napoleone dal Po al Ticino, solo perchè la battaglia di Magenta, per gli sbagli commessi prima e durante, rischiò d’esser perduta. XXIV. Ma qui ci occorre aprir tutto l’animo nostro. A Garibaldi era stata commessa un’ardua impresa senza la forza necessaria a compierla. La sproporzione anzi tra il fine ed i mezzi parve a taluno sì grande, che il Governo piemontese fu persino sospettato d’aver piuttosto mirato ad orpellare la parte rivoluzionaria con una vana lustra e trastullar Garibaldi con un gradito zimbello, che voluta seriamente un’opera seria. E il sospetto era certamente ingiusto, e la lealtà di Vittorio Emanuele ed il patriottismo del conte di Cavour ce ne stanno garanti. Però se mal animo non ci fu, nè ci poteva essere, ci fu certamente errore. Se davvero si credeva utile, se non necessaria, una diversione nell’alta Lombardia, conveniva che i mezzi le fossero apprestati in misura adeguata agli ostacoli che doveva superare ed ai nemici che doveva vincere. E ciò non fu. Si trattò Garibaldi, come i padri feudali del Medio Evo trattavano i figliuoli cadetti: mettevano loro nelle mani un vecchio ronzinante, una vecchia lama ed una smilza borsa e li mandavano a cercar fortuna pel mondo. Così al capo de’ Cacciatori delle Alpi: gli diedero tremila cinquecento giovani male armati, mal vestiti, senza artiglierie, senza cavalli, e gli dissero: ingegnati. Ed egli s’ingegnò; ma non era nè provvido nè fraterno attender tutto dai prodigi del suo genio e dal valore de’ suoi camerati. Egli sapeva d’esser debole; e però prima di partire dal Po aveva invocato che la sua brigata fosse rinforzata e provveduta di tante cose necessarie a qualunque guerra; ma, triste a ripetersi, o gli furono negate, o non gli furono concesse che tardi, a spizzico, a stento, quando n’era ormai passato il bisogno e scemata l’utilità. Chiese infatti il reggimento de’ Cacciatori degli Appennini, volontari venuti e organizzati per lui: negati; chiese una batteria di cannoni: negata o concessa soltanto a metà, senza muli, senza artiglieri e d’un calibro insufficiente; chiese cavalli, ambulanze, armi: negati o dati così a rilento, in sì scarsa misura, da tornar pressochè inutili! Nessuno può immaginare quel che avrebbe potuto fare Garibaldi, se invece di quei tremila cinquecento uomini, ne avesse avuti anche non più di cinque o seimila forniti di tutte le armi convenienti! E fosse qui tutto; ma fu lasciato quindici interi giorni senza un’istruzione, un ordine, una notizia, nè dell’esercito nemico, nè dell’esercito amico; talchè egli non conobbe le mosse degli alleati, e nemmeno il loro avvicinarsi al Ticino e i preludi di Magenta, se non quando erano già vociferati dovunque dalle gazzette e dalla fama! Ora dicasi pure che carattere di codesti corpi alla partigiana è d’essere spediti e leggieri e di procedere sciolti e indipendenti dai grandi eserciti, di cui sono in certa guisa le estreme avanguardie: tutto questo sappiamo noi, e sapeva meglio Garibaldi; ma _sunt certi denique fines_, anco a questa norma; e i confini doveva prescriverli il dovere, oltrechè l’utilità: il dovere di metter in grado il corpo staccato d’adempiere al suo scopo e di trarre dall’opera sua tutto il vantaggio possibile. E se ciò si fosse osservato, non si sarebbe potuto affermare, e con molta ragione, che la punta di Garibaldi in Lombardia fu militarmente infruttuosa. Se gli fosse stato dato il poco che chiedeva, se avesse potuto varcare il Ticino con forze almeno raddoppiate, se non gli si fossero nascosti, quasi come a nemico, i principali movimenti del grande esercito, nessuno può prevedere quel che avrebbe saputo fare! Probabilmente l’Urban non sarebbe stato battuto due sole volte, ma tre; certo non avrebbe potuto, nè liberamente accorrere alla chiamata del Giulay, nè recare il 4 giugno all’esercito imperiale il soccorso non ispregevole che gli recò. Il 24 maggio il conte di Cavour telegrafava a Garibaldi in Varese: «Insurrection générale et immédiate;» e certo se v’era uomo da intendere l’ardito laconismo di quel comando, era il capo dei Cacciatori delle Alpi. Se non che il conte di Cavour scrivendolo dimenticava due cose: che se non è mai facile intimare una rivoluzione a giorno e ora fissa per cenno di telegrafo, lo era anche meno in un popolo, come il lombardo, vigilato da un presidio di circa ventimila soldati e serrato all’intorno da un esercito ancora invitto di duecentomila, côlto inerme e sprovveduto, educato da anni alla fede lunga e pacifica della rivoluzione diplomatica e dell’iniziativa piemontese; e che al postutto vedendo la sua causa commessa alle mani di due eserciti poderosi, non vedeva più alcuna ragione sufficiente per buttarsi allo sbaraglio d’un’insurrezione, di cui eran certi i rischi, affatto ignoti i vantaggi e superflui i sacrifici. E v’ha di più. Acciocchè la rivoluzione lombarda potesse divenire veramente «generale,» come la intendeva il conte di Cavour, era necessario che essa o prima o poi s’impadronisse di Milano. Una rivoluzione chiusa nelle prealpi del Varesotto e del Comasco poteva essere sgradita e fastidiosa al Governo austriaco, ma danneggiare o molestare seriamente il suo forte esercito non mai. Milano, se l’insurrezione lombarda era davvero necessaria alla vittoria, doveva essere il focolare dell’incendio, e una volta acceso nella capitale tutte le provincie sarebbero divampate. Ma come sperare tanta fortuna? E come, ammesso pure che i Milanesi fossero predisposti alle disperate audacie del 48, come avrebbe potuto Garibaldi o spingerli, o secondarli, o soccorrerli? Il Carrano scrive che il Medici la mattina del 3 giugno consigliò il suo Generale di marciare su Milano; e il consiglio riattesta l’animo del prode che lo dava. Ma poteva Garibaldi con quei suoi tremila, spossati, logori, decimati, avventurarsi contro le mura d’una città non forte, ma pur sempre bastionata, guardata ancora da un potente presidio, fiancheggiata sempre dall’Urban, lontano poco più d’una marcia, e incerto ancora l’esito della battaglia di Magenta; anzi incerto persino che battaglia vi sarebbe stata? Da qualsivoglia parte la si riguardi, comunque la si rivolti, la spedizione di Garibaldi in Lombardia fu tanto male apprestata ed ordinata, quanto mirabilmente condotta e combattuta. Se la diversione sull’estrema destra nemica, se «l’insurrezione generale ed immediata» della Lombardia erano reputate parti utili e integranti del piano generale di campagna, conveniva che Garibaldi arrivasse sul terreno con forze adeguate al cimento. Se non lo era, meglio adoperare i volontari e il loro Capo altrove e più utilmente; meglio non illudersi nè illudere; meglio risparmiare tanto sangue prezioso e tante giovani vite; e lasciar che la guerra fosse quel che era di fatti: un’impresa nazionale, commessa dal popolo alla dittatura d’un Re leale, d’un abile Ministro e d’un generoso alleato, e nella quale al popolo non restava altra parte che combattere ubbidiente e allineato nelle file, attendendo dalla fortuna delle armi e dalla virtù de’ suoi liberatori i decreti del suo destino. XXV. Tuttavia nemmeno per la battaglia di Magenta la brigata garibaldina cessò dal suo ufficio o rallentò dalla sua operosità. Come prima, continuò a precedere il grande esercito alleato, a correre sui fianchi del nemico, a occupar nuove terre, a piantar sempre più innanzi il vessillo italiano; e come prima, fu lasciata (almeno fino al 9 giugno) senza sussidi, senza comandi, senza notizie; abbandonata all’abilità del suo Capo ed alla sua stella. Noi ne traccieremo a rapidi passi l’itinerario, poichè per dieci giorni tutto il merito suo fu di celerità e di lena. Il 4 e 5 giugno Garibaldi li adopera a riordinare le sue forze, a chiamare nuovi volontari, ad afforzarsi in Como, a perlustrare in tutti i sensi le strade circostanti, a lanciare sulle orme del nemico drappelli di scorridori che si spingono sui fianchi dell’Urban ritirantesi da Gallarate, volteggiando sin presso le porte di Milano. Nella notte poi dal 5 al 6, ormai certi gli effetti della battaglia di Magenta, s’imbarca con tutta la brigata, meno alcune compagnie lasciate a Como per tutela della città e nucleo di nuovi battaglioni, alla volta di Lecco, e nel giorno stesso in cui l’esercito alleato varcava il Ticino, tocca la destra sponda dell’Adda. Breve però la fermata: chè il dì appresso tenendo sempre ai monti ripiglia la marcia per Caprino e Almeno; e dopo breve sosta scende a passo di carica sopra Bergamo, dove sperava abbrancare almeno la coda del reggimento di presidio, che due suoi fidati, introdottisi furtivamente nella città,[205] gli avevano annunziato fare apparecchi di precipitosa ritirata. Arrivato però troppo tardi, chè il nemico era corso più di lui, pensa immediatamente a inseguire i fuggenti sulla strada di Crema; se non che, appena cominciata la marcia, ode alla stazione che un corpo d’Austriaci s’avanza in ferrovia col proposito di giungere in aiuto del presidio, di cui ignorava la partenza. Allora Garibaldi che si vede tornar tra le ugne, inconscio e sprovveduto, quel nemico che aveva fino allora indarno inseguíto, pregusta la voluttà d’una copiosa e facile retata, e richiamata in fretta la brigata dalla strada di Crema, distribuisce e rimpiatta in tutti i nascondigli della stazione i suoi Cacciatori, che zitti, quatti, intenti, coll’ansia del cacciatore che anela la preda, stanno ad aspettare. Disdetta! A pochi passi da Seriate il battaglione viaggiante, avvisato da uno spione (fungaia di tutte le guerre) che a Bergamo v’erano i Garibaldini, arresta il treno, ne smonta frettoloso, e circondato da fiancheggiatori e da esploratori s’inoltra con tutta la cautela verso la città. E poteva ancora essere colto; se non che il Bronzetti, inviato con una compagnia a percorrer la strada di Seriate, lo incontra; non contando i nemici li assalta con impetuoso ardimento e li arresta, li sbaraglia, li costringe a ricercare più celeri che mai la vaporiera, che li salva dall’agguato mortale che li attendeva. XXVI. In quel medesimo giorno i Sovrani alleati entravano solennemente nella Capitale lombarda, il generale Bazaine rompeva le retroguardie di Zobel a Melegnano, e Garibaldi era chiamato in Milano da Vittorio Emanuele a conferire con lui. Le accoglienze del Re al Condottiero furono degne del grande animo di quello e della gloria di questi, e caldi gli elogi a lui ed ai suoi, e copiose le promozioni e le decorazioni, e iterati i conforti a continuare nella comune impresa; ma oltre a queste cortesie, nulla più. E pure un accordo sarebbe stato tanto giovevole! E doveva parer così naturale al Capo supremo dell’esercito, poichè la vittoria gli aveva fatto ritrovar viva e gloriosa la sua estrema avanguardia, l’affiatarsi col suo capo, fermare con lui il disegno delle operazioni future, e trarre dall’opera sua il maggior profitto possibile! Però ha ragione lo storico dei Cacciatori delle Alpi[206] di dolersi che l’esercito nostro si sia lasciato sfuggire l’opportunità di schiacciare, mercè un’operazione combinata col generale Garibaldi, la divisione del generale Urban, che fino dal 7 aveva preso campo sull’Adda, ne’ dintorni di Vaprio e vi si era trincerato. Poichè la posizione del Generale austriaco poteva dirsi forte, finchè non era minacciata che di fronte; ma dopo l’entrata di Garibaldi in Bergamo non lo era più; e bastava che il generale Cialdini, il quale formava l’avanguardia del nostro esercito, si fosse affrettato verso l’Adda, e il generale Garibaldi fosse calato, con mossa combinata, da Bergamo, perchè quella Divisione nemica, ancora staccata dal grosso del suo esercito, fosse inevitabilmente disfatta. E quanti frutti non si sarebbero colti da questa semplicissima manovra! La rotta di Vaprio avrebbe precipitata la ritirata dell’esercito austriaco più della rotta di Melegnano; gli eserciti alleati avrebbero potuto marciare più celeri e spediti, e arrivando molto prima sulla destra del Mincio, avrebbero troncato a mezzo il secondo concentramento del nemico e reso Solferino impossibile.[207] Ma non è da noi discutere delle operazioni degli alleati; ci basti mettere in sodo che, se l’Urban potè restar sull’Adda impunemente ancora tre giorni, e Garibaldi fu costretto a indugiarsi a Bergamo altri tre, la colpa si deve cercare in quel complesso di ragioni chiare ed oscure, piccole e grandi, per le quali l’esercito alleato aveva fin dal 9 giugno perduto il contatto col nemico, sprecando quattordici giorni per marciare, senza combattere, dal Lambro al Chiese.[208] Comunque, la mattina dell’11 giugno l’Urban lasciava Vaprio ritirandosi per la via di Crema, e la sera del giorno stesso Garibaldi abbandonava Bergamo incamminandosi per Brescia. Marcia non senza pericoli per lui che doveva correre su una strada parallela a quella di un nemico più forte, col pericolo di trovarselo ad ogni ora sul fianco senza speranza di pronto aiuto dal grosso dell’esercito. Tuttavia, destreggiando come al solito, usando del sottile manipolo de’ suoi cavalieri con arte che parve maravigliosa soltanto ne’ Prussiani, comparendo e scomparendo co’ suoi scorridori su tutti i punti della linea nemica, spingendo ad una marcia forzata di notte i suoi Cacciatori affranti, ma indomiti, varcò all’alba del 14 le porte di Brescia; la quale, memore del suo nome, sprezzando il consiglio de’ pochi suoi timidi, incitata dall’infiammata parola di Giuseppe Zanardelli, e dall’esempio de’ suoi più fervidi patriotti, non aveva atteso colle mani al sen conserte, neghittosa o rassegnata, il liberatore; ma appena l’avanguardia dei Cacciatori, guidata dal bravo capitano Pisani, era comparsa nelle mura, s’era stretta intorno all’audace drappello, aveva atterrati insieme con lui gli stemmi della signoria straniera inalberando i vessilli della redenzione nazionale; ed era già tutta in piedi colla fiera attitudine d’un popolo deliberato a non lasciarsi ritogliere il bene conquistato, pronto a dare all’eroe che veniva a liberarla soccorso non di sole parole. Però commoventi, trionfali le entrate di Garibaldi in Varese, in Como, in Bergamo; ma quella di Brescia, epica. E che dieci anni di oppressione non avessero fiaccata la fibra della città, sdegnosa d’ogni vil pensiero, fu manifesto il giorno stesso, quando, corsa all’improvviso la voce che gli Austriaci s’accostavano alla città dalla strada di San Zeno, si vide il popolo intero versarsi come torrente per le vie a chieder armi e battaglia; ed armarsi egli stesso di quanto gli veniva alle mani; e serrarsi intorno all’invitto Capitano ed alla sua Legione, invocando d’essere condotto alle mura incontro al reduce oppressore. Il pericolo fortunatamente dileguò: la colonna austriaca, frazione della divisione Urban accampata a Bagnolo, avviata su Brescia per estorcerle non so che multa di guerra, non appena seppe che la città era di Garibaldi, rifece a passi più che studiati la sua via; ma non è men vero che, se l’incauto nemico si fosse cimentato ad un assalto, Brescia avrebbe rinnovato una delle sue dieci giornate. XXVII. Dall’ingresso in Brescia la storia dei Cacciatori delle Alpi e del loro Capitano cessa d’essere distinta e indipendente da quella dell’esercito alleato e si perde, a dir così, semplice postilla, nelle grandi pagine del suo libro. Non affermiamo per questo che le sia venuto meno ogni valore; molti ancora i travagli, i sacrifici e i cimenti: ma la mente che la dirige è un’altra; il concetto che la ispira scende dall’alto, da sfera lontana e superiore; l’uomo che la comanda, sottomesso al cenno d’altri capi, guidato in ogni passo dall’impulso d’altre volontà, ingranato sempre più nel rigido meccanismo della gerarchia militare, diventa un brigadiere qualsiasi dell’esercito, non è più Garibaldi. E questo si deve dire del combattimento di Tre-Ponti o di Rezzato che vogliasi chiamarlo. Nella notte dal 14 al 15 giugno, standosi il generale Garibaldi in Sant’Eufemia sulla strada Brescia-Lonato, riceveva dal Capo dello Stato Maggiore dell’esercito italiano quest’ordine: «Sua Maestà il Re desidera che domattina ella porti la sua Divisione[209] su Lonato, dove sarà seguita dalla Divisione di cavalleria comandata dal generale Sambuy, composta di quattro reggimenti di cavalleria di linea, con due batterie a cavallo.» Verbalmente però il messaggiero soggiungeva, esser ordine dello stesso Re che Garibaldi restaurasse il Ponte del Bettoletto sul Chiese che sta a settentrione di Ponte San Marco. Ubbidendo pertanto all’ordine regio, all’alba del dì successivo il Generale metteva in moto la sua colonna verso la mèta designata. Se non che, giunto a Rezzato, esploratori suoi e paesani gli annunziano che sulla sua destra tra Castenedolo e Montechiaro scorrazzava un corpo d’Austriaci, che era appunto la retroguardia dell’inevitabile Urban, accampato a Montechiaro. Garibaldi allora, non volendo tollerare quella molestia sul suo fianco, fece prudentemente ristare la colonna tra Rezzato e Tre-Ponti, e quivi, schierati il primo Reggimento agli ordini del Cosenz e un battaglione del secondo agli ordini del Medici in guisa da occupar tutti gli sbocchi da Tre-Ponti a Castenedolo, continua con altri tre battaglioni per Bettoletto, onde mettere ad effetto la seconda parte dell’ordine ricevuto. Però non era scorsa mezz’ora dalla sua partenza, che un colpeggiare di schioppettate annunziava come i nostri avamposti di destra fossero alle prese col nemico. Forse era da ricusar tosto il combattimento; ma poichè il nemico incalzava da ogni parte, e il Cosenz appartiene a quella buona scuola militare, che il miglior modo per respingere un attacco ritiene il contrattacco; si spinse innanzi con tutte le sue forze ed accettò la lotta. Non descriveremo tutte le fasi del combattimento di Rezzato; rammentiamo soltanto ad onore di chi lo sostenne, che in sulle prime, incalzato da brillanti cariche alla baionetta, il nemico cedette su tutta la linea, e andò travolto fin sotto Castenedolo; che in appresso l’ungherese colonnello Türr, venuto da pochi giorni al Quartier generale di Garibaldi, avendo spinto con più valore che prudenza gli scarsi nostri pelottoni ad attaccar lo stesso nemico nel centro della sua posizione, anche il Cosenz fu costretto a secondarlo, onde il combattimento si spostò affatto dal primo terreno, che gli serviva di base; che infine, essendo accorsa da Montechiaro in sostegno de’ suoi combattenti un’intera brigata austriaca, e avendo questa ripresa l’offensiva, non ostante il valore disperato degli assaliti, e l’eroico sacrificio del prode de’ prodi[210] Narciso Bronzetti; non ostante la intrepidezza sfortunata del colonnello Türr, esso pure ferito, e il sangue freddo imperturbato di Enrico Cosenz, vero capitano di quella giornata; i nostri sopraffatti dal numero furono costretti a dar le spalle, non senza confusione e disordine, sino a Rezzato. Giungeva però nello stesso punto, chiamato non tanto dal fragore della fucilata, che sul Chiese si udiva appena, quanto dai reiterati messaggi del Cosenz, Garibaldi in persona; il quale, riuscito d’accordo col Medici, col Cosenz, co’ più valorosi de’ suoi Luogotenenti a ristabilire un po’ di calma e d’ordine nelle file scompigliate de’ fuggenti, arresta la foga dell’incalzante nemico; fino a che, essendo comparse a Castenedolo le avanguardie del generale Cialdini, richiesto da Garibaldi e mandato in soccorso dal Re, il nemico suonò a ritirata e i Garibaldini restarono padroni del campo di battaglia. Non fu dunque, come si scrisse, una sconfitta; i nostri non perderono un palmo del terreno occupato la mattina; il nemico venne ad assalire e fu respinto: co’ suoi quattromila poteva, nel comodo spazio di quattr’ore, circuire, tagliare, stritolare i tre sottili battaglioni italiani e non vi riuscì, e la vittoria, quando mai, non fu sua. Ma sconfitta, o vittoria, o scacco, od _insuccesso_, come vogliasi dire, il merito o il demerito non va ascritto a Garibaldi. Egli ricevette un ordine d’avanzare sulla strada di Lonato, e ubbidì; al primo sentore del nemico si arrestò e mandò ad avvertire dell’evento il Quartier generale: se si dilungò a restaurare il Ponte di Bettoletto, eseguì un ordine del Re, che non toccava a lui il discutere; se la battaglia s’impegnò e si estese, la posizione l’aveva resa inevitabile e fu onore del Cosenz e de’ suoi prodi l’averla sostenuta. Garibaldi dunque può rimuovere da sè ogni responsabilità della giornata di Rezzato; se pure non ha diritto di chiedere che ne siano rimeritati i suoi Luogotenenti, che ne resero a forza di virtù meno dannose le conseguenze. E sappiamo bene che un secondo messo del Re, il capitano Uberto Pallavicino, raggiunse Garibaldi a Bettoletto, e gli portò un secondo ordine, nel quale era scritto: «Resti nella posizione occupata.» Ma dice bene il Carrano: quale posizione? Quella di Sant’Eufemia del mattino, o di Rezzato e Bettoletto del mezzogiorno? L’ordine giunse tardi e non certo per colpa d’alcuno; la cavalleria che doveva sostenere la nostra brigata non si mosse, ed a chi la fermò non saranno mancate buone ed imperiose ragioni; ma tutto ciò non poteva essere nè conosciuto nè indagato da Garibaldi, il quale, avendo la saggia abitudine d’ogni uomo di guerra di eseguire o far eseguire immediatamente gli ordini che dà o riceve, non poteva arrestarsi a discutere, a interpetrare quello che gli mandava il Re in persona; nè per la prima volta che il Quartier generale l’onorava d’un suo comando, rischiare di apparire o pigro o disubbidiente sol perchè v’era un rischio maggiore ad essere sollecito e disciplinato. E basti: la parte eroica e brillante de’ Cacciatori delle Alpi è finita. Passato l’esercito alleato sulla sinistra del Chiese, la brigata è divisa in due parti: una sta con Garibaldi ad occupare gli sbocchi di Valsabbia; l’altra sale col Medici a custodire le gole della Valtellina. Ma via via che il campo si impicciolisce, ne diradano i frutti e ne ammutisce, innanzi al gigantesco strepito di Solferino, la memoria. Per alcuni giorni, è vero, Garibaldi spera sempre di potere, per mezzo di barche, tragittarsi dal lago sulla sponda veneta, e girato il Quadrilatero portarsi ancora sui fianchi dell’esercito austriaco; ma un ordine del Quartier generale viene a troncargli il disegno e la speranza. Il Cialdini, improvvidamente staccato dal grosso dell’esercito, passa a dargli lo scambio in Valsabbia; ed egli, Garibaldi, va a fiancheggiare il Medici in Valtellina; più tardi però di nuovo è richiamato; e la brigata dei Cacciatori delle Alpi, già ingrossata coi terzi battaglioni, e coll’arrivo del reggimento dei Cacciatori degli Appennini cresciuta a Divisione, riceve il mandato di custodire le tre valli che da Bormio, dal Tonale e da Monte Suello sboccano in Lombardia, e potevano portar sui fianchi degl’Italo-Franchi veri od immaginari nemici. E fu memorabile in quel breve periodo la campagna del Medici, il quale, impadronitosi con rapido colpo di mano di Bormio, rimase signore temuto e incrollato della Valtellina fino allo scoccar di Villafranca; nè furono senza sapienza nè senza pena gli ordini