*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 46100 *** [Illustrazione: Andrea Doria] VITA DI ANDREA DORIA DI F. D. GUERRAZZI. VOLUME PRIMO. MILANO. CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI. 1864. Dritti di traduzione e riproduzione riservati. NB. _Tutte le copie non munite della firma dell'editore verranno considerate come contraffatte._ M. Guigoni Tip. Guigoni. AL POPOLO LIGURE, Questo libro della VITA DI ANDREA DORIA, come pegno di fratellanza, testimonio di gratitudine per l'onesto ospizio, e augurio certo che i popoli, esperti nelle moltiplici arti delle varie tirannidi, s'incammineranno di ora in poi senza deviare nel sentiero della libertà, dedica F. D. GUERRAZZI. ANDREA DORIA. Ma il giudicio dei posteri severo Fruga chi oprò col senno e con la spada, E lo dimostra in suo sembiante intero. CAPITOLO I. Da cui nascesse Andrea Doria, e quali i primordii della vita di lui. Francesco Guicciardino, uomo nella pratica delle faccende umane certamente a veruno secondo, lasciò scritto, essere, giusta l'opinione sua, i contemporanei spositori di storie eccellentissimi, massime se, oltre all'ingegno arguto, avvenisse loro di pigliarci parte o come magistrati o come guerrieri; ed in questa sentenza si trova condotto dal considerare che, le cause degli avvenimenti umani essendo moltiplici, taluna ci opera a modo di principale, mentre tal altra ci fa officio di accessoria: questa comparisce meno, quella più; nè tutte spettano alla vita pubblica, anzi moltissime alla privata, e le seconde, per celarsi meglio, non esercitano minore virtù: donde accade che, chi viene dopo, ne ignori molte per necessità, avendole cancellate il tempo dalla mente degli uomini, ed egli, costretto a servirsi delle uniche che rimangono, le quali sono ordinariamente le più strepitose, il fatto gli si presenta spesso o non bene intero, o alterato, e quindi il giudizio o manco o fallace. Tali senza dubbio gli svantaggi, nè forse i soli, di quelli che imprendono tardi a scrivere storie, e nondimanco a cui ci mediti sopra si farà manifesto, come non rimangano senza un qualche compenso gli scrittori che vengono dopo. Di fatti: per conoscere le cause segrete moventi la volontà dell'uomo non basta vivergli contemporaneo, bensì bisognerebbe vivere nella sua intrinsichezza; e poi non è mica sempre sicuro, che gli uomini illustri, lasciandosi talvolta pigliare il sopravvento in casa dalle passioni, non vogliano e non possano contenerle nelle faccende pubbliche: ma, quando anco non ci fosse altro vantaggio, per me giudicherei sufficiente questo uno: che, dopo molto secolo scrutando i fatti altrui, è agevole non lasciarsi tirare dallo amore o dall'odio, mentre, per quanto tu sii di animo saldo, tu non potrai impedire, anco senza addartene, che, tenendo proposito dei viventi, le soverchie lodi, od i soverchi biasimi, co' quali li proseguono i volgari intelletti, non facciano forza alla tua mente. E vuolsi eziandio considerare quest'altra cosa, che i contemporanei assistono in certo modo alla sementa dei fatti; chi viene dopo assiste alla mietitura; i primi non possono argomentare i resultati se non per via di divinazione, mentre i secondi gli leggono espressi, e però a questi, meglio che agli altri, è dato conoscere se, come, e quanto il personaggio pubblico mescolasse affetti privati nei maneggi dello Stato, per quale modo l'offendesse, e, chiamatolo a sindacato, chiarire se bene o male della Patria meritasse, le opinioni favorevoli come le contrarie profferìte dal senso volgare, secondo giustizia, revocando o confermando. In questa medesima guisa, si ha dalla Storia, i Siciliani ai tempi di Timoleone citarono le Statue dei tiranni a rendere ragione delle cose operate nella vita dal personaggio che rappresentavano, e, trovatolo reo, ne vendevano il simulacro nel mercato pubblico come si costumava con gli schiavi, e tutti li venderono, tranne Gelone, come quello che, rompendo i Cartaginesi ad Imera, liberò la patria dagli stranieri; e meritamente, chè un tanto benefizio molte colpe lava. Incominciando pertanto, con lo aiuto di Dio, a mettere mano a questa opera d'insegnamento politico e di giustizia riparatrice, io piglio a discorrere della vita e dei gesti di Andrea Doria, di cui la Liguria si onora così, da riporlo tra i più incliti benefattori della umanità. Circa alla nascita di lui si vuole dire, che, pari alle eccelse, non fu seconda a quella di nessuno in patria nè fuori. Sembra alla più parte degli uomini, che, per nascere illustre, persona meriti lode, e veramente pel solo fatto del nascimento non ne merita alcuna; ma tu hai da considerare come riesca più agevole acquistarci qualche rinomanza uscendo da umile stato, che splendere di propria luce in mezzo ad antenati famosi, e Andrea, gli ebbe famosissimi. Che se al nato in umile condizione la necessità da una parte fa guerra, dall'altra questa stessa necessità gli è stimolo al fianco tanto, che essa fu detta madre d'industria; mentre, pei copiosi di beni, formano gagliardo eccitamento ad oziare le glorie avite, e la molta sostanza persuade il vivere molle e superbo, nemico ad ogni atto gentile. Corre assai credibile una tradizione, ed anco qualcheduno lo ha scritto, come la casa Doria esca da un Arduino conte di Narbona, il quale, venuto in pensiero di visitare il santo sepolcro, si riducesse in Genova, dove lo accolse ospite in casa sua certa vedova della Volta stata moglie ad un suo fidato compagno di arme: ora avvenne, che, infermandosi il conte mentre qui dimorava, una delle figliuole della matrona chiamata Oria, e per vezzo Orietta tanto amorevole sollecitudine si pigliasse di lui, che il conte prima ne sentì gratitudine, poi, con facile passo, amore; effetti soavissimi di cause soavi, quali appaiono essere la benevolenza, la gioventù e la bellezza. Per lo che il conte restituito in salute, e dopo avere debitamente sciolto il voto in Palestina, tornò a Genova dove si tolse a moglie la fanciulla di casa della Volta. E qui, o gli piacesse la stanza, o a casa sua gli toccasse a sostenere fastidii, o quale altra causa lo movesse, deliberò fermarsi ad abitare: pertanto, venduta ogni sua possessione altrove, nel luogo che oggi chiamano Portoria, comperò terre, e costruì case fino al numero di dugento, i conduttori delle quali durarono un pezzo a pagare il censo ai più remoti discendenti del Conte. La prosapia che ne venne fu chiamata dei D'Oria, piacendo mantenere fuori e in casa presso i cittadini la memoria dell'ava benemerente: ora, non sapendo io se ricercando più oltre si potesse trovare della stirpe dei Doria origine più certa di questa, a questa mi attengo, perchè so che più gentile non verria fatto rinvenirla di certo. Io mi passerei volentieri del poco degno ufficio di narrare quali fossero i maggiori di Andrea, dove mi fosse mestieri svolgere copia di pergamene, ma, poichè tu trovi scolpiti i gesti dei suoi padri sopra tutta la facciata marmorea della chiesa gentilizia di San Matteo di Genova, e meglio assai nelle pagine della Storia, non fie grave a me scrivere, nè ai miei lettori leggere di qualcheduno di loro. La Storia e i marmi pertanto ricordano un Ansaldo Doria consolo di Genova, che con 65 galere e 160 vascelli espugnò Almeria; e Nicolao, inclito nelle arti della pace quanto Ansaldo in quelle della guerra, imperciocchè, col suo ben fare, seppe rimettere in accordo i reali di Napoli co' Genovesi. Oltre all'Ansaldo acquistarono terre per la repubblica, o le recuperarono perdute, Obertino espugnatore della Canea, Lucchetto e Michele, i quali tornarono in devozione di San Giorgio quella parte di Corsica ribellata per virtù del Giudice della Cinarca; Corrado vincitore delle torri di porto Pisano e di Ghio; Filippo conquistò Negroponte; Antonio, Carpena in Catalogna. La Meloria compartì infausta, e nondimanco perenne gloria a Uberto, che vi mise in fondo la fortuna di Pisa; e, dieci anni dopo, nelle acque sicule, egli sfidava a pari duello a morte i Veneziani, che non tennero la posta. Lamba e Pagano percossero di fiere battiture i Veneziani; all'ultimo di questi toccò l'onore di pigliare lo stendardo di Niccolò Pisani, e lui prigione; nè riuscì a Venezia meno infesto di loro Luciano, come quello, che, mentre le procedevano più afflitte le fortune, le sconquassò 15 galere e le fece 2400 prigionieri. Sei volte i Doria fin al 1528 tennero il dogato, compresa la discendenza di Lamba Doria. Basti degli antenati di Andrea averne esposto tanto, che dirne tutto riuscirebbe sazievole e non espediente allo assunto. Del padre suo chiamato Ceva poco ci dicono i ricordi: sappiamo solo, ch'egli possedè parte della signoria di Oneglia, non però la maggiore, con Domenico Doria; e come dalla moglie Caracosa pure di stirpe Doria gli nascessero due figliuoli, il primo dei quali taluno chiama Giovanni, tal altro David, e forse ebbe entrambi i nomi; il secondo fu Andrea, quel desso di cui ho preso a discorrere. Questi uscì al mondo in Oneglia la notte di santo Andrea, 30 Novembre 1466. Le terrene cose avendo commesso Dio alle disputazioni degli uomini (le sacre carte lo affermano), ella è fortuna espressa se caschino sopra un argomento due diversi pareri soltanto; però mentre taluno pensa gli abiti nostri sequela unica della educazione, non deve recare maraviglia se altri si ostina a sostenerli derivati dalla natura; e forse la verità è tra due: però male si negherebbe, che Andrea, fino dalla infanzia, mostrasse ingegno audace, mani pronte e mente vaga di avventure: di fatti, ora con lo smarrirsi, ch'ei faceva errando lontano da casa, ora col tornarci malconcio, spesso col dovere andare in traccia di lui, ed una volta perfino a cavarlo per forza di su una galera genovese donde non voleva più scendere, tanta perturbazione apportava nei parenti, che certa zia, donna assai tenera delle cose dell'anima, paurosa che Andrea, dandosi come pareva alla milizia, avrebbe messo a repentaglio la sua eterna salute, ordinò nel suo testamento, che, dov'egli perdurasse in cotesti appetiti guerreschi, avesse a perdere quanto ella gli aveva legato. Il padre Ceva, morendo, lasciò raccomandati i figliuoli giovanetti alle cure della moglie Caracosa, donna, a quanto apparisce, d'ingegno sottile, di corpo non sana; chè il parente Domenico, considerati la natura umana sempre cupida dello altrui, e i tempi infami per rapine commesse con violenza e con frode, anzichè di conforto aveva empito di affanno gli ultimi momenti di lui. Invero i presagi paterni si avverarono di corto, imperciocchè Domenico, passati appena i primi giorni del lutto, incominciò a mettere parole alla lontana, come una femmina male potesse tenere signoria di terre, e quelle difendere dai nemici così interni come esterni; sembrargli profittevole che, spogliandosi ella da codeste cure e da codesti pericoli, attendesse intera a bene allevare i figliuoli. La donna, che capì per aria, lo ringraziò del consiglio, anzi gli disse: egli averla prevenuta con le parole, non già con la mente, conciossiachè tale si fosse per lo appunto riposto nell'animo di fare; però non potrebbe a verun patto sofferire che altri, entrando a parte della signoria di Oneglia, cagionasse a lui Domenico fastidii, contenzioni e intoppi forse peggiori: pigliasse tutto egli, non consentisse, che il retaggio dei Doria andasse diviso: quanto al prezzo, rimettersene alla generosità sua: pensasse i figliuoli di Ceva essere di un medesimo sangue con lui, e poveri, e da quella parte di signoria in fuori non possedere altro assegnamento nel mondo. Domenico, blandito nelle sue voglie, desiderò tenersi bene edificata la donna, e, presi in grazia i figliuoli e lei, quanto a prezzo non istette su lo scarso, e si profferse largamente per ogni buono officio a fine di bene avviare i garzoni. A questa alienazione del paterno patrimonio con animo rimesso si accomodò Giovanni, non Andrea, cupido per istinto dei gaudii della dominazione, per modo che, salito in furore, si chiuse nella propria stanza, dove limandosi il cuore, e rifiutando ostinato ogni ragionamento, dopo pochi giorni infermò. La madre, la quale a posta sua era assai donna di suo capo, si puntò nei primi giorni a non visitarlo; ma, sentendo poi come il male si aggravasse, si recò nella stanza del giacente, dove trovatolo tutto intorato e a lei non volgente il discorso, nè gli occhi, data licenza ai famigli, ella gli si pose a sedere a canto il letto, e con severa voce così gli favellò: «La giovanezza, figliuolo mio, per soverchia calidità di sangue, è presuntuosa; immaginando, che col crescere degli anni venga meno l'ardire, ella picchia la mano sul pomo della spada, e baldanzosa esclama: io quanto voglio posso; e non è così: la esperienza della vita t'insegnerà, o Andrea, come più scarsamente, e meno durevolmente l'uomo acquisti con la forza, che con la industria. Ora io ho considerato, che chi appetisce la roba altrui commette peccato, ma se dell'orfano, delitto; e come Domenico palesandomi questa sua cupidità abbia già strappato il primo argine della verecondia: adesso nelle ruine, massime nelle morali, il primo schianto è quello che conta. Contro le voglie del cupido parente, che per poco di contrasto diventeranno disoneste, forse scellerate (e i tempi nostri ce ne porgono copia di esempii luttuosissimi), che posso io povera vedova, che cosa potete voi altri poveri orfani? Le difese forensi salvano dai potenti quanto i corsaletti di bambagina dalle artiglierie, e nondimanco costano care. Confiderai negli amici di casa? Di questi la più parte, come gli uccelli di passo, volano altrove con la rigida stagione; rimarranno pochi; taluni di questi ti conforteranno col fiele, quasi che la ingiuria della fortuna fosse colpa tua, e presto si stancheranno di sostenerti, perchè non ci ha quanto il misero, che venga di corto in uggia; e a te dorrà amaramente avere messo a repentaglio dell'anima e del corpo i pochi risoluti a correre per te ogni sorte più rea; e, se non ti avvenga rimanere oppresso così ad un tratto, ecco schiusa la porta a discordie, a contese, a nimicizie spietate e ad opere di sangue, infamia della nobilissima casa nostra. O piuttosto vorresti, che io mi richiamassi al Senato di Genova perchè si mettesse di mezzo a comporre le nostre liti? O Andrea, va pur franco, ch'ei non se lo lascerebbe dire due volte! ma credi eziandio, che il Senato sarebbe capace di levare a Domenico anco la parte sua, non già a te restituire la tua; e questa è storia vecchia quando si ricorre allo aiuto dei potenti. Però mi parve cosa savia non inimicarci il congiunto, togliendogli la causa di prenderci in avversione, ed all'opposto dandogliela di conservarsi benevolo, e giudico che lo farà; me ne dà pegno il giusto prezzo profferto, il quale dimostra come l'uomo, quando per