dati da Garibaldi, per render concordi e armoniche le mosse delle sue tre colonne; ma a che pro? Nessun nemico serio minacciava quelle chiuse; tutto lo sforzo era concentrato tra il Chiese ed il Mincio: Solferino tra poco ci schiudeva i varchi fino all’Adige, e pareva il penultimo atto del dramma. Scoppiò invece inattesa catastrofe, Villafranca; e la stessa mano che arrestava innanzi al Quadrilatero la marcia trionfale d’Italia, arrestava sui monti i nostri Cacciatori delle Alpi, e li sospingeva col loro Duce in cerca d’altri campi e d’altre battaglie. XXVIII. Il conte di Cavour, sbollita l’ira del colpo inaspettato, scriveva da Leri: «Bénie soit la paix de Villafranca,[211]» e l’Italia faceva come lui: s’adirava, rompeva prima in alte grida di dolore e di sdegno, ma poscia in cuor suo diceva: Benedetta sia la pace di Villafranca! Gli è che, se Villafranca troncava la guerra sul Mincio, le apriva una via più libera e più ampia dal Taro alla Cattolica, e la lasciava arbitra del proprio destino. Un altro Solferino avrebbe ricacciato l’Austriaco oltre l’Alpi, liberato la Venezia, costituito un forte regno dell’Alta Italia; ma, periglioso ricambio, ingrandito e rassodato altresì il predominio francese, conservati o restaurati nella Penisola tutti i suoi regoli, effettuata senza possibilità di contrasto l’idea napoleonica della Confederazione presieduta dal Papa, costretto lo stesso Governo di Vittorio Emanuele a subirla per prudenza, a rispettarla per lealtà e per gratitudine. Mercè Villafranca il problema dell’indipendenza restava insoluto, ma era avviata la soluzione di quello dell’unità. Il non intervento non era ancora dichiarato nè pattuito; ma il nativo buon senso degl’Italiani l’aveva letto, come suol dirsi, tra le righe, facilmente comprendendo che Napoleone poteva bensì dispettare il moto unitario del centro, e strepitare e minacciare, ma certamente non sarebbe mai ridisceso in Italia a disfare colle sue mani l’opera sua, nè avrebbe permesso che l’Austria, sua rivale, la disfacesse a beneficio proprio. Così dalle sventure nascono sovente le fortune; così un fiume regio se incontra una diga improvvisa devía bensì dal primo suo corso, ma per scavarsi un letto più vasto e più profondo e camminare più maestoso alla sua foce. Restava, è vero, che gl’Italiani sapessero trar profitto dalle favorevoli circostanze; ma sappiamo che di quel senno furono capaci. Affrettare e condurre a termine la gran trama dell’unificazione, contenendo al tempo stesso gli eccessivi, acquetando i timorati e attraendo gli avversi; combattere in un punto solo le velleità municipali, le congiure dinastiche, le candidature forestiere, senza offendere troppo crudamente il culto delle tradizioni locali, nè manomettere la libertà, nè insanguinare la rivoluzione; resistere alle querimonie della Diplomazia senza irritarla, ai rabbuffi della Francia senza inimicarsela, alle strida del Papa e dell’Austria senza porger loro alcun pretesto di guerra; e tutto ciò operando d’accordo col Piemonte senza comprometterlo e obbedendo alla volontà di Vittorio Emanuele senza scoprirla; questa era l’opera molteplice e delicata che il fato aveva imposto ai popoli del centro, e la storia ha scritto come seppero compirla. Li sorresse, è vero, l’inflessibile fermezza del barone Ricasoli; li scorse da lontano il tacito patrocinio d’un gran Re, e dall’ombra solitaria di Leri il genio d’un grande Ministro; li secondò finalmente un manipolo d’uomini valenti e benemeriti;[212] ma insomma il primo e vero autore di quella stupenda concordia di sacrifici e di ardimenti, di accortezze e di costanza che al sorgere del 1860 riunì in una sola famiglia dodici milioni d’Italiani, fu il popolo; e senza la virtù sua nessuna forza di volontà o prodigio di genio avrebbe potuto vincere quell’ardua guerra. XXIX. E uno de’ maggiori problemi imposti ai governanti dell’Italia centrale erano le armi. La formazione d’un esercito era non solo necessaria a quei nuovi Stati, come testimonio della loro vitalità e guardia della loro esistenza; ma all’intera Italia, che poteva da un istante all’altro essere forzata a difendere colla spada in pugno il nascente edificio della sua indipendenza. Tuttavia ordinare in un sol corpo tutte le membra sparse di que’ tre o quattro esercitini che eran smontati dalla guardia delle bandite Signorie, vivificandoli del novello spirito, depurandoli dai corrotti elementi e fondendoli insieme con tutta quella massa eterogenea di milizie improvvisate, di volontari inesperti e di soldati di ventura accorrenti da ogni dove al centro, come ad un focolare, non era facile assunto; e s’intende come ad esso intendessero le supreme cure dei reggitori di quelle provincie. Vi si eran provati prima il Mezzacapo colle milizie bolognesi, il Ribotti colle parmensi, l’Ulloa colle toscane; ma nè quelli avevano riscossa sufficiente autorità, nè l’Ulloa, per la mala prova fatta nella spedizione di Lombardia e per i suoi armeggiamenti napoleonici, era parso adatto all’ufficio. Si fu allora che il Governo del Ricasoli, sospinto dal voto pubblico, pensò di invitar al comando dell’esercito toscano il Garibaldi, incaricando dell’imbasciata il valoroso Malenchini, già da qualche mese ascrittosi al Quartier generale dei Cacciatori delle Alpi, e al Generale carissimo. Erano i primi d’agosto; il Generale era in Lovere sofferente della sua artritide, ma d’animo sereno e tranquillissimo. Villafranca l’aveva scoraggiato meno di chicchessia; credeva più che mai alla fortuna d’Italia; ammirava lo stupendo moto dei popoli del Centro; parlava sempre con fede entusiasta di Vittorio Emanuele, e persisteva nel predicare a quanti l’accostavano la necessità della sua dittatura. In un manifesto, anzi, da lui indirizzato agl’Italiani del Centro, non solo ripeteva quel ch’egli chiamava sacro programma: «Italia e Vittorio Emanuele;» ma proclamava il dovere degl’Italiani di serbare: «Eterna gratitudine a Napoleone e alla nazione francese.» Naturalmente con siffatta disposizione d’animo l’offerta del Malenchini fu prima accolta che annunziata. Il Generale chiese immediatamente d’essere dispensato dal comando dei Cacciatori delle Alpi e il 7 agosto il Ministro della guerra La Marmora segnava il suo congedo; l’11 rivolgeva un affettuoso addio a’ suoi compagni d’arme di Varese e di Como; e il 30 di quello stesso mese, seguíto da pochi amici ed ufficiali, partiva per Modena, dov’era stanziato il Quartier generale della sua Divisione. Quantunque però la sua nomina fosse grandemente popolare, non tutti gli ufficiali dell’antico esercito toscano l’avevano veduta con uguale favore. Sparsasi la voce ch’egli avesse proposto al Governo una lunga lista de’ suoi vecchi ufficiali, li inaspriva il pensiero d’essere, a cagion di questi, o cassati, e messi in disparte, o frodati de’ loro diritti ed offesi nel loro amor proprio. Invasati essi pure dal pregiudizio comune all’universa famiglia militare, che Garibaldi non fosse che un guerrigliero rivoluzionario, sprezzante delle ordinanze stanziali, ribelle ad ogni disciplina, ignaro d’ogni precetto militare, temevano ch’egli capitasse loro addosso per scompigliare e disordinare anche quel poco che s’era fino allora faticosamente venuto ordinando e costituendo; e per questa e per quella ragione ognuno «in suo sogno dubitava.» Quando però lo videro arrivare scortato soltanto da cinque o sei ufficiali, e di questi quattro soli aver posti importanti ne’ quadri della Divisione toscana: il Medici comandante di Brigata; il Bixio d’un Reggimento; il Corte capo di Stato Maggiore;[213] e avvicinato l’orco s’accorsero che non divorava, e cominciarono a sentir l’incanto di quella parola melodica e l’impero di quella dignità affabile, e lo videro alla prova reggere con mano ferma la disciplina, raccomandare l’istruzione e attendere all’ordinamento del suo corpo, quanto e meglio d’un vecchio Generale di mestiere; allora anche le idee de’ più increduli si vennero modificando; la fiducia tra gli ufficiali e il Generale rinacque prontamente, e la Divisione toscana prese ben presto quel piglio sciolto, e quel carattere guerriero e italiano che per ragioni molteplici le erano fino allora mancati.[214] XXX. Verso la metà d’agosto i quattro nuovi Stati di Toscana, Romagna, Modena e Parma, ubbidienti ad una felicissima ispirazione dell’infaticabile Farini, conchiudevano tra di loro una Lega militare, mercè della quale ognuno di loro obbligavasi a contribuire un contingente di milizie, destinate alla tutela dell’ordine ed alla difesa dell’indipendenza comune, e ordinate perciò in un esercito solo sotto un sol Comandante. Ora è noto che il capitano prescelto fu Manfredo Fanti, il quale, riunendo in sè i molteplici requisiti di Generale sardo, di dotto militare e di vecchio rivoluzionario, sembrava l’uomo più acconcio al delicato e multiforme ufficio. E certo l’esercito della Lega sentì ben presto il tocco della sua mano esperta e robusta; lo partì in tre Divisioni, mettendovi a comandanti Pietro Rosselli, Luigi Mezzacapo e Garibaldi; apparecchiò i quadri di nuovi reggimenti di cavalleria e artiglieria; alacremente provvide alle armi, alle assise, alle ambulanze, all’amministrazione; aprì in Modena una Scuola militare, che tuttodì fiorisce; e, riforma più importante di tutte, prima ancora che l’annessione fosse dichiarata, diede al nuovo esercito i numeri progressivi del piemontese e ne fece con esso un esercito solo. Un solo atto del Fanti diremmo più degno di encomio per la sua generosità, che per la sua saggezza: pochi giorni dopo il suo arrivo, nominava il generale Garibaldi _Comandante in secondo_ dell’esercito collegato; val quanto dire suo primo Luogotenente e rappresentante. Ora la ragione ispiratrice di questo atto fu per fermo nobilissima, ma nel rispetto militare non altrettanto saggia ed accorta. Codesti comandi duali negli eserciti nuocciono spesso, giovano quasi mai. Se reali, aprono una sorgente inesauribile di equivoci, d’attriti, di urti sovente rovinosi; se apparenti, mortificano l’amor proprio dell’inferiore di grado, ne scemano l’autorità, ne paralizzano l’azione, seppure non ne formano un vero inciampo ed un vero pericolo. E il fatto ci darà fra breve ragione. Verso la metà d’ottobre era corsa voce che i mercenari pontificii, da tempo raccolti ne’ dintorni di Pesaro, apparecchiassero un’irruzione al di qua della Cattolica; e nello stesso tempo, che i popoli delle Marche e dell’Umbria, stanchi di mordere il freno aborrito, fossero prossimi a rompere in aperta sollevazione. A queste novelle, certo ingrandite dal desiderio e dall’arte, nè il Ricasoli nè il Cipriani prestarono fede; ma non così il Farini ed il Fanti, i quali, nutriti di latte rivoluzionario assai più di que’ due, lungi dall’impaurirsi di quella eventualità, l’avrebbero salutata con gioia, siccome l’occasione più propizia per provare la forza del novello Stato e al tempo stesso, sotto la bandiera della legittima difesa, dilatar la rivoluzione ed estendere i confini dell’Italia liberata. Il Fanti perciò, d’accordo col Farini, concentrate intorno al confine due Divisioni, la toscana e la modenese, le pone entrambi sotto il comando supremo del generale Garibaldi e gli dà per iscritto queste testuali istruzioni: «1º Tenersi in difesa sulla frontiera. »2º Resistere al nemico se attaccasse. »3º Dato questo caso e supposto di poterlo respingere, inseguirlo oltre il confine sin dove la prudenza consigli arrestarsi. »4º Quando ciò avvenisse, altre truppe della Lega accorrerebbero immediatamente in appoggio di quelle che avessero oltrepassata la frontiera. »5º Qualora una intera provincia, o anche una sola città si sollevasse e proclamasse volersi unire alle Romagne, e domandasse soccorso per essere protetta contro un nuovo eccidio, simile a quello di Perugia, e per mantenere l’ordine pubblico, in tale evenienza doversi spedire ai sollevati armi ed armati, in quella misura che le circostanze consiglieranno. »6º Finalmente se il nemico tentasse colla forza di riprendere quei luoghi, le truppe della Lega dovranno opporvisi difendendoli energicamente, nè desisteranno dalle ostilità contro i Pontificii, se non quando abbiano occupato tanto terreno, quanto riterranno necessario per garantire la loro sicurezza.» XXXI. Non appena però queste istruzioni furono conosciute, grande l’allarme su tutta la linea: gli stramoderati, perchè, a parer loro, si avventurava nell’ignoto tutto il bene conquistato; il Ricasoli, perchè non tollerava di veder complicata di nuovi problemi l’opera dell’annessione, sua nobile monomania; il Cipriani, all’opposto, perchè temeva di sgradir all’idolo bonapartista e di guastar il suo disegnino d’una Romagna separata; il Gabinetto di Torino, perchè si sentiva venir addosso nuovi impicci e nuovi rabbuffi diplomatici; tutti, quali per una ragione, quali per un’altra, biasimavano quella risoluzione, facendo carico al Fanti ed al Farini d’averla presa di loro capo senza nemmeno consultar gli altri due Governi della Lega (nel frattempo i Governi di Parma e di Modena s’eran fusi in un solo detto dell’Emilia), e violando i confini della loro legittima podestà. Però non andò guari che la procella, lentamente addensatasi in segreto, alquanti giorni dopo scoppiò. Verso gli ultimi di ottobre, il Cipriani, il Ricasoli e Marco Minghetti per terzo, convenuti segretamente alle Filigare, deliberarono d’accordo di sconfessare senza indugio quelle pericolose istruzioni, tenendo tuttavia quanto al modo due vie diverse, secondo i caratteri e gl’ingegni: al Ricasoli essendo bastato di disdire recisamente l’opera tenuta illegale e pericolosa; il Cipriani avendovi voluto aggiungere di suo l’ingiunzione al Fanti di recarsi a Bologna ad una specie di _redde rationem_, e di rimandar tostamente le truppe ai quartieri d’inverno. S’impennò alla superba intimazione il Fanti, e fiancheggiato dal Farini ribattè fieramente col noto telegramma: «Non ricevo ordini che dai tre Governi riuniti;» risposta invero più superba che giusta; poichè se i tre Governi riuniti gli parevano necessari a disfare, a maggior ragione avrebbero dovuto parergli indispensabili a fare. Comunque, durando il dissidio, e persistendo il Fanti a voler rassegnare l’ufficio piuttosto che cedere; il re Vittorio Emanuele, al quale nulla di quanto accadeva nella Penisola era nascosto, risolveva d’intervenire colla forza dell’autorità sua, chiamando presso di sè Garibaldi a sentire consiglio; e scrivendo contemporaneamente un’affettuosa lettera al Fanti per invitarlo a desistere da’ suoi propositi e piuttosto a deporre l’ufficio ed a tornare presso di lui, lasciando a Garibaldi solo il carico ed il rischio d’una impresa ch’egli, Re, non approvava. All’augusto invito nessuno de’ due Generali riluttò. Garibaldi si mise tostamente in viaggio; e il 27 ottobre giunto a Torino aveva un abboccamento di quattro ore col Re, di cui molto si novellò, e si novella tuttora; nulla di certo, di preciso trapelò. Che disse infatti Vittorio Emanuele al favorito Capitano popolare? Che rispose questi al suo Re? Vi sono degli storici fortunati che posseggono l’anello d’Alcina, e possono penetrare invisibili nella Reggia, invisibili ascoltare i colloqui delle stanze più segrete, e allo stesso modo uscire per imbandire all’indomani il verbo delle cose udite alla turba credula e beata. A noi questo dono non fu concesso, e però non potendo nè volendo spacciare per verità le nostre divinazioni, ci accontenteremo, più modesti, a proporre quelle congetture che ci sembrino più ragionevoli. Che Vittorio Emanuele abbia consigliato Garibaldi a sospendere o, se anche si vuole, a rinunciare interamente alla meditata irruzione, è assai probabile; che gliel’abbia espressamente ordinato, due ragioni gravissime c’inducono a dubitarne. Il Generale, infatti, appena tornato da Torino a Rimini, lungi dal differire, affretta così gli ordini dell’insurrezione al di là, come gli apparecchi dell’invasione al di qua del confine; ed ai suoi ufficiali che lo interrogavano sulla possibilità della passata, presente fra gli altri lo scrittore di queste pagine, diceva pubblicamente: «Credo che saremo attaccati noi stessi; ma _forse non ci mancherà l’occasione di marciare avanti lo stesso_.[215] Ora, che Garibaldi, risuonanti ancora gli orecchi degli augusti consigli di Torino, s’arrischiasse a pronunciare in pubblico quelle parole, ed a contravvenire apertamente e con apparecchi di guerra agli ordini di quel Re, ch’egli ostentava, fin troppo, non che di ubbidire come un Sovrano, di ascoltare come un amico, lo creda chi vuole. Noi fino a prova contraria, fino alla presentazione d’un documento che faccia testimonianza del colloquio di Torino, persisteremo sempre a credere che Vittorio Emanuele consigliò, non comandò; consigliò in guisa da far capire al suo non duro interlocutore, che non avrebbe, per questo, perduto il di lui regale favore, se per avventura sotto la sua responsabilità avesse disubbidito. Certo il re Vittorio non poteva assumere su di sè l’approvazione d’un’impresa, come quella che il Farini ed il Fanti avevano concertato; e in ogni caso non gli doveva piacere che un Generale dell’esercito suo, come il Fanti, membro d’un Governo posto sotto il di lui patrocinio, se ne immischiasse; ma una volta levato di mezzo questo unico indizio compromettente, che gl’importava, a che s’arrischiava egli, e a che il Piemonte, se una persona qualsifosse, estranea al Governo, libera e al tempo stesso amica, ribelle nei modi e devota al fine, vi si avventurasse a tutto suo rischio e pericolo, e salva sempre la condizione di giovarsene o di sconfessarla, secondo l’opportunità ed il successo? XXXII. E che siffatti pensieri passassero per la mente del gran Re, non è maraviglia. Era quella la politica del tempo: mirare al fine, nascondendone i mezzi; onestare di forme legali la rivolta; i rivoluzionari tentare di render complice la Monarchia; i monarchici farsi stromento della rivoluzione; tutti giocar a giova giova, mascherando d’inimicizie pubbliche gli amori privati nel sacro intento di fare l’Italia. Però nulla anche di più naturale che, in quell’armeggío di sottintesi, d’ambiguità, di nasconderelli, il semplice Garibaldi si smarrisse, e pigliando di colta le prime parole si credesse in diritto d’interpretarle nel loro senso più naturale e operare a seconda. Quanto al Fanti il discorso è di poco diverso; chè non volendo trasgredire all’augusto consiglio del Re, e non potendo rassegnarsi a desistere dal suo proponimento, deliberò piuttosto rassegnare l’ufficio e il comando. Ma poichè a nessuno bastava l’animo di accettare quella rinuncia che avrebbe privato l’esercito collegato della sua vera provvidenza, l’indugio, come spesso accade, portò consiglio; e rinata colla calma la fede nella suprema necessità della concordia, il Farini ed il Fanti finirono per persuadersi che quello sperato moto delle Marche era o illusorio o immaturo: lasciando bensì Garibaldi a continuare la sua guardia alla Cattolica, ma tacitamente sottintendendo che egli non avrebbe dato un passo più innanzi, e che le sue istruzioni, senza revocarle espressamente, sarebbero rimaste lettera morta. E questo solo fu l’errore. Se i Governi dell’Italia centrale, d’accordo ormai col Capitano supremo della Lega, stimavano di dover rinunziare a quell’impresa, per la quale dianzi avevan giudicati necessari il braccio ed il cuore di Garibaldi, non restava loro che un solo partito onesto e saggio: avvertirlo che i loro ordini erano revocati e richiamarlo dal confine. Trastullar Garibaldi di lusinghe, e credere ch’egli se ne acqueterebbe; abbandonargli nelle mani un ordine bellicoso, come quello di Modena, e pretendere che senza saperlo revocato non lo eseguisse; lasciarlo a cavallo d’un confine a capo di circa dodicimila uomini, quasi a tiro di moschetto d’un nemico provocatore e aborrito, innanzi a mezza Italia da liberare, e sperare, ch’egli si acconcerebbe lungamente all’imbelle gioco ed all’inutile comparsa, era un dar prova, per non dir di peggio, che non si conosceva ancora Garibaldi, nè si era imparato a servirsene. Garibaldi era allora, come sempre, la rivoluzione; ora un Governo qualsivoglia era certamente nel pieno suo diritto di guidare, di frenare, di repudiare e riprendere a sua posta la terribile alleata, ma ad un patto: che non ponesse il tizzone vicino alla polveriera, nè pretendesse adoperare Garibaldi per spegnitoio. Usar gli uomini per quel che sono e per quel che valgono, è il primo precetto dell’arte di Stato; e non pare che i governanti dell’Italia centrale se lo siano, in quel caso, ricordato abbastanza. Forte delle sue istruzioni non disdette mai, e risoluto, se vuolsi, a interpretarle liberamente, ma a non oltrepassarle, reputando vergogna per un esercito italiano il guardar colle armi al braccio un branco di mercenari, grondanti ancora di sangue cittadino, e non vedendo alcun rischio se di sottomano aiutava e affrettava quella sommossa delle Marche, che tutti, anche i più cauti, stimavan pretesto necessario alla guerra premeditata, Garibaldi fece quel che doveva fare egli; quel che era da aspettarsi da lui; quello che era nella natura sua e nella tradizione dell’intera sua vita; e che si doveva in ogni caso vietargli ed impedirgli prima, per avere il diritto di rimproverarglielo dopo. XXXIII. Garibaldi infatti non s’era infinto: egli da più settimane non lavorava visibilmente che ad uno scopo: provocare fra i Marchigiani quella sommossa che tutti aspettavano od annunziavano e non iscoppiava mai. Perciò spediva messi, introduceva armi, allestiva barche sul mare, inviava piccoli drappelli per terra; sinchè venne il giorno in cui anche il Governo non potè più nasconderselo, e decise di richiamarlo a Bologna, onde prima persuaderlo coi consigli, intimargli poscia coll’autorità, di desistere da tutti quegli apparecchi e di non muover passo senza nuovi ordini del legittimo suo Comandante. E Garibaldi accorse senza sospetti, e trovato pronto a riceverlo, oltre al Farini ed al Fanti, il generale Solaroli, inviatogli incontro dal Re per il medesimo scopo, li seguì a Palazzo e si richiuse con essi a consulta. Quivi i tre valentuomini espressero cortesi, ma franchi, le ragioni loro; egli, non meno cortese e tenace, espresse le sue; ma persistendo i primi e facendo appello alla necessità della concordia, ai doveri della disciplina, agli ostacoli della Diplomazia, finirono, se non propriamente col convincerlo, collo strappargli la promessa che avrebbe rinunciato, per allora, alla vagheggiata impresa, e non operato cosa che potesse dispiacere ai reggitori dello Stato. Se non che appena fuori di Palazzo, ecco farsegli attorno i suoi più accesi partigiani, e susurrargli: tutta quella voltata sentire d’intrigo napoleonico; il Fanti ed il Farini essersi burlati di lui; la rivoluzione essere imminente oltre il Tavullo; le promesse di soccorso già date; fedifrago e crudele il mancarvi. Nè bastò; che giunto nel cuore della notte ad Imola, vi trova, chi disse un messo, chi una lettera, chi un telegramma, ma insomma qualcosa, o qualcuno insieme, che gli annunziava per cosa certa la rivoluzione scoppiata oltre il Tavullo, tutte le Marche andare in fiamme, ed aspettare impazientemente l’aiuto promesso. Chi abbia portato quella lettera o quel telegramma; d’onde sia nata quella bugiarda notizia, non si sa ancora. Forse l’immaginò l’impazienza e il desiderio; probabilmente fu fabbricata nelle occulte officine delle sètte, nel qual caso la verità vi rimarrà perpetuamente nascosta e intera non si scoprirà mai. Il fatto è che Garibaldi ne fu colto. E soggiungiamo che probabilmente in altra disposizione d’animo non lo sarebbe stato; ma allora, in quella notte, l’idea di esser stato per tutto quel tempo burlato gli si era fitta come un chiodo nel cervello, e non gli pareva vero che un sì felice annunzio venisse a porgergli l’occasione di sventar la trama de’ suoi rivali, e compire al tempo stesso un disegno ch’egli sinceramente credeva lo svolgimento naturale della rivoluzione nazionale e la sua salvezza. Risolvendo quindi con procellosa concitazione, annunzia per telegrafo al Fanti: «Sollevate le Marche, muovere in soccorso de’ fratelli;» e prese le poste, riparte a trotto serrato per Rimini, dove comanda che per la notte stessa del 12 novembre le avanguardie abbiano a varcare il confine e tutta la Divisione seguitare il movimento.[216] Il telegramma da Imola cessò nell’animo così del Farini come del Fanti ogni dubbiezza, e giustamente ridesti al sentimento della loro autorità e responsabilità, spiccarono pressantissimamente contr’ordini energici, affinchè nessuno de’ corpi sotto il comando di Garibaldi lo obbedisse, e muovesse dalle sue stanze, o procedesse oltre, se per avventura si fosse già mosso. E poichè, se ne eccettui qualche isolata imprecazione e qualche sordo mormorío, tutti furono pronti all’obbedienza della legittima autorità, l’impresa restò, pel fatto solo della mancanza di forze, troncata nel suo nascere e sventata. Scoppiò invece all’inatteso contraccolpo l’animo già tumido d’ira e di sospetto di Garibaldi: e risolvendo tosto sotto la prima vampa della passione, rinfocolata da’ suoi più intimi seguaci e partigiani, riparte ancora per Bologna, si presenta al Farini ed al Fanti, li investe di irate rampogne, e intima loro, con temerità quasi ingenua, di cedere a lui la Dittatura politica e militare. Resistettero alla procella i due valorosi; è fama anzi che il Farini replicasse: ben lo si potrebbe gittare dal balcone in piazza, ma non piegarlo per sedizione militare; risposta a dir vero inutilmente romana, poichè Garibaldi parlò bensì imperioso e violento, non minacciò di ribellione o di sedizione chicchessia. Comunque, il Generale non gittò, come dice lo Zini,[217] il grado e il comando; molto meno partì immediatamente per Torino; ma ritiratosi a consulta con sè stesso e i suoi amici, «lasciò il Dittatore incerto del partito che presceglierebbe.[218]» Lo premevano infatti due correnti: da un lato i rivoluzionari schietti[219] lo spingevano ad afferrare anche colla violenza la Dittatura ed a varcare il Rubicone, che, forse, non era in quel caso una mera figura rettorica; dall’altro i governativi, i moderati, i prudenti, e più che tutti le segrete voci della sua coscienza, rimasta fino allora provvidenzialmente paurosa della guerra civile, lo consigliavano a contenersi, e a contenere i suoi più audaci; a rassegnare piuttosto un ufficio, che non poteva nè esercitare con libertà, nè tenere senza violenza. Naturale pertanto che l’aspettazione delle risoluzioni di Garibaldi tenesse in sospeso gli animi, così de’ suoi amici come de’ suoi avversari, e che la battaglia che si combatteva in lui e attorno a lui avesse un’eco in tutto il paese. Poichè se la sua Dittatura non poteva parer provvida che a pochi fanatici o idolatri, la sua ritirata brusca ed improvvisa dall’Italia centrale poteva sembrare pericolosa anche ai più saggi. Giuseppe La Farina, che pellegrinava in quei giorni per le città dell’Emilia, si provò ad intromettersi paciere nel conflitto; ma dimostrando egli pure, come tanti altri, di non conoscere dell’eroe che la corteccia, non gli soccorse altra idea più sublime che quella di proporre che a Garibaldi fosse dato il comando supremo dell’esercito dell’Italia centrale e al Fanti lasciato il Ministero della guerra. Garibaldi pel primo rifiutò netto; ed era da prevedersi; poichè non era nè il suono d’un titolo, nè la lustra d’un grado che egli mendicava; era un comando effettivo, una balía assoluta, ch’egli aveva certamente torto di pretendere a quel modo, e gli altri numerose ragioni di ricusargli; ma che pure chiedeva soltanto nella profonda e sincera illusione che quello fosse il miglior mezzo di giovare alla patria sua, e di adempiere alla missione provvidenziale onde si credeva investito. L’agitazione tuttavia cresceva; conati di manifestazioni rivoluzionarie erano succeduti in varii luoghi; la parte più garibaldina dell’esercito centrale rumoreggiava; conveniva che una risoluzione fosse presa; e la risoluzione venne anche quella volta da Torino. Il 12 novembre il conte di Cavour scriveva da Leri al Rattazzi: _Unico mezzo per soffocare la nascente discordia, invitar Garibaldi a deporre il comando._ Rattazzi teneva buona l’idea, ma troppo aspro il modo, e suggeriva al Re di esperimentare ancora una volta il consiglio. Perciò il 14 Garibaldi era chiamato da Vittorio Emanuele a Torino; il 17 mattina s’abboccava con lui, e la sera stessa correva per tutti i giornali la notizia ch’egli aveva rassegnato l’ufficio tenuto fino allora nell’Italia del centro. Infatti due giorni dopo l’annunziava agl’Italiani, da Genova, col celebre Manifesto del 19 novembre 1859, che vuol essere integralmente riprodotto, come il primo indizio di quel dissidio tra la politica rivoluzionaria garibaldina e la politica rivoluzionaria cavouriana, le quali procedendo ora emule ora rivali, ora complici ora concordi, fecero l’Italia: «AGLI ITALIANI. »Trovando con arti subdole e continue vincolata quella libertà d’azione che è inerente al mio grado nell’armata dell’Italia centrale, ond’io usai sempre sempre a conseguire lo scopo cui mira ogni buon Italiano, mi allontano per ora dal militare servizio. Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un’altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della patria, io ritroverò un’arma qualunque ed un posto accanto a’ miei prodi commilitoni. »La miserabile volpina politica che turba il maestoso andamento delle cose italiane deve persuaderci più che mai che noi dobbiamo serrarci intorno al prode e leale soldato dell’indipendenza nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere chiunque tenta tuffarci nelle antiche sciagure. »G. GARIBALDI.» Dopo ciò si poteva credere che il Generale s’apparecchiasse, irato Achille, a ritornare sotto la tenda della sua Caprera, tanto che l’annunziava con un affettuoso e riverente biglietto[220] al Re stesso, quando mutava improvvisamente pensiero; e il 23 mattina, giorno da lui fissato per la partenza, bandiva un nuovo proclama agl’Italiani, in cui, confermata la sua fede in Vittorio Emanuele, gl’invitava di nuovo a versare il loro obolo per la sottoscrizione nazionale del _Milione di fucili_, già da lui iniziata fin dall’ottobre, affinchè ognuno «_preparasse un’arma per ottenere, forse domani, colla forza ciò che si tentenna ora a concedere colla giustizia_.[221]» Partiva invece per Nizza, dove dimorava, occupato di sue faccende private, fino ai primi di dicembre, e dove, stando a svernare l’Imperatrice delle Russie, si divulgava la fiaba ch’egli la visitasse per accordarsi con lei circa ad una immaginaria candidatura d’un Principe russo al trono, non per anco tagliato, dell’Italia centrale.[222] Di là fece, è vero, una corsa a Caprera, ma breve; chè prima della metà dello stesso mese era di nuovo sul Continente. Dal 14 al 25 dicembre infatti lo troviamo a Fino, villa del marchese Raimondi, presso Como, d’onde indirizza agli studenti di Pavia un infiammato appello;[223] il 26 passa per Milano, ed alla folla, acclamante lui essere la forza d’Italia, risponde: «Errore; la forza di una nazione non è in un uomo solo, ma in sè stessa;[224]» il 29 lo incontriamo a Torino, dove lo porta la speranza di ottenere l’organizzazione della Guardia Nazionale mobile di Lombardia ed ha in proposito un lungo colloquio col Re.[225] Nel giorno stesso lo vediamo rinunciare alla presidenza dell’_Associazione nazionale_ e mettersi a capo d’una nuova società, la _Nazione armata_, che però, cedendo agli allarmi della parte moderata, e forse del Re medesimo, scioglie subito dopo (4 gennaio);[226] il 6 del mese stesso, infine, fastidito dalle ambagi di quella politica che non poteva comprendere, attratto dalla larva d’una felicità sognata fin da Valgana, scompare novellamente nell’ombra di Fino, dove il perfido Dio, che si trastulla specialmente degli eroi, gli andava tessendo in silenzio le più grosse bende e i più volgari agguati. XXXIV. Abbiamo ripetuto più volte che un solo degli amori di Garibaldi, quello d’Anita, ci parve degno di poema e di storia, e avvertiamo nuovamente il volgo dei lettori ingordi d’aneddoti erotici, che questo libro non è per loro. Sul finire del 1859 però, un amore, o fantasia, o avventura amorosa di Garibaldi, si conchiuse nel fatto pubblico d’un matrimonio, e noi possiamo scivolargli accanto e coprirne di discreti veli i particolari, ma non trapassarlo in silenzio. L’ultimo di maggio, il lettore non l’avrà dimenticato, si presentava a Garibaldi, in Sant’Ambrogio, la giovane marchesa Giuseppina Raimondi, che gli portava le notizie di Como, e insieme la preghiera dei Comaschi di accorrere in aiuto della loro città minacciata da un ritorno degli Austriaci. La messaggera era bella, di quella bellezza ardita e virile, che poteva tanto sulla fantasia del nostro eroe; di più narrava d’essere venuta traverso disagi e pericoli maggiori del suo sesso, ora rompendo, ora deludendo le fitte linee di nemici che imboscavano il paese; e Garibaldi, colto a un punto dalle seducenti attrattive della donna e dal miraggio fascinante dell’amazzone, ne restò ammaliato. Gli eventi d’Italia lo separarono per alcun tempo da lei, ma non poterono cancellarla dalla sua mente; e non appena il tumulto delle armi e l’altro più grande amore della patria gli concederanno un’ora di tregua, l’immagine della fantastica fanciulla rivivrà innanzi a’ suoi occhi, e sognando, illuso, di ritessere in Italia, con una seconda Anita, gli eroici idilli d’America, giurerà nel suo cuore di selvaggio innamorato di farla sua per sempre, come l’aveva giurato alla povera creola di Laguna. Ed era appunto per sciogliere quel voto ch’egli tornava a quei giorni sul Continente, e che noi lo troviamo nella seconda metà del dicembre nella villa di Fino, dove la marchesa Raimondi villeggiava coi suoi parenti. Indotto d’ambagi galanti, come delle diplomatiche; dimentico de’ suoi cinquant’anni, e ignaro che il cuore della donna è pelago che non si naviga mai senza scandaglio; avvezzo a prendere d’assalto le fortezze d’amore come le fortezze di guerra, e scordandosi che quelle seppelliscono spesso sotto corone di rose i loro vincitori; Garibaldi disse alla bramata fanciulla il suo amore, e la chiese in isposa. Il padre assentì; ella, che aveva già dato il suo cuore ad un altro, doveva ricusare, e non osò; e Garibaldi il mattino del 24 gennaio 1860, nella stessa cappella domestica di Fino, la condusse all’altare. Poche ore dopo però una lettera, tardamente pietosa, venne ad avvertire il Generale ch’egli aveva un rivale felice; ella, interrogata dal marito, chinò il capo confessando, e Garibaldi, trovando in un impeto subitaneo della sua tempra eroica la sola catastrofe degna del triste dramma, monta a cavallo e fugge la sera stessa da Fino, riparando indi a pochi giorni nella sua Caprera, dove non porterà seco di quella breve fiamma che poca cenere amara e la balza d’un matrimonio di nome, di cui la donna che gli fu moglie per pochi istanti fu la prima certamente a sentire il tormento ed il castigo.[227] XXXV. Così finiva anche per Garibaldi il 1859. Delle cose da lui operate come Capitano nell’estate di quell’anno, il giudizio non è controverso, nè dubbia la gloria. Diversa invece la sentenza intorno alla parte da lui rappresentata nell’Italia centrale. Come non si potè levare dalla mente de’ suoi contemporanei, così non si potrà interamente cancellare dalle pagine della storia l’opinione che il Comandante in secondo dell’esercito centrale, volendo a forza un’impresa che il legittimo Governo disvoleva, abbia tentato, se non compiuto, un atto di ribellione, e posto a repentaglio, non che la disciplina dell’esercito, la quiete e la salute d’Italia. Pure non è questa la conclusione che scaturisce dai fatti da noi esposti, e chi vorrà persistere in quel giudizio dovrà o smentire con autentiche testimonianze i fatti, od aspettarsi dal tempo un giudizio molto diverso dal suo. Garibaldi esorbitò certamente nei modi e patrocinò forse con troppa violenza un’idea per lo meno disputabile, e di cui non era giudice egli solo; ma insomma quell’idea egli aveva il diritto di crederla buona, non solo per sè stessa, ma anche perchè era stata caldeggiata fino all’ultimo da quei medesimi che l’avevano poi sconfessata. Di tutto quanto egli fece per apparecchiare il passaggio della Cattolica, nessuno potrebbe fargli torto; poichè nessuno fino al principiar del novembre pensò ad avvertirlo che gli ordini a lui impartiti erano abrogati, e il mandato a lui commesso sospeso. Fino allora dunque nulla nella sua condotta che non fosse, anche militarmente parlando, regolare e corretto. Che se a novembre il Governo mutò disegno e Garibaldi promise che avrebbe desistito dalla cominciata impresa, fu soltanto perchè gli venne dato per certo che l’attesa rivolta nelle Marche, stimata condizione indispensabile all’invasione, non accadrebbe, nè poteva più accadere. Ora lo si potrà accusare d’avere con troppa precipitazione creduto al messaggio d’Imola, che gli annunziava invece la rivolta già scoppiata; lo si può, lo si deve biasimare d’essersi tolto l’arbitrio di comandare da sè solo una mossa che in qualsivoglia ipotesi spettava al Governo solo di ordinare; ma di volontaria e meditata ribellione, non mai. Egli non fu allora più ribelle al Farini ed al Fanti di quello che il Fanti ed il Farini lo sieno stati un mese prima al Cipriani ed al Ricasoli. In quel tramestío rivoluzionario, in quella semi-anarchia di governi, di opinioni, di politiche, che cangiavano, si confondevano, si urtavano ad ogni piè sospinto; in quel parapiglia di ordini dati a Modena, disdetti a Bologna, modificati a Firenze, corretti a Torino, stabilire l’esatto punto in cui l’opposizione diventava ribellione, e la legalità rivoluzione, è difficile assai; e in un paese, dove tutti, da Vittorio Emanuele al Cavour, dal Ricasoli al Farini, dal Fanti al Boncompagni, cospiravano un po’, e spesso ad insaputa, talvolta a rovescio l’un dell’altro, il rimproverare a Garibaldi d’essere tocco dal male comune, deve parere soverchio anche pei più accigliati custodi della rigorosa dottrina governativa. Garibaldi era un generale, e sta bene; ma un generale unico, _sui generis_, in tale posizione anormale che non ha riscontro nella storia degli eserciti. Era un generale, ma insieme un capo-popolo, un tribuno, un apostolo armato; era un generale, ma un presidente, riconosciuto ed onorato dallo stesso Governo, di una vasta associazione politica; era un generale, ma a cui era lecito di aprire pubbliche collette d’armi, di scrivere ogni giorno un nuovo Manifesto politico o guerriero, di avere uno Stato Maggiore composto in parte d’uomini politici, di formarsi dei corpi speciali a suo talento, quasi guardie del corpo, di arringare dai balconi il popolo, e di cospirare in segreto col Re. Ora come applicare ad un uomo simile i criterii d’una rigorosa disciplina militare, quando gli si concedeva di violarla ad ogni passo col consenso e colla tolleranza dei suoi stessi superiori? Per impedirgli d’agire di suo capo l’ultimo giorno, conveniva metterlo al dovere fino dal primo; per rimproverargli di agitare il popolo, bisognava non giovarsi o non compiacersi della sua popolarità; per censurarlo di portar nei consigli militari la sua politica, importava non farne con lui; nè spesso applaudirla e seguitarla in pubblico per sconfessarla in privato. Garibaldi era logico. Convinto, come tutti i veggenti e gl’illuminati, d’aver ricevuto dall’alto una missione, l’adempiva. Persuaso che fosse dannoso l’arrestare «il maestoso andamento della rivoluzione,» e che sola politica degna dell’Italia fossero «un milione di fucili e un milione d’armati,» non nascondeva il suo pensiero; lo gridava anzi ai quattro venti; e poichè il suo concetto trovava un’eco non solo nel fondo di quelle turbe popolari a cui la sua voce più dirittamente arrivava, ma un seguito ed una adesione in quelle medesime classi che per altre ragioni lo combattevano, egli era in pieno diritto di persistere nella sua via, e di chiamarvi a seguitarlo l’Italia. Garibaldi faceva la parte sua, ed era provvido che la facesse. Le grandi evoluzioni della storia, al pari delle grandi evoluzioni della natura, non sono mai l’effetto d’una forza sola. Al movimento italiano era tanto necessaria la forza impellente della rivoluzione, quanto le forze moderatrici e dirigenti dell’arte di Stato, dell’ordine e della legalità. Se immaginare la rivoluzione italiana senza il nome di Vittorio Emanuele e il genio del Cavour è impossibile, non meno impossibile è pensarla senza la mano di Garibaldi, che a un dato istante, appena la ruota pareva sviarsi od inciampare, veniva ad imprimerle un moto impreveduto ed a risospingerla verso la sua mèta. Questo egli volle nel 1859, ed era troppo presto; rivolle nel 1860, e indovinò l’ora del destino. FINE DEL VOLUME PRIMO. INDICE DEL VOLUME PRIMO DEDICA Pag. V PREFAZIONE VII FAC-SIMILE DI DUE PAGINE DELLE MEMORIE DI GARIBALDI 1 _Capitolo_ I. Dalla nascita al primo esiglio [1807-1836] ivi II. Da Rio Grande del Sud a Montevideo [1837-1841] 50 III. Da Montevideo al ritorno in Italia [1842-1848] 109 Carta dell’Uruguay con le provincie del Rio Grande Do Sul, dell’Entrerios e del Corrientes, ad illustrazione dei viaggi e delle azioni di G. Garibaldi nell’America meridionale 213 IV. Da Nizza a Morazzone [1848] 214 V. Roma [1849] 246 VI. Da Roma al secondo esiglio [1849-1854] 331 Schizzo topografico illustrativo del combattimento di Morazzone [1848] 392 Schizzo topografico illustrativo della battaglia di Velletri [1849] ivi Carta itineraria della ritirata di Garibaldi da Roma [1849] ivi VII. Da Varese alla Cattolica [1859] 415 ERRATA-CORRIGE. Volume I. _Pag._ _lin._ 5, 7 l’anno stesso di _va soppresso_ Cavour 27, 12 Ragiundo Raimondi 84, 25 Tramandahy Taramanday id., ult. id. id. 85, 4 id. id. id., ult. id. id. 170, 9 1842 1843 202, 13 14 gennaio 12 gennaio 206, 22 Duyman Dayman 233, 7 4 luglio 4 agosto 247, 27 24 aprile 29 aprile 259, 7 22 marzo 23 marzo 280, 24 Giuseppe Rosselli Pietro Rosselli 398, 25 barca bara 422, 24 fosse assalita non fosse assalita 424, 21 Migliavaca Migliavacca 437, 25 giornata stessa del 27 giornata stessa del 21 450, 14 maggiore Bioll tenente colonnello Bioll 453, 17 colonnello Bioll id. id. A pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe Bertoldi, corse un errore di disposizione. Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando su noi le barbare ec.» NOTE: [1] Essendosi S. M. degnata di mettermi in corrispondenza, per mezzo del Ministro della Real Casa, conte Visone, col cavalier Promis, bibliotecario della Biblioteca del Re in Torino, io esposi allo stesso signor Cavaliere una serie di domande e di quesiti, ai quali egli, dopo altre lettere cortesi, finì col rispondere in questo tenore: «Ella....., sono persuaso, non potrà a meno di approvare il mio operato, tanto più che tutto il desiderato è sotto suggello. Credo però di non mancare al mio dovere, dicendole che moltissimo non esiste più, essendo stato sottratto, non so nè dove nè da chi; ma è cosa notoria: che del 63 e 64 nulla affatto vi è, forse perchè tolto o regalato: nulla vi è sulla chiamata del Generale nel 1859, e sul richiamo dalla Cattolica; poco sul resto: nulla del Re: qualche copia di proclama e qualche raccomandazione: pochi fogli del 59 e 60 e di qualche altro anno, tutte cose in gran parte pubblicate.» [2] Nell’_Epître dédicatoire à Madame de Pompadour, premessa al Tancrède._ [3] Le stesse _Memorie_ son quelle pubblicate da Alessandro Dumas seniore, in due volumi col titolo _Mémoires de Garibaldi_ (Paris, M. Lévy Frères, 1862); e in parte, fino al 1848, edite da Francesco Carrano, allora generale, nel suo libro _Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi nel 1859_. Circa però all’edizione del Dumas conviene stare in guardia, poichè se non può veramente dirsi che il celebre scrittore abbia inventati fatti di sana pianta, li travestì di tante ciarpe romanzesche da diventare talvolta affatto irriconoscibili. Epperò circa a quel periodo le sole _Memorie_ di Garibaldi da tenersi per autentiche son quelle dell’Elpis Melena. Vedi anche sulla storia delle _Memorie_ di Garibaldi confidate ad Elpis Melena un articolo di Saint-René Taillandier nella _Revue des Deux-Mondes._ [4] Altre Vite da consultarsi con frutto per alcuni documenti che vi si trovano sono: P. C. BOGGIO, _La Vita politica aneddotica militare del generale Giuseppe Garibaldi_, Torino, 1861; GIUSEPPE RICCIARDI, _Vita di Giuseppe Garibaldi_ narrata al popolo e continuata sino al ritiro nell’isola di Caprera (9 novembre 1860), Firenze, G. Barbèra, 1860; _Vita di Giuseppe Garibaldi_ scritta sopra documenti genealogici, storici, dalla sua partenza fino al recente ritorno in Caprera, Firenze, Le Monnier, 1864. Anche l’opuscolo _Garibaldi dal 1860 al 1879_ per F. BIDESCHINI, Roma, Tip. del Popolo Romano, 1879, ha particolari interessanti, di cui l’autore, testimonio e attore, può star garante. Taccio le straniere, copiate o calcate quasi tutte sulle italiane. L’ultima comparsa che io mi sappia è _The Life of G. Garibaldi_ by T. THEODORE BENT, London, Longmans, Green etc., 1881. [5] Fra le Storie generali non va dimenticata quella dell’ANELLI, _Storia d’Italia_, e affinchè _audiatur et altera pars_, confrontisi anche _La continuazione alla Storia universale della Chiesa Cattolica dell’Ab. Rohrbacher dall’elezione al Pontificato di Pio IX nel 1846 sino ai giorni nostri_, scritta dal prof. D. P. BALAN ec., vol. II, Torino, per Giacinto Marietti, 1879. [6] Eccone l’elenco nell’ordine e coi titoli appostivi dal Generale stesso: L’Uomo Pag. 1 Il Governo 3 Il Prete 4 Esercito 9 Il Popolo 11 Il Giornalismo 14 La Contesa 17 Cristo 18 La Religione del Vero 21 Disciplina 23 La Donna 25 Dignità 28 Terror pànico 34 Marina e Cavalleria 40 Menzogna e Corruzione 43 La Coscienza 45 Sarnico 47 Palermo 51 Calatafimi 54 Marsala 56 Aspromonte 58 Il Trasporto 75 L’Anima 77 Il Beneficio 