conseguire il suo intento non si trovi costretto necessariamente a commettere malefizio, anco con qualche suo incomodo si atterrà all'onesto; l'amore, o se ti piace piuttosto la superbia del casato, molto può presso tutti, principalmente nei nobili, dacchè formano parte della potenza e del decoro tuoi la potenza e il decoro della schiatta intera; onde non è da rivocarsi in dubbio, che Domenico si metterà coll'arco del dosso a farti stato, purchè sia fuori di Oneglia, e, quando ciò non avvenisse, aquila sei, e a me tua madre basti curare, che altri non ti tagli i sommoli dell'ale; cresciute ch'elle ti sieno, ricorda che l'aquila dei Doria è usa ai lunghi voli. Ho udito spesso raccontare da tuo padre come parecchi capitani famosi dell'antichità, bruciando le navi, o con altro strattagemma conducessero lo esercito alla stretta di vincere o di perire; e sempre vinsero; io togliendoti la signoria di una parte di Oneglia forse ti apro il cammino per diventare signore di Genova intera.» Piacquero le parole al giovane Andrea, il quale, rasserenato tutto nell'animo, ammirò la prudenza della madre proseguendola con le lodi che seppe maggiori, e comecchè molto per lo addietro lo amasse, le crebbe affetto così, che da quel giorno in poi, non desiderò altra compagnia, parendogli, come pur troppo era, che nè più amorevole, nè più copiosa di utili ammaestramenti potesse rinvenirla altrove; e quando poi, con inestimabile amarezza, la vide intristire di salute, e poco appresso infermare di male di morte, non le si mosse mai da lato, raccogliendo, piuttostochè con pietà filiale, con religione, le parole, i baci ed i sospiri estremi di lei. Qui cade in acconcio confermare per via di esempio quella sentenza esposta nel proemio, che dice, i contemporanei o per troppo amore o per troppo odio non parere i più idonei all'ufficio di storico verace. Infatti messer Lorenzo Cappelloni, che scrisse la vita di Andrea Doria nel 1562, e la dedicò a Giovannandrea figliuolo di Giannettino, ci racconta come tali e tante fossero l'aspettazione e la benevolenza dei sudditi Onegliesi riposte in Andrea, che offersero ricomperare la sua parte di Signoria per poi restituirgliela, e così non rimanere privi del suo dolce imperio, e lo facevano, se non lo impediva egli medesimo. Ora, posto da parte che la Caracosa s'induceva a cotesta vendita non già per bisogno ch'ella ne avesse, ma sì per compiacere al parente, e pretermesso eziandio, che, non si sa come, Domenico si sarebbe lasciato scappare di mano uno acquisto tanto appetito da lui, avvertiamo: che i popoli acconsentano essere venduti, questo si è visto e quotidianamente si vede; ma, che si ricomperino al fine di mantenersi in servitù, passa il segno di ogni incredibile viltà; e se ciò fosse, tornerebbe, per opinione mia, poco ad onore nascere uomini, imperciocchè le bestie nè fanno, nè sanno immaginare così miserando abbandono. Dicono altresì, che Andrea desse opera ai buoni studii, ed in essi riuscisse eccellente, la quale cosa non ci venendo dimostrata da documento alcuno che si parta da lui, ci stringeremo a non impugnarla, confessando, che in esso fosse abbondanza di eloquio efficace, come certo possedè astutissimo ingegno. A ventisei anni, se non povero, almeno non troppo copioso di averi, ma ricco di speranze e di concetti, uscì di casa a cercare sua ventura pel mondo. Innanzi tratto capitato a Roma, per favore di Niccolò Doria capitano delle guardie del Papa, fu accolto uomo di arme al servizio d'Innocenzo VIII di casa Cibo: veramente non erano cotesto luogo nè officio da fare grosso civanzo, imperciocchè uomo di arme si appellasse a quei tempi il soldato nobile che militava senza esser sottoposto ad altri che al Principe per cui combatteva; e nondimanco Andrea ci si era messo proprio con la speranza, che il Papa, per essere genovese, avvantaggiasse le cose sue; tuttavolta ei non potè per allora sperimentare i beneficii della corte di Roma, che in quel medesimo anno papa Innocenzo passò a miglior vita, succedendogli nella cattedra di san Pietro Alessandro VI Lenzuoli. Andrea, o che conoscesse la temperie mutata (costumando ogni Papa portare le sue creature, e papa Alessandro era spagnuolo), o le immanità di costui presentisse vergogna non solo del sommo sacerdozio, ma della nostra specie; senno insomma lo assistesse o fortuna, egli stimò prudente pigliarsi il puleggio da Roma, e ridursi in corte di Guido da Montefeltro duca di Urbino. Quanto costà ei si fermasse non rammenta la storia, ma fu piuttosto soggiorno che dimora, e se è lecito affermare fatti per via di congetture credibili, sembra che il suo cuore restasse tocco da amorosa passione, come meglio dal processo di questa storia verrà dichiarato. Da Urbino Andrea recossi a Napoli, vivendo tuttavia Ferdinando il vecchio che lo prese nella sua guardia, ma anco questo principe dopo pochi giorni per subita infermità si partiva dal mondo. Quantunque però pei rumori di Francia, e pei casi di Milano incominciassero a turbarsi le faccende del regno di cui i popoli si mostravano infelloniti contro la razza arragonese, Andrea stette in divozione di Alfonso, erede del regno e degli odii del padre suo, il quale, inteso a provvedere alla fortuna pericolante, mandò Ferdinando duca di Calabria suo figliuolo con buon nerbo di armati, e Andrea Doria tra questi, a tentare novità nel Milanese contro Ludovico il Moro, o almanco per impedire il passo in Romagna a Carlo VIII. Il terrore delle armi Francesi, la ferocia loro non mai più per lo innanzi usitata in guerra, la gente imbelle, e le anime avvilite in Italia, la perfidia dei confederati, il rancore dei popoli resero ogni provvedimento vano. Senza fare opera di valore, al giovane Ferrandino toccò dare indietro a Faenza, a Roma, a san Germano, a Capua; da per tutto. Andrea sembra rientrasse in Napoli prima delle sorti estreme del duca di Calabria, dacchè ricaviamo dalle storie ch'egli accompagnò il re Alfonso sopra l'ultimo lido del mare, dove si disse parato a seguitarne la ventura; ma il re, porgendogli grazie, dopo molto abbracciarlo lo persuase a rimanersi col figliuolo Ferrandino, al quale pochi giorni prima aveva risegnato il trono. Ella è una molto terribile storia quella del re Alfonso accaduta sopra cotesta terra, dove pure avrebbe dovuto attecchire come ricordo per dare esempii salutiferi ai regnanti che vennero dopo; il che non avendo fatto, quasi punto per punto, ed in virtù delle medesime cause si rinnova in questi giorni. Morto Ferdinando il vecchio, subentrava nel trono Alfonso, di padre reo figlio peggiore, il quale propiziò il suo insediamento facendo trucidare quanti rinvenne baroni nelle carceri di Napoli destinati dal re Ferdinando a miserie ineffabili, ma pure sofferti vivi: erano tra questi, come porse la fama, il duca di Sessa e il principe di Rossano, messi in ceppi dal 1464, nonchè i ventiquattro fatti prigionieri nella guerra d'Innocenzo VIII, e dei baroni malcontenti parecchi. Prode in armi, come ne dette saggio nelle guerre contra ai Turchi, i quali passavano allora per la prima milizia del mondo, Alfonso non si sbigottì per la presagita calata dei Francesi in Italia, e finchè si trattò combattere nemici stranieri fece buon viso alla fortuna; quando poi l'impeto delle novità dette gridi di dolore e di minaccia così ai vivi come ai morti del regno, ch'egli aveva convertito in cimitero, non valse a resistere a sè stesso, nè ad altrui; non agli altri, imperciocchè non avesse saputo restare capace come il popolo ardisse rompere il muto spavento in cui gli pareva averlo impietrito, ed ora, sentendolo mormorare a guisa dei fuochi sotterranei del suo paese, e fargli sotto traballare la terra, il tremante era egli; a sè poi valse a resistere anco meno, chè i suoi rimorsi, assunta forma non pure nei sogni, ma nella veglia, gli davano guerra con fantasmi terribili. A colmo di terrore ecco sopraggiungere il cerusico di corte e dirgli essergli comparso tre volte in tre diverse notti lo spettro del re Ferdinando, che con fiere minacce gli aveva imposto, andasse da parte sua ad Alfonso, e lo chiarisse inane ormai opporsi alle armi di Francia, essere scritto nei cieli, non solo che la sua stirpe ruinasse giù dal trono, ma rimanesse altresì tutta travolta nel sepolcro; causa di ciò l'ira del Signore accesa dalle scelleraggini sue, particolarmente da quelle che furono commesse pei mali consigli di lui Alfonso, che gli bisbigliò negli orecchi ritornando da Pozzuolo nella chiesa di san Leonardo a Chiaia. Le dovevano essere coteste colpe grosse davvero, conciossiachè Alfonso, appena udito tanto, si chiuse in fretta ed in furia nel castello dell'Uovo, dove senza compire l'anno del regno (chè solo due giorni mancavano) risegnò con riti solenni la corona a Ferrandino suo figliuolo, giovane di ventiquattro anni, e subito dopo, notte tempo, fuggì, a mo' di ladro, a Mezzara città di Sicilia, portando seco tra roba e danaro, il valsente di meglio trecentomila ducati: colà si ridusse nel convento del monte Oliveto, confidando ottenere nella solitudine la pace che ci trovano quelli soltanto che ce la portano. Colà, dopo dieci mesi, moriva del male dello etico, alla quale infermità si aggiunse una postema nella mano, colpa di umori del tutto corrotti nel corpo di lui. Siccome vi hanno poche cose, che valgano tanto ad accostarci a Dio quanto la miseria propria, ed anco di rimbalzo l'altrui, però è da credersi, che l'aspetto di queste miserabili vicende fosse la causa, la quale condusse in quel tempo Andrea a pellegrinare in Gerusalemme, dove i frati del Tempio lo crearono cavaliere. Chi cotesti frati fossero, e con quale ragione equestri insegne compartissero, a noi non cadde il destro di trovare, nè ce ne curammo; però nè lo ingegno, nè la età balda erano tali da ispirare sconforto in Andrea; buffi di vento che ben fanno inclinare la nave fino sotto ai marosi, ma non la torcono dallo impreso cammino; ed in vero, avendo pigliato lingua come i Francesi, secondo la vecchia loro natura, prontissimi a stendere le mani, non si mostrano del pari capaci a tenere, già balenassero nel regno di Napoli, qui con celeri passi tornava. E' parve un momento, che la collera di Dio si fosse placata contro il sangue di Arragona, e quella degli uomini altresì, però che il giovane re Ferrandino, fiore di cortesia, strenuissimo in arme, sagace, industre a tenersi bene edificati i popoli, molta parte del regno avesse ripreso, e sovvenuto da Ferdinando e da Isabella di Spagna, prometteva ricuperarlo intero, come gli successe di corto con sua gloria imperitura ed esultanza degl'Italiani, i quali, sebbene inconsapevoli del come, pure aspettavano refrigerio dei diuturni affanni da lui, nè forse andavano le speranze fallite, se il giudicio eterno, contra le apparenze, non istava sempre aperto sopra la sua stirpe, ond'egli innocente ebbe pure a portare il peso della iniquità dei padri; ei fu un baleno luminoso e fugace, e, al cessare di lui, crebbe l'orrore delle tenebre ch'egli un momento rischiarava. Federico di Arragona raccolse la eredità luttuosa del nipote, e prometteva a posta sua assai comportabile regno: senonchè gli si legarono contra i re di Francia e di Spagna per la malnata cupidità del bene degli altri, ed il secondo, tuttochè prossimo congiunto di lui; per la qual cosa Federico vinto dalla izza si commise in balía della Francia, lasciando che cotesti due predoni, fattisi amici per acciuffare la preda, si accapigliassero per ispartirsela, e così accadde. Ma questi casi menò il processo dei tempi, e quando Andrea ripose il piede nel regno durava la lotta tra Ferrandino e Carlo VIII: ora per affetto antico, e per vantaggio nuovo, poteva giudicarsi, che Andrea avrebbe seguitato le parti di Ferrandino, ma non fu così, e con maraviglia dei presenti, come di quelli che vennero dopo, fu visto accostarsi alle bandiere di Francia; anzi non mancano scrittori i quali affermano, che assoldati venticinque balestrieri a cavallo, e pagatili per tre mesi di suo, andasse ad offerirgli al Prefetto di Roma che teneva Sora, Arci, Arpino e Rocca Guglielma con altre più castella in divozione della corona di Francia su i confini del Regno; ma l'avventura si narra altrimenti, e dicono come, dopo lunga esitanza, Andrea venisse tratto alle parti di Francia dall'amicizia antica, che la famiglia Doria professava per quella della Rovere, possedendo entrambi beni contigui in riviera di ponente, e dalla memoria delle oneste accoglienze, ch'egli ebbe in corte dal duca di Urbino suocero del Prefetto; lo mosse eziandio la gratitudine a questo per avergli salvato il fratello Giovanni da imminente pericolo di vita quando, sbattuto dalla tempesta, ruppe col suo galeone su la costa di Ancona; e insieme a queste e forse sopra a tutte queste cause valse lo affetto concepito da Andrea per la duchessa, la quale egli, trattenendosi nella corte di Urbino, aveva conosciuto fanciulla. Non parve poi senza ragione discorrere con alquanto di lunghezza cosiffatta materia; dacchè supremo scopo di cui detta storia sia per lo appunto questo: con religioso studio purgare i personaggi dalle false accuse, come apporre loro le vere, correggendo del pari la malignità e la piaggeria antiche, e dispensando a ciascuno la debita lode, o la meritata infamia. Andrea, un po' per tenere dell'asprezza delle rocce liguri, un po' per elezione, si mostrò sempre nei suoi propositi piuttosto ostinato, che tenace; poco voltò; e se mutava più tardi la bandiera di Francia per quella dello Impero, esporrò com'egli ci si trovasse condotto da molte ed onorevoli cause. Avendo pertanto il Prefetto preposto Andrea alla guardia della rocca Guglielma, gli raccomandò, con fervorose istanze, la difendesse gagliardamente, dacchè ei la considerasse come la chiave delle difese di frontiera, a cui Andrea rispose; stesse sicuro che farebbe il debito: per la quale cosa avendo egli rinforzato il presidio con altri dugento fanti, buona e cappata gente, prese a battere la campagna intercettando vettovaglie e salmerie, e menando prigioni; insomma scorazzandola tutta fino a Gaeta con infinita molestia del nemico: alla fine tante ei ne fece, che il gran capitano statuì torsi via cotesto pruno dagli occhi, anzi egli stesso si dispose recarsi sotto le mura della Rocca, ed assaltarla con buon nerbo di milizia avvezza a cotesta maniera di fazioni. Andrea, quantunque fosse di ciò informato ottimamente, pure, sapendo come nella guerra chi si fa povero di spie diventa ricco di vitupero, persuase, con disparecchie promesse, tre soldati guasconi a girsene, in sembiante di disertori, a pigliare soldo nello esercito spagnuolo, e quinci lo ragguagliassero del tempo in cui Consalvo si sarebbe mosso, e quando fosse giunto a san Germano; per ultimo arrivato sotto la Rocca, da