80 Il Bene e il Male 86 La Morte 89 Il Dolore 92 I Ministeri 98 La paura governa il mondo 100 La Dittatura 109 I Briganti 116 Ordinamenti 121 Nizza 124 Roma 138 Palermo 140 Donne 142 Le Latitudini 144 Incertezze. Pag. 154, interrotto alla 155 Unità Mondiale 156-160 Frammento sull’Esercito 161 Poche parole all’Italia (interrotto) 162-163 Studio sui Venti (incompleto) 164-168 Lo stesso in francese 169-172 Il Furto organizzato 173-175 Massime 176 Il Re Galantuomo 177-178 Parlamento e Ministri 179 Altri frammenti di pensieri e abbozzi di manifesti e lettere, ec. e fra gli altri alcuni studi di matematica. [7] Soltanto nel correggere la stampa di questa Prefazione vengo a scoprire che la lettera del Maraini fu in questi ultimi giorni stampata dalla _Riforma_. Lungi dal mio pensiero l’incolpare il mio buon amico Maraini d’aver voluto pagare anch’egli il suo tributo alla memoria del grande uomo col mettere in luce un sì prezioso tesoro, sul quale, poichè m’era stato donato per la stampa, potevo sperare d’aver anch’io un certo diritto di prelazione. Mi scuso soltanto se la do per inedita, poichè fino a ieri era tale per me. [8] _On History_, nei suoi _Criticals and Historicals Essays_. [9] _Historiarum_, lib. I, cap. I. [10] G. CARDUCCI, _A Giuseppe Garibaldi_. [11] _Memorie di G. Garibaldi_ pubblicate da FRANCESCO CARRANO nell’opera: _I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi_, ec., pag. 16. Torino. Unione Tipografica Editrice, 1860. [12] Il DUMAS nelle sue _Memorie_ la chiama «Ragiundo;» il BORDONE nel _Garibaldi_ «Bogiado;» ma il vero nome è Raimondi, come si rileva dall’_Atto di morte_ di suo marito Domenico del 3 aprile 1841, estratto dai Registri della Parrocchia della Concezione di M. V. in Nizza e dalla immatricolazione di suo figlio Giuseppe nella Marina sarda, ricavata dalla _Matricola del 1832_, pag. 392. [13] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 10. [14] Vedi _Memorie_ citate, pag. 10. [15] Queste parole le traduciamo dalle _Mémoires de Garibaldi_, di A. DUMAS padre (Paris, Levy, 1862), le quali devono tenersi, come dicemmo nella Prefazione, un ampliamento del testo primitivo e originale, ornato poi dalla fantasia del Traduttore. [16] E non _Giovanni_, come dice il Dumas; e non _Giaume_, come scrive l’Elpis Melena. [17] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 12. [18] Vedi _Memorie_ citate, pag. 14. [19] A Enrico Guastalla, suo soldato da Roma a Bezzecca. [20] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 14. [21] Diciamo altrove, cioè nel _Garibaldi’s Denkwürdigkeiten_, di ELPIS MELENA (pag. 17); mentre il testo Carrano non accenna a questo episodio. Il Dumas poi vi ricama sopra uno de’ suoi soliti romanzi; immagina favolosi combattimenti, e mette in bocca a Garibaldi parole che non ha mai proferite. [22] L’Elpis Melena, nelle _Memorie_ già citate, dice _Trovaigo_, ma deve essere errore di scrittura o di stampa. Il Carrano, che riproduce esattamente le _Memorie_ originali, dice _Sauvaigo_. E Dumas lo segue. [23] Di queste parole restò memoria viva fra i vecchi conoscenti ed amici di casa Garibaldi, e ce le riferì un egregio Nizzardo, che volle favorirmi, con questa, molte altre notizie circa il suo celebre concittadino e la sua famiglia. [24] _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da GIO. BATTISTA CUNEO, pag. 16. Genova, Regia Tipografia Ferrando. Il Carrano suppone che il credente potesse essere Mazzini. Ma il Mazzini stesso ci assicura di non aver conosciuto Garibaldi che l’anno dopo a Marsiglia. [25] I preti di Firenze gli negarono la sepoltura! Ora dorme in Oneglia sua patria. [26] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 15. [27] _Opere_ di _G. Mazzini_. Milano, Daelli: _Politica_, vol. III, pag. 334. [28] Ecco il suo atto d’arruolamento quale venne estratto dalla _Matricola del 1832_, vol. I, pag. 392: «Marinaro di terza classe Garibaldi Giuseppe Maria per nome di guerra _Cleombroto_, figlio di Domenico e di Rosa Raimondi, nato li 4 luglio 1807 a Nizza, provincia di Nizza, iscritto alla Matricola della Direzione di Nizza il 27 febbraio 1832 al Nº 289. »Assentato da Genova come marinaro di terza classe di leva li 26 dicembre 1833. Statura oncie 39¾. Capelli e ciglia rossicci, occhi castagni, fronte spaziosa, naso aquilino, bocca media, mento tondo, viso tondo, colorito naturale, segni apparenti.... »Imbarcato sul _Des Geneys_ il 3 febbraio 1834. A. S. L. (assentatosi senza licenza) dalla suddetta regia fregata il 4 febbraio 1834.» [29] Durante il mio soggiorno a Caprera non era facile indurre Garibaldi a raccontare le sue avventure; ma su questa tornava egli medesimo spesse volte e volontariamente, ed era uno degli esempi con cui illustrava la vanità delle congiure mazziniane, delle quali non fu mai ammiratore. [30] E non il _Nantomis_, come stampava forse per errore il Cariano; nè il _Nagens_, come dice il Bordone. [31] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 17. [32] _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da G. B. CUNEO, pag. 18. [33] Le _Memorie_ del Carrano dicono _12_; quelle dell’Elpis Melena e il Dumas _16_. Anche queste parole sono riferite con lievi varianti; ma il senso è questo [34] Barca destinata alla pesca delle _garape_, pesce delicato del Brasile. [35] Intende della Banda Orientale, secondo nome dato all’Uruguay che si trova sulla sponda orientale della Plata. [36] Piccolo fiume. [37] Specie di gazzella. [38] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 25. [39] Nè il nome del capitano, nè quello del bastimento ci fu dato accertare. Il Dumas dice: _un navire commandé par un Mahonais nommé Don Lucas Tartanlo_. L’Elpis Melena: Luca _Tartabal von der Goelette Pintosesco_. Il Carrano: _Lucas Tartabul della goeletta Pintaresco_. [40] A G. B. Cuneo appunto in quei giorni scriveva: «Circa ad evadermi, ti basti che sono in questa condizione sulla mia parola d’onore. Passo la maggior parte del giorno leggendo libri che l’instancabile bontà del mio ospite mi provvede; talora nella sera d’un bel giorno vado a passeggio, visito qualche conoscente, e guardo malinconicamente le bellezze del paese, e mi ritiro a casa; altre volte esco a godere d’una bella mattinata, e leggo, scrivo, e _sempre in cuore l’Italia_, e parlando con dispetto io grido: Io la vorrei deserta E i suoi palagi infranti . . . . . . . . . . . . . Pria che vederla trepida Sotto il baston del Vandalo! La mia sorte è legata alla tua; guidati da un solo principio, consacrati ad una causa, abbiamo rinunciato alla tranquillità e imposto silenzio a tutte le passioni: ad onta dei giudizi leggeri ed inconsiderati della moltitudine, che non riguarda sovente il nostro generoso proposito che sotto l’aspetto d’interessate mire e d’ambizione, proseguiremo. Il testimonio della coscienza ci basta.» [41] Il Cuneo aggiunge: «che lo strazio crudele era reso più osceno ed atroce da una turba selvaggia che, affollatasi alla soglia della prigione rimasta aperta, scherniva il sofferente e del martirio faceva argomento di contumelie.» Qua e là si legge che Garibaldi, quand’era impeso alla trave, si vendicò sputando in faccia al suo carnefice. Può essere, ma nelle sue _Memorie_ non troviamo cenno alcuno del fatto. [42] Specie di thè brasiliano. [43] Al Brasile rammentano ancora il fatto; e a proposito di un canale progettato, tra la laguna e Porto Allegre, il Siglo di Montevideo del dicembre 1879, nº 4452, usciva con queste parole: «_Canalizacion_. — Varios ingenieros brasileros han publicado un folleto que versa sobre la apertura de un canal navegable entre el puerto de la laguna y la ciudad de Porto Alegre. Referiendose a ese proyecto, recuerda _O Cruzeiro_ un episodio de la vida militar de Garibaldi. Ese ilustrado caudillo hallandose al servicio de la revolucion republicana riograndense, ejecuto la idea que hoy se agita, colocando tres lanchones sobre ruedas y metiendolos en el Capivary: de manera que con esa parte de _navegacion terrestre_, pudo entrar en la laguna con un solo barquetillo pues los demos naufragaron en la costa de Taramanday.» [44] _Memorie_ edite dal CARRANO, pag. 46-47. [45] Non si confonda questa _Laguna_, vasto lago nella provincia di Santa Caterina, e che dà il nome alla città di Laguna sopra nominata, colla laguna _de los Patos_, posta nel Rio Grande, di cui si è discorso finora. [46] Dal _Garibaldi’s Denkwurdigkeiten_, di ELPIS MELENA, vol. I, pag. 84 e 85. Il Carrano sopprime il brano, e il Dumas al solito lo infrasca. Nel rimanente tutta la storia d’Anita, tanto quella narrata fin qui, quanto quella che avremo a narrare in seguito, l’abbiamo attinta a due fonti per noi inoppugnabili: le _Memorie_ di Garibaldi, le attestazioni di parenti e amici suoi, o testimoni, o consapevoli per diretta notizia, de’ fatti. [47] _Anta_ è una bestia inoffensiva della mediocre altezza d’un somaro, la cui carne è squisita, e il cuoio serve a vari lavori. Io non l’ho veduta mai. [48] _Piccada_, vale ancora _foresta_. [49] Specie di pino gigantesco. [50] Boschi. [51] Buchi ricoperti accuratamente con erbe, nei quali precipitando l’incauto viandante, ne profittano i selvaggi per assalirlo. [52] Dal 1836 al 1842. [53] _Les dissensions des Républiques de la Plata et les machinations du Brésil_, pag. 2. Paris, E. Dentu libraire-éditeur, 1865. [54] Non dispiacerà forse il risapere che fra le sette prime famiglie che vennero da _Buenos-Ayres_ ad abitare la nuova città, una era tutta di Genovesi, cioè Giorgio Borgès, sua moglie Maria Carrasco e quattro di famiglia. E che per _Borgès_ si debba leggere _Borghesi_, e questo nome sia fra gli antichissimi di Genova lo dimostra il prof. G. B. BRIGNARDELLO nella sua _Memoria delle vicende dell’America meridionale e specialmente di Montevideo nell’Uruguay_, pag. 31 e seg. Genova, 1879. [55] _Glorias militares de los Españoles desde la mas remota antigüedad hasta el presente_, tomo II, pag. 197. Cadiz, 1808. [56] _Estudios historicos, politicos y sociales sobre el Rio de la Plata_, por D. ALESANDRO MAGARIÑOS CERVANTES, pag. 97. Paris, 1854. [57] In alcune provincie anzi, come nella Nuova Granata, fu piuttosto diretto contro i Francesi ed i loro partigiani (_afrancesados_) che contro gli Spagnuoli. [58] La posizione astronomica della Repubblica è fra il 55° e 61° longitudine occidentale, e il 30° e 35° latitudine meridionale dal meridiano di Parigi. Gli scrittori di Geografia fisica del paese s’accordano però nel dire che le osservazioni meteorologiche vi sono ancora molto manchevoli e imperfette. Vedi _Elementi di Geografia fisica della Repubblica orientale dell’Uruguay_, di PIETRO GIRALT, membro dell’Istituto d’istruzione pubblica in Montevideo. Versione italiana pubblicata per cura del Consolato generale dell’Uruguay in Italia. Poi: _La République orientale de l’Uruguay à l’Exposition de Vienne_, par A. VAILLANT. Estensione della Banda Orientale Chilom. quad. 186,920.01 Popolazione assoluta nel 1877 440,000. — Popolazione relativa per ogni chilom. quadrato 2.4 _Riassunto statistico per l’Esposizione Universale di Parigi, fatto dalla Direzione di Statistica della Repubblica_. Montevideo, 1878. Estensione dell’Argentina Chilom. quad. 4,195,519.84 Popolazione assoluta nel 1873 1,877,490. — Popolazione relativa per ogni chilom. quadrato 0.6 Oggi la popolazione assoluta è calcolata di 2,400,000. Queste cifre risultano da un calcolo planimetrico eseguito nel 1873 e nel 1880 (_Die Bevölkerung der Erde_) da M. M. BEHM ET WAGNER, VI, _Gotha 1880_, all’Istituto geografico F. Perthes di Gotha. [59] Serpente che prende il nome dal rosso vivo del corallo. Così il _coguar_ è una specie di leone più piccolo di quelli d’Africa e d’Asia. [60] Uno dei difensori di Montevideo contro gl’Inglesi nel 1807. [61] Il Saavedra favoriva la monarchia con un principe europeo. [62] Nel progetto di trattato da lui proposto il 16 giugno 1815 aveva inchiuso quest’articolo: «13º — Las Provincias y pueblos comprendidos desde la márgen Oriental del Paraná hasta la Occidental, quedan en la forma inclusa en el primier artículo de este Tratado, como igualmente las provincias de Santa-Fé y Cordoba hasta que voluntariamte no querian separarse de la proteccion de la Banda Oriental del Uruguay y direccion del gefe de los orientales.» _Bosquejo histórico de la República oriental del Uruguay_, pag. 76. [63] Parole del vicerè di Buenos-Ayres, Don Nicola de Arredondo, tolte dal libro: _Estudios históricos, politicos y sociales sobre el Rio de la Plata_, por D. ALEYANDRO MAGARIÑOS CERVANTES, ec., pag. 90. Paris, tip. Ad. Blondeau, 1854. [64] Vi è un quadro rappresentante _El Juramento de Los 33_, opera del pittore uruguayano Blanos (ora dimorante a Firenze). Ecco i nomi di que’ valorosi, ai quali forse pensò il venturo capitano dei Mille: 1. Ignacio Nuñez. 2. Juan Acosta. 3. Felipe Carapé. 4. Juan Rosas. 5. Celedonio Rojas. 6. Manuel Melendez. 7. Avelino Miranda. 8. Agustin Velasquez. 9. Manuel Freire. 10. Joaquin Artigas. 11. Gregorio Sanabria. 12. Santiago Nievas. 13. Santiago Gadea. 14. Ignacio Medina. 15. Jacinto Trapani. 16. Luciano Romero. 17. Juan Spikermann. 18. Pablo Zufriategui. 19. Simon del Pino. 20. Manuel Lavalleja. 21. Juan Antonio Lavalleja. 22. Atanasio Sierra. 23. Manuel Oribe. 24. Andrés Spikermann. 25. Ramon Ortiz. 26. Basilio Aranjo. 27. Juan Ortiz. 28. Pantaleon Artigas. 29. Andrés Areguati. 30. Andrés Chebeste. 31. Francisco Lavalleja. 32. Dionisio Oribe. 33. Carmelo Colman. [65] SARMIENTO, _Civilisation et barbarie_. Vedine l’ampio sunto nella _Revue des Deux-Mondes_, 1º ottobre 1846, fattone da CARLO DI MAZADE. [66] Taverne di campagna. [67] MAGARIÑOS CERVANTES, op. cit. [68] _Horca_ vuol dire nell’istesso tempo _covone_ e _forca_. Laonde _Mas-horca: più forca_ e _più unione_; o l’unione che si cementa nel sangue de’ patiboli. [69] Vedi i _Decreti dei Governatori di Tucuman de Calamarca e Corrientes_, in MAGARIÑOS CERVANTES, pag. 223. Il primo di que’ Decreti dice: «Todos les Argentinos estan autorizados á quitar la vida á los comprendidos en el anterior artículo, en qualquier lugar del territorio de la República, etc.» Il secondo più esplicitamente: «Considerando que es un crímen el mirar á los malvados facinerosos con clemencia, etc. »Art. 1º — Quedan proscritos _para siempre y fuera de la ley_, todos los individuos de uno y otro sexo que se hallan alistados en las filas de las dos divisiones de bandidos y malvados salvages inmundos unitarios.» [70] MAGARIÑOS CERVANTES, op. cit., pag. 10. [71] Un ufficiale francese, il signor FERDINAND DURAND, in un suo pregevole lavoro intitolato: _Précis de l’Histoire politique et militaire des Etats de Rio de la Plata_, nello _Spectateur Militaire_ (febbraio e marzo 1852), dice a questo punto, «che l’Echague marciava contro Montevideo, ma che vistolo occupato dai Francesi (i quali per confessione sua non erano più di quattrocento) rinunciò ad assediarli, e mosse invece contro il Ribera a Chagancia.» Questo, se non è una vanteria francese, è manifestamente un grosso errore militare: l’Echague non poteva mai impegnarsi ad assediare Montevideo, quando aveva sui fianchi a poche leghe tutto l’esercito del Ribera, intatto e impaziente di combattere. [72] Vedi ANDRÉS LAMAS, _Apuntes históricos de las agresiones de Rosas contra la independencia de la República oriental del Uruguay_. Nella Nota 34 si legge: «Libres los despojos humanos del general Lavalle en tierra boliviana, por el heroico sacrificio de los patriotas que los custodiaban, Oribe en su despecho _reclamó la estradicion de aquellos restos_. El general Urdimenea rechazó con horror tan atroz proposicion.» [73] Ciò è attestato dall’_Atto matrimoniale_ che pubblichiamo più innanzi a pag. 377-78, in nota. [74] Dal _Garibaldi’s Denkwurdigkeiten_ di ELPIS MELENA, vol. I. Il Carrano abbrevia, il Dumas inventa; la sola Elpis Melena si sforza a tradurre alla lettera il testo delle _Memorie_ originali che aveva tra mano. Noi però, ritraducendo, usiamo, rispetto alla forma, d’una certa libertà, anche perchè non siamo ben sicuri se la traduttrice abbia sempre intesa o riprodotta fedelmente la locuzione italiana. [75] Traduciamo alla lettera la frase del testo Elpis Melena, ma confessiamo sinceramente di non intenderla. Come una squadra che navigava in acque basse avesse bisogno di accrescere la propria zavorra, nessuno l’intenderà mai, molto meno che avesse bisogno di fare quest’operazione nell’imminenza d’un combattimento. Forse la traduttrice ha voltato male una frase di Garibaldi, o si è spiegato poco chiaramente egli stesso. [76] WRIGHT, autore del _Siège de Montevideo_, citato da A. DUMAS padre, nel suo eccellente libro: _Montevideo ou une nouvelle Troje_ (Paris, Nap. Chaix, 1850), dettatogli può dirsi dal general Pacheco, ministro allora dell’Uruguay a Parigi. [77] Vedi _Spectateur militaire_, febbraio, marzo e aprile 1852. — _Précis de l’Histoire politique et militaire des États de Rio de la Plata_, par FERDINAND DURAND; studio militare che ci fu di utilissima guida. [78] Propriamente d’Alzate. [79] Il generale Sacchi ci diede i nomi di quei due ufficiali; si chiamavano Larini e Ferretti; e sta bene che la storia serbi loro il posticciuolo d’infamia che si sono meritati. [80] Il Dumas narra il fatto con molte frangie di particolari romanzeschi; e noi, come sempre, ci atteniamo alla più genuina, cioè alla tedesca, tanto più che, se fosse vera la versione del Dumas, il fatto di Garibaldi si aggraverebbe. [81] Lo stesso capo dei 33. [82] In un manoscritto di _Ricordi_ inediti da lui gentilmente favoritoci. [83] Crediamo voglia intendere l’_Himno Nacional_ orientale, scritto dal FIGUERROA, il miglior poeta dell’Uruguay. Lo riproduciamo qui per intero. Libertad, Libertad, Orientales, Este grito á la Patria salvò, Que sus bravos en fieras batallas De entusiasmo sublime inflamò, De este don sacrosanto la gloria Merecimos.... Tiranos, temblad! Libertad en la lid clamaremos Y muriendo tambien libertad! Orientales, mirad la bandera De heroismo fulgente crisol: Nuestras lanzas defienden sa brilla Nadie insulte la imágen del Sol! De los fueros civiles el goce Sostengamos, y el código fiel Veneremos inmune, y glorioso Como el arca sagrada Israel. De las leyes al númen juremos Igualdad, patriotismo, y union, Immolando en sus aras divinas Ciegos odios y negra ambicion; Y hallaran los que fieros insulten La grandeza del pueblo Oriental, Si enemigos, la lanza de Marte, Si tiranos, de Bruto el puñal. CORO. Orientales, la Patria ó la tumba! Libertad ó con gloria morir! Es el voto que el alma pronuncia Y que heróicos sabremos cumplir! [84] Questi e i seguenti sono tratti dai _Documenti intorno a Garibaldi e la Legione italiana a Montevideo_, pubblicati per cura del colonnello E. DE LAUGIER. Firenze, tip. Fumagalli, 1846. [85] Al Decreto tenne dietro il seguente Ordine del giorno del Ministro della guerra, in virtù del quale tutta la guarnigione doveva sfilare in colonna d’onore davanti a tutta quella parte della Legione che era rimasta nella capitale: «Per dare ai prodi nostri compagni d’arme, che s’immortalarono nei campi di Sant’Antonio, una rilevante prova della stima in cui si tiene l’esercito, del quale hanno illustrato la gloria in quel memorabile combattimento, il comandante delle armi dispone: 1º Il giorno 15 del corrente, giorno segnalato dall’Autorità per consegnare alla Legione italiana la copia del Decreto che precede, vi sarà una grande parata della guarnigione, che si schiererà, ad eccezione della Legione italiana, nella strada del Menado, appoggiando la diritta nella piazzetta della medesima, e nell’ordine che indicherà lo Stato Maggiore. 2º La Legione italiana si schiererà nella Plaza de la Costitucion, dando le spalle alla Cattedrale, ed ivi riceverà la copia suddetta, che le sarà consegnata da una Deputazione presieduta dal signor colonnello Francesco Vajes, e composta di un capo, un ufiziale, un sergente e un soldato di ogni corpo. 3º Incorporata la Deputazione ai corpi rispettivi, la guarnigione si dirigerà alla piazza indicata, sfilando in colonna di onore davanti alla Legione italiana; e in questo mentre i capi dei corpi saluteranno, con Evviva la Patria, il generale Garibaldi e i suoi prodi compagni. 4º Le schiere dovranno essere allineate alle 10 della mattina. 5º Verranno consegnate copie autentiche di quest’Ordine generale alla Legione italiana e al signor generale Garibaldi. Pacheco J. Obes.» [86] Lo togliamo dal Cuneo, che dice avere in suo potere l’autografo. Egli aggiunge poi con la nota: «Queste parole dell’Ammiraglio francese non possono far allusione che alle ripetute calunnie a carico degl’Italiani apparse ne’ giornali francesi intorno all’occupazione della Colonia, e specialmente ad articoli pubblicati nella _Presse_, generalmente attribuiti al signor Page, comandante del brigantino _Ducoëidic_, il quale trovavasi dinanzi alla Colonia all’epoca dell’occupazione suddetta, e traeva coi cannoni sugl’Italiani sbarcati, in luogo di mitragliare i nemici. Il signor Page è tenuto nel Rio della Plata come interessato partigiano di Rosas. Era ministro di Francia in Montevideo il barone Deffandis.» — CUNEO, _Biografia di Giuseppe Garibaldi_. Genova, Regia tip. Ferrando, pag. 35. [87] Anche un uffiziale del _D’Assaz_, brigantino da guerra francese, confermava col racconto di fatti particolari le maraviglie destate dal fatto prodigioso. «Le notizie dell’Uruguay sono che Servando Gomez è stato battuto da Garibaldi e Baez. Di 1200 uomini di cavalleria e 300 fanti ne ha perduti 500; 250 furono trovati morti sul campo nella prima sortita, e 124 la seconda; quattro carri pieni di feriti furono presi due giorni dopo. Garibaldi aveva 200 uomini; ebbe 33 morti e 53 feriti, tra i quali ultimi quasi tutti gli ufficiali. Baez ebbe 18 uomini resi inabili all’armi. Il generale Medina arrivò al Salto il 9 febbraio con 280 uomini.» [88] Vedi i N.ri 23 e 30 luglio, e 3, 6, 10, 13, 17 agosto 1847 di quel giornale. [89] Giovane allora, ora è il commendatore Giuseppe Bertoldi, membro del Consiglio superiore dell’Istruzione pubblica. Noi riproduciamo qui tutto il suo Inno non tanto come saggio della sua facoltà poetica, quanto come un documento storico, che fa al tempo stesso bella testimonianza dell’antico e generoso amor patrio del poeta: Beato l’uom che al gemito Della sua patria oppressa, Poichè di molti secoli L’onta pesò sovr’essa, Si sveglia, e il formidabile Suo brando impugna in nome del Signor! E pien della magnanima Ira di mille petti, Là dove più fiammeggiano Gli acciari ed i moschetti, Fra il denso fumo e gli orridi Rimbombi, cerca dei nemici il cuor. Da noi perdono impetrino Gli oltraggi a noi sol fatti: Dei popoli le lagrime, I violati patti Quaggiù non si perdonano, E il ferro appena cancellar li può. Confida negli eserciti, Empio oppressor, confida; Prepara Iddio le folgori E a un braccio sol le affida; Cadde il gigante esanime Al primo sasso che un fanciul lanciò. Oh! ben festeggi, o Genova, La secolar vittoria, Che conquistava un Davide Alla tua bella istoria, E fece all’implacabile Aquila le battute ugne tremar. Or leva dai marmorei Palagi il capo altero; China lo sguardo all’Isole Che il tuo divin nocchiero Cercò sotto astri incogniti, Fra le procelle d’intentato mar. Chi sono quei fortissimi, Che vinto il lungo assalto D’un oste innumerevole Entran festanti in Salto? Per chi quel serto intrecciano? Di chi parla quel cantico guerrier? Itali sono, ed italo È il Condottier dei forti; Un giogo iniquo a frangere Si sfidan mille morti, Ogni terreno è patria, Nessun popolo a noi vive stranier. Chi ne’ tuoi chiusi oracoli Può penetrar, gran Dio? Tu dei più eletti spiriti Vedovi il suol natío; Tu lasci qui nell’ozio Tanta gagliarda gioventù morir; E va Gioberti, vindice Dell’italo pensiero, Ad erger su gli elvetici Dirupi un trono al Vero; È Garibaldi un fulmine Che fa l’americane acque stupir. Quando su noi le barbare Orde stendean gli artigli, E la demente Italia Col sangue de’ suoi figli, Con l’oro suo mercavasi Eterno vitupero, e servitù; Signore, il tuo giudicio Era tremendo allora; Ma se di pochi e splendidi Esempi ancor s’onora, A serbar vivo un popolo Basta il pensier d’un solo e la virtù. Della grand’alma prodigo Per la non sua contrada, Altro ei non chiede in premio Che un tetto ed una spada, Molte battaglie e vittime E degli ospiti suoi la libertà. A noi concedi, o libero Di Washington nipote, Il trionfale cantico: Bello di patrie note, Più dolce nella memore Alma del nostro Eroe discenderà. E noi scemiam gl’ignobili Trionfi dei conviti; Noi defraudiam d’un vacuo Concento i molli uditi; E dica al mondo un povero Don che la madre di quei prodi è qui; Sappiano i nostri parvoli Il nome del Campione Con le dipinte immagini Dell’itala Legione Di trastullarsi godano, Per sorger essi ad emularla un dì. Già fra le rotte tenebre Penetra un raggio e splende, I volti si conoscono, Lo sguardo si comprende: Nostre non son le fertili Campagne, e nostro questo ciel non è? Appiè dell’Alpi battono Polsi di vita ardenti, Sorgon concordi, indomiti Voleri ed alte menti; Come dell’arme il fremito Suoni il vero giocondo al cuor del Re. Non affrettiam precipiti Il giorno glorioso; Quel giorno è nella provvida Mente di Dio nascoso; Allor che la sua vindice Destra folgoreggiando accennerà. E noi sorgiam terribili Dai campi e dagli spaldi; In ogni seno palpiti Il cuor di Garibaldi: Beato l’uom che l’anima In quel santo conflitto esalerà! [90] Mancandocene il testo originale, la togliamo dalla traduzione italiana delle _Memorie_ di A. Dumas, fatta da VINCENZO BELLAGAMBI. Firenze, Pietro Del Corona, 1862. [91] Il Cuneo dice che la lettera del Bedini aveva la data 14 novembre, e ne dà questo sunto per esteso: «Sento il dovere di significarle senza indugio che quanto in essa si contiene (nella lettera di Garibaldi) di devoto e di generoso verso il Sommo Pontefice regnante è veramente degno di cuori italiani, e merita riconoscenza ed elogio. Col pacchetto inglese che partì ieri trasmisi l’indicato foglio a Roma, onde siano eccitati anche in più elevati petti i medesimi sentimenti. Se la distanza di tutto un emisfero può impedire di profittare di _magnanime offerte_, non ne sarà mai diminuita nè menomata la soddisfazione nel riceverle.» Conchiudeva con questo voto: «Quelli che si trovano sotto la sua direzione, deh! che sian sempre degni del nome che li onora e del sangue che li scalda! Con questo voto sincerissimo accompagno l’augurio, ec. ec.» [92] Dobbiamo il documento alla cortesia del generale Giacomo Medici, che ci fa largo di molte altre carte e notizie. [93] Nei giornali vedemmo spesso confusi i due nomi. Il signor Giacomo Antonini, che abitava a Montevideo ne’ giorni della partenza di Garibaldi, ci chiarì finalmente la causa della confusione. Il _Bifronte_ venne ribattezzato _La Speranza_ col consenso del Console sardo. [94] PACHECO Y OBES, _Réponse aux détracteurs de Montevideo_. Paris, 1849. [95] PACHECO Y OBES, op. cit. [96] Così le parole di Lord Howden come quelle di Garibaldi sono riferite dal CUNEO nella sua _Biografia_, e nelle _Memorie_ edite dal CARRANO più volte citato. [97] L’episodio ci fu narrato tal quale dal generale Gaetano Sacchi. [98] Nella _Concordia_ del 19 giugno 1848 si leggeva: «_Cronaca politica_. — Si legge nell’_Echo des Alpes Maritimes_: Un naviglio sardo proveniente da Montevideo annunzia che partì da questa città nello stesso tempo che una fregata di trentasei cannoni (?), sulla quale si trova il generale Garibaldi colla Legione italiana. Il capitano aggiunge che navigò con questa fregata sino al golfo di Lione, dove i due navigli destinati per Genova si dovettero separare in causa del cattivo tempo. Ciò vuol dire che non possiamo tardare a vedere il valoroso Generale e complimentarlo.» [99] Anche un carteggio del 27 giugno 1848, diretto da Nizza alla Concordia di Torino, confermava, ampliandolo, il discorso tenuto da Garibaldi al banchetto di Nizza, e noi lo riproduciamo per documento: «Giungendo direttamente a Nizza da Montevideo, egli ignorava tutto quanto era succeduto in Europa dappoi il mese di gennaio, ed era talmente digiuno delle cose nostre, che, temendovi ancora il capestro e le persecuzioni del 1833, entrò nel nostro porto inalberando sulla di lui nave la bandiera di Montevideo; ma quantunque..... (_Qui il manoscritto, da cui togliamo questi estratti della_ Concordia, _ha una frase incompiuta e forse sbagliata dal copista, che omettiamo_) col cuore ulcerato dall’esiglio, conobbe tosto quale giustamente fosse l’attuale nostra condizione, e ne presentì i bisogni. Fu sempre repubblicano, e s’avvide che pel bene d’Italia rinunciare pur doveva alle inveterate sue convinzioni per francamente unirsi a Carlo Alberto, ed alle sole forme di governo che sono in armonia colle necessità della Patria, e proclamò altamente l’unione e la perseveranza nel gran principio che l’Italia _deve fare da sè!_ Disse quindi in occasione dell’offertogli banchetto: _Tutti quei che mi conoscono sanno se io sia mai stato favorevole alla causa dei re; ma questo fu solo perchè allora i Principi facevano il male d’Italia; ma invece io sono realista e vengo ad esibirmi coi miei al Re di Sardegna che s’è fatto il rigeneratore della nostra Penisola, e sono per lui pronto a versare tutto il mio sangue; io sono certo che tutti gli Italiani la pensano al pari di me; vorrei potervi provare, o miei concittadini, che non ho mai dimenticato il mio suolo natale, e che la fraterna vostra accoglienza mi sta impressa nel cuore. Viva l’Italia! Viva il Re! Viva Nizza!_ E quando poi questo nostro illustre concittadino sentiva alcuni di quei pochi, i quali affermano che gl’Italiani nulla possono senza l’aiuto della Francia, ne arrossiva per loro e con rabbia esclamava: _Se gli uomini temono, radunerò le donne italiane che basteranno a cacciare gli Austriaci_. Ed a coloro poi che accorrevano volontari sotto il suo comando, diceva: _Non credetevi che io vi conduca a gozzovigliare; chè vi toccherà invece patire la fame e la sete, e di dormire sul nudo terreno, a cielo scoperto, e di reggere ad ogni sorta di fatiche e di pericoli, giacchè la mia Legione non indietreggia; e non intendo, per Dio, che abbia mai ad indietreggiare._» [100] Dei giornali di Nizza e di Genova chi dice novanta, e chi censessanta. La prima cifra è evidentemente sbagliata, perchè ne aveva condotti seco soltanto dall’America ottanta, e n’avea già reclutati in Nizza circa settanta. Dicendo circa cencinquanta, crediamo essere più prossimi al vero. [101] La _Concordia_, in una corrispondenza da Genova del 29 giugno, parla del suo arrivo così: «Ti scrivo in tutta fretta per dirti che il prode Garibaldi è giunto ora in porto con novanta uomini della sua invitta Legione. Garibaldi scenderà a terra incognitamente. In questo punto (ore 1 pom.) sono discesi sul ponte reale i legionari e defilano a suon di tromba, preceduti dalla bandiera italiana, collo scudo di Savoia, e dalla loro propria. Sono tutti giovani alti, robusti e pieni di vita; la maggior parte sono nostri, come Italiani. Strepitosi applausi vengono innalzati sul loro passaggio, dal popolo che si accalca lungo le vie. Essi verranno ospitati nei quartieri militari di San Leonardo.» E un’altra notizia del 30 giugno aggiunge questi particolari: «Il prode Garibaldi scese a terra ieri verso le due del pomeriggio, e recossi difilato ad abbracciare il povero Anzani infermo. Si portò poscia a far visita al Governatore ed ai sindaci, dai quali fu accolto con tutti quei riguardi che meritano le eminenti sue virtù militari. Il Garibaldi era in abito borghese; ed il popolo schieratosi sul suo passaggio lo accolse con un sonoro batter di palme e di viva strepitosi. Egli ha con sè centosessanta legionari, metà dei quali appartengono alla famosa Legione italiana di Montevideo; gli altri sono nuovi arruolatisi recentemente. Molti ufficiali incanutiti negli stenti della guerra, infiammati dal santo amor di patria, hanno rinunciato al loro grado ed ai loro onorarii per correre in Italia e militarvi nella guerra santa da semplici soldati.» [102] Il VECCHI (_La Italia, Storia di due anni_, vol. I, pag. 216) mette in bocca a Garibaldi queste parole: «Sire, ho combattuto in terra straniera per la libertà d’un paese ospitale, e Dio benedisse alle armi nostre, illustrando il nome dei legionari italiani. Con pochi de’ miei giunsi anche in tempo per la impresa onorata. Ho qui dentro un cuore che ama l’Italia davvero, e richiede a mercede di poter operare cogli altri ciò che ridondi in di lei vantaggio e onore.» Il Re rispondeva aprisse quel suo desiderio ai ministri, dolergli non poterlo fare di per sè stesso, e accomiatollo con gentili testimonianze d’affetto. Non sappiamo dove le abbia tolte. Noi non le abbiamo vedute riferite in alcun altro luogo. Se i sentimenti sono probabili, lo stile non è certamente quello di Garibaldi. Anche il Boggio fa addirittura una scena drammatica dell’incontro di Garibaldi con Carlo Alberto. [103] Garibaldi arringava il popolo dal balcone della _Bella Venezia_, e diceva nell’usato suo stile: «Cari Milanesi! Vi son grato delle vostre ovazioni, ma questo non è tempo da gridi e da ciarle; è tempo da fatti. Pur troppo lo sgherro nemico ha ripreso lena e coraggio. Noi dobbiamo sbarrargli la via al ritorno in queste belle contrade, ec.» [104] La Legione si radunò per partire alla caserma di San Francesco in piazza Sant’Ambrogio, che era il luogo delle sue consuete riunioni per gli esercizi. Questi, ed altri particolari che verrò in seguito indicando, li tolgo dal manoscritto di ANTONIO PICOZZI, _Episodio storico concernente i fatti militari di Garibaldi e di Medici nell’anno 1848_. Il Picozzi, mio carissimo amico e commilitone, fece parte in quell’anno del _Battaglione Anzani_: le cose da lui narrate adunque meritano piena fede, ed io m’auguro che il suo Manoscritto veda presto la luce. [105] Giunta da un’ora la colonna garibaldina in Monza, ci fu un falso allarme; e poichè il battaglione Anzani era agli avamposti, il Picozzi narra d’aver «visto egli stesso il Mazzini, armato di carabina inglese, schierarsi fra i militi della seconda fila disposto a fare ciò che era compito d’ogni legionario italiano.» (_Manoscritto_ citato) [106] Lo riportiamo dal CANTÙ, _Della indipendenza d’Italia, Cronistoria_, vol. II, parte II, pag. 964. Torino, Unione Tip.-Editrice, 1875. [107] Il Manifesto restò nascosto parecchi anni; io lo tolgo dal citato manoscritto: _Episodio storico_, ec., del PICOZZI, il quale lo ebbe dal suo amico Pietro Perelli, che custodì il prezioso documento durante il decennio 1849-59 della dominazione austriaca in Lombardia. [108] Nella _Concordia_ del 4 settembre 1848, tolta dal _Pensiero Italiano_, troviamo una relazione del combattimento del Medici, scritto in persona prima e con tale esattezza di particolari che non esitiamo a dirlo del Medici stesso. Noi lo riproduciamo, facendo una riserva soltanto sul giudizio ch’egli porta circa il movimento di Garibaldi su Morazzone; riserva di cui diamo ampia ragione nel testo: «SVIZZERA. _Ultime relazioni della colonna Garibaldi._ Lugano, 31 agosto. Non ho che scoranti notizie ad annunciarvi: tutti i nostri tentativi ebbero infelicissimo esito, non vi so dire se per difetto di prudente direzione, oppure per la generale demoralizzazione nata in conseguenza di tradimenti e della diserzione di non pochi dei principali capi delle forze lombarde da loro condotte nell’errore di ridursi in Piemonte, anzichè combattere sul proprio suolo per la vera causa. Garibaldi solo tentò mantenere attiva l’insurrezione; ma come egli fu debolmente assecondato e da pochissimi seguíto, dovette finalmente cedere il campo alla forza prepotente del nemico. Avrebbe egli però potuto sostenersi più lungo tempo, se, meno ardito, si fosse mostrato più sulla difensiva sui monti, invece di spingersi troppo avanti verso la pianura; il nemico difatti colse in buon punto l’occasione di portarsi egli con grosse colonne allo spalle ed ai fianchi, e nella notte del giorno 26 Garibaldi colla sua colonna, forte di milledugento militi, fu sorpreso dal nemico in Morazzone, luogo poco distante da Varese; alcune bombe vi misero l’incendio, la colonna si decise a ritirarsi, ma, appena mossa, colta da timor pánico cominciò a disordinarsi e poco dopo a sbandarsi, e capi e soldati ognuno cercò salvarsi come meglio potè attraverso i monti. Garibaldi giunse in Isvizzera con non più di trenta uomini; a poco a poco ne giunsero altri quattrocento circa; del resto ignoriamo, ma pur troppo dobbiamo temere sia in gran parte caduto in potere del nemico. Più fortunato fui io colla mia compagnia, poichè trovandomi distaccato dalla colonna con missione di fiancheggiarla e di molestare il nemico con qualche sorpresa, fui invece nella mattina del 24 d’improvviso assalito da una forza di circa quattromila di fanteria, cinquecento di cavalleria e due batterie, divisa in più colonne, che da ogni lato tentavano avviluppare le posizioni che io occupavo. Il fuoco di fucileria e d’artiglieria fu vivissimo, ma non sgomentò punto i valorosi miei militi, che bene difendendosi e talvolta attaccando resistettero quasi quattro ore al fierissimo assalto; per ultimo, sopraffatto dal numero cotanto sproporzionato, prevedendo che la ostinazione di pochi minuti di più avrebbe reso, se non impossibile, difficilissimo il ritirarsi, ho raccolto la mia gente, e con perfetto, ordine, colla mia piccola bandiera (Dio e Popolo) sventolante, mi ripiegai sulla frontiera svizzera, sempre però molestato da quei barbari che per due volte violarono il confine in persecuzione nostra. La mia perdita in morti e feriti fu sensibile più per la qualità degl’individui che per la quantità, quella dell’inimico fu dieci volte maggiore. Non avevo che centodieci uomini con me, occupavamo una linea di circa un miglio e mezzo disposti in posizioni fortissime con non difficile ritirata sopra un punto centrico, in modo che era facile il farci supporre assai più in numero; difatti il Generale nemico credette d’aver da fare con tutta la colonna Garibaldi; e veramente mi vien da ridere quando penso a tutte le mosse tattiche e strategiche di tutta quella grande massa, al trasporto de’ cannoni sulle alture, alle grida feroci, e con tutto questo lasciarsi contendere per tanto tempo il passo da sì piccolo drappello di giovani ardimentosi di certo, ma non anco avvezzi ai movimenti ordinati dei militari. Oh se veramente gl’Italiani si decidessero a combattere davvero, s’accorgerebbero tosto del quanto sia infondato il timore che si ha per tutta Italia dei centomila vandali, se pur tanti sono.» [109] Il CUNEO e il BOGGIO nelle loro _Vite_ ripetono l’aneddoto. La fonte però manca. [110] Lo raggiunsero colà i resti del battaglione degli Studenti mantovani, poco più di duecento uomini. [111] Valga di prova questo documento inedito ricavato dal _Cartone_ 9, al 16 marzo 1849, degli _Archivi di Stato_ di Roma: «In risposta ad un dispaccio del Ministero dell’interno, Nº 6453, del marzo 1849, che lamenta d’essersi introdotti in Bologna alcuni individui pregiudicati e scappati dalla galera di Civitacastellana per arruolarsi nella prima Legione italiana, il generale Garibaldi scriveva la seguente: «_Comando della Iª Legione italiana_, N. 9. Rieti, 15 marzo 1849. Cittadino Ministro. Risposta al Nº 6453 S. S. Di quelli venuti da Civitacastellana disertarono cinque, tre dei quali, Borghi Raffaele, Bussi Francesco e Trebbi Paolo, fino dal giorno 4; gli altri due, Martelli Luigi e Zani Luigi, il giorno 14. Dall’epoca in cui disertarono, vorrei dedurre che neppure i primi avrebbero potuto trovarsi in Bologna, quando accaddero quei fatti che mossero tanto terrore. Altri tre di Ravenna si evasero dalla Legione il giorno 5, e sono: Lombardi, Paoletti Michele e Morelli; neppure questi potevano trovarsi in Bologna all’epoca dei querelati fatti. Per gli uni e per gli altri ho date ovunque indicazioni e preghiere per arrestarli e ricondurli a subire la pena nella Legione, ma senza effetto. Io non so che altro avria potuto operare per impedire qualsiasi disordine. _Il Comandante la Legione_ G. GARIBALDI.» [112] Dapprima, per verità, volevano mandarlo a Fermo; dopo mutarono in Macerata. L’ordine però gli arrivò per via, quando la Legione era già a Foligno ed egli a Terni; il che prova che Garibaldi era già stato accettato ai servigi del Governo romano fino dai primi di dicembre, e che l’idea di rinviarlo a Fermo od a Macerata non venne a’ governatori di Roma che più tardi. E di tutto ciò fa testimonianza una lettera di Garibaldi al Ministro della guerra, romano, già pubblicata da Federico Torre nella pregiata sua opera: _Storia dell’Intervento francese in Roma nel 1849_, vol. I, documento LXIV, pag. 357 (Torino, tip. del Progresso): lettera che vuol essere riprodotta per chiarezza dell’itinerario del Nostro a que’ giorni; «Terni, 22 dicembre 1343. Eccellenza, Domani raggiungerò la colonna a Foligno, da dove mi dirigerò a Rieti, punto che mi sembra molto più conveniente per organizzare il battaglione e ricevere da Roma il vestiario, armamento ed altri oggetti indispensabili. Mi permetto di raccomandare a V. E. il pronto invio del vestiario, e massime dei cappotti e scarpe, trovandosi la gente in uno stato deplorabile. Onori de’ suoi comandi. G. GARIBALDI. _PS_. — Ho ricevuto il dispaccio di V. E. dopo d’aver scritto la presente, e dirigerò la colonna a Fermo, siccome mi vien ordinato. Ringrazio V. E. dell’accettazione del Corpo al servizio dello Stato, e solamente reitero la sollecitudine dell’abbigliamento e dei suoi ordini. Vale. _A S. E. il signor Ministro della Guerra._» Quando si consideri pertanto che Garibaldi era a Macerata il 1º gennaio 1849, come tra poco dimostreremo, si deve ragionevolmente arguire ch’egli partì da Ravenna nella prima settimana di dicembre; arrivò a Foligno per la via di Fano e il Passo del Furlo tra il 15 e il 16; ripartì da Foligno per Fermo tra il 27 e il 28 (probabilmente vi stette ad aspettare il vestiario), e fu a Macerata il 1º del 1849; dove forse lo raggiunse un novello ordine di non proseguire più per Fermo e di starsene dov’era. [113] Fu eletto il 21 gennaio 1849. A proposito di codesta elezione e del soggiorno di Garibaldi in Macerata, ecco quello che ce ne scrive un antico patriotta e onorando gentiluomo di quella città: «1º Il generale Garibaldi arrivò con la sua Legione in Macerata il 1º gennaio 1849, e ne ripartì il giorno 24 dello stesso mese di gennaio 1849. »2º Durante l’indicata permanenza della Legione garibaldina in quella città si manifestò una qualche discordia tra i borghigiani di San Giovan Battista ed i soldati della Legione da procedere a fatti. Ma il Generale si diportò da prudentissimo capitano e si adoperò, per quanto fu da lui, in vantaggio dei cittadini; mentre al principio d’una contesa, che poi fu l’unica, tra borghigiani e soldati, bardato il cavallo, ed inforcatone l’arcione insieme ad altri ufficiali del suo seguito, corse in sul luogo, ed impose ai suoi soldati di ritornare immediatamente in quartiere nell’ex-convento di San Domenico fuori di città, e così ubbidito nel suo comando ebbero fine le baruffe, le zuffe, le risse, senza che si dovesse deplorare alcun disastro. »Da ciò argomentarono le Autorità essere cosa conveniente di allontanare da Macerata la Legione garibaldina, la quale partì come fu promesso il 24 gennaio 1849. »3º Il Collegio elettorale per la nomina dei deputati all’Assemblea Costituente Romana fu tenuto in Macerata, come in tutti gli altri paesi dello Stato, il giorno 21 gennaio surripetuto, e per l’affluenza de’ votanti non essendo state sufficienti le sette ore stabilite dalla legge in detto giorno, la votazione fu proseguita nel giorno successivo 22. »Il generale Garibaldi fu uno degli eletti; ed a maggioranza rimarchevolissima di voti. Il numero dei voti raccolti dal Generale non può precisarsi, attesochè nell’ufficio rovistato dall’estensore della presente non esistono gli atti relativi alla pratica, di quel Collegio elettorale.» [114] _La Italia, Storia di due anni_, scritta da C. A. VECCHI, vol. II, pag. 38. [115] Ci fu favorita dalla cortesia squisita del nostro egregio amico ingegnere Clemente Maraini, che ne possiede l’autografo. [116] L’esatta verità sulla forza dell’esercito francese spedito a Roma non fu dato nè a noi, nè ad alcuno degli storici italiani, saperla e dirla precisamente. Perocchè gli scrittori francesi, tanto ufficiali che ufficiosi, l’hanno sempre imbrogliata e nascosta; come imbrogliarono, nascosero e tradirono la verità de’ fatti. Da ciò consegue che anche la forza del primo Corpo spedizionario bisogna argomentarla. Ora è certo che esso era comandato in secondo da un generale divisionario, il Saint-Jean D’Angely, e che al 30 aprile si trovarono in azione due brigate. Il Corpo spedizionario adunque doveva contare per lo meno una divisione, la quale se fosse stata completa avrebbe dato circa dodicimila uomini. Supponendola non completa, ma aggiungendovi le truppe di marina e le altre truppe complementari, crediamo tenerci piuttosto al disotto che andar al disopra del vero fissando la cifra di diecimila uomini. Durante l’assedio poi l’esercito francese fu rinforzato di altre due divisioni col proporzionato numero di truppe del Genio e dell’Artiglieria, sicchè il Torre non esita a stabilirne la forza a circa quarantamila uomini e settanta pezzi d’artiglieria, di cui quaranta d’assedio. — Vedi TORRE, op. cit., vol. I, lib. VI. [117] Nella _Vita di Nino Bixio_. Firenze, G. Barbèra, edit. [118] In alcuni suoi _Ricordi_ manoscritti, di cui ci fu, come di tant’altre notizie, generoso. [119] Alludiamo al fatto del maggiore Picard e del suo battaglione, che Nino Bixio prima da solo, poi coll’aiuto del maggiore Franchi di Brescia e d’alcuni suoi soldati, riuscì a trarre prigioni in Roma. Lo narriamo estesamente nella nostra _Vita di Nino Bixio_. [120] Non tutti noti però. Così nelle storie pubbliche, come nei nostri documenti privati, non troviamo memoria che dei seguenti: Fra