qual parte pianterebbe le artiglierie: nè solo stava all'erta per di fuori, ma sì e meglio dentro, dove, avendo preso lingua di certi umori dei terrazzani, i quali, paurosi di andare a sacco, avrebbero voluto rendersi a patti, egli con buone parole gl'indusse a mettere nel cassero le donne, ed i fanciulli, affinchè ad ogni sinistra ventura trovassero là dentro validissimo schermo: i quali poichè ebbe accolto dentro, con parole oscure e nondimanco terribili fece intendere che guai ad essi ed alle famiglie loro se si fossero attentati a tenere occulte pratiche col nemico: sia che il proprio ingegno gli consigliasse simile strattagemma, ovvero glielo suggerisse Polieno, che ne riporta parecchi di somiglianti, posti in opera principalmente da Ciro nelle guerre che sostenne contro ai Medi: non per questo però gli riuscì la cosa appuntino come egli avrebbe desiderato, imperciocchè venendogli agli orecchi che i terrazzani, solleciti delle masserizie troppo più che delle famiglie, avessero spedito segreti messi al Consalvo, molto raccomandandosegli, ed assicurandolo, che vigilati da vicino non potevano movere un capello per ora, ma tostochè capitasse il destro gli avrebbero senz'altro consegnato la terra, egli ordinò di corto i tapini ambasciatori s'impiccassero per la gola; e furono due. Muniti i luoghi, allestite le armi, confortate le soldatesche a fare buona prova, egli oscuro milite attese a sostenere lo sforzo di Consalvo salutato meritamente a quei tempi col nome di _gran capitano_. La batteria fu data alla terra il dì di san Giorgio, e comecchè i tiri percotessero meno efficaci assai di quello che Andrea dubitava, tuttavia le mura dopo un lungo tempestare sfasciaronsi: aperta la breccia, le fanterie spagnuole, uniche al mondo per intrepidezza, mossero strette insieme ed unite, non altramente che fossero una massa di ferro, allo assalto; nè la gente del Doria per quanto ci si travagliasse dintorno potè impedire, che espugnassero la prima cinta: non per questo Andrea sbigottì punto, o rimise dell'animo, sì perchè prode egli era molto, e sì perchè deliberato a difendere anco cotesta prima cinta, non però ci facesse sopra troppo assegnamento, onde la battaglia si rinfrescò sotto le mura del cassero. Gli Spagnuoli, rifiniti dal diuturno menare delle mani, avevano allentato dello ardore, ma, combattendo sotto gli occhi del sommo loro capitano, è da credersi, che l'avrebbero spuntata anco in cotesta seconda prova, se Andrea non avesse preso a fulminarli di fianco con una bombarda di ferro che balestrava pietre. Nè qui forse tornerà inopportuno notare come sul finire del secolo decimoquinto si costumasse caricare le artiglierie con palle di pietra condotte ad opera di scalpello, e di queste, ora non fa molti anni, se ne mirava copia dentro le fosse della fortezza di Samminiato avanzate allo assedio di Firenze; siccome poi dalle pietre, prima di ridurle alla rotondità, si cavavano molte schegge, così immaginarono tirare partito eziandio da queste: per la quale cosa, spartitele in sacchetti adattati alla capacità del cannone, li caricavano dentro la tromba del pezzo donde schizzavano fuori a bersagliare il nemico; questo si chiamava tiro a scaglia: più tardi alle schegge di pietra sostituironsi pallottole, chiodi, sferre, e per ultimo i cartocci pieni di palle, che pigliarono nome di mitraglia, del qual nome la etimologia da noi s'ignora: però i forbiti scrittori, che, in odio al miscuglio di sermoni stranieri col nostro, discorrono di tiri a scaglia delle moderne artiglierie, favellano senza esattezza, e con manco senno, imperciocchè nascendo cose nuove, e ai padri nostri affatto sconosciute, e' faccia di mestieri altresì che menino seco un nuovo nome per essere significate alla mente degli uomini. Tornando adesso alla storia, gli Spagnuoli non vollero saperne altro, e si ritirarono dal muro malconci. Siccome però si dubitava, che il giorno veniente con ogni sforzo supremo si sarebbe rinnovato l'assalto, Andrea, tra le altre provvidenze prese nella notte, mandò fuori un manipolo di soldati al fine che, per quanto potessero, s'industriassero indagare i concetti del nemico: costoro, mentre procedono cauti, colsero alla sprovvista il capitano don Pietro di Murcia, strenuo soldato tenuto in pregio dal Consalvo, il quale, mosso dallo scopo medesimo di specolare, e senza compagnia come colui che teneva dello spavaldo, si aggirava per quelle vicinanze. Del quale successo afflitto il Consalvo, appena si mise giorno, mandò un trombetto a proporre la tregua, ferme stanti le condizioni come in cotesto punto si trovavano, ed il riscatto di don Pietro di contro a convenevole taglia. Andrea, accettata senza farsi pregare la tregua, studioso di procacciarsi la fama di cortese, dette abilità al capitano di stare a sua posta, o andarsene; e poichè a lui piacque partirsi, donatigli cappa di scarlatto, e palafreno, e fattegli restituire tutte le sue anella, e la collana di oro, lo mandò con Dio. Allora il Consalvo, che fu proprio fiore di cavalleria, non volendo restare di sotto al Doria, gli rese la parte della rocca Guglielma che aveva conquistato, dichiarando ciò fare non per riguardo al Prefetto, bensì in onoranza della fedeltà e prodezza del giovane castellano. Come per ordinario accade a cui usa cortesia, Andrea non iscapitò a mostrarsi cortese, imperciocchè in quella parte del borgo che occupavano gli Spagnuoli si trovassero le mulina, senza le quali, dove per poco si fosse dovuto tirare innanzi lo assedio, egli si sarebbe trovato a pessimo partito. Durante la tregua, Consalvo, quasi presentisse la gloria futura di Andrea, lo mandò ad invitare nel campo, dove accoltolo con ogni maniera di affettuosa dimostrazione, lo volle a mensa co' principali dello esercito; tenendosi quivi molti e dotti ragionamenti intorno all'arte della guerra, il gran Capitano di colta uscì fuori col domandare al Doria se, nella batteria data alla rocca Guglielma, paresse a lui, secondo il suo buon giudizio, che l'artiglieria fosse stata piantata a dovere. Alla quale interrogazione Andrea rispondendo con parole discrete disse: non saperlo per lo appunto decidere, quantunque confessasse, che gli aveva nociuto troppo più che da lui non si desiderava: ma l'altro insistendo, che per modestia non si schermisse dallo aprire l'animo suo, che tanto egli quanto il suo luogotenente avevano rimesso in lui il giudicare su quel punto, Andrea soggiunse: poichè lo volete ad ogni modo, io vi dirò per mio avviso, che voi avreste piantata meglio la vostra batteria impostandola nel boschetto degli olivi di fronte alla cortina orientale, però che a quel modo i colpi investendo meglio la terra nel mezzo, mi avrebbono tolto la comodità di accorrere senza danno da una parte all'altra al soccorso, come pure mi è riuscito di fare; di vero di questo fortemente dubitando, ci aveva provveduto alla meglio abbattendo più che poteva piante, affinchè almeno gli artiglieri spagnuoli rimanessero scoperti al tiro dei nostri moschettieri. Dette le quali parole, Consalvo, con maggiore vivezza che la gravità spagnuola gli consentisse, ed egli costumasse, battuta la spalla a certo _gentiluomo di artiglieria_[1] esclamò: — Viva Dio, adesso continuerete a perfidiare? Dite su a questo signore castellano da qual parte intendessi io piantare le artiglierie per battere la rôcca. — Piacciono le lodi anco ai Celicoli, almeno lo affermano, pensate dunque se agli uomini, massime quando vengono profferte a quel modo, che non lascia dubbio sopra la loro sincerità; però Consalvo si sentì preso da subita propensione pel giovane capitano; della quale ebbe a dargli prova di corto, imperciocchè, per inavvertenza di Andrea o per propria iattanza, uno dei guasconi, spie dei moti del nemico, si mescolò con la comitiva del capitano, donde accadde che, essendo stato riconosciuto dal suo superiore, che aveva nome Valentiano, o perchè così veramente si appellasse, ovvero fosse della provincia di Valenza, questi, messa mano all'arme, intendeva ad ogni costo sfregiargli la faccia come a traditore: nè l'altro parve rassegnarcisi di quieto, onde ne nacque un suono di urli e di minaccie misto con uno incioccamento di arme da parere il finimondo; però Consalvo, levatosi da mensa, trasse prestamente al rumore, ed informato del caso, dopo avere ripreso il Valentiano con acerbe parole, senza volergli dar luogo a scuse, lo licenziò di presente dalla milizia; però che, egli disse, gentiluomo essendo e spagnuolo, doveva rammentarsi come tutti quelli che vengono coll'ospite, tanto per chi gli accoglie, quanto per tutti quelli che lo circondano, essi non devono mostrare che una faccia sola, cioè quella dell'ospite. Forse con maggiore lunghezza, che non paiono meritare, abbiamo esposto questi fatti, conciossiachè per essi Andrea Doria salisse subito in fama di prestante e gentile cavaliere, avendogli dato la fortuna abilità di far di arme col più illustre capitano del tempo, e di avernela cavata con onore. Seguitando le sorti del Prefetto, le Storie ricordano alcuni gesti di minor conto co' quali Andrea, sia negoziando sia armeggiando, diede prova di valore; e tra i primi fu prova di non mediocre sagacia, quando spedito dal Prefetto in Francia a risquotere non so che paghe dovutegli dal re Luigi, egli tornò tosto indietro, e co' denari nelle bolge, essendo i Francesi a cotesti tempi, ormai diventati antichi, tanto solleciti a prendere, quanto duri a restituire o a pagare, dove non fosse per fare baldoria, magari con lo spogliato: come se, dopo averlo fatto piangere, si recassero a coscienza di farlo anco ridere; cosa che, avvertita da Niccolò Machiavello, la tramandò ai posteri con queste parole, le quali paiono, piuttostochè scritte, incise nel metallo: — La natura dei Francesi è appetitosa di quello di altri, di che, insieme col suo e dello altrui, è poi prodiga: e però il Francese ruberia coll'alito per mangiarselo poi, e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla Spagnuola, che di quello che ti ruba mai non cede niente. — Quanto ai fatti di arme, si nota come la repubblica di Firenze, avendo condotto per suo capitano generale Giovanni della Rovere con dugento uomini di arme, e dugento cavalleggeri, questi mandò Andrea, con parecchie compagnie di fanti, in aiuto dei Fermani, in quel tempo assai tribolati dagli Ascolani, dov'egli, adoperando prudentemente non meno che valorosamente, ebbe in breve tempo posto fine alla guerra, conciossiachè, venuto alle mani con gli Ascolani sul Tronto, egli assai di leggieri gli ruppe, facendovi prigioniere il figliuolo di Stoldo di Ascoli, che pose, secondo il debito, in potestà dei signori di Fermo, ma con tante raccomandazioni pel giovane, e preghiere di piegare gli animi a giusti accordi, che il cuore di Stoldo se ne sentì vivamente commosso, onde, di lì a poco, trattenendosi Andrea allo assedio di San Piero d'Aglio, per mezzo suo appiccò pratica di pace, la quale, con soddisfazione di tutte le parti, venne presto conchiusa. CAPITOLO II. Condizioni d'Italia sul finire del decimoquinto secolo. — Andrea Doria è fatto tutore del duca Francesco Maria della Rovere. — Quali i concetti di Cesare Borgia. — Imola presa, e di Caterina Sforza. — Tradimento fatto al duca di Urbino. — Insidie di Alessandro VI al cardinale di san Pietro in Vincoli riuscite invano. — Strage del duca di Camerino e dei figliuoli suoi. — Pietosissimo caso di Astorre Manfredi. — Congresso dei Baroni Romani alla Magione. — Andrea Doria scansa le mortali insidie del duca Valentino, e salva il duca e la duchessa di Urbino. — Maria manda a vuoto le trame del cardinale Giuliano della Rovere per le castella del nipote. Chiunque piglia a narrare dei casi umani, poca contentezza si riprometta per sè e per altrui, però che perpetua gli si svolga dinanzi agli occhi una tela di dolori, a cui appena si può contrapporre qualche gioia rada ed annebbiata; le baldorie del popolo non contano; il più delle volte provano, che o egli ha perduto, o che gli vogliono far perdere il senno; e nondimanco, tra i tempi cattivi, pessimi per la Italia correvano quelli: per insania di uno sciagurato, che fama ebbe di astuto, e della quale a preferenza di ogni altra si dilettava, da un lato era schiusa la Italia ai Francesi, mentre dalla parte opposta si chiamavano gli Spagnuoli, e così gl'Italiani, nella fiducia di rivendicarsi in libertà co' soccorsi stranieri, si trovavano oppressi da doppia servitù; eserciti ladri e affamati, discorrendo su e giù del continuo per le terre d'Italia, come se le volessero arare per seminarvi dopo la fame, la peste e la guerra: viluppo stranamente mutabile di uomini e di cose, di leghe e di nimicizie: avverso oggi chi ti si professava amico, ed aveva combattuto al tuo fianco ieri; da ogni dove nobilissimi ribaldi, i quali non erano fatti impiccare dai giudici per la sola ragione che essi erano potenti a impiccare loro; per converso però bene spesso dai famigliari, dai fratelli, dalle mogli, dai figli perfino, o dai padri avvelenati o spenti a ghiado: nulla venerato, nè sacro; non sangue, non sesso, nè età; tiberiesche libidini, ma più sfrontate assai, conciossiachè Tiberio, per non so quale rimasuglio di pudore, si nascondesse fra gli scogli di Capri, mentre ora, lasciando degli altri, a Roma, nel Vaticano, il papa stesso con la madre, e con la figliuola generata da lui si mescolasse; a questa, prima provvedeva mariti; poi gli ammazzava: negl'incestuosi amori aveva concorrenti due fratelli e figliuoli suoi, un duca di Gandia e un Cardinale, e questi era Cesare Borgia, che, geloso del fratello, una notte gli tese insidie, ed, ammazzatolo, lo gettò nel Tevere. Non mai l'umano consorzio rassomigliò come allora in Italia ad un bosco di assassini, e bisogna dire che la necessità del vivere insieme stringa gli uomini prepotente davvero, se a cotesta prova la società non si disfece tornando a vivere ognuno vita bestiale. Dopo ciò, pensate qual cuore avesse ad essere quello del Prefetto, quando si sentì sorpreso dal male di morte, con la moglie anco giovane, e il figliuolo, il quale poi col nome di Francesco Maria della Rovere salì in fama, tuttavia infante! Acconciate le cose dell'anima, dettò il suo testamento, dove elesse tutori al figliuolo pupillo il Senato veneziano, il cardinale Giuliano della Rovere, che più tardi fu papa Giulio II, e Andrea Doria; ma presso alle ultime recato, stringendo la mano di Andrea, gli bisbigliò sommesso dentro le orecchie, rammentasse stargli il Senato lontano e il Borgia vicino; il fratello innanzi tratto prete, di cui è natura, morendo, lasciare ai nepoti, ma, vivi, i beni di Dio volersi godere tutti per loro; in lui porre unicamente fede; a lui solo con tutte le viscere raccomandare il figliuolo e la donna; nè in migliori mani, come vedremo, li poteva fidare. Molti, secondochè ci porge la Storia, furono quelli, che fecero disegno di ridurre la Italia a nobile e grande stato, costituendolo a monarchia ovvero a repubblica; ma ora i tempi mancarono agli uomini, ora gli uomini ai tempi: talora la facoltà apparve impari troppo allo ardimento; e spesso la cupidità, disgiunta dai magnanimi concetti, demeritò (come si ha da credere) l'assistenza di Dio. Oggi sembra che i tempi sieno venuti conformi agli uomini e viceversa: pare che finalmente ci abbia chi sappia, e voglia, e possa: si confida nell'altezza del proposito, nella prestanza delle armi, nella generosità dello animo: insomma si tiene per certo, che adesso concorrano in copia tutte le condizioni più capaci a restituire la Italia alla vetusta dignità sua, ed anco noi speriamo così, troppo angustiandoci il pensiero di chiudere gli occhi senza una dolcezza al mondo: pure la mente, usa alla sventura, si perita a commettersi intera alla lusinga. Fra quanti concepirono il concetto magnanimo, il più indegno di condurlo a fine comparve, senza dubbio, Cesare Borgia duca di Valentino, imperciocchè s'egli fece mai disegno (e sembra che lo facesse) di restaurare la potenza d'Italia, e' fu col bramito della belva, che vuole per sè la preda, ossa e carne, intera. Costui, sostenuto da una parte dal Papa, dall'altra dal re di Francia, s'ingolava i signori di Romagna ad uno ad uno; tentò anche Firenze, ma ci trovò l'osso duro, chè la repubblica teneva la barba sopra la spalla, e poi, per guardargli alle mani, gli spedì Niccolò Machiavelli, sicchè, andando tra loro la cosa fra galeotto e marinaro, e' non ci corsero, che i barili vuoti. Arti del Valentino furono: un mentire ferreo, una sfrontatezza da levare l'alito, e lusinghe continue, ed un mostrarsi in vista più mansueto di Gabrielle, che dica: _ave_; su le labbra la fede sempre, il tradimento sempre nel cuore: una mano stesa ad amichevele stretta, nell'altra lacci, veleno e stile: nè più, nè meno di ciò che si costuma in questo secolo di schiavi tremanti, e dai carnefici salutato civile, con questa discrepanza però, che allora si adoperavano più i sicarii, oggi più i giudici: ancora, a cotesti tempi, per via degli assassinamenti, il sangue si versava a spizzico, ai nostri, con le guerre, a fiumane: e poi nei secoli decimoquinto e decimosesto la rabbia era tra i cani; l'ucciso, più iniquo due cotanti dell'uccisore, sicchè il popolo, per ogni morte successa, ripigliava fiato; nel secolo diciannovesimo, ai nostri Dei infernali il sangue tanto più accetto, quanto più puro. Maraviglia è però, come, di tutti gli animali, il meno educando appaia l'uomo, sicchè la esperienza dal seminare i suoi insegnamenti sul granito ne caverebbe maggiore costrutto che predicandoli a lui. Di questo avendo ricercato un sapiente, ci rispose; che come dai tempi di Adamo in poi i pesci pigliansi con gli ami e non se ne sono anche accorti, così gli uomini si pigliano e piglieranno sempre con le bugie e co' giuramenti falsi, e a questo modo pensarla anco Lisandro, per quello che ne riporta Plutarco; e questo perchè o la ignavia, o lo interesse mettono le mani loro su gli orecchi e su gli occhi degli uomini, sicchè essi non possano vedere, nè udire. Con ingrato animo pertanto pigliamo a narrare così per iscorcio alcune sanguinose fraudolenze del Valentino, come quelle che si riferiscono al nostro soggetto. Per mandare a compimento il disegno di sottoporsi la Italia, pensò incominciare da quelle cose, che gli parve avessero da riuscirgli più facili, e tra queste, per suo giudizio, era la ricuperazione delle terre di Romagna; imperciocchè un possesso lungo, e la pertinacia della corte Romana a sostenere, che le furono o da Costantino, o da Carlomagno, o dalla contessa Matilda donate, facessero considerare ch'ella a giusto titolo le tenesse, ed i signori che poi vi s'introdussero gliele avessero usurpate. Vero è bene, che la Chiesa, se usurpazione ci era, l'aveva in certo modo purificata, conferendo le terre in enfiteusi, e risquotendone solertissima ai tempi debiti i censi; ma se ai potenti di ugna non fu mai penuria di pretesti per pigliare l'altrui, pensate se possano venir meno quando si tratti di ripigliare quello, che credono proprio, e col tempo sieno tornati a crescere loro gli ugnoli! Il Valentino, sotto colore di ricuperare alla Chiesa le terre rapite, comincia da Imola, come quella che, per essere tenuta da una vedova, lo assicurava di sollecita riuscita: senonchè cotesta donna essendo Caterina Sforza, egli si trovò ad avere fatto male i suoi conti: invero, messi prima in salvo i suoi figliuoli, ci si difese con prestanza rara anco negli uomini; per femmina, unica. Espugnata che l'ebbe, il Valentino mandò la duchessa a Roma, donde la trasse co' suoi prieghi Ivo d'Allegry capitano di Francia; e tutti sanno come, tolto Giovanni dei Medici a secondo marito, a lei toccasse suprema fortuna, e suprema disdetta; la prima fu diventare madre a Giovanni delle _Bande nere_ terrore dei Tedeschi, la seconda essere ava di quel Cosimo, primo gran duca di Firenze, a ragione detto _Tiberio toscano_. Su Ravenna e su Cervia gittò il Valentino uno sguardo di straforo, ma le lasciò stare, chè, dai Polenta, erano venute in potestà dei Veneziani, e, per allora, gli ugnoli suoi, comecchè allungati, non reggevano il paragone con quelli del lione di san Marco; una tentennata la dette a Bologna, e faceva frutto, se non che il re di Francia gli mandò dicendo: lasciasse stare i Bentivoglio, se aveva cara la grazia sua, e il Valentino, per quella volta, appiccò la voglia allo arpione. Sortirono ottimo fine le insidie di lui con Guidobaldo duca di Urbino, col quale non piacque romperla alla scoperta, come quello che, benemerente dei popoli, si prevedeva, lo avrebbono difeso a spada tratta: per tranquillarlo, gli menarono buone le pretensioni di certi censi con la Camera apostolica: nella carica di prefetto di Roma, vacante per la morte di Giovanni della Rovere, il figliuol suo Francesco Maria, quantunque fanciullo, confermarono; non gli si contrastò l'adozione a figlio di questo nepote; per di più si mise innanzi un trattato di nozze future tra il garzone, giunto che fosse a convenevole età, con donna Angiola Borgia nepote del Papa. Così, dopo averlo per tante guise abbindolato, il Valentino finge l'assedio di Camerino, e chiede aiuto al duca Guidobaldo di artiglierie, di somieri e di gente; il duca, volendoselo gratificare, lo compiacque di ogni cosa, onde il Valentino gli mandò a dire: da lui in fuori non conoscere altri per fratello in Italia. Licenziato il messo, ordina che movansi subito le fanterie con celeri passi da Fano; egli, dalla parte di Romagna, in compagnia di buon nervo di cavalli, vola per la strada del Sigillo e della Scheggia, imperciocchè non si tenesse contento dove, con lo stato, non arrivasse a torre al tradito Duca anco la vita, e gliela toglieva di certo, se nel mentre, ch'egli stava allestendo i regali da inviarsi al Valentino, i popoli devoti non l'avessero, quasi nella medesima ora, da Cagli, da Fano, da Fossombrone, da Montefeltro, e da altre più parti avvisato della rovina, che stava per cascargli addosso, ond'egli, colto così alla sprovvista, ebbe a somma ventura se, vestito da villano, per calli obliqui potè ridursi a salvamento su quel di Mantova. Per dare rincalzo al figliuolo, e cogliere, come suol dirsi, due colombi a una fava, il Papa in quel punto medesimo tirava l'aiuolo al cardinale Giuliano che dimorava a Savona, concertandosi col cardinale di Albret, che, nel passare in Francia, sorgesse a Savona, e quivi con suoi accorgimenti tentasse condurlo su la nave: sopra la quale venuto, ritorto il cammino, con voga arrancata lo menasse a Roma. Certo, se il Cardinale di san Pietro in Vincoli a cotesto modo tornava in Roma, era difficile che diventasse papa, come poi gli successe; ma egli, che prete era e genovese, fece il formicone di sorbo, e lasciò che il cardinale d'Albret se ne partisse insalutato, parendogli che, bene avvertita ogni cosa, gli tornasse meglio passare da villano, che trovarsi un bel giorno strangolato. Preso a tradimento Urbino, si volse il Duca contro Camerino con tutto lo sforzo del suo esercito, e pieno di rabbia; male incolse a Giulio Cesare da Varano a non procedere o più animoso o più cauto, imperciocchè, caduto nelle mani del duca Valentino co' due suoi figliuoli Venanzio ed Annibale, fu fatto indi a poco con esso loro strangolare: Giovanni Maria, scansato per miracolo a Venezia, sopravvisse a rimettere in piedi la casa. Pietosissimo caso fu quello di Astorre Manfredi, giovane diciottenne, di forme a meraviglia belle, e prestante in armi; lo riveriva per suo signore Faenza; tentato da prima co' suoi tranelli dal Valentino, non si lasciò scarrucolare. Allora costui ricorse alle sorprese, ma anco qui gli tornarono corti i disegni, chè adoperatosi a scalare notte tempo la città dalla parte del Borgo, ne rilevò un carpiccio dei solenni; così sciupato il tempo atto alla guerra per cotesto anno, impadronitosi di Russi, e di altre castella del contado, vi svernò: a primavera, rifornito di poderosissimo esercito composto di tre nazioni, spagnuola, francese e italiana, tornava allo assalto. Sotto pretesto di onore, l'astuto capitano spinse primi alla espugnazione della terra i Francesi e gli Spagnuoli, ma procedendo essi con poco riguardo, anzi con qualche disordine, vennero agevolmente respinti: dopo tre giorni si rinnovò la battaglia, e questa volta primi a salire furono gli Italiani; li conduceva lo stesso Valentino, il quale tempestando per bollore di sangue innanzi ad ogni altro pose il piede sopra la muraglia: da ambe le parti si fece prova piuttosto di rabbia, che di virtù. Raccontano le storie, che pigliarono parte alla zuffa le donne, e perfino i fanciulli, sicchè il Valentino, per quanto ci s'infellonisse dintorno, non la potè sgarare; al contrario in ultimo fu respinto con la perdita di oltre duemila soldati, tra i quali Ferdinando Farnese, ed altri uomini di conto. Quello però che non poterono le armi lo fecero la disperazione di ogni aiuto e la penuria dei viveri. Le soldatesche allora mercenarie mantenevano fama di fedeli se, astenendosi dal consegnare legato il proprio capitano al nemico, come fra gli antichi gli Argiraspidi costumarono con Eumene, e fra i moderni gli Svizzeri con Ludovico il Moro, combattessero quanto imponeva l'onore della bandiera. Le pertinaci difese rare; gli sforzi disperati si fanno unicamente per la patria e per la famiglia; le milizie del Manfredi avevano adempito oltre misura il debito; nè si stimavano, nè forse erano traditrici se in cotesto frangente provvedevano ai casi loro. Quando esse vennero a favellare di patti, il Valentino non istette sul tirato: veramente non chiesero troppo, ma avessero preteso di più, e più egli avrebbe concesso; col Valentino il nodo non giaceva mai nel farsi promettere, bensì nel farsi osservare. I patti furono questi: ai cittadini le persone, e le sostanze salve; ad Astorre la libertà di girsene dove gli garbasse, conservando le proprie possessioni. Astorre, ritenuto prigioniero, dopo poco tempo fu chiuso in castello Santo Angiolo a Roma. Storici contemporanei, reputati in pregio di prudentissimi nello affermare, raccontano come al corpo del giovane venusto fosse fatta violenza per opera di tale, che, pure adombrando con parole oscure, danno a divedere fosse colui che ardiva chiamarsi vicario di Cristo in terra: certo poi è questo altro: un anno dopo la sua prigionia fu rinvenuto il cadavere di Astorre nel Tevere con la corda di una balestra stretta al collo, ed appresso di lui due giovani legati insieme per una mano; uno mostrava avere quindici, l'altro venticinque anni, che fu detto essere suo fratello bastardo; oltre a questi, altri corpi, uno dei quali di femmina, ed era di giovane amantissima compagna così della buona come della rea fortuna di Astorre. Quanto tesoro di amicizia e di amore spento ad un tratto! I signori della Romagna, dal comune pericolo commossi, convennero assieme ad altri loro amici alla Magione, luogo nel contado di Perugia per trovare riparo agl'imminenti pericoli: furonvi Gianpagolo Baglioni, Annibale Bentivoglio, Antonio da Venafro per Pandolfo Petrucci; se il Doria ci si trovasse non è ricordato, ma è certo, che la Duchessa ci si facesse rappresentare dai suoi oratori; oltre a questi (e parve gran che) si accozzarono alla Magione il cardinale Pagolo, e Carlo con tutti gli altri di casa Orsina, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo; difatti costoro avevano sempre tenuto il sacco al Valentino, e co' rilievi di lui si erano ingrassati. Al consiglio audace tenne dietro lo incerto e lento eseguire, imperciocchè lega sincera, epperò efficace, non possa durare, tranne fra i buoni, e costoro erano la più parte pessimi, ed ognuno di essi intendeva starsi a vedere, che cosa sarebbe capitato all'altro se si scopriva (come se non si fossero scoperti tutti), ed anco era pronto a comporsi col Valentino, per suo conto, a danno degli altri compagni: disegnavano altresì godere il benefizio del tempo, per conoscere come l'avrebbero pensata i Veneziani, ed i Veneziani all'opposto aspettavano a conoscere come la penserebbero essi, e con miglior fondamento, però che, essendo troppo più poderosi di loro, e punto sbilanciati, potevano senza pericolo aspettare: inoltre immemori, che quale si pone allo sbaraglio deve contare sopra l'anima sua e sopra il suo braccio, eccoli a battere le ale intorno alla candela di tutte le farfalle italiane, la Francia; questa poi in quello scorcio di tempo beveva grosso, e se non chiamava le opere del Valentino preordinate a civiltà, chè di coteste parole non ci correva per anco la usanza, pure trovava il suo conto a sostenerlo; onde il Valentino tra per sua industria, con la quale seppe in breve spazio di tempo mettere insieme buona massa di gente, e tra per l'ordine venuto di Francia al Ciamonte capitano del Re d'inviargli speditamente quattrocento lance, e di far opera di sostenere con ogni maggiore reputazione le cose sue, si trovò di corto tanto forte su l'arme da non temere lo sforzo dei nemici: nondimanco al Borgia più della guerra talentavano le frodi: epperò, negli atti e nelle parole rimesso, incominciò a mettere male biette per disunirli; e ad ognuno dei baroni romani, massime a Pagolo Orsini, faceva susurrare negli orecchi: Perchè quei subiti sospetti? A che la diffidenza improvvisa? Come all'antica amicizia sostituito l'odio? A cui mirava egli? A disfarlo? Troppo duro osso per lui, imperciocchè lo sovvenissero il re di Francia e Roma. Potere egli, e forse dovere mettere in oblio l'antica benevolenza, chè la ingratitudine offende Dio e gli