i morti, memorabile fra tutti, _Luigi Montaldi_ da Genova, capitano della Legione italiana di Montevideo, da Garibaldi paragonato, per le fattezze gentili, la mente colta e l’animo eroico, a Mameli ed a De Cristoforis; e di cui il generale Sacchi ci lasciò questo ricordo biografico: «In Montevideo comandava una compagnia di Cacciatori. Dal Salto Garibaldi lo mandava in missione a Montevideo, scendendo l’Uruguay su di una piccola goletta mercantile. Le due rive dell’Uruguay, meno il Salto, erano in potere del nemico. A Paysandù (sulla sinistra dell’Uruguay), le di cui batterie battevano il canale navigabile, fu attaccato da forze nemiche marine guidate da un Italiano (Gavazzi di Genova). Il Montaldi preparò la difesa, ma la compiè solo; i suoi marinai (che non erano soldati) lo abbandonarono, parte gettandosi all’acqua, altri sotto coperta della goletta; da solo scaricò quindici o venti fucili all’uopo preparati; da solo si oppose all’abbordaggio con estremo valore e con prospero successo per qualche tempo, ma finalmente ferito e sopraffatto dal numero dovette cedere; l’ultimo colpo di pistola lo scagliò sul comandante delle forze nemiche che pel primo montava all’abbordaggio, e gli fracassò il braccio destro, che gli venne poi amputato. Il suo valore e le raccomandazioni del Gavazzi gli valsero salva la vita. Il nemico ammirato da tanta prodezza lo tenne prigioniero (caso unico, dacchè si aveva a fare con un nemico che non dava mai quartiere!). Dopo infiniti patimenti sopportati per un anno e più con dignità e costanza, fu liberato dalla prigionia in un assalto dato al paese di Paysandù, che cadde in nostro potere. Di questo giovane ignoto quasi ne è il nome, che pur è degno di essere annoverato fra i migliori e più valorosi figli d’Italia.» Garibaldi scrisse al Guerrazzi (_Assedio di Roma_, pag. 696) che il Montaldi «esalò la sua grand’anima per diciannove ferite;» ma il Sacchi più preciso dice: «Il maggiore Montaldi, dopo aver fatto prodigi di valore, cadde colpito nel petto da palla francese; nella fuga i Francesi passarono sul suo corpo e barbaramente lo crivellarono di colpi di baionetta, rendendolo irriconoscibile.» Dopo di lui sono ricordati: il tenente _Paolo Narducci_, romano; _Enrico Pallini_, aiutante maggiore dell’artiglieria; i tenenti _Righi_ e _Zamboni_; il capitano _Leduch_, belga, del quinto reggimento; il brigadiere _Della Vedova_. Fra i feriti si leggono: il maggiore _Marocchetti_, il capitano _Pifferi_, il chirurgo _Scianda_, il commissario di guerra _Ghiglioni_; i tenenti _Belli, Dell’Oro, Rota, Tressoldi, Statella_ (morto poi a Custoza tenente colonnello de’ Granatieri), il maresciallo _Ottaviano_, il cadetto _Mancarino_, il caporale _Lodovich_. [121] Nella seduta del 1º maggio il Presidente dell’Assemblea propose che fosse dato un attestato di riconoscenza a Garibaldi per le tante prove di valore che aveva date nel combattimento del 30 aprile. L’Assemblea decise che tale attestato si sarebbe dato a tutti i meritevoli a cose finite. [122] Il Vecchi dice che l’Oudinot levò il campo al solo veder Garibaldi. Non è così: Garibaldi non arrivò che in vista di Castelguido, e l’Oudinot non si mosse da Castelguido che la sera. È poi un’invenzione, non so di chi, a torto raccolta dal Vecchi, che l’Oudinot mandasse, dopo quel giorno, a chiedere una tregua. [123] Al 30 aprile il Torre (op. cit.) calcolava presenti circa novemilacinquecento uomini: sommando ad essi i nuovi Corpi, si arriva intorno alla cifra anche da noi calcolata. Il DEL VECCHIO poi dice che Roma, dopo la sortita di Garibaldi, era stata lasciata «alla guardia del popolo.» Se è una frase, passi; se vuol significare qualcosa di preciso, la rassegna delle forze romane che siamo venuti facendo sin qui dovrebbe smentirla. (Vedi DEL VECCHIO, _Prefazione ai Documenti della Guerra santa 1849_.) [124] Queste ultime sono parole testuali di FEDERIGO TORRE, nella sua citata _Storia dell’intervento francese in Roma nel 1849_, vol. II, pag. 128. Il Torre, come è noto, fu nel 1849 ufficiale superiore al Ministero della guerra, e il suo libro, specialmente rispetto alla enumerazione delle forze, merita pienissima fede. [125] CARLO PISACANE, _Guerra combattuta in Italia negli anni 1848 e 1849_, pag. 269-270. [126] TORRE, op. cit. — HOFFSTETTER, _Garibaldi in Rom, Tagebuch aus Italien 1849_. — DE VECCHI, _Storia di due anni, 1848 e 1849_. — FARINI, _Lo Stato romano, ec._ — GUERRAZZI, _L’assedio di Roma_. — MARIO, _Garibaldi_. — DEL VECCHIO, op. cit. [127] E non novantasei, come scrive il Guerrazzi. I Lancieri non furono mai novantasei, e arrivarono soltanto a ottantacinque sul finire dell’assedio. [128] Il Bassi era stato restituito nel cambio generale dei prigionieri fatto il 7 maggio. Anche in quel caso però la condotta del Generale francese fu perfida. Il Triumvirato aveva decretato la restituzione totale e gratuita dei prigionieri con tutte le loro armi e bagagli. L’Oudinot, all’apparenza, non tollerò di farsi superare di generosità dal suo nemico; ma in realtà commise una delle sue solite baratterie, restituendo il battaglione Melara (sostenuto proditoriamente a Civitavecchia prima che la guerra cominciasse), ma senza armi. [129] _Marchetti_, dice il Torre, ed altri lo ripetono. _Marocchetti_, il Sacchi ed il Cenni. [130] Vi fu posta una epigrafe, che rammenta la passata di Garibaldi e la battaglia. [131] _I Volontari e i Bersaglieri lombardi_, di EMILIO DANDOLO. [132] Dai _Ricordi_ manoscritti del generale SACCHI. [133] Era a sinistra del Casino de’ Quattro-Venti. Giovanni Cadolini, soldato allora della Legione Medici e ferito il 30 giugno, così racconta nelle sue private _Memorie_, che volle favorirci, l’episodio. «Venne pertanto la sera, e il Medici, temendo di dovere più tardi abbandonare quella casa, fece ammannire nella stanza del piano terreno molta paglia ed altri combustibili a fine di incendiare quel fabbricato al momento in cui fossimo costretti ad abbandonarlo. Quando tutto a un tratto, senza che il Medici avesse ordinato di appiccare il fuoco, vediamo la casa in fiamme. Fu capriccio, fu tradimento di alcuno?: la casa era stata incendiata. Allora fu unanime fra noi il pensiero e il grido: — _Ai nostri morti_! — Non volevamo che i cadaveri dei nostri morti, rimasti al secondo piano, fossero consumati dalle fiamme. In un attimo sorse allora una gara fra noi di accorrere, passando in mezzo al fuoco, per sottrarre da quella maniera di distruzione i cadaveri dei nostri compianti amici. »Questo episodio fu una rivelazione ben singolare dei sentimenti e delle nobili passioni che si agitavano in quelli animi; l’esporsi a simili pericoli per salvare uomini viventi è istintivo in tutti, ma per sottrarre dei cadaveri è religione per la memoria dei caduti per la libertà e per l’onore della patria. Sottratti i cadaveri all’incendio, ogni cura si adoperò ad estinguere le fiamme, che già arrivavano al tetto; e si riuscì in ciò così rapidamente da poter salvare la maggior parte della casa.» [134] Questi nomi togliemmo parte dalle _Memorie_, op. cit., del TORRE, parte dai _Ricordi_ manoscritti del generale SACCHI. [135] Anche l’Adelchi ai Longobardi fuggenti: Per Dio! la via che avete presa è infame; Il nemico è di là.... (_Adelchi_, atto III, scena 3ª.) [136] Giudizio di EMILIO DANDOLO nei suoi _Volontari e Bersaglieri lombardi_. [137] Estratte dagli Archivi romani, _Cartone_ 1849. Dal 1º al 10 giugno. [138] Il che non toglie, checchè n’abbia scritto Garibaldi, che non possa e non debba esserlo. [139] Anche il TORRE (op. cit., pag. 201) dubita della felice riuscita di quella impresa, ed è in dubbio se Garibaldi n’abbia voluto seguire in tutto l’idea, o solo operare una sortita per manomettere i lavori del nemico. L’HOFFSTETTER non parla invece di quella generale sortita, e dice solo che il Rosselli doveva raccogliere per Garibaldi cinque o seimila uomini. Il BARONI (_I Lombardi nelle guerre italiane 1848-49_, Memorie narrate da CALOANDRO BARONI, già maggiore ne’ Bersaglieri lombardi, vol. II, pag. 64) scrive che la spedizione di Garibaldi fu ordinata dal Rosselli, ed è probabile che questi, smesso il pensiero della grande, si sia accontentato della piccola. [140] Anche la storia della sortita notturna la troviamo narrata in tre modi diversi da tre scrittori ugualmente credibili; e chi voglia persuadersene non ha che a leggere il TORRE (op. cit., vol. II, pag. 201), il BARONI (pag. 66-69) e l’HOFFSTETTER (pag. 181-187). Noi abbiamo preso un po’ dall’uno e dall’altro quel che ci parve più ragionevole e verosimile; ma non stiamo mallevadori che tutto sia per l’appunto avvenuto così, e questo ci riconferma nel pensiero che la storia dell’assedio di Roma abbia bisogno di essere ancora riveduta con lume di critica e rifatta con nuovi e più scelti documenti. [141] L’Oudinot si vantò di _combats acharnés_ nella sua _Relazione_ del 22 giugno 1849, inserita nel _Moniteur Universel_ del 29 dello stesso mese. [142] L’HOFFSTETTER anzi parla d’un consiglio di guerra. — Vedi _Garibaldi in Rom, Tagebuch_, ec., pag. 181. [143] FARINI, _Lo Stato romano_, vol. IV, pag.200. [144] Generale VAILLANT, _Relation du Siège de Rome_, pag. 129: «Il faut le dire, ce combat d’artillerie qui dura un jour et demi fut soutenu de part et d’autre avec une remarquable vigueur, avec beaucoup de persévérance et de bravoure.» [145] Una volta appunto che alcune gentildonne romane erano in visita da lui, una bomba schianta la tenda e seppellisce sotto un monte di terra, gentildonne, Garibaldi e tutto. Un’altra, trovandosi nella batteria del Pino l’Hoffstetter, il Ghilardi e l’Avezzana, un’altra bomba cade tanto vicina al gruppo, che tutti si gettano a terra, e Garibaldi che non s’era mosso dice all’Hoffstetter: «Grazie che vi siete gettato sopra di me;» e se volessimo noverare le volte in cui Garibaldi ebbe la persona coperta dalla polvere e avvolta dai frammenti delle granate nemiche, non finiremmo più. [146] Il capitano Casini fu portato all’ambulanza di Villa Pamfili col cranio aperto da dieci colpi di sciabola, la coscia forata da dieci baionettate e il braccio frantumato. [147] Tutti raccontano questo discorso in modo diverso. [148] Il testo preciso del discorso non fu fino ad ora stampato da alcuno, perchè assai probabilmente non fu da alcuno raccolto. Però ogni biografo se l’è confezionato a suo gusto, senz’altro torto, a dir vero, che di non averlo confessato. Il Vecchi, per esempio, gli mette sulle labbra un lungo discorso alla Tito Livio; il Farini lo fa cruscheggiare; il Mario gli fa scrivere un proclama immortale, che non scrisse mai, e così di seguito ognuno secondo la sua rettorica e il suo capriccio. La sola frase nella quale tutti convengono, e che è viva nella tradizione garibaldina, è: «Vi offro fame, sete, marcie, battaglie e morte,» e questa l’ho serbata fedelmente. Il resto è uno stillato delle varie lezioni fatte da me, giusta il criterio della maggiore verosimiglianza e dello stile dell’uomo. [149] Tutti parlano di quattromila uomini; l’Hoffstetter, che era con essi, di duemilacinquecento fanti e quattrocento cavalli. — Così il SACCHI nelle _Memorie_ manoscritte, e ci atteniamo a questa cifra. [150] Per tutto ciò che riguarda la ritirata da Roma a San Marino abbiamo seguíto il libro già ricordato (_Garibaldi in Rom, Tagebuch aus Italien, 1849_, von GUSTAV VON HOFFSTETTER, damaligem Major in romischen Diensten. Zürich, 1860), il solo fra molti che ci sia apparso, quanto all’itinerario, specialmente ordinato e preciso; e che sia stato trovato tale anche dal generale Sacchi e dal colonnello Cenni, che furono compagni di Garibaldi in quel periodo. [151] Quanta fosse la incertezza dei Generali austriaci sulle mosse di Garibaldi, ne sia di testimonio questa lettera del D’Aspre all’Oudinot: «Firenze, 13 luglio 1849. »Signor Generale, »In riscontro alla lettera che mi avete fatto l’onore d’indirizzarmi, mi affretto di comunicarvi che il mio capo di Stato Maggiore ed il signor capitano Falopp han chiesto di comune accordo i siti da occuparsi dai due eserciti rispettivi, ed aggiungo qui un estratto. Suppongo che questa linea avrà la vostra approvazione, e non dubito affatto che in seguito c’intenderemo con la medesima facilità. »I miei rapporti degli 11, da Perugia, pongono Garibaldi a Todi con seimila uomini, trecento cavalli e tre pezzi d’artiglieria. Le mie truppe occupando Perugia avrebbero potuto avere di già uno scontro. »Siccome il partigiano o brigante Forbes si è unito a Garibaldi, riesce difficile valutarne con precisione le forze; le proprie lo abbandonano, altre bande gli giungono in rinforzo, e l’Italia centrale non sarà pacificata prima che i partigiani non siano intieramente dispersi, presi o almeno allontanati da questo continente. »Ho dato su tal proposito degli ordini alle truppe che sono scalonate da qui a Foligno; si trovano nel momento a Perugia quattro battaglioni, uno squadrone e mezzo e sei pezzi d’artiglieria, ed a Foligno due battaglioni e mezzo squadrone, da riunirsi in caso di bisogno. »Se lo scontro avesse avuto luogo, avrebbe dovuto anche in questo momento esser deciso; credo piuttosto che il progetto annunziato da Garibaldi di penetrare in Toscana era un’astuzia di guerra, e che si getterà piuttosto negli Abruzzi, o cercherà di guadagnar l’Adriatico tra Spoleto, Norcia e Ascoli; quest’ultima città è occupata da un distaccamento austriaco appartenente alla guarnigione d’Ancona. »Permettetemi, Generale, di felicitarvi riguardo al fatto d’armi da voi gloriosamente condotto a termine, nonostante le difficoltà di ogni sorta che vi si opponevano. Assai sensibile a tutto quel che mi dite di obbligante, spero che le nostre attuali relazioni mi porranno nel caso di verbalmente indirizzarvi le espressioni della mia alta considerazione. »D’ASPRE. »_Al signor generale Oudinot, comandante, ec_.» TORRE, op. cit., vol. II, pag. 308-309. In altra poi del 31 luglio dello stesso allo stesso, il generale D’Aspre supponeva a Garibaldi l’intenzione di imbarcarsi a Santo Stefano sulle coste della Maremma toscana. [152] Alludeva a questo combattimento il Rapporto del Console generale pontificio qui trascritto: «Livorno, dal Consolato generale pontificio, li 21 luglio 1849. »_A Monsignore Bedini, Commissario straordinario pontificio — Bologna._ »Garibaldi. — Scontro colla truppa toscana a Chiusi. »Eccellenza Reverendissima, »Porto a cognizione dell’Eccellenza Vostra Rev.ma essere stato assicurato che Garibaldi co’ suoi abbia avuto il 18 corrente, a Chiusi nel Granducato, uno scontro colla truppa toscana, la quale soffrì la perdita del maggiore Bartolena, di due ufficiali e di alcuni soldati. Sembra che in quel paese facesse degli ostaggi di persone ragguardevoli, imponendo loro contribuzioni pecuniarie, conducendoli seco a Montepulciano, dove dicesi sia rinchiuso con viveri e munizioni. Molti volontari dei paesi a quello circonvicini si sono armati, e colla truppa toscana ed austriaca lo hanno circondato. »Questa mane, alle ore otto, è qui giunto col treno della strada ferrata da Firenze un battaglione di truppa austriaca che recasi a Porto Santo Stefano. »Il comandante di questa Marina militare ha ordinato che sia messo in perfetto ordine il regio _Barco_, il quale, condotto da un ufficiale, si dirigerà a Viareggio, onde ivi ricevere S. A. R. I. il Granduca di Toscana tosto che vi giungerà. »E pieno della più alta stima e considerazione passo all’onore di ossequiamente rassegnarmi »Dell’Eccellenza Vostra Rev.ma »Umil. dev. obbl. serv. »_Il Console generale pontificio_ »Pio march. ROMAGNOLI.» Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano: Documenti preceduti da una Esposizione storica, e raccolti per Decreto del Governo delle Romagne dal cav_. ACHILLE GENNARELLI, _avvocato nella Sacra Rota, già Residente di Collegio della Pontificia Accademia Archeologica, ec. ec_. — Parte prima, pag. CXV, 246. [153] Il signor CARLO CORSI, ora colonnello di Stato Maggiore, che viaggiava in quell’anno per que’ paesi e si trovò più volte avviluppato tra le colonne austriache, narra ne’ suoi _Venticinque anni in Italia_ (vol. I, pag. 193-194) parecchi aneddoti di quella campagna non privi d’interesse, e taluno de’ quali, come il seguente, può far prova del gran d’affare che il famoso guerrillero dava ai suoi persecutori e dell’alto concetto in cui essi lo tenevano. Ad un tratto giunge l’avviso che una colonna d’Austriaci scende dalla montagna. Ed eccone la vanguardia, e non molto dopo il resto. È un battaglione del reggimento Baumgarten con un drappello d’Ussari. Lo comanda un colonnello. Entrano nel paese, pongono le guardie, mandano pattuglie. Erano così trafelati e stanchi che a fatica si reggevano in piedi, da far pietà. Maledicevano a quei paesi, a Garibaldi e a chi teneva per lui. Un capitano, che proprio non ne poteva più, diceva in pretto italiano: — Questo diavolo ci condurrà così a spasso fino all’inferno, o in Africa per lo meno. È un altro Abd-el-Kader costui! — Ma pure li ufficiali erano compresi anch’essi d’ammirazione per quell’ardito, lo giudicavano un _partigiano_ di gran vaglia, nè si curavano gran fatto di metterlo alle strette, anzi desideravano che gli rimanesse aperto qualche modo di scampo, purchè quella maledetta caccia per monti e valli finisse.» [154] Op. cit., pag. 413. [155] L’HOFFSTETTER ha _die Trossknechte_ (op. cit., pag. 413), e la traduzione in _saccardi_ è giusta. Soltanto la voce _saccardi_, nel senso di Custodi o Conduttori delle bagaglie, è fuori d’uso e nell’esercito principalmente non si capirebbe. Per usar la voce tecnica nostra bisognerebbe dire _Conduttori del Treno_. [156] Vedi _Le Bande garibaldine a San Marino_. Racconto storico del capitano ORESTE BRIZZI, cavaliere di varii Ordini civili e militari, decorato di varie RR. medaglie d’onore cittadino, uffiziale dei Granatieri e consultore militare della Repubblica di San Marino, membro di molte illustri Accademie italiane e straniere, ec. Arezzo, 1850. [157] Leggasi per questi particolari il seguente Rapporto del Commissariato di sanità in Cesenatico: «_Commissariato di Sanità di Cesenatico_. »Eccellenza, »Ieri a sera alle ore 10 pomeridiane circa giunse in questo paese Garibaldi, assieme al suo Stato Maggiore e varii altri suoi satelliti, i quali in tutti potevano contare il numero di circa duecentocinquanta, e dopo aver fatto prigionieri sette soldati tedeschi che qui stanziavano, non che due ufficiali provenienti da Ravenna e Cervia diretti per Rimini a quel Comando, facevano pure prigionieri il brigadiere dei Carabinieri e due di linea sussidiarii alla brigata dei Carabinieri. »Requisì poi con la forza, minacciando della vita a chi non si prestava, tredici legni pescatori chiozzotti, ove poscia si sono imbarcati questa notte, e questa mattina alle ore 6 antimeridiane hanno salpato dal porto prendendo la direzione di greco o levante, avendo però tenuti seco tanto i militari austriaci, compreso i due uffiziali, come pure la frazione dei Carabinieri. Che per quante raccomandazioni si sono potute fare, non si è potuto ottenere, da questi barbari, la grazia di essere liberi questi poveri infelici. »Per sollecitare poi la evasione hanno preso a tutta forza varii marinai da diversi bordi che avevano approdato al porto ieri a sera in causa di mare burrascoso, restando così varii legni senza l’intero suo equipaggio. »Tanto mi credevo subordinare all’Eccellenza Vostra, per via straordinaria, mentre con profondo ossequio e rispetto ho l’alto onore di segnarmi »Dell’Eccellenza Vostra »Cesenatico, li 2 agosto 1849. »Umil.mo dev.mo obbl.mo servo »CLEMENTE CAVALCHI, _comandante_.» Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano: Documenti, ec. ec._ Parte prima, pag. CXV, 246. [158] Citato nel libro di P. C. BOGGIO, _Da Montevideo a Palermo, Vita di G. Garibaldi_, pag. 17. [159] Ed è dalle _Memorie_ manoscritte del BONNET, di cui egli volle esserci generoso, che noi togliamo tutto il racconto della fuga di Garibaldi traverso le valli di Comacchio, della morte d’Anita e del di lui miracoloso salvamento. E poichè è il salvatore stesso che parla, teniamo per errata od incompiuta ogni altra narrazione. Della generosa parte avuta dal Bonnet in quel tragico episodio, fanno testimonianza i due seguenti documenti: (_Municipio di Comacchio, Nº 553._) «Comacchio, li 6 febbraio 1869. »_Regno d’Italia._ »_Provincia di Ferrara. — Città di Comacchio._ »Dichiara il sottoscritto che il signor colonnello Nino Bonnet nel 1849, quando il generale Garibaldi, inseguíto sull’Adriatico da legni austriaci che incrociavano dinanzi alla Venezia, approdava su queste spiagge, senza temer pericoli si diede ogni cura per salvare quel Prode come difatti vi riescì, ed è cosa pubblicamente notoria che accusato da anonimi scritti di aver strappato di mano agli Austriaci il Garibaldi, fu chiamato da quel Comandante che intimogli alla presenza dei Gendarmi pontificii gli arresti. È pur noto che il Bonnet gli rispose, che se avesse dato retta a quegli scritti avrebbe commesso ingiustizia, e che egli impegnava la sua parola di Capitano d’onore che sarebbe, ogni qualvolta l’avesse fatto chiamare, comparso a render ragione del suo operato. Fu messo in libertà, ed invitato poscia a comparire di nuovo innanzi al medesimo, non valsero le preci de’ suoi amici a che non si presentasse perchè correva rischio di essere fucilato, ch’egli volle presentarsi al predetto Comandante, dicendo che mai avrebbe mancato alla sua parola d’onore, e difatti, presentatosi, venne fatto arrestare, ed incatenato mani e piedi fu tradotto a Bologna. »Certifica altresì che i giornali d’allora portavano la di lui fucilazione: ma essendo giunto in Bologna quattro giorni dopo il Padre Ugo Bassi e Livraghi, ed essendo stato rimpiazzato al Gorzkowski il generale Strasoldo meno inumano, dopo trenta giorni fu posto in libertà, però sempre sospetto ed inviso agli Austriaci. »Tanto si depone per la verità. »_Il R. Sindaco_ »Firmato — L. FELETTI. »La presente copia è conforme all’originale, col quale è stata collazionata. »_L’Assessore municipale_ »CARLI.» «Lovere, 7 agosto 1859. »Carissimo Amico, »In nessuna circostanza della vagante mia vita io non vi ho mai dimenticato. E come potevo scordare voi, che foste il mio Angelo salvatore, nell’ora del pericolo, e di angoscie che non si potrebbero nemmeno desiderare ad un nemico? »Io sono contento d’aver con me vostro fratello, ed avvicinandomi verso le vostre contrade io spero riunirmi anche con voi al conseguimento della sacra missione che ci siamo proposta. »Le reliquie della cara mia donna, che foste tanto gentilmente buono da custodire, e per cui vi devo tanta gratitudine — che non si rimuovano per ora — noi le traslocheremo quando fia d’uopo. »Circa le vostre memorie — troppo onorevoli per i miei piccoli fatti — io lascio a voi libera disposizione; spero non tarderemo a rivederci, e sono intanto per la vita »Vostro »Firmato — G. GARIBALDI. »La presente copia è conforme all’originale, col quale è stata collazionata. »_L’Assessore municipale_ »CARLI.» [160] Il 3 giugno. [161] Ecco il Rapporto del Delegato di polizia di Ravenna: «GOVERNO PONTIFICIO. »_Direzione generale di Polizia in Ravenna._ »_Rinvenimento d’ignoto cadavere._ »Eccellenza Reverendissima, »Mi reco a premuroso dovere di rassegnare rapporto a Vostra Eccellenza Rev.ma sul rinvenimento d’ignoto cadavere. »Venerdì scorso, 10 corrente, da alcuni ragazzetti in certe larghe, di proprietà Guiccioli alle Mandriole in distanza di circa un miglio dal porto di Primaro, e di circa undici miglia da Comacchio, fu trovato sporgere da una motta di sabbia una mano umana. Presso la ricevuta notizia andette ieri la Curia in luogo, dove giunta fu osservata la detta mano e parte del corrispondente avambraccio che erano stati divorati da animali e dalla putrefazione. Fatta levare la sabbia che vi era per l’altezza di circa mezzo metro, fu scoperto il cadavere di una femmina, dell’altezza di un metro e due terzi circa, dell’apparente età di trenta a trentacinque anni, alquanto complessa; i capelli già staccati dalla cute, e sparsi fra la sabbia, erano di colore scuro, piuttosto lunghi, così detti alla puritana, »Fu osservato avere gli occhi sporgenti, e metà della lingua pure sporgente fra i denti, nonchè la trachea rotta ed un segno circolare al collo, segni non equivoci di sofferto strangolamento. Nè alcun’altra lesione fu osservata nella periferia del di lei corpo; fu veduto mancarle due denti molari nella mandibola superiore alla parte sinistra ed altro dente pur molare alla parte destra della mandibola inferiore. Sezionato il cadavere, fu trovato gravido di un feto di circa sei mesi. Era vestita di camicia di cambrick bianco, di sottana simile, di bournous egualmente di cambrick fondo paonazzo fiorato bianco, scalza nelle gambe e nei piedi, senza alcun ornamento alle dita, al collo, alle orecchie tuttochè forate. Li piedi mostravano d’essere di persona piuttosto civile e non di campagna, perchè non callosi nelle piante. La massa delle persone accorse dalle Mandriole di Primaro, di Sant’Alberto ed altri finitimi luoghi non seppero riconoscere il cadavere. Non si è potuto stabilire il colore della carnagione per essere il cadavere in putrefazione, nel qual caso non rappresenta il color naturale. Nè si credette trasportarlo in più pubblico luogo per la ricognizione, atteso il gran fetore, per cui fu subito sotterrato anche per riguardo della pubblica salute. »Tutto ciò conduce a credere che fosse il cadavere della moglie o donna che seguiva il Garibaldi, sì per le prevenzioni che si avevano del di lei sbarco da quelle parti, sì per lo stato di gravidanza. Fin qui è oscuro come sia giunta quella donna in quei siti, e come sia rimasta vittima. Si stanno però praticando le opportune indagini, delle quali sarà mia premura sottomettere all’E. V. Rev.ma all’opportunità l’analogo risultato. »Intanto con perfetta stima e profondo rispetto ho l’onore di ripetermi »Di V. E. Rev.ma »Ravenna, 12 agosto 1849. »Dev.mo servitore »A. LOVATELLI, _Delegato_.» «GOVERNO PONTIFICIO. »_Direzione provinciale di Polizia in Ravenna._ »_All’Eccellenza Reverendissima_ »_di Monsignor Commissario straordinario — Bologna._ »Eccellenza Reverendissima, »In seguito al precedente mio rispettoso foglio del 12 corrente con egual numero, _sottoponeva_ all’E. V. Rev.ma che col mezzo delle indagini praticate dalla Polizia e con segreti confidenti da lei posti in giro, ho potuto venire nella chiara e precisa conoscenza dei fatti relativi al rinvenimento dell’ignoto cadavere di donna. Non vi ha in oggi più dubbio che il suddetto cadavere non sia della donna che seguiva Garibaldi. _Fu dessa condotta moriente su di un biroccino da Garibaldi istesso alla casa colonica dei fratelli Ravaglia_, fattori dei marchesi Guiccioli in una di lui proprietà alle Mandriole. _La donna era invasa da febbre perniciosa_, siccome espresse il medico Nannini di Sant’Alberto, che, trovatosi presente colà casualmente all’arrivo di essa, le tastò il polso. Asportata in una camera ed adagiata su di un letto, le fu apprestato il soccorso di un bicchiere d’acqua, ma non appena ne sorbì pochi sorsi cessò di vivere. »Eravi presente il Garibaldi, il quale si sfogò in atti di inconsolabile dolore per tale disgrazia e poco dopo si diede alla fuga, raccomandando a quella famiglia di dare onorata sepoltura al cadavere. Questi fatti avvenivano il 4 corrente verso sera alla presenza di più che venti persone, essendosi colà riuniti gl’inservienti di quella fattoria per essere pagati della mercede delle opere prestate nel corso della settimana. »Ho subito spedito nel luogo un impiegato di Polizia per procedere all’arresto dei fratelli Ravaglia, lo che è già stato eseguito; ed il Tribunale sta ora costruendo l’analogo incarto. Si vede fin d’ora che li suddetti coloni, compresi da timore di essere rimasti esposti a grave responsabilità per il ricovero dato momentaneamente a Garibaldi, e per la morte avvenuta in loro casa della di lui moglie, si appigliarono al partito di occultare l’avvenimento e quindi si indussero a sotterrare in campagna quel cadavere. »Sarà mio dovere informarla delle risultanze del processo; ed intanto con perfetta stima e profondo rispetto passo a confermarmi »Di V. E. Rev.ma »Ravenna, li 15 agosto 1849. »Umil.mo dev.mo servitore »A. LOVATELLI, _Delegato_.» Vedi _Il Governo pontificio e lo Stato romano_, ec., Documenti già citati. [162] «L’errore a primo giudizio del professor Foschini fu causa che si credesse che il fattore Ravaglia fosse creduto autore di questo misfatto, in conseguenza di che venne assalito dal famoso Pelloni, detto _il Passatore_, che infestava le Romagne, pretendendo dal Ravaglia i denari rubati a Garibaldi. Ciò fu la causa della morte di un fratello del fattore cagionatagli dalle percosse avute, ed il Ravaglia quasi strozzato, ebbe il cordino al collo, e finalmente lasciato dal Pelloni in uno stato deplorevole.» — (_Nota del_ BONNET.) [163] Non aggiungiamo nulla a quanto narrò Garibaldi stesso nelle sue _Memorie_. Vedi in ELPIS MELENA, op. cit., vol. II. [164] Solo adesso, già composte queste pagine, troviamo la notizia che Garibaldi non ebbe soltanto tre figli, come fu creduto fin’ora, ma quattro; cioè oltre a Menotti, Teresita e Ricciotti, anche Rosita, una bambina partoritagli da Anita nel 1842, e morta a Montevideo nei giorni in cui egli comandava la spedizione del _Salto_, nel 1846. Ciò si desume da questi frammenti manoscritti in lapis tutti di pugno di Garibaldi, che ebbi dalla cortesia del mio amico Basso: «Un giorno io era al Salto a cinquecento miglia al settentrione di Montevideo sul fiume Uruguay, confluente del Rio della Plata. La fortuna s’era compiaciuta di favorirmi in ogni mia operazione. Col mio piccolo contingente di dugento Legionari italiani, onore dell’armi italiane, e pochi cavalli — posso dire pochi, poichè erano sei soli i cavalli imbarcati al principio della spedizione — si erano operati prodigi, e mi trovavo alla testa d’una rispettabile colonna di fanteria, cinquecento cavalieri e circa duemila cavalli presi dal nemico. Il dipartimento del Salto tutto in nostro potere, e la Colonia militare in uno stato floridissimo. »Io dico Colonia militare, poichè essendo spopolato il paese e tutta la gente da noi liberata dai nemici, che l’avevano strappata a forza dalla città del Salto e condotta sulle sponde del Tapevi ed ove intieramente li sbaragliammo — dico dunque Colonia, perchè erimo noi obbligati di custodire l’unico prodotto del paese: il bestiame. »In quel giorno dunque io ero felice quanto lo può essere un soldato, cui ogni cosa di guerra va a gonfie vele. Quando giuntami una lettera dal generale Pacheco, allora ministro della guerra in Montevideo, laconicamente diceva: »_Vostra figlia Rosita è morta! In ogni modo dovrete saperlo._ — Dunque tu non sei padre! non lo fosti! e non lo sarai giammai! — Tale era e fu quell’uomo! — Perchè se padre, egli meglio avrebbe apprezzato l’amore per una figlia. Io ero stato l’amico di quell’uomo, e da quel momento la sua memoria mi faceva ribrezzo. »Lo avrei saputo, sì; e come non saperlo; io amavo tanto quella mia creatura; me ne sarei addolorato in qualunque modo — però mi sembrò sì villano il modo di colpirmi, che mi scosse sì dolorosamente, e che non ho potuto mai perdonargli. »Io avevo amato e stimato il Pacheco; quando Montevideo, scevro dell’animosità di parte, ricorderà con gratitudine gli uomini che faticarono alla gloriosa sua difesa di dieci anni, certo il generale Pacheco, col generale Paz, figureranno alla testa de’ suoi prodi difensori, e meriteranno un ricordo dalla nuova Troia. »L’uomo apprezza l’opera tua, e vorrebbe possibilmente fatta migliore dell’altrui. E la donna, poverina, che soffre tanto nell’opera sua? non ha essa il diritto di credere almeno d’aver partorito una bella, una buona cosa — nel bimbo o nella bimba — ch’ella diede alla luce! Tale era la mia povera Anita; e se dovessi raccontare tutte quante le doti ch’ella aveva trovato nella nostra Rosita, sarebbe cosa incredibile. »Comunque fosse, Rosita era una bellissima, una carissima bambina! Morì dai quattro ai cinque anni: l’intelligenza sua era precoce, ed ella si estinse nel grembo della madre, come si estingue agli occhi nostri, nell’Infinito, la luce del primogenito della Natura, gradatamente, dolcemente, affettuosissimamente. Morì senza lamentarsi, supplicando la madre che non si addolorasse! che si troverebbero presto, per non _più dividersi_! — era un mondo di cose gentili! »Infine, io passerò per un visionario. Ma così sincere, così veridiche, così scolpite nel suo spirito, mi sembrarono le ultime parole della figlia alla madre raccontatemi dalla mia Anita, quando giunse al Salto (ove la chiamai per paura che mi diventasse pazza), ch’io risposi all’addolorata consorte. — Oh sì! noi rivedremo la nostra Rosita, l’anima nostra è immortale!... e questa vita di miserie non è che un episodio dell’immortalità! e divina scintilla, parte della fiamma infinita che anima l’Universo. — » [165] Del matrimonio di Garibaldi con Anita si dubitò fino agli ultimi giorni; parecchi anzi, fondandosi sull’errore che Anita fosse già maritata, lo negavano addirittura. Il seguente _Atto matrimoniale_, ottenuto da Montevideo mercè la squisita gentilezza del signor Ministro dell’Uruguay, P. Antonini y Diez, tronca ogni dubbio e chiude la controversia: «(Hay très sellos) 031318. »Martin Perez, Cura Rector de la Parroquia en San Francisco de Asis en Montevideo, »Certifico: que en el Libro primero de matrimonios de esta Parroquia al folio diez y nueve vuelto, se lee la partida que trascribo: «En veinte y seis de marzo di mil ocho cientos cuarenta y dos: Don Zenon Aspiazú, mi lugar Teniente Cura de esta Parroquia de San Francisco de Asis en Montevideo, autorizó el matrimonio que in facie Ecclesiæ contrajó por palabras de presente Don José Garibaldi, natural de Italia, hijo legitimo de Don Domingo Garibaldi y de Doña Rosa Raimunda; con Doña Ana Maria de Jesus, natural de la Laguna en el Brasil, hija legitima de Don Benito Riveiro de Silva y de Doña Maria Antonia de Jesus, habiendo el Señor Provisor y Vicario General dispensado dos conciliares proclamas y practicado lo demas que previene el derecho: no recibieron las benediciones nupciales por ser tiempo que la Iglesia no las imparte. Fueron testigos de su otorgamiento Don Pablo Semidei y Doña Feliciana Garcia Villagran: lo que por verdad firmo yo el Cura Rector — Lorenzo A. Fernandez.» »Concuerda con el originai y á solicitud de parte interesada expide el presente en Montevideo á veinte y siete de Enero de mil ocho cientos ochenta y uno. »MARTIN PEREZ. »Buono per la legalizzazione della firma sovraposta del signor Martin Perez, parroco della Matriz a noi ben cognita. »Montevideo, 8 febbraio 1881. »Il Vice-Console »PERROD.» (L. S.) [166] _Amigo_ è quasi un intercalare nel discorso domestico di Garibaldi; ricordo della lingua spagnuola. L’aneddoto l’avemmo dal generale Sacchi, che fu anche, se la memoria non ci fallisce, colui che interrogò Garibaldi. [167] Felice Orrigoni di Varese, patriotta, soldato, marinaio, milite negli ultimi anni della Legione italiana, combattente a Roma nel 1849 ed in Valtellina; partito per la Sicilia colla spedizione Medici; capitano di corvetta del Dittatore; simpatica e onesta figura di patriotta. [168] Poche e sommarie rispetto alla materia e al desiderio nostro, ma pure inedite in gran parte e crediamo tutte nuove e interessanti. Le togliemmo parte da altre lettere del BONNET, parte dall’opuscolo: _Da Prato a Porto Venere_, ossia _Un episodio della vita del generale Giuseppe Garibaldi_, narrato al Popolo dal dottor RICCIARDO RICCIARDI. Grosseto, 1873. [169] Parlamento subalpino. Tornata 10 settembre 1849. [170] _Commemorazione di A. La Marmora_, pag. 25. Firenze, G. Barbèra, edit., 1879. [171] Garibaldi accettò la pensione per la madre e la rifiutò per sè. Nelle _Lettere ad Antonio Panizzi_ (G. Barbèra, edit., 1880) se ne legge una di Massimo D’Azeglio del 25 luglio 1864, la quale dice: «Io ho sempre amato ed ammirato Garibaldi. Quando fu rotto a Cesenatico, trattavo la pace coll’Austria e incaricai i Plenipotenziari di salvarlo potendo. Poi gli feci dare una pensione _che accettò per la madre e rifiutò per sè_.» (Pag. 479.) Ora come mai il La Marmora dimenticò questo particolare, che il D’Azeglio, allora Presidente del Consiglio de’ Ministri, così bene ricorda? [172] ALFRED DE REUMONT, _Appunti alla Storia d’Italia_, pag. 205. Berlino, 1855. [173] Dai frammenti di manoscritti datimi da G. Basso. [174] Tutte queste notizie intorno ai viaggi di Garibaldi dall’America alla Cina e di là in Italia, le raccogliemmo da una lunga lettera di Giovanni Basso, uno de’ marinai della _Carmen_ e del _Commonwealth_; e d’allora in poi amico, segretario, soldato, intimo per trent’anni di Garibaldi. [175] In una specie di _Bilancio_ scritto tutto di suo pugno da Garibaldi, troviamo, che dall’America potè riscuotere 25,000 lire e che 35,000 le ereditò dal fratello Felice. Udimmo noi stessi dire più volte, che quando comperò la Caprera poteva avere di suo circa 60,000 lire. Alludono poi così alla morte del fratello, come a’ suoi viaggi a Nizza ed a Genova, le seguenti due lettere a quel Felice Orrigoni che accompagnò Anita Garibaldi da Nizza a Roma: «Nizza, 31 ottobre 1855. »Caro Orrigoni, »Ho inteso con piacere il tuo felice ritorno e mi rincresce della perdita dell’aspettato vapore. T’invio un ordine per il signor Mangiapan acciò ti rimetta l’incarico del Salvatore, e ti prego di liquidare in luogo mio la differenza insorta tra il suddetto e l’equipaggio. »Io non potrò recarmi a Genova sennonchè tra alcuni giorni, avendo qui mio fratello moribondo, che non posso lasciare. »Tuo G. GARIBALDI.» «Nizza, 29 novembre 1855. »Caro Orrigoni, »Ho la tua del 27: sono contento della vertenza Mangiapan ed equipaggio. Partirò per Genova lunedì, benchè sono persuaso che il _Salvatore_ non abbisogna di me essendo tu a bordo. — Comunque sia, se fa mestieri starò in Genova; ma se si dovesse rimanere lungo tempo nell’ozio, penso di far una passeggiata in Sardegna a veder come stanno le beccaccie. »Tuo G. GARIBALDI. »Antonio Riva o Cenni sanno dove trovar specchi.» [176] Lo riferisce in una sua lettera al marchese Pallavicino lo stesso Foresti. — Vedi _Daniele Manin e Giorgio Pallavicino: Epistolario politico 1855-1857_, con note e documenti di B. E. MAINERI, pag. 163. Milano, tip. edit. Bertolotti, 1878. [177] Ciò risulta manifestamente da questa lettera del Cosenz a Giorgio Pallavicino inserita nel detto _Epistolario_, pag. 400: «Torino, 11 giugno 1856. »Pregiatissimo Signore, »Ecco quanto mi viene assicurato da fonte sicura e da varii altri canali, cioè che la parte _meridionale_ è disposta a muoversi, qualora non fosse affatto deficiente d’armi. Certo, non fuvvi mai opportunità migliore di questa, essendovi l’approvazione di tutti i patriotti italiani, a qualsiasi partito politico essi appartengano. Qualora poi si potessero introdurre armi, e, ciò ch’è meglio, un poderoso numero d’armati, non è a dubitarsi che il paese tosto non insorga. Dal di fuori non si potrebbe iniziare un movimento di qualche importanza senza l’appoggio di una Potenza. Or ci si fa credere che l’Inghilterra lascierebbe fare, facendosi cautamente; ed anzi permetterebbe che la Legione anglo-italiana venisse imbarcata; su che vennero di già iniziate le necessarie pratiche. Per poter meglio ciò eseguire, vi abbisognerebbero due vapori; e siccome ne vennero proposti due, ed a buon prezzo, così ci fa mestieri, prima d’inoltrarci nelle pratiche, sapere se in tempo utile avremmo disponibile una certa somma. Garibaldi sarebbe fra i caldi promotori di questa impresa; ha già visitati i vapori, e li ha trovati adatti allo scopo. Egli si ripromette molto nella riuscita, se le cose saranno realmente nelle condizioni suindicate. Io poi vi posso assicurare che tutti quelli che hanno a cuore il nostro paese, non mancheranno di prendere parte a simile fatto. Oggi non è mestieri parlare di programma politico, che è nel cuore di tutti, ed è l’indipendenza e l’unificazione della patria nostra.» [178] Giorgio Pallavicino a Daniele Manin (op. cit., pag. 197): «Intanto si lusinga il bravo Garibaldi per corbellarlo in appresso. Mi duole all’anima di quel valentuomo, il quale presta fede alle parole di Camillo Cavour. Senza un cambiamento di Ministero in Piemonte, l’Italia non si farà in eterno: abbilo per vangelo.» E altrove, 23 settembre 1856 (pag. 204): «L’Italia in questo momento non ha peggior nemico del Cavour.» [179] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 172. [180] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 533. [181] _Daniele Manin_, ec., op. cit., pag. 312. [182] Garibaldi era stato chiamato per mezzo di Giuseppe La Farina coll’intesa che fosse a Torino per la fine di novembre; ma poi avendo il conte di Cavour scritto al La Farina che il Generale poteva aspettare a venire fino alla fine di dicembre, questi non arrivò a Torino che il 20; e il 22 era già di ritorno a Caprera. Così i particolari di questo viaggio, come i documenti riguardanti il complotto dei Ducati, di cui si parla più sotto, si ritraggono dall’_Epistolario_ di GIUSEPPE LA FARINA, vol. II, pag. 82, 83, 84, 91, 92, 97, 98, 99, 110 e 124. Nell’_Epistolario_ stesso si leggono parecchie lettere di Garibaldi non prive d’interesse; due delle quali non possiamo astenerci dal riprodurre: «_A Giuseppe La Farina — Torino._ »Genova, 22 dicembre 1858. »Carissimo amico, »Parto oggi alle 9, ed in caso che le circostanze ci precipitino all’azione (ciò che non sarebbe impossibile), mandatemi un vapore. Chiunque de’ possidenti vapori in Genova può dare un vapore per l’oggetto, in caso non si potesse mandare un vapore da guerra. »Gli elementi rivoluzionari tutti sono con noi; è bene che Cavour se ne persuada, in caso non lo fosse pienamente, e che vi sia fiducia illimitata. Credo pure necessario che il Re sia alla testa dell’esercito, e lasciar dire quei che lo trattano d’incapacità. Ciò farà tacere le gelosie e le ciarle, che disgraziatamente fanno uno degli attributi di noi Italiani. Egli conosce oggi di chi si deve attorniare. La dittatura militare è nel convincimento di tutti: dunque, per Dio! che sia senza limite. Io ho raccomandato in Lombardia, in Toscana: _Non movimenti intempestivi a qualunque costo_. La venuta delle leve nello Stato nostro, e quella degli studenti di Pavia, è un fatto che voi potrete ingigantire a vostro piacimento. Io ho raccomandato che ve ne avvertino. »Vi prego tanto di scusarmi su quanto vi ho detto. Io non ho certamente la pretensione di consigliarvi, ma di dirvi francamente la mia opinione. »Addio, comandate »il vostro »G. GARIBALDI.» «_A Giuseppe La Farina — Torino._ »Caprera, 30 gennaio 1859. »Carissimo amico, »Avevo già risposto alle antecedenti vostre, quando mi giunse l’ultima del 23. Io sono contentissimo del buon andamento delle nostre cose, e non aspetto che un cenno vostro per partire. B.[183] credo che finirà per venire con me, ad onta d’aver ancora certe mazzinerie; in caso contrario, noi faremo pure senza. Circa alle suggestioni che potrebbero venirmi da quei di Londra, state pur tranquillo. Io sono corroborato nello spirito del sacro programma che ci siam proposti, da non temere crollo, e non retrocedere nè davanti ad uomini, nè davanti a considerazioni. Io non voglio dar consigli al Conte, nè a voi, perchè non ne abbisognate; ma colla parola vostra potente sorreggetelo e spingetelo sulla via santissima prefissa. Italia è ricca d’uomini e di danari. Egli può tutto; che faccia tutto, e qualche cosa di più ancora. I nostri nemici ed i suoi più ancora lo rimprovereranno di non aver fatto, che d’aver mal fatto. Che l’organizzazione de’ Corpi Bersaglieri già menzionati sia su scala spaventosa: noi non avremo mai fatto troppo; ed io bacierò piangendo la mano che ci solleva dall’avvilimento e dalla miseria. Scrivo al Presidente nostro pure.