uomini, potere e forse dovere pel suo meglio offenderli tutti ad un tratto adesso, ch'ei teneva il coltello pel manico ed era vano resistergli; nondimeno alle nuove cause d'ira anteporre le antiche di affetto; tornassero a migliori consigli; lui proverebbero Cesare non solo di nome, ma eziandio di fatti. Senza dubbio le Storie, e Niccolò Machiavello, che se ne intendeva, ci ragguagliano come il Valentino fosse maestro di agguindolamento solenne; tuttavolta non si comprende il modo col quale egli, così screditato, arrivasse a condurre alla mazza uomini mascagni quanto lui, dove non si avverta da un lato la incredibile presunzione nostra che c'inganna sempre dandoci ad intendere, che il fraudolento o per reverenza, o per paura non ci vorrà mettere in combutta con altrui, e dall'altro le nostre sorti governare un fato meno difficile a negare, che a sfuggire, il quale guida gli uomini volenti; i repugnanti strascina. E poichè l'argomento nostro non ci concede allungarci troppo nel racconto di questi maneggi, basti tanto che al Valentino non solo riuscì in breve disfare quel fascio di nemici, ma ne persuase taluno a continuargli compagno nella opera di disertare i novelli confederati; al quale scopo, dopo avere messo in ordine le soldatesche a Cesena, che fingeva artatamente minori di quello che in vero si fossero, e per colorire meglio la cosa, aveva licenziato le quattrocento lance del Ciamonte, che se ne tornarono su quel di Milano, comandò a Pagolo Orsino, al duca di Gravina, a Oliverotto, e a Vitellozzo si trovassero alla posta sotto Sinigaglia, donde aveva fatto disegno di cacciare via la Prefettessa e il duca Francesco Maria. Essendo stato di ciò avvertito Andrea Doria col mezzo di solertissime spie, egli stimò ben fatto non aspettare le risposte di Francia, dove aveva spedito lettere ortatorie al re, con le quali gli raccomandava di prendere in protezione la vedova e l'orfano di Giovanni della Rovere, persuadendo di leggieri la prefettessa Giovanna a cansare il figliuolo a Venezia. Affermano all'opposto taluni storici, che lo zio Giuliano lo inviasse in Francia, ma commettono errore, però che, mostrandosi il re Luigi XII, fuori del giusto, tenero per Valentino, ciò non sarebbe stato conforme alla prudenza del Cardinale; e il tiro che i Francesi gli tentarono a Savona di già abbiamo narrato; dall'altro canto se i Veneziani studiavano conservarsi benevolo il Valentino, avendolo perfino scritto per segno di onore sul libro d'oro, ch'era l'albo della nobiltà veneta, si sapeva ch'elleno erano lustre per parere, e allora, e prima di allora coteste mostre si costumavano per celare meglio il concepito rancore, e, come suole, qualche volta attecchivano, qualche volta no. Le risposte di Francia vennero mentre il Valentino si trovava già sul contado di Sinigaglia, e provarono quanto bene avesse argomentato Andrea ad armarsi di previdenza, imperciocchè con esse il re, dopo avere rampognata acremente la Prefettessa per essere convenuta all'assemblea della Magione ai danni del duca Valentino (come se colpa fosse premunirsi contra le mortali insidie di lui), conchiudeva coll'abbandonarla alla sua fortuna: però Andrea, comecchè gli rimanesse un filo di speranza sopra la protezione di Francia, prima di mandare le lettere, nel presagio che gli potesse venire meno, commise, che da Venezia gl'inviassero una nave, la quale, ferma su le ancore in Ancona, aspettasse il comandamento di quanto avesse da fare; ma la tempesta avendogliela spinta a secco gli ruppe i disegni, ed il giorno stesso che gliene giungeva la notizia, un trombetto per la parte del Valentino si presentava al ponte levatoio per intimargli la resa della rocca. La duchessa Giovanna e Andrea, accolto con serena fronte il trombetto, risposero, che per non mandare a male sangue cristiano volentieri avrebbero sgombrato la terra, purchè fosse a patti, e dissero quali: precipuo tra questi la facoltà al duca, alla duchessa, e al Doria di condursi dove meglio desiderassero, trasportando con esso loro quanto si trovavano a possedere di gioie e di danaro e le masserizie più care. Il trombetto, presa la carta, promise tornerebbe il veniente giorno con la risposta, ed in vero non mancò, ma il Doria gli disse come la Prefettessa, travagliata tutta notte da subita infermità di corpo, frutto senza dubbio dell'angoscia dell'animo per aversi a spogliare di cotesto nobile arnese di Sinigaglia, riposarsi adesso sul letto, a cui il trombetto contrapponeva, che a scrudelire l'amarezza della Prefettessa avrebbe giovato vedere che il suo signore delle condizioni apposte alla resa non ne avesse tocca pure una; e di rimando il Doria: certo gioverà, e mi proverò consolarla subito; così dicendo aperse la porta della camera lasciando vedere il letto dove giaceva la Prefettessa, a lato del quale essendosi accostato in punta di piedi fece atto di chinarsi per ispecolare se vegliasse; poichè alquanto si fu così rimasto, si drizzò da capo e col dito traverso ai labbri rifece i passi; giunto sul limitare, additata la giacente, con voce sommessa diceva al trombetto: — ella dorme; deh! non le invidiamo questo po' di refrigerio, che la natura manda ai suoi dolori; sarà per domani. — Al trombetto parendo ostico lo indugio insisteva, ma il Doria rifiutò recisamente destarla. Il giorno dopo tornò il trombetto per tempissimo, e ammesso dentro la rocca domandò della Prefettessa, e fugli risposto, che se n'era ita; volle vedere il Doria, e seppe come anch'egli se ne fosse andato con Dio; il giovane Duca come gli altri, anzi prima degli altri già fu esposto come si fosse cansato a Venezia. Ecco come per gli altri erano passate le cose. La Prefettessa, notte tempo, con una donzella ed un gentiluomo tutti in ispoglie da villani, saliti su tre cavalli, che fulminavano, a traverso del campo dei nemici, i quali non se ne accorsero, si ridussero in Firenze a salvamento; Andrea si rimase per accertarne meglio la fuga, e levare via ogni suspicione al Valentino; al quale intento egli mostrò al trombetto un simulacro di donna giacente, dandogli ad intendere, che fosse la Prefettessa: strattagemma con ottima riuscita praticato nell'antichità da Tito quando, caduto prigioniero di Cleonimo, questi gli chiese pel riscatto la città di Epidauro, e di Apollonia, e ai tempi nostri da Luigi Buonaparte, quando gli accadde scampare dal castello di Ham. Rispetto al Doria hassi a credere gli facesse spalla alla fuga qualche soldato del Valentino amorevole suo. A Cesare Borgia, si narra, come dolesse meno la perdita di una battaglia, che vedersi vinto nei suoi artifizii, e a diritto, imperciocchè la naturale prosunzione dell'uomo poteva persuaderlo a dare altrui la colpa della fazione perduta, mentre il tranello spettata a lui solo; tuttavolta non se ne mostrò crucciato, e questo senza dubbio perchè molinava nella mente più cupo disegno. Quale questo disegno si fosse, come l'ordinasse, ed in qual guisa lo conducesse a compimento, lo narrò il Machiavello nel modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo, e il duca di Gravina entrambi Orsini, e non importa spenderci altre parole per ora: forse ci torneremo sopra se, Dio concedendoci salute, potremo dettare la vita del nostro sommo politico Niccolò Machiavello. I versi che Omero pone su le labbra di Andromaca che piange sul corpo del defunto marito durano immortali, perchè del pari sono immortali le sciagure dell'orfano in essi lamentate; però non sembrerà cosa strana nè forte se Andrea, salvato appena Francesco Maria dalle mani del Valentino, lo avesse a sottrarre da quelle non meno rapaci dello zio cardinale. Certo nei petti sacerdotali l'amore dei nipoti molto può, ma troppo più prepuote l'agonia di acquistare le somme chiavi; di fatti il cardinale Giuliano, mirando a farsi poderoso di stati per crescere di credito nel sacro collegio, comecchè in apparenza non omettesse officio veruno di buona parentela verso la cognata, ed anzi mandatala a levare da Firenze l'albergasse a Genova in certo suo palagio, che possedeva fuori della porta di san Tommaso, in sostanza poi ciò operava per poterla serpentare più da vicino, al fine che da lei si commettessero in sua balía le fortezze e le castella del nipote su quel di Napoli, sotto colore, che con la sua autorità meglio si sarieno potute tenere. Quantunque la duchessa, con alterazione non piccola dell'animo suo, udisse moversi la impronta richiesta, pure quanto più seppe mansueta rispose: coteste castella avere ricevuto dal marito in fede di restituirle al figliuolo, ed a questo volerle in tempo debito restituire. Il Cardinale non si tenne mica vinto per tanto, che indi a breve rimandava allo assalto il suo camerario Casteldebrio (quel desso che poi salito alla porpora prese nome di cardinale di Pavia), affinchè con parole sforzevoli la spuntasse; a cui la donna in sensi succinti rispose: — parerle di fare bene a tenerle, perchè da coteste possessioni in fuori non le avanzava altra sicurtà per le sue doti, onde lasciarle senza cauzione non intendeva. — Così fu rinviato senza conchiusione il camerario, ma Andrea, ristrettosi subito dopo con la Prefettessa, le insinuò: badasse bene; tenace la natura dei preti; quello che vogliono vogliono: tenacissima poi quella del cardinale Giuliano. La ressa disonesta significare una voglia accesissima, la quale non si sarebbe così di leggieri attutita; anello forse di qualche occulto disegno concepito nell'animo di cotesto uomo violento; però confortarla ad armarsi di subita provvidenza. Alla donna esperta nei casi della vita piacque il consiglio, onde senza porre tempo fra mezzo pensò ai fatti suoi; e veramente bene le incolse della diligente sollecitudine adoperata, imperciocchè il cardinale della Rovere, personaggio, come ogni uomo sa, violentissimo, di cui la collera si accendeva alla stregua degli ostacoli che incontrava, postergato qualunque rispetto spedì lo stesso camerario Casteldebrio nel regno con due brigantini e copia di danari per corrompere i Castellani ed entrare in possesso delle castella. Il Camerario, arrivato con celere viaggio alla rocca Guglielma, chiese libero ingresso per sè e pei seguaci suoi; domandato se avesse il segno, rispose di no, ma portare seco cosa troppo più importante del segno, la quale era un chirografo in virtù di cui la Prefettessa investiva il Cardinale del possesso delle castella, ed ordinava ai Castellani obbedirgli liberamente. La guardia notò, che la cosa poteva andare in regola, però essergli vietato immettere gente in castello senza licenza del Castellano, nè a lui spettare il giudizio intorno alla autorità del chirografo; entrasse solo il Camerario a conferirne col Castellano; quegli rispose, che molto volentieri l'avria fatto, sicchè due soldati, toltolo in mezzo, il condussero alle stanze del Castellano, le quali aperte, la prima cosa, che gli comparve davanti fu la Prefettessa, che tutta aggrondata gli disse: — Orsù, via, porgetemi il mio chirografo; — e siccome il Camerario, tuttochè prete, vergognandosi non fiatava, ella soggiunse: — Andate, e a cui vi manda dite, che così non costumano i sacerdoti, nè i parenti, anzi nè manco chi desidera mantenersi in fama di uomo dabbene. — Dopo tante e tante varie fortune, Andrea, giunto ormai al suo trentasettesimo anno, si trovava ad essere più povero di prima, onde sperto, che di rado accade procurarti fuori la comodità, che non sai rinvenire in casa, deliberò ritornarci, confidando che Niccolò Doria, il quale in cotesto tempo militava in Corsica condotto al soldo dello Uffizio di san Giorgio, gli avrebbe aperto qualche via per migliorare le sue sorti. Che fosse l'Uffizio di san Giorgio, per quale diritto, e come governasse l'isola di Corsica, non torna spediente raccontare adesso: basti sapere per ora, che Niccolò, in procinto di partire, aveva deciso di menarlo seco, ma essendo nel frattempo accaduto uno stupendo rivolgimento di cose per la morte di due papi, Alessandro VI e Pio III, e l'assunzione al pontificato di Giulio II, egli, come assai domestico del Papa, reputò, che gli verrebbe fatto di avvantaggiare le cose sue meglio a Roma che in Corsica, però, chiesta ed ottenuta licenza dall'Uffizio di san Giorgio, gli designò Andrea capace a succedergli, e degno in tutto della fede la quale fin lì avevano riposto in lui, e di fatto era. Coloro che hanno scritto dei gesti di Andrea Doria per adularlo vivo, e per piaggiare, morto, la famiglia di lui, scivolano assai lestamente sopra questa parte della sua vita, stringendosi a dire, che in breve tempo egli seppe con la sua virtù assettare le faccende scomposte dell'isola; ma la storia ricorda come Andrea vi si comportasse avaro e spietato. Che nelle storie della Corsica, scritte dal Filippini, un po' di passione ci si sia intromessa, potrebbe darsi, pure ei le dettò mentre Genova dominava l'isola, nè sembra, ch'egli odiasse la repubblica o fosse odiato da lei; e fama ha di verace pei fatti accaduti ai suoi tempi; ed anco, posto questo da parte, i Genovesi, massime quelli dell'Uffizio di san Giorgio, mercanti erano, i quali governavano come trafficavano, voglio dire col fine di cavare dal proprio danaro il maggiore pro, che per essi si fosse potuto, e l'interesse della moneta a quei tempi batteva tra il diciotto e il venti per centinaio, donde accadeva che, non curate onestà e carità, anzi neppure efferatezza e tradimenti, si estimassero ottimi i partiti più spicci e meno costosi; ora, siccome le guerre, oltre a tirare in lungo e costare un tesoro, compaiono anco di esito incerto, così preferivano gli assassinamenti come più sicuri e di maggiore risparmio. Arte di governo dei Genovesi in Corsica fu questa: spiantare la stirpe dei baroni, fiera gente, e a maneggiarsi difficile, ma generosa, e ciò si ottenne suscitando scisme tra loro, e poi sovvenendo i deboli per opprimere i potenti; anco talora pigliarono le parti del popolo contro i baroni, e sperarono venire a capo eziandio con questo come di belva, che la perdita del sangue rende tutta mansueta. Certo alla Corsica non so se molta pecunia, ma senza fallo molto sangue costò la dominazione di Genova; questa però nello uccidere altrui ferì sè stessa, e, resa la Corsica cadavere, ebbe a consegnarla alla Francia perchè la seppellisse. La Francia tentò prima di venderla, e ciò nè manco dopo due anni dal tanto appetito acquisto, ma, non trovando compratore, se l'ebbe a tenere; adesso finalmente dopo tanto secolo la va ravvivando; però non ispero ch'ella possa mai più rifiorire a quella prosperità di cui ci porgono testimonianza credibili storici: se poi più tardi mi avesse a smentire il successo, l'avrò per grazia. Dispersi prima i baroni da Leca toccava adesso a quei della Rocca a sparire; per metterli a segno l'Uffizio di San Giorgio aveva mandato Niccolò Doria commosso dal pericolo di perdere la isola per virtù di Ranuccio, il quale, tentando rientrare nel possesso dei suoi beni, ne aveva messo sottosopra le parti occidentali; Niccolò incomincia col citare Francesco e Giudice della Rocca, congiunti di Ranuccio, a comparirgli davanti: andava Francesco, più cauto; se ne astenne Giudice; ma se al primo nocque la fiducia, all'altro non valse la prudenza, imperciocchè a Francesco egli facesse mozzare la testa, e Giudice trafiggere con ferro assassino; giunse eziandio a mettere le mani addosso ad un fanciullo figliuolo di Ranuccio, ed anco questo spense a fine di empire l'anima paterna di terrore e di sgomento. A tale cognato, ad opere siffatte subentrava Andrea, nè tralignò. Ludovico XII re di Francia, diventato signore di Genova, sia che per naturale inclinazione sentisse pietà per cotesto gentiluomo, sia, come credo piuttosto, che lo movessero i conforti del Cattaneo consorte del Ranuccio, intendendo salvare cotesto sciagurato dalla estrema rovina, spedì in Corsica due uomini a posta per offerirgli l'ordine cavalleresco di san Michele con buona provvisione, a patto che, deposte le armi, si riducesse a vivere in Francia. Ora Andrea avendo considerato, che se la guerra terminava a quel modo veniva a cessare la sua condotta coll'Uffizio, e certo perduti i premi della vittoria, finse credere falsa la commissione dei messi, e le patenti regie, comecchè apparissero munite del suggello del re, e sotto pretesto di chiarire il vero ritenuti i messaggeri, mandò il suo cancelliere a Genova perchè maneggiasse a stornare il trattato, come di vero gli accadde. Allora così ferocemente attese a perseguitare Ranuccio, che questi, derelitto da tutti, si ridusse, solo, a vivere vita ferina su pei gioghi di un'aspra montagna, dove lo affetto di qualche suo vecchio vassallo lo andava aiutando, con mortalissimo pericolo, di un tozzo di pane. Andrea, contati i giorni che bisognavano per farlo morire di fame, avendo saputo, che in capo a quelli durava sempre vivo, nè per quanta diligenza vi adoperasse riuscendogli scoprire da quale dei villaggi circostanti si partisse il suo soccorritore, li distrusse tutti, ardendone le case, tagliando gli alberi, disertando i vigneti, e disperdendone gli abitatori; così fece prigione Ranuccio, e come a morte certa lo mandava a Genova, dove, se il governatore del re di Francia non era, avrebbe miseramente finito sotto la scure. Come ai tempi dei Romani, così a quelli dei Genovesi, e così sempre quando i tiranni prevalgono, pace ed ordine chiamano la solitudine e la morte. CAPITOLO III. Disuguaglianza civile causa perpetua di ruina negli Stati. Dei governi misto e semplice, e quale dei due il più sincero. Rumori di popolo; _castiga villano_; due Doria ammazzati; nuova spartizione degli uffici tra popolo e patrizii. — Accordi politici non durano; i patrizii sopraffatti esulano a Savona; e ogni dì inaspriti ricorrono alla Francia. Il Re distratto altrove tepido paciere. Guerra del popolo contro i nobili, e consigli di Andrea. Mutate le cose di Francia il Re entra non più paciere, ma vendicatore dei nobili. Paolo da Novi doge popolano decapitato e squartato: altre stragi: rimettonsi le cose come prima. Lega di Cambraia. Fama di Giulio II usurpata; sue contese con la Francia; il Papa promove novità a Genova; i congiurati scoperti hanno mozzo il capo. Giano Fregoso con forza aperta toglie Genova alla Francia. Andrea Doria prefetto del mare. — Gesto nobilissimo di Andrea sotto la _Briglia_ dove rimane ferito. — Prosperando le cose di Francia Andrea si ripara con l'armata a Portofino. — Sconfitta dei Francesi a Novara. — Torna Ottaviano Fregoso doge in Genova, e il Doria con esso. Guerra turchesca, l'arcivescovo di Salerno geloso di Andrea si adopera a torgli l'ufficio di prefetto del mare, e non riesce. Gesti di Andrea a Gianutri e alla Pianosa, dove si combatte aspramente. — Carlo V disegnando prevalere in Italia tenta pigliare Genova alla sprovvista e non riesce; l'anno dopo la piglia per forza, e la saccheggia. — Tragedia di Monaco non senza sospetto di partecipazione del Doria. — Andrea in corte di Francia persuade soccorrersi Rodi e invano; difende le coste di Provenza, durante la invasione degl'imperiali in Provenza; e cattura Filiberto principe di Oranges; piglia Savona e Varagine; vince il Moncada ammiraglio di Spagna e lo fa prigioniero. Francesco I rotto a Pavia. Dal consiglio di Francia vuolsi, che Andrea metta in pegno le sue galee pel sicuro trasporto del Re in Ispagna; nega, e si proferisce liberarlo per virtù di arme: non è atteso; mal soddisfatto dei Francesi, spirata la condotta, si accomoda col Papa. Lega _santa_ per frenare lo Imperatore. — Andrea contro la patria, tenta Portofino, ed è ributtato. Le cose della lega vanno a rifascio, il Papa si stacca dalla lega, e Andrea va a Civitavecchia; rimandato a combattere la flotta spagnuola la disperde nel mare ligure. Di un tratto il Papa si scosta da capo dalla lega, e si accorda col Colonna e col Moncada; il Borbone non mena buoni gli accordi. — Sacco di Roma. — Potere temporale del Papa minacciato dall'Austria, difeso dalla Inghilterra. Andrea da capo al soldo della Francia, e da capo contro la patria sua. — Dopo varie fortune piglia Genova; dissuade il re Francesco a metterci doge Cesare Fregoso, e ci va governatore Teodoro Triulzio. — Piglia moglie. — Suoi amori. — Sua parsimonia. — Codicilli singolari del suo testamento. Se noi scrivessimo le storie dei popoli faremmo chiari i lettori come causa perpetua di discordia prima, e poi di tracollo negli stati fossero i nobili, o quelli che, per eccesso di censo appartandosi dalla uguaglianza civile, intesero soverchiare altrui con la potenza come con gli averi. I politici antichi, ed anco dei moderni parecchi, reputarono ottimo governo quello, che va composto di un mescolo, dove la democrazia, la monarchia e l'aristocrazia entrano in parti uguali: opinione che per più ponderato consiglio a me sembra piuttosto in apparenza che in sostanza prudente, imperciocchè veruno dei tre ordini stia mai al segno, bensì uno si adoperi a superare perpetuamente l'altro, da prima con leggi, più tardi con le insidie, all'ultimo con le violenze. I democratici fiorentini, invece di estirpare i grandi, gli esclusero dai magistrati; non tolsero già i privilegi per tutti, al contrario, per via degli ordinamenti di giustizia, ed altre di questa maniera provvisioni, ne istituirono molti, ed odiosi in danno di loro, con offese continue li condussero alla disperazione, sicchè quante volte i grandi poterono farlo si legarono con la tirannide domestica, o forestiera, per ripigliare il sopravvento sul popolo; finalmente, accostandosi ai Medici, nel ridurre il popolo e sè in ceppi, reputarono refrigerio, e non fu nè manco vendetta, la comune servitù. Non so se altrove, ma qui in Italia corre per la bocca della gente un proverbio rivelatore dell'animo dei padri nostri, e pur troppo eziandio del nostro, il quale è questo: male comune, mezzo gaudio. Parve, e pare tuttavia bello a noi Italiani cavarci gli occhi, a patto che gli avversarii nostri abbiano a rimanere orbi. Per converso i Veneziani raccolsero la somma del governo nei patrizii, e nè manco in tutti, ma studiarono diligentissimi che il popolo avesse sicure due cose: pane e giustizia; procedendo in questo, meglio dei Fiorentini, avvisati assai; pure anche lì coll'andare del tempo cotesto sentirsi governato a guisa di mandra, comecchè con amore, rincrebbe al popolo, che, capitatogli il destro, un giorno pensando abbattere solo i patrizii, atterrò loro e lo Stato. La esperienza ammaestra come la macchina governativa, al pari di ogni altra, quanto più la ordinerai semplice, e più tu proverai perfetta, sicchè ti risponderà meglio quanto meno ci metterai dentro disuguaglianze, oltre quelle che induce la natura, voglio dire di giovani feroci, e di vecchi prudenti, d'improbi e di probi, d'ingegnosi e di ottusi. Ad ogni modo, innanzi che i governi semplici tornino graditi alla universalità, e' ci ha da correre un bel tratto; intanto la lite flagrante, e la fortuna alterna della democrazia e della aristocrazia, mantengono il campo delle offese e dei rancori, donde agli spiriti cupidi si offre abilità di rimestare le faccende per modo, che conseguano lo scopo dei volgari ma utili appetiti. Nel tempo in cui sono giunto ragionando di Andrea Doria gli ufficii ripartivansi a Genova fra popolo e patrizii con questa ragione, che ai nobili ne toccavano i due terzi, un terzo al popolo: i voti per vincere i partiti si contavano alla medesima stregua. Il popolo pertanto chiedeva riforma, e dirittamente, conciossiachè essendo egli troppo più copioso in numero dei nobili, ne accadeva, che mentre questi quasi tutti esercitavano le magistrature, pochi di lui si trovassero ad averle; allora taluni fra i più savi senatori proposero la riforma in consiglio, ma i nobili superando co' due terzi dei voti respinsero il partito, e ne menarono baldoria secondo il solito dei corpi deliberanti cui pare averla spuntata allorchè vincono con le fave, quando, se prudenti, arieno a tenere la lingua in palazzo, e le orecchie in piazza: e come i tempi erano più feroci dei nostri, alla ingiustizia aggiunsero la prepotenza, facendo fabbricare certe lame di pugnale col motto incisovi su _castiga villano_, quasi per far capire al popolo di scancío, che, se la legge gli pareva oscura, gliela avrebbero chiosata i patrizii a suono di coltello. Il popolo, che da un pezzo bolliva, dette di fuori gridando: _addosso ai nobili_; e trovati per via un Visconte Doria ed un altro pure della medesima stirpe, gli ammazzò di botto: allora e' fu un bacchio baleno levarsi dal fianco il pugnale _castiga villano_, e più che baleno scendere a patti. Il popolo dopo la vittoria non crebbe pretensioni; i patrizii, di superbi divenuti umili, meravigliavano, o piuttosto ne facevano le viste, come mai avessero potuto reputare esorbitante ieri, quanto conoscevano oggi, non pure giusto, ma discreto, onde concessero di leggieri, che la misura dei voti e degli ufficii si rovesciasse; vale a dire, che dove prima i patrizii delle cariche e dei voti avevano i due terzi, e il terzo il popolo, da ora in poi i due terzi spetterebbero al popolo, il terzo ai patrizii. Per ordinario nei rivolgimenti politici si viene agli accordi, quando questi non hanno virtù di accordare più nulla. La potestà che cede diventa a un punto screditata e vile; il popolo che sforza insolentisce, però che la temperanza, di cui fa prova nei primi bollori, non derivi già da cuore nella sua grandezza pacato come quella di Scipione, bensì da un certo peritarsi, ch'egli, sempre uso a toccarne, prova nello adoperare la vittoria, che presto perde. Così dopo questi patti il popolo non si astenne dalle offese nella persona, e negli averi dei nobili, le quali traboccarono indi a poco per modo che i nobili, paurosi di peggio, tolsero uscire dalla città, riducendosi la più parte di loro a vivere in Savona. Intanto il popolo si sbracciava a raccogliere in sè la somma del governo, e non rinveniva il bandolo: odiava il Senato, ma al punto stesso lo riveriva così, che non gli bastò l'animo di levarlo di mezzo; creò all'opposto il Tribunato per contrastarlo; e due poteri principi, di facoltà indeterminate, uno protervo per la fresca vittoria, l'altro iracondo per la patita sconfitta, inabissavano le Stato. I Tribuni fra tanto arrolarono 2500 fanti, i quali, a seconda dei voleri del popolo, spedirono nella riviera di levante per torre le castella a Gianluigi Fiesco; e gliele tolsero; tornati a casa mulinavano imprese maggiori a danno degli altri nobili, che inaspriti dalle offese vecchie, e disperati per le nuove, si adoperarono a tutt'uomo per tirare il re di Francia dalla loro, e con parole accese lo andavano serpentando dicendogli: Genova stare in bilico per uscirgli di mano dove non provvedesse presto, e forte: appetirla lo Imperatore, aocchiarla il Papa, se non per tenerla, per appianarsi la via allo acquisto del Milanese tanto agognato da lui: entrambi questi due potenti sarebbero venuti a capo della plebe piaggiandola; egli dovrebbe prevenire il pericolo opprimendola. Questi maneggi sortivano effetti contrari dei presagiti, chè il Re spaventato si mise a procedere col calzare di piombo, e volendo condurre il buono per la pace, comandava nobili e plebe si accordassero fra loro le terre prese restituendo, la riforma approvassero, e gli uni agli altri le offese si rimettessero. Non si comandano le paci; e poichè la plebe prevaleva a quei giorni, Tarlatino da Castello, condottiero preso al soldo della repubblica, si restrinse con lei; anzi per gratificarsela vie più si profferse parato a conquistare Monaco: pretesto della guerra era la recuperazione dei diritti sopra cotesta rocca, che si asserivano usurpati dai Giustiniani; causa vera stiantare il nido nel quale i nobili solevano rifugiarsi, dove potere, come da luogo sicuro, tendere insidie a Genova. Per la quale cosa i nobili vedendosi con grande stringimento di cuore in procinto di rimanere privi di cotesto fidissimo asilo nei casi di fortuna, tennero consulta assieme per sovvenirlo, ed avendo richiesto Andrea del suo parere, questi rispose: andando a Nizza egli, dopo considerate diligentemente le forze del popolo, essere venuto nel parere che contro cotesto sforzo non si potesse fare riparo, là dove non si accorresse gagliardi alle difese: tre partiti, per suo avviso, profferirsi adesso ad aiutare Monaco con frutto: in prima il soccorso dei Francesi, ma questo, oltre al comparire lento, si sarebbe rinvenuto altresì interessato; il secondo consisteva nel mettere insieme danaro del proprio, e con questo fatta massa di gente difenderlo alla scoperta; per ultimo avrebbe per avventura giovato richiamare a Genova Ottaviano Fregoso in buona vista del popolo, ed usando il benefizio del tempo attendere a guadagnarsi coi denari e con le promesse qualche capo della plebe, indebolendo per via di scismi la parte contraria. Dei tre partiti piacque l'ultimo come quello che non metteva la mano sopra la borsa. Andrea andò a conferirne con Ottaviano a Bologna, il quale si pigliò assai lestamente il carico di acconciare le faccende, ma la plebe avendolo tolto in suspicione non lo volle nè manco vedere, ond'egli trattenutosi, non senza timore e pericolo grandi, tre giorni in Genova, se ne tornò sconclusionato a Bologna. Allora i nobili da capo a muovere ressa al Re, che fare co' propri danari, come forse appariva più sicuro, e certo era più generoso, così tornava più ostico di tutti: ai legati patrizii tennero dietro i plebei; udironsi i primi, i secondi no, i quali trovarono chiuse non solo le orecchie del Re, ma perfino le porte