[184 »Sono per la vita »vostro »G. GARIBALDI.» ] [183] Allude certamente al dottore Agostino Bertani. [184] Cioè al Pallavicino, presidente della Società nazionale. [185] Il _Diritto_ del 3 marzo 1859 diceva: «Il generale Garibaldi è giunto a Torino;» vi doveva dunque essere arrivato fino dal giorno antecedente. [186] L’ordine del Cialdini suonava così: «Gli Austriaci avanzano per la sinistra del Po dopo di aver passato la Sesia a Caresana; giungeranno presto innanzi alla mia testa di ponte; non intendo di dare ordini, ma sarei lieto se la vedessi giungere colla sua colonna dei Cacciatori delle Alpi; la consiglio a sbrigarsi, perchè il nemico persiste nel voler gettare un ponte a Frassineto, e allora sarebbe quasi impossibile entrare in Casale.» — _I Cacciatori delle Alpi_, ec., di FRANCESCO CARRANO, pag. 194-195. [187] FRANCESCO CARRANO, op. cit., pag. 206. [188] Lo riproduciamo come documento storico e psicologico insieme. Poche volte lo stile fu più esattamente l’uomo. «Lombardi, voi siete chiamati a nuova vita, e dovete rispondere alla chiamata, come risposero i padri vostri in Pontida e in Legnano. Il nemico è lo stesso, atroce, assassino, depredatore. I fratelli vostri d’ogni provincia hanno giurato di vincere o morire con noi. Le ingiurie, gli oltraggi, le servitù di venti passate generazioni noi dobbiamo vendicare e lasciare a’ nostri figli un patrimonio non contaminato dal puzzo del dominatore soldato straniero. Vittorio Emanuele, che la volontà nazionale ha eletto a nostro duce supremo, mi spinge tra di voi per ordinarvi alle patrie battaglie. Io sono commosso della sacra missione affidatami, e superbo di comandarvi. All’armi dunque! Il servaggio deve cessare, e chi è capace d’impugnare un’arma, e non l’impugna, è un traditore. L’Italia con i suoi figli unita e purgata dalla dominazione straniera, ripiglierà il posto che la Provvidenza le assegnò tra le nazioni.» — CARRANO, op. cit., pag. 249-50. [189] L’inviato era l’ingegnere Cesare Piccinelli; ecco la lettera del podestà Carcano: «Varese, 23 maggio 1859. »Ore 6 ant. »S’incarica il signor ingegnere Cesare Piccinelli per mandato particolare di speciale confidenza di tosto recarsi a Sesto-Calende, ed in qualunque altro paese abbia fermato il proprio Quartiere generale la colonna dell’Esercito italiano che ha stamattina varcato il Ticino, di presentarsi al Comandante della colonna stessa onde porgergli in nome di questi cittadini un benvenuto di cuore, e chiedergli e ricevere istruzioni sul contegno del Municipio di Varese per le occorrenze del momento. »_Il Podestà_ »Ing. CARLO CARCANO.» Vedi _Varese, Garibaldi ed Urban nel 1859_, ec., del sacerdote GIUSEPPE DELLA VALLE. Varese, tip. G. Carreglio, pag. 31. [190] È vero che la sera del 23 il nemico non era ancora comparso a Gallarate, e che perciò la marcia Sesto-Varese poteva tenersi da quel lato sicura; ma la compagnia De Cristoforis serviva sempre a mantenere il nemico nell’illusione che Garibaldi fosse sempre a Sesto, e quindi lo richiamava verso quel punto, distogliendolo dall’idea di voltare direttamente per Gazzada o per Tradate su Varese, come avrebbe potuto fare. [191] _Varese, Garibaldi ed Urban_, ec., pag. 40. [192] Proclama del generale Giulay da Garlasco, 24 maggio 1859. Curioso che il Generalissimo imperiale chiami _civile_ la guerra tra i suoi Tedeschi e noi Italiani. Proprio vero: con quei signori non ci siamo intesi mai, nè credo c’intenderemo. Vedilo nell’opera succitata, _Varese_, ec. [193] Nella _Campagne de l’empereur Napoléon III en Italie 1859, rédigée au Dépôt de la Guerre d’après les Documents officiels, étant directeur le général_ BLONDEL, _sous le Ministère de S. E, le maréchal comte_ BARDON, a pag. 102 si legge: «Mais, dès le 12, le bruit du mouvement opéré par Garibaldi était arrivé à Milan et au quartier général de la deuxième armée. Le Gouverneur civil et militaire de Milan, feld-maréchal-lieutenant Melezes de Kellermes, dirigea immédiatement sur Varèse des détachements de la garnison de Milan, pendant que le général Urban recevait du comte Giulay l’ordre de rejoindre la brigade Rupprecht et de marcher sur Garibaldi. »Cette brigade, qui faisait partie de la division de réserve, se composait de: »1 Bataillon du régiment frontière de Szluin (nº 4). »3 Bataillons du régiment de Kellner (nº 41). »1 Batterie à pied, de 12. »1 Batterie de fusées. »2 Escadrons de hussards comte Haller (nº 12).» Valutando i battaglioni austriaci a mille uomini, sarebbero stati cinquemila fanti, centosessanta cavalli, sei pezzi d’artiglieria e una batteria di razzi che il generale Urban aveva a’ suoi comandi. Ma supponendo che n’abbia lasciati una parte a Como, portò sempre contro Garibaldi quattromila uomini. [194] Nell’opera più volte citata del maggiore G. CARRANO, _Garibaldi e i Cacciatori delle Alpi_. [195] Il generale Urban doveva far partire la colonna aggirante tra Malnate e Belforte. Anche di là non poteva, è vero, andare che per sentieri, ma aveva due terzi meno di cammino, e in un’ora al più poteva essere in linea. Io penso poi che, anche spiegato da quella parte l’attacco, il solo battaglione mandato ad eseguirlo non bastava a snidare dalle forti posizioni Garibaldi, che vi si teneva concentrato con sette od ottocento uomini. A parer mio soltanto con dimostrazioni più forti sul centro e sulla sinistra, combinate con un vero e serio attacco girante da sinistra, e il generale Urban era in forze da tentarlo, la posizione di Varese poteva essere espugnata. Invece non fu neanche seriamente minacciata. [196] Ecco il quadro delle sue forze desunto dall’opera citata: _Campagne de l’emp. Napoléon III en Italie_, pag. 104-105: _Generale Rupprecht._ 1 Battaglione reggimento frontiera di Szluin (nº 4). 4 Battaglioni del reggimento Kellner (nº 41). _Generale Augustin._ 1 Battaglione frontiera di Titel. 4 Battaglioni del reggimento Principe di Prussia (nº 34). _Generale Schaffgotsche._ 3 Battaglioni di Cacciatori. Il 14º battaglione di Cacciatori. 1 Battaglione del reggimento Don Miguel (nº 39). 1 Battaglione del reggimento Arciduca Ranieri (nº 59). [197] Non però per cagion sua. Essa doveva attaccare quando sentisse cominciato il fuoco alla sua sinistra, e siccome una squadra della compagnia Susini sparò senz’ordine e prima del tempo, così anche il De Cristoforis fu tratto in inganno da quella fucilata. Del resto, gli ordini da lui ricevuti non gli permettevano di perdersi in indugi. Fu il generale Garibaldi in persona che, passando dinanzi alla fronte della compagnia pronta all’attacco dietro la Villa Amato, disse al De Cristoforis: «Capitano, appena udite la fucilata e passato questo muro, caricate alla vostra maniera.» Testuali parole udite da me stesso, e che son ben lieto di scrivere qui a maggior giustificazione di quel valente ufficiale e mio dilettissimo amico, ingiustamente accusato d’aver troppo precipitata l’azione in quella giornata. [198] A Varese aveva perduto tra morti e feriti circa ottantaquattro uomini, e a San Fermo trentacinque; per cui, sottraendo ancora le compagnie lasciate a Como ed a Lecco, la squadra rimasta a Varese e i malati (in tutto circa quattrocento uomini), si può con certezza affermare che la colonna in quel giorno (28) non arrivava a duemila novecento combattenti. [199] La citata opera (_Campagne de l’emp. Napoléon III en Italie_, pag. 106) dice: «Pour atténuer l’horreur d’une pareille mesure le général Urban a prétendu que le tir des pièces était dirigé de manière a épargner la ville et a n’atteindre que quelques grands bâtiments isolés et inhabités.» Contro le parole del bombardatore attestano le vestigia del bombardamento visibili ancora in molte case, certo non isolate nè disabitate. E chi voglia saper la verità tutta, legga quel che ne scrive uno degli ostaggi ritenuti dall’Urban, testimonio del feroce spettacolo: «Alle ore sei pomeridiane precise cominciò il bombardamento della città. Sessanta e più furono i colpi di cannone scaricati nello spazio di poco tempo. Alle nove circa fu ripetuta la scarica a doppia dose. Per maggior colmo di barbarie, e perchè avesse a farci maggiore impressione l’orrendo spettacolo, ci si aprivano le finestre. Ogni colpo era come una stilettata al cuore per gli astanti che si immaginavano il pericolo dei loro più cari. Si cominciava colle artiglierie del Quartiere generale alla Villa Pero di casa Picinini, comandate dal _valoroso_ tenente-maresciallo Urban; poco dopo vi rispondevano quelle situate sulle alture di Giubbiano, sulla spianata di Montalbano, di San Michele di Bosto, e da ultimo quelle di San Pedrino, ove ci trovavamo noi stessi. In quel momento il suolo ci ballava sotto i piedi, e non pochi vetri cadevano spezzati.» Il libro poi da cui togliamo questo brano (_Varese, Garibaldi ed Urban_, pag. 117), soggiungeva: «Nel secondo bombardamento i colpi scagliati furono circa duecentocinquanta. Vennero diretti specialmente al campanile, che si voleva forse castigare perchè fu suonato a stormo la mattina in cui gli Austriaci furono battuti a Biumo Inferiore, ed _a festa_ il dì in cui s’inaugurò il Governo costituzionale ed italiano di Vittorio Emanuele, la sera in cui giunse Garibaldi, e quando questi ritornò dopo le riportate vittorie; alla cupola della Basilica, intanto che si beffeggiava la Religione; ad alcune ville e case, che ne furono assai malconcie e danneggiate; all’Ospitale stesso, dove, cogli ammalati e coi feriti nostri, trovavansi anche i feriti austriaci.» [200] «L’État-Major du commandant de la deuxième armée sembla voir une grande portée politique et militaire dans l’entreprise de Garibaldi sur Como. D’habiles officiers inclinaient à penser quelle devait être le prélude de graves opérations et le présage d’une attaque sérieuse sur l’aile droite autrichienne. Mais dans un Conseil de guerre tenu à Garlasco le 27, le comte Giulay déclara qu’il n’attribuait aux courses de Garibaldi dans le nord d’autre caractère que celui d’une simple diversion, et persévéra plus que jamais dans sa première manière de voir. Aussi se contenta-t-il de donner, le 28 mai, au général Urban, l’ordre de reprendre l’offensive contre Garibaldi avec toutes ses forces, et de tirer de la ville de Varèse une répression exemplaire.» _Campagne de l’empereur Napoléon III en Italie_, già citata. — Solamente, come stiamo raccontando, l’Urban non seppe eseguire l’ordine del suo capo; gli fu facile bombardare Varese, ma quanto a riprendere l’offensiva, abbiamo veduto che non gli bastarono tre giorni a risolversi; e dopo quei tre giorni era tardi. [201] Il RUSTOW, _Campagna del 1859_. [202] Ci sarebbe difficile raccogliere e correggere tutti gli errori di fatto che intorno a questa campagna di Garibaldi scrissero e propagarono anche gli autori militari più reputati. Mi limiterò ad alcuni esempi. Il CORSI nel suo _Sommario di Storia militare_ (parte III, pag. 238) dice «che Garibaldi partì da Biella con seimila uomini,» ed è noto che la brigata dei Cacciatori delle Alpi, anche nei giorni della sua maggior forza, non contò più di tremilaquattrocento uomini; che «il 26 maggio l’Urban mosse di nuovo ad assalire Garibaldi a Como,» mentre tutti sanno che l’assalitore fu Garibaldi; che dopo il colpo fallito sul forte di Laveno, Garibaldi stava per essere costretto a cercare scampo in Isvizzera, quando l’apparizione dei Francesi sul Ticino costrinse l’Urban a retrocedere; mentre noi abbiamo dimostrato che Garibaldi stette in presenza dell’Urban tre giorni, e che nel momento in cui egli intraprendeva la sua marcia di fianco da Induno-Como, il Generale austriaco era ancora con tutte le sue forze a Varese, da cui non partì col grosso che la sera del giorno 2 giugno. Il LECOMTE (_Relation hist. et crit. de la Campagne d’Italie en 1859_, tomo I, pag. 108, 104,105) immagina la scaramuccia sotto Como il 28, 29 e 30 maggio. Vede Garibaldi entrare in Varese il 3 giugno nel momento in cui gli Austriaci ne sortivano, attaccarli subitamente _à quelque distance de la ville_, e accelerare così la loro ritirata _tout en leur faisant quelques prisonniers_, etc. — Non confutiamo. [203] Oltre il corpo dell’Urban, bisogna calcolare il presidio di Milano. Dire quindicimila uomini è dir poco. [204] Varese. ---------------- | | | | Lago | | Como. Maggiore. | | | | ---------------- Milano. [205] Erano il povero Francesco Nullo e Piero Bergamaschi, entrambi guide di Garibaldi. [206] CARRANO, op. cit., pag. 393. [207] La più forte ragione data delle lentezze degli alleati fu il disegno attribuito al Giulay di dare una nuova battaglia sul Chiese e dell’anticipato concentramento che vi andava facendo. È però evidente, che, se l’esercito austriaco avesse dovuto fare una ritirata precipitosa dall’Adda in poi, o non avrebbe avuto più tempo di apparecchiarsi alla supposta battaglia, o l’esercito alleato l’avrebbe colto in flagranti di concentramento, quindi con molta probabilità di sconfiggerlo. E mi sembra del pari evidente, che, se i Franco-Sardi arrivavano sul Chiese soltanto due giorni prima di noi, fra il 16 e il 17 giugno (e lo potevano), avrebbero potuto riprendere il movimento in avanti fra il 19 e il 20, invece del 23, ed occupare così Solferino senza combattere e prima che l’Austria avesse avuto tempo di riprendere la progettata offensiva. [208] Fece 140 chilometri in quattordici giorni. [209] Come al Quartier generale principale si chiamassero Divisione tre mezzi Reggimenti di mille uomini ciascuno, non sappiamo comprendere. [210] Così lo chiamò in un suo Ordine del giorno Garibaldi: due volte ferito sul Roccolo di Castenedolo, continuò a combattere; colpito da una terza palla al petto, fu trasportato a Brescia e vi morì. [211] Lettera del Cavour al principe Napoleone Girolamo Bonaparte, 23 giugno 1860, citata da NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia europea in Italia (1859-1861)_, vol. VIII, pag. 168. [212] In Toscana, G. B. Giorgini, Ubaldino Peruzzi, Marco Tabarrini, Cosimo Ridolfi, Vincenzo Malenchini, Ermolao Rubieri e Giuseppe Dolfi. — Nelle Romagne, Marco Minghetti, Gioachino Pepoli, Pietro Montanari, Carlo Pasolini, i fratelli Rasponi. — A Modena, Giuseppe Malmusi, Camillo Fontanelli, Luigi Zini. — A Parma, Antonio Cantelli, Jacopo Sanvitale, Giuseppe Piroli, e molti altri che la brevità mi forza a tralasciare. [213] Non furono quelli i soli ufficiali dei Cacciatori delle Alpi passati nell’Italia centrale; ma Cosenz, Sacchi, Chiassi, Lombardi, Grioli, Pellegrino entravano nelle Divisioni romagnola e parmense; Migliavacca, Paggi, Leardi, Bonnet, Bruzzesi, Guerzoni nella Toscana. [214] Lo confermano queste parole del colonnello Carlo Corsi, del generale Garibaldi non certo entusiasta; «Credevasi da molti che Garibaldi, non assuefatto alla regolare milizia ed avvezzo invece a maneggiare genti raccogliticcie e fare e disfare a piacere suo, non si sarebbe adattato a quelle pastoie di regola e disciplina che vincolano le soldatesche stabili, e le avrebbe rotte per sostituirvi modo di vivere più largo e più democratico, e che non avrebbe saputo sopportare a lungo quel giogo di soggezione al Governo di Firenze, cui da principio s’era lasciato indurre a piegar volonteroso il collo. Egli è fatto per comandare, dicevano, e non per obbedire. Maneggevole forse finchè le cose procedano secondo i suoi desiderii, resisterà e drizzerà quella sua testa leonina sul capo di tutti quando vogliasi trattenerlo o sviarlo. Lo giudicavano quindi un amico _molto pericoloso_. I fatti che poi seguirono mostrano come quel giudizio non fosse fallace in quanto concerneva la docilità del Generale. Ma nel governo della milizia egli amò e coltivò la regolarità e la stretta disciplina. La sua esperienza medesima lo aveva persuaso dei pregi delle milizie stabili come istrumenti da guerra. Era quindi manifesta la contentezza sua dell’avere in sua balía mezzi tanto più perfetti e poderosi di quelli che sino allora avea avuto. E non solamente non s’arrischiò a farvi mutazioni di qualche rilievo per timore di guastarli, ma volle che fossero conservati tali quali li vogliono le regole della milizia stabile. Insomma, contro la comune aspettazione, egli apparve in ciò _conservatore_, come il suo predecessore era apparso _rivoluzionario_. Fu supposto allora che egli avesse dovuto prendere qualche impegno intorno a ciò o col barone Ricasoli, o col Ministro della guerra toscano, generale De Cavero, appartenente all’esercito sardo; tanto più che si seppe non essergli stato concesso di portar secolui al servizio toscano se non che pochi dei suoi principali compagni d’arme dei Cacciatori delle Alpi, mentre egli ne aveva presentato una lunga lista. Ciò spiegasi da questo che egli aveva avuto informazioni assai cattive circa gli ufficiali toscani, le quali furono smentite prima dai governanti, e poi più ancora dalla conoscenza ch’egli acquistò degli stessi ufficiali. Egli ebbe a dire che li trovava diversi assai e migliori molto di quello ch’egli avesse potuto figurarsi da quanto gliene era stato detto. E presto vi fu sincero ricambio di stima e rispetto, e miglioramento nelle condizioni disciplinari di tutta la Divisione.» — Vedi _Venticinque anni in Italia_, per CARLO CORSI, vol. I, pag. 366. E poco dopo: «Errano coloro che credono che Garibaldi faccia guerra alla sventata, come i condottieri del Medio Evo, o per semplici strattagemmi, da momento a momento, come i guerrigliatori. Egli sa benissimo quanti e quali aiuti le carte e i libri offrano ai capi degli eserciti odierni, ne apprezza molto il valore, e ne fa suo pro, al pari di qualunque buon capitano. Ogni sua impresa ha per base qualche buon concetto strategico. Soltanto la sua tattica è piuttosto da guerrigliero che da generale. Nè potrebbe essere altrimenti, considerato il suo carattere e la via ch’egli ha seguito per giungere ai sommi gradi della milizia. Se qualcosa gli manca, non è per fermo la naturale disposizione al comando o lo studio, ma la pratica del maneggio delle grandi masse regolari, invece della quale ha l’abitudine della piccola guerra delle milizie ragunaticce.» — Vedi _Venticinque anni_, ec., pag. 372. — _Su quest’ultimo giudizio però avremmo qualche cosa a ridire, ma di ciò più tardi_. [215] Doveva essere fra il 4 ed il 5 novembre 1859. Erano presenti Clemente Corte, il Malenchini, il Montanari, il Cairoli, il Basso, il Paggi ed altri che non ricordo. Le parole in corsivo sono testuali, delle altre sto mallevadore del senso. [216] Quella avanguardia era composta del battaglione, nel quale lo scrittore di queste pagine era luogotenente. Se il contr’ordine del Fanti tardava mezz’ora, noi eravamo già di là dal confine. [217] _Storia d’Italia dal 1850 al 1866_, per LUIGI ZINI, vol. I, parte II, pag. 474. [218] Vedi NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della Diplomazia europea in Italia (1859-1861)_, vol. VIII, pag. 179. Egli cita una lettera di Marco Minghetti a Urbano Rattazzi, del 7 novembre 1859. [219] Lo Zini, il Bianchi e parecchi altri parlano qui di Mazziniani; ma il vocabolo ci sembra improprio. Intorno a Garibaldi di Mazziniani puri, e intendiamo anche autorevoli, non ce n’era uno solo; e ci fossero stati, non erano quelli certamente che egli avrebbe preferiti ed ascoltati. [220] «23 novembre 1859. »Secondo il desiderio della V. M. io partirò il 23 da Genova per Caprera, e sarò fortunato quando voglia valersi del mio debole servizio. »La dimissione mia, chiesta al Governo della Toscana ed al generale Fanti, non è ottenuta ancora. Prego V. M. si degni ordinare mi venga concessa. »Con affettuoso rispetto di V. M. »Devotissimo »Garibaldi.» [221] Vedi il Manifesto nel _Movimento_ del 23 novembre 1859. [222] Vedi la lettera 14 dicembre, da Fino, scritta in francese al giornale _L’Esperance_, nella quale smentisce e la visita all’Imperatrice, e, cosa superflua, i pretesi accordi con lei per la candidatura russa. [223] È un violento e quasi selvaggio bando di guerra contro i preti, non dissimile da quelli che uscivano tante volte sotto la concitazione dell’ira dalla sua penna. Esso diede luogo a non poche proteste di sacerdoti onesti e amanti della patria, contro i quali certamente il Manifesto non era rivolto. Quanto agli altri avevan ragione di risentirsi della forma; ma non so con quali argomenti avrebbero potuto confutarne il pensiero. Noi ne riproduciamo, anche per brevità, le ultime parti: «..... Eppure quella razza reproba siederà domani, e protetta, accanto ai rappresentanti delle nazioni più cospicue, e chiederà con insistenza la continuazione, la conferma del suo _potere temporale_, che vuol dire, in lingua umana, la continuazione, la conferma di poter pesare sopra alcuni milioni di sventurati Italiani!... come una sciagura, una maledizione!... la continuazione di un potere che non si adopera ad altro che a rubare ai poveri nostri fratelli il loro oro per gozzovigliare schifosamente, a comprare mercenari stranieri per combattere Italiani!... la continuazione di un potere che non conta amici, se non che tra i nemici d’Italia.... e tra quelli che vogliono dividerla e manometterla e soggiogarla!... un potere che ha scagliato l’anatema sul popolo e sull’esercito rigeneratore.... sul Re prode e generoso che Dio ha dato agl’Italiani!... . . . . . . . »Nell’ora della pugna io sarò con voi.... giovani.... e siate certi.... questa sarà una grand’epoca per l’Italia. Voi appartenete alla generazione di liberi.... e liberatori del vostro paese!... Dio non ha combinato invano tanta virtù in un Monarca!... tanto valore in un esercito!... tanto fervore in un popolo!... ch’io ho già veduto combattere degnamente accanto ai primi popoli della terra.... per abbandonarci all’ignominia del servaggio!... per non redimerci a quella vita nazionale, ridestata in noi con tanta potenza! »Il vostro obolo deposto alla sottoscrizione nazionale è un augurio felice per l’avvenire dell’Italia; ed essa conta — superba! — che non fallirà il vostro braccio.... ove si debba tornare sui campi di battaglia! »Fino, 24 dicembre 1859. »G. GARIBALDI.» (_Pungolo_ di Milano, 3 gennaio 1860.) [224] Vedi _Pungolo_ di Milano del 26 dicembre 1859. [225] Del colloquio col Re parlarono tutti i giornali di Torino. De’ suoi concetti circa alla Guardia mobile, all’opposizione incontrata, ec., attesta questa lettera inedita al generale Medici: «Torino, 5 gennaio 1860. »Mio caro Medici, »Anche questa volta ho predicato al deserto. Io credevo di aver ottenuto di poter organizzare le Guardie mobili in Lombardia. — Ebbene! Aspettavo oggi nomine, istruzioni, ec.; invece la Diplomazia straniera, suscitata da Cavour, Dabormida, La Marmora (che chiesero in massa la loro dimissione per lo stesso motivo), hanno significato al Re «che non intendevano che vi fosse nello Stato: _Autre force, ou pouvoir, ou personnes armées, que l’armée du Roi_.» Stupirai di più, quando saprai che Hudson, ambasciatore d’Inghilterra, da me interpellato, m’ha dato la suddetta risposta. — Ciò che prova che lui, come tutto il resto della famiglia diplomatica in corpo, hanno imposto la suddetta condizione a Vittorio Emanuele. »Saprai di più che fui richiesto dai liberali di Torino di frappormi conciliatore tra i loro dissidii; lo accettai con alcune difficoltà — ed organizzarono la società _Nazione armata_, di cui mi nominarono presidente. »Il partito Cavouriano ha fatto il diavolo, perchè nulla di ciò si effettuasse, ed ho avuto i risultati suddetti per ogni cosa. »Partecipa questa poco buona nuova agli amici, e credimi sempre »tuo »G. GARIBALDI.» [226] Leggasi questo Manifesto agl’Italiani (_Pungolo_, 5 gennaio 1850): «AGLI ITALIANI. »Chiamato da alcuni miei amici ad assumere la parte di conciliatore fra tutte le frazioni del partito liberale italiano, fui invitato ad accettare la presidenza di una società che si chiamerebbe _Nazione armata_. Credetti poter essere utile; mi piacque la grandezza del concetto, ed accettai. »Ma siccome la nazione italiana armata è tal fatto che spaventa quanto c’è di sleale, corruttore e prepotente, tanto dentro che fuori d’Italia, la folla dei moderni gesuiti si è spaventata ed ha gridato: Anatema! »Il Governo del Re galantuomo fu importunato dagli allarmisti e, per non comprometterlo, mi sono deciso di desistere dall’onorato proposito. »Di unanime accordo di tutti i soci, dichiaro dunque sciolta la società della _Nazione armata_, ed invito ogni Italiano che ami la patria a concorrere colle sottoscrizioni all’acquisto di _un milione di fucili_. Se con un milione di fucili l’Italia, in cospetto dello straniero, non fosse capace di armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare dell’umanità. L’Italia si armi e sarà libera. »Torino, 4 gennaio 1860. »G. GARIBALDI.» [227] Il matrimonio fu poi annullato dal Tribunale d’appello di Roma con sentenza del 14 gennaio 1880. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a fine libro (Errata Corrige) sono state riportate nel testo. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GARIBALDI, VOL. 1 (OF 2) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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