del palazzo regale: atroce insulto, e meritato, e questo accadeva perchè il re di Francia essendosi a cagione della morte di Filippo re di Castiglia sciolto da ogni ritegno, pensò fare a meno della moderazione: abito importuno a cui costuma produrre la propria volontà per legge; ed oramai deliberato a mettere mano nelle faccende di Genova si accostava ai patrizii, tiranni, quando possono, per conto proprio, quando non possono, aiutatori della tirannide altrui. Il popolo offeso pei reietti oratori, e infellonito pei minacci contro di lui, prorompe di un tratto negl'impeti maravigliosi: di colta si arrampica sul Castelletto e sul Castellaccio, li piglia, e ne caccia malconcio il presidio francese: poi si elegge a doge Paolo da Novi tintore, e sceglie bene, secondo il solito, quando non gli corrompono con la calunnia la mente e con la pecunia il cuore. Qui non ha luogo raccontare quello che Paolo operasse; basti sapere, che operò molto e retto; vinse, fu vinto, in ultimo tradito da un Corsetto, che lo vendè ottocento scudi al re di Francia, il quale da Pisa fece trasportarlo a Genova, e quivi decapitare e squartare. Il capo di lui, prima passeggiato confitto su di una picca, poi messo dentro una gabbia attaccata al ballatoio della torre dogale, insegnamento non nuovo, e replicato anco dopo, e sempre invano, di quello che si acquista a rincrescere ai re per gratificarsi i popoli. Nè la finiva qui; qualche ventina di popolani al capestro, a un Giustiniani si dava della scure sul capo, e ciò per privilegio del patriziato: così a quei tempi il boia dispensava, o confermava la patente della nobiltà, e forse in qualche lato in Europa continua anco adesso. Gli ordini dello Stato si rimettevano come prima, anzi secondo il consueto con qualche giunterella in peggio; la città (per non distinguere gli amici dagli avversarii) multavasi in trecentomila ducati: la moneta eziandio da ora in poi doveva coniarsi con lo stemma di Francia. Fin qui le providenze per aggiustare i conti del passato; venivano poi quelle del futuro; ed erano, che, oltre il Castelletto e il Castellaccio, i Genovesi, per mettersi nella bocca sfrenata una briglia con le proprie mani, fabbricassero la fortezza del _Faro_, volgarmente detta la _Briglia_, e tale veramente fu, imperciocchè assai duro morso l'avessero a provare i Genovesi. Così, ed anche questa è storia vecchia in Italia, una setta avendo, per dominare su l'altra, chiamato lo aiuto straniero, rimangono entrambe ridotte in servitù. Stringevasi intanto la lega di Cambraia, dove quel Giulio II, che gode presso il volgo ignorante fama di nemico pertinace ad ogni straniera dominazione in Italia, confederavasi con Francia ed Austria ai danni dei Veneziani; nè con quelle solo, ma per isgarare meglio la prova, con Ungheria, Spagna, Savoia, Mantova, e Ferrara altresì. La storia che, registrando i fatti mal si accomoda a piaggerie antiche nè a moderne, dichiara che, come papa Giulio non rifuggiva dallo spartire la Italia con lo straniero per istrappare a Venezia Ravenna, Cesena, Cervia, Faenza, Rimini ed Imola, così il duca di Savoia si accontava col Papa, e gli altri ai danni d'Italia per aspollare il regno di Cipro[2]. Durarono i collegati uniti, come suole, finchè non ispogliarono: spogliato che ebbero tornarono nemici. Il Papa un dì più acceso di tutti a collegarsi con la Francia, adesso voltandogli faccia, tempesta avvampato a cacciarla d'Italia, e smania per restituire Milano agli Sforza, e liberare Genova dalla dominazione straniera: agli ossequi succedono le ingiurie ed anco plebee, dacchè il Cristianissimo non si trattenesse da chiamare addirittura papa Giulio _briacone_: di vero costui del bere si compiaceva più, che non convenga, non dirò al Vicario di Cristo, bensì a qualsivoglia uomo dabbene. Le prime batoste toccarono al Papa sicchè s'ei ne sbuffasse non è da dire: la guerra temporale rinterzando con la Spirituale, egli scomunica il re di Francia; questi non potendo scomunicarlo, a sua posta se ne richiama al Concilio, e lo Imperatore assentendo, lo convoca a Pisa; il Pontefice per contrapposto ne intima un altro in san Giovanni Laterano, i cardinali tragiogati pei lembi della porpora non sanno a quale partito più sicuro appigliarsi. Intanto per la memorabile rotta di Ravenna le fortune del Papa parevano spacciate, ma così sperimentiamo incerti i giudizii umani che per questo appunto tornarono a germogliare più vigorose di prima, imperciocchè per la morte di Gastone di Foà, strenuissimo condottiero dei Francesi, spento in cotesta battaglia, e per le contese del cardinale Sanseverino e la Palissa circa il comando dello esercito, da un lato la prosperità francese illanguidiva, mentre dall'altro ai disastri egli riparava irrequieto tirandosi in campo gli Svizzeri con molta pecunia e con infinite speranze. In questa Giampagolo Baglioni, rinforzato di gente, calava giù nel Veronese pel Trentino, e tale appariva in vista, che alla Palissa non sovvenne migliore disegno di quello, che mettere il Po fra mezzo a sè ed ai suoi nemici. Il Papa sembrava che da qualche tempo si fosse risovvenuto, ch'era sua patria Genova, e sè nato di parte popolare; però col dirsi parziale alla democrazia, collo accogliere in corte gli emuli della Francia, da una parte sbracciando promesse grandi, dall'altra consentendo che anco i maggiori se ne pigliassero, in somma con le arti tutte dei Principi quando hanno bisogno del popolo, fomentava a Genova novità in danno della Francia, e siccome non manca mai chi si lasci ire all'amo per buona natura, ed anco per trista, dacchè la voglia di essere pescato inuzzolisce in alcuni, quanto in altri quella di pescare, un Giovanni Interriano ed un Domenico di San Piero tramarono insidie al Governo del Re, e con mal pro di entrambi, che scoperti di corto, il primo, perchè nobile, morì di scure, al secondo, plebeo, bastò il capestro: adesso poi, soffiando il vento in filo di ruota, messe da banda le frodi, si adoperava la forza. Giano Fregoso, con piccola mano di fanti e di cavalli, forse seicento in tutti, se pure ci arrivavano, s'indirizza con celeri passi a Genova, e quanti gli occorrevano per via gli si cacciavano dietro o partigiani suoi, o vaghi di garbugli: giunto in vista della città mandava arditamente un trombetto al Senato, intimandogli che riponesse il governo in mano al Fregoso. Il Senato tentennava, il Vicario del Re tempestava, e se togli la smania di volere impiccato il trombetto e subito, nè manco egli sapeva che si facesse. Il Senato, secondo l'ordinario di tutti i Senati, non patì che il trombetto s'impiccasse, perchè le cose della Lega pigliavano buona piega, e neppure chinò a riporre il governo nelle mani al Fregoso, perchè le fortune del Re potevano risorgere; tenne la via mezzana, e rimandò il trombetto con la risposta, che trattandosi di materia gravissima, si sarebbe costituito il solito magistrato per consultarci sopra; e con questa conclusione si partirono soddisfatti come se avessero salvato la patria. Ma il tratto alla bilancia lo diede sempre, secondo il solito, non il consultare dei Padri, bensì il tumulto, e per questa volta nè manco cittadinesco, bensì straniero: chè gli Svizzeri, lasciati dal vicario del re a custodia del palazzo, dubitando, che se il Fregoso entrava in città per isforzo di armi sarebbero stati messi a pezzi, vennero a patto con lui, e gli aprirono le porte: poi procedendo più oltre gli offersero in compra la fede e il sangue loro, ed egli comprò fede e sangue svizzeri tutto a taccio pel prezzo di dodicimila ducati. Queste cose facevano gli Svizzeri allora, e tuttavia fanno e reggonsi a repubblica, sicchè, loro mercede, dubitano parecchi che sotto veruna forma di reggimento la stirpe umana possa condursi a vivere in pace e in dignità. Giano Fregoso eletto doge creò in quel torno Andrea Doria prefetto dell'armata, capitano di terra che era stato fin lì; egli contava allora quarantasei anni, e sarà sempre mirabile, quanto di onore per Andrea, pensare come in età così avanzata mutasse abito di milizia riuscendo a salire per le faccende marinaresche in fama due cotanti più gloriosa, che nelle terrestri. Ora il Doge, attendendo ad assodarsi nel principato, deliberò espugnare le fortezze: del Castelletto venne a capo in breve un po' per virtù di palle e molto di scudi: dicono, il Castellano dopo alquanto di mostra di difesa per parere, lo rendesse mediante lo ingoffo di dodicimila ducati. Osso più duro a rodere presentava la _Briglia_, che, fabbricata su di una roccia, si teneva soggetta Genova: da tre parti la circuiva il mare; a tramontana stava attaccata al lembo di una rupe irta di scogli: volerla superare a forza di arme compariva folle al pari che vano; si disposero a vincerla con la fame. Niccolò Doria, capitano generale del naviglio di Genova, la vigilava solertissimo dalla parte del mare, impedendo che veruna nave venuta di Provenza scivolasse a soccorrerla; ma il re di Francia, che a ragione faceva assegnamento grande sopra cotesto valido arnese di guerra, statuì ad ogni modo sovvenirla. Allestita segretamente a questo scopo una grossa nave, la commise alla condotta di un audacissimo provenzale, di cui la storia a torto tace il nome, al quale bastò l'animo, finta bandiera, di attraversare con essa l'armata genovese e girsene a rifornire la fortezza di munizioni così da guerra come da bocca. La salvò l'audacia, e nulla eccetto l'audacia poteva salvarla; lasciata facilmente passare, la nave accennò volere con diritto corso andare a surgere in porto, quando di un tratto girato il timone, tra il fulminare delle artiglierie dei nemici, tardi accorti dello inganno, si aggrappava agli scogli sottostanti alla fortezza. Per questo fatto la città venne a sentire inestimabile angustia, però che non le paresse essere libera se non le si toglieva quel calcio di gola. Allora Andrea, raccolta una squadra di uomini usi a mettere allo sbaraglio la vita, e scelto altresì tra molti un legno sparvierato, di cui, come si legge, era padrone Emanuele Cavallo, si accinse a rinnovare uno di quei gesti, i quali, soperchiando l'ordinario ardimento degli uomini, soglionsi chiamare eroici; e siccome prevedeva, che molti sarebbero stati i morti, così prima di entrare nella mischia egli ordinò ad alcuni fidatissimi suoi, che li buttassero in mare, affinchè i superstiti non si sbigottissero. Munito di provvedimenti siffatti, e secondandolo il vento, si spinse a piene vele contro la nave nemica, epperò proprio sotto le batterie dei Francesi; non curato lo sfolgorare dei cannoni e dei moschetti, all'improvviso diè volta cacciandosi tra la nave e la fortezza; giunto a un pelo dagli scogli dove la nave stava raccomandata, la uncina, e con supremo sforzo la tira alla spiaggia di San Piero di Arena. Molti pur troppo, secondo il presagio di Andrea, si ebbero a lamentare morti, e per poco stette ch'ei non rimanesse fra questi, percosso malamente da una scheggia nel petto, e fu ventura, che a forma degli ordini suoi non lo gittassero via, imperciocchè lunga pezza lo tennero ito, nè ripigliò i sensi prima, che il gesto fosse stato interamente condotto a fine. Siccome Emanuele Cavallo prese il comando della nave subito dopo il caso avvenuto al Doria, impedendo che l'audacissima impresa sinistrasse, così non mancarono storici, che tutto il merito attribuissero a lui; e poichè la gloria non sia cosa, la quale per largirsi ad uno si deva togliere all'altro, giustizia vuole, che il Cavallo popolano e il Doria patrizio si abbiano a giudicare in virtù di cotesto fatto parimente gloriosi. E fu in simile congiuntura che accadde l'altra prova del giovane Benedetto Giustiniano, il quale, avendo avvertito come il capitano della nave nemica tuffatosi in mare tentasse sottrarsi notando, egli, spiccato un salto dal ponte, gli si cacciò dietro con tanta furia, che di corto ghermitolo pel collo, se lo trasse dietro prigione. Audace e pertinace sangue è il ligure e in onta ai tempi e agli uomini non passò secolo, che non ne porgesse buona testimonianza; Colombo, i Doria, Spinola, Balilla, Pittamuli, Garibaldi e gl'imperterriti che lo seguitarono sopra la terra sicula, più oscuri di lui, non però meno benemeriti della patria, sono manifestazioni diverse di un medesimo spirito; tra questi metto Giuseppe Mazzini indomato cultore di libertà: oggi il volgo di ogni maniera, ma più il patrizio, gli bandisce la croce addosso; non importa, e' muterà in breve; dove non mutasse, la verità è una, ed io detto, libero, liberissime storie, non pagato diarii, infamia del secolo. La lunga vita di Andrea Doria comparisce quasi un filo della trama storica del secolo decimosesto, nè si potrebbe raccontare utilmente là dove non si desse contezza dei fatti ai quali s'innesta, se non che, favellando dei casi dell'uomo, a noi conviene mutare le parti facendo servire la storia d'Italia come di filo nella trama della vita del Doria. Laonde qui si accenna come Francia, acerbamente comportando vedersi sbassata in Italia, si accorda negoziando con la Spagna e con la Svizzera comprando; con Venezia mette pratica: la morte, che taglia a mezzo nella gola di Giulio II il grido: _fuori i barbari!_ cui egli ci aveva altra volta chiamato, ne agevola i disegni, e, poi che in questo modo ebbe ammannito il terreno, manda Giangiacomo Trivulzio, e la Tremoglia a riconquistare le terre perdute. E' sembra, almanco per lo sperimento che ne abbiamo fatto fin qui, come la fortuna ordinasse, si possano i Francesi di leggieri allargarsi nella Italia, ma a patto ch'essi devano con pari agevolezza abbandonarla. Ormai al duca di Milano non avanzava altra terra, eccetto Novara, di funesta memoria, pel tradimento svizzero ai danni di Lodovico suo padre. Adesso il medesimo luogo, i medesimi Svizzeri, da un lato, i medesimi Francesi dall'altro, empivano l'animo dello Sforza di trepidazione; quello dei regii di baldanza: anzi la Tremoglia assicurava spacciatamente il re, avrebbe fatto prigione il figliuolo, per lo appunto colà dove tredici anni prima avevano preso il padre. Per queste vicende gli umori non quietavano a Genova, ma era da credersi che non avrebbono rotto, se i fratelli del Doge, sospettando di Girolamo Fiesco, non lo avessero ammazzato alla traditora; quale l'animo dei Fieschi e dei consorti Adorni per questo omicidio non importa dire; accorsero alle castella loro, e, cavatane la gente alla rinfusa, si avventarono contro il Doge. I Genovesi non si mossero; Fregosi, Fieschi e Adorni acciuffaronsi; quegli rimase vinto, questi, vincitori, entrarono in città; e i Genovesi sempre stettero a vedere, imperciocchè avessero preso in uggia per la mala signoria, e pel truce omicidio, i Fregoso, e dagli Adorni e Fregosi come parziali della Francia aborrissero. Niccolò Doria capitano generale e Andrea prefetto del porto, considerando che il serbarsi interi sul mare approdava alla patria molto, e moltissimo a loro, scansata la flotta regia, si ridussero con le galere della Repubblica alla Spezia, aspettando gli eventi; i quali oltre alla aspettazione loro riuscirono prosperi, imperciocchè paia che, come ai polsi, così avvenga alle coscienze degli uomini, voglio dire sieno intermittenti: di vero quei dessi Svizzeri che tradirono il padre, ora combattono ferocissimamente pel figliuolo. La fortuna di Francia giacque sui campi di Novara, e al maresciallo Triulzio, combattendo per gli stranieri, toccò l'onta della disfatta nei poderi paterni della Riotta. Gl'Italiani non ricordano battaglia più micidiale, nè i Francesi ne soffersero mai più vergognosa di questa: i morti sommarono a dodicimila, altri affermano più; gittarono via le armi per paura; non uno dei fuggenti francesi valicò la Sesia conservata la spada. Questa vicenda alterna di disdette e di fortune pare che la Provvidenza mandi a tutti i popoli, perchè si ricordino che a veruno è concesso farsi perpetuamente oppressore dell'altro; ma la lezione frutta poco con tutti, massime co' Francesi, che, felici, non ci pensano, infelici sì, ma allora non giova. Quanto a civiltà ci consumiamo troppo ad esaltarla con le parole, perchè ci rimanga animo di praticarla coi fatti. Per questi rivolgimenti le cose degli Adorni e dei Fieschi declinando, tornarono a rifiorire quelle dei Fregosi e dei Doria. La lega mise Ottaviano Fregoso doge a Genova, ma escluse Giano perchè esoso all'universale. Taluni storici affermarono Ottaviano generosissimo uomo, altri gli danno taccia di sospettoso; tuttavia maggiori riscontri ci persuadono la bontà di lui, ed anco la tradizione li conferma; e poi il sospetto negli uomini di Stato non si può reputare vizio: fatto sta, ch'egli da prima prepose Giano al governo di Savona, ma ragguagliato poi come costui, inuzzolito dell'antico comando, tentasse ridurre tirannicamente le cose della città in sue mani per suscitare tumulti a Genova (e si dice altresì, ch'ei venisse in cognizione di certa pratica tra Giano, gli Adorni e i Fieschi ordita ai danni suoi), ordinò lo sostenessero; se non che egli che stava su l'avvisato, avendone preso fumo, salito subito sopra un brigantino, si salvò. Adesso il Papa e i principi cristiani volsero la mente a tal fatto, che avrebbe dovuto restarsi sempre in cima dei loro pensieri, e questo era la pirateria con la quale i Turchi, condottisi ad abitare le coste dell'Affrica, avevano reso il Mediterraneo infame, peggio che non è una selva infestata da assassini, e nabissavano le sponde disertando i paesi, le sostanze arraffando e gli abitatori promiscuamente: onde, dopo parecchie pratiche, trovatisi all'ultimo d'accordo, impresero la guerra dei pirati con diciotto galee, nove del Papa, di Genova e di Francia, e nove fornite da privati, e ne commisero il comando a Federigo Fregoso, arcivescovo di Palermo, fratello del Doge: coll'Arcivescovo andò Andrea. Donde accadde che, mentre il grosso dell'armata condotto dal Fregoso non faceva frutto o poco, imperciocchè dalla scorreria su le coste dell'Affrica in fuori non ne ritrassero altro, che il ricupero di qualche schiavo e di un corpo di galera predato l'anno antecedente ai Genovesi, Andrea con una squadra staccata proseguendo con ardore pari la gloria e il guadagno, pigliò ai pirati due galeotte e quattro brigantini. L'arcivescovo, punto da invidia, allora si adoperò perchè il Senato togliesse al Doria l'ufficio di prefetto del porto, nè questo venendogli fatto di conseguire, egli lo licenziò dalla condotta delle sue galee; ma gli amici di Andrea, operando in essi l'amicizia ad un punto e l'accerto del buon negozio, misero insieme danari, co' quali comperarono quattro galere per Andrea, ed egli n'empì due di schiavi, onde chiamaronsi _forzate_, e due di gente proffertasi a soldo; da ciò il nome di _buona voglia_, che, entrato come sostantivo nella lingua con diversa significazione, indica, che se uomo non è galeotto, ci manca poco. Il Senato poi, non solo confermava Andrea nello ufficio di prefetto del porto, ma pigliava altresì al suo servizio le quattro galee del Doria, assegnandogli stipendio sottilissimo, con facoltà di sopperire al mancamento corseggiando, e s'intendeva contro ai Turchi, ma se veramente fossero sempre Turchi coloro che Andrea e gli altri Genovesi predarono prima o poi, od anche in quei medesimi tempi, la è una faccenda seria a chiarirsi, nè forse eglino stessi l'arieno potuto, così di colta, deciferare. In questo medesimo anno, che fu il 1517, Andrea s'illustrò con nuovo gesto, il quale con volenteroso animo esporrò. Spazzando egli il mare con tre galere pervenne all'isoletta di Giannutri, dove avendo sorpreso tre fuste turche, di leggieri se ne impadronì: udito al tempo stesso dai prigioni come Gad'alì si andasse aggirando per le acque côrse con otto fuste ed una galea presa a Paolo Vettori ammiraglio di Lione X, succeduto papa a Giulio II, tornò a Genova, dove aggiunte alle quattro due galere governate da uomini di _buona voglia_, che la Repubblica li licenziò, si mise su le peste del Turco, e lo colse intorno alla Pianosa. Andrea sul punto d'ingaggiare battaglia si trovò con solo due galere delle proprie, però che le altre due soggette ai comandi di Filippino Doria si fossero messe a rimorchiare quelle della Repubblica, che guidate da gente nuova vogavano languido, e nondimanco con risoluto spirito si cacciò in mezzo allo sbaraglio. Se gli fosse mestieri adoperare virtù, non importa che io dica: per maggior disdetta fin dal principio della zuffa un colpo di archibugio lo colse nel braccio sinistro recandogli così acerbo dolore, che già stava per ritirarsi dal ponte, quando buttato via il bracciale e fasciatasi la ferita si sentì abile a combattere; ma comecchè lo facesse assai gagliardamente, tuttavolta troppo inferiore di forze durava fatica a difendersi: quanto a vincere egli era disperato, e la galea accanto a lui balenava come se non si potesse più sostenere. Filippino, visto lo stremo in cui si versava Andrea, lasciate indietro le galee della Repubblica, si abbriva con voga arrancata nel mezzo rinfrescando la mischia; però questo rinforzo, come bastevole a bilanciare le forze, non bastava per vincere; all'ultimo, avendo potuto pigliare parte alla fazione le due galere arretrate, la vittoria si dichiarò per Andrea, ma fu sanguinosa; dei nove legni turchi sette rimasero presi: due salvaronsi. Gad'alì cadde prigione; e si ricorda come quattrocento Genovesi e più vi rimanessero spenti. Se togli l'onore, che veramente per Andrea fu grandissimo, quanto a guadagno questa volta l'andò proprio fra corsaro e pirata, perchè dagli scafi in fuori non ci corse altro benefizio. Continuando a rinterzare la vita di Andrea Doria con la storia della sua patria, anzi con quella della intera Europa, a me non fa mestieri discorrere quali e quante occorressero cause di emulazione, o piuttosto di odio tra Francesco I re di Francia e lo imperatore Carlo V; basti bene questo, che, finchè vissero, attesero ad osteggiarsi tirando pei capelli nella funesta contesa ora questo, ora quell'altro, e sovente tutti i popoli della Europa in cotesti tempi reputata civile. Per tanto lo Imperatore, attendendo adesso ad abbassare la possanza di Francia in Italia, coloriva con onesta causa il disegno, intimando: il ducato di Milano a Francesco I Sforza si restituisse; e come senza venire al paragone dell'arme prevedeva non ci sarebbe riuscito, così conobbe tornargli di suprema importanza mettere un piede nella Liguria, massime in Genova per soccorrere le cose del Ducato dalla parte del mare, e come questa città, quantunque affrancata dal giogo francese, non paresse punto disposta di tirarsene addosso uno spagnuolo, egli s'ingegnò da prima coglierla alla sprovvista, e se non riuscì, la città n'ebbe obbligo alla buona guardia che Ottaviano Fregoso ci faceva d'attorno; e per allora si rimase; ma nell'anno che venne dopo, e fu il 1522, essendo prevalse le armi imperiali in Italia, mercè la sconfitta che i Francesi rilevarono alla Bicocca, riarse in Cesare la cupidità di avere Genova, tempestandogli intorno gli Adorni proffertisi nella rea opera servi agli stranieri a patto di dominare sopra i cittadini. Fermata tra loro la impresa, i capitani cesarei mossero ai danni della Repubblica con tutto il peso delle armi imperiali, e volle andarci anco Francesco Sforza per dare maggiore reputazione alla cosa: accampati sotto Genova, e disposte le artiglierie, i supremi capitani Colonna e Pescara mandarono dentro un trombetto ad intimare la resa, magnificando come si suole la potenza di Cesare da un lato, e dall'altro deprimendo quella della Repubblica. L'arcivescovo Federico fratello al Doge, col pastorale nella manca e la spada ignuda nella destra, imperversava non si avesse ad accordare, bensì resistere finchè il fiato durasse. Più modesto Ottaviano chiamava i padri a consulta; dove il ventilare dei partiti protraendosi oltre la pazienza dei capitani imperiali, che sicuri del vincere si mostravano tracotanti, questi cominciarono a trarre con le artiglierie contro il bastione di Pietra minuta. Gli storici biasimando l'avventatezza di Federico danno lode di mansuetudine ad Ottaviano, e che questi fosse più onesto uomo del suo fratello non sembra che si possa negare; può darsi eziandio che il primo fosse spinto a procedere così acceso per causa interessata, ed il secondo da pretta generosità; non per questo l'opera di Ottaviano giudico deva anteporsi a quella di Federico, imperciocchè nelle consulte, massime nei momenti di pericoli, noi vediamo ordinariamente prevalere i partiti animosi, i quali pure come i più magnanimi riescono a prova i più sicuri. La quale cosa se accade da per tutto con maggiore frequenza che non si vorrebbe, non la scatta mai nelle città dove prevalgono uomini dediti alla mercatura, dei quali intento di vita essendo il guadagno, sembra loro che dove questo si arresti, cessino ad un punto le cause del vivere. Ed anche merita considerazione quest'altro che i conforti alle difese dell'arcivescovo si appoggiavano sopra plausibile fondamento, sapendosi come nella Provenza stessero sul salpare navigli in soccorso di Genova, e Claudio di Longavilla in procinto di calare dalle Alpi avrebbe costretto a sollecita ritirata i capitani cesarei, se pure non volessero perire affamati in mezzo a coteste balze della Liguria. Un po' per disposizione propria, e un po' per lo schiamazzo delle turbe, la Signoria vinse il partito degli accordi; i quali, o per emulazione o per infingimento convenuto fra loro, il Colonna accolse ed approvò, respinse il Pescara, cui averla a forza riusciva più accetto, onde ordinava si tirasse innanzi e si ammanissero le scale. Pigliarono Genova gli Spagnuoli soli, ma la saccheggiarono Italiani, Spagnuoli e Tedeschi: vi si commisero le solite nefandità; ma i Genovesi, e questo dico a gloria di loro, secondo il solito non se ne dimenticarono, ed ogni volta che n'ebbero il destro si riscattarono. Lasciate dire chi vuole, la vendetta delle ingiurie recate alla patria è cosa santa; le offese fatte a voi, uomo, perdonate sempre; quelle a voi cittadino, non mai. Ottaviano Fregoso avendo la coscienza netta giudicò bassezza cansarsi, ma la coscienza non basta contro il maltalento; i nemici, fattolo prigione, mandaronlo ad Ischia, ove indi a poco periva: l'Arcivescovo suo fratello, in compagnia di parecchi gentiluomini, salì sopra le quattro galee di Andrea covigliandosi a Monaco, e quinci con molte ed onorate condizioni (e ci sarebbe andato per nulla) si condusse agli stipendii di Francia, per trovare, come disse, occasione di vendicare la patria mandata fellonescamente a sacco dagli Spagnuoli. Poco dopo che da Andrea fu lasciato Monaco, vi accadde una tragedia nella quale si afferma, che egli pigliasse parte non piccola; e si ricava da questo. Sopra cotesto scoglio regnava Luciano Grimaldi, che lo aveva usurpato ammazzando a tradimento il fratello Giovanni, e la moglie e la figliuola di lui cacciando in esilio, e poi se lo tenne in santa pace andandogli a verso ogni cosa, lieto com'era di buona ed onesta moglie e di due figliuoli maschi Onorato e Francesco, sicchè Dio e gli uomini sembrava gli avessero rimesso il delitto: anzi aveva perfino tentato di ottenerne la quitanza espressa dal cielo, o a meglio dire dai sacerdoti, fondando il Convento di Carnolese, e sottoponendosi a tutto, tranne la restituzione del retaggio usurpato, e non gli valse; imperciocchè Tommaso Shidonio, meritamente oggi riverito per santo, gli disse sul viso, che ci voleva altro che conventi per espiare il fratricidio; se gli premeva la grazia di Dio incominciasse a placarne lo sdegno col rendere la roba rubata alla nipote. Luciano non gli dette retta, e siccome continuò a svolgersi per lui gioconda la vita, così ebbe a credere che il santo uomo non fosse, secondochè presumevasi, interprete genuino dei decreti di Dio: ma Dio non paga il sabato: in fatti, un dì che stava chiuso in consulta col suo nipote Bartolomeo Doria, dandogli le istruzioni di quanto avesse a procacciare per lui in corte di Francia, questi assalitolo alla sprovvista, lo spense di mala morte. A tanto misfatto non pare si conducesse Bartolomeo a cagione dell'antica nimicizia della casa Doria co' Grimaldi, però che questi assieme co' Fieschi si professassero guelfi, mentre i Doria con gli Spinola si ristrinsero sempre a parte ghibellina, imperciocchè coteste antiche divisioni fossero state sopite da nuove paci, da parentadi e da scambievoli officii; piuttosto sembra che lo tirasse pei capelli la cupidità, potendo chi possedesse cotesto scoglio pigliare occasione ad incremento grandissimo, stante il perpetuo rivolgersi delle cose italiane per le contese del re con lo imperatore. A Bartolomeo fece tronchi i disegni l'ira del popolo, il quale, commosso a pietà alla vista del cadavere di Luciano lacero dalle ferite, lo costrinse a fuggire; indi a poco sopraggiunse Agostino vescovo di Grasse fratello del trafitto, il quale da quel prete ch'era e genovese, da prima considerato come quello che pareva buono a pigliarsi forse ottimo a tenersi, non rese il principato alla nepote: e poi richiesto con pietose supplicazioni di misericordia da Bartolomeo rispose: avere perdonato Gesù ai suoi uccisori, poteva perdonare egli a cui a buon conto non aveva morto altri che il fratello; quando egli si riducesse a casa gli avrebbe restituito la grazia sua. Bartolomeo traditore, fidandosi non essere tradito, si commise nelle mani del vescovo: non andò guari che Bartolomeo disparve, e fu fatta correre la voce che avesse incontrato la morte assaltando il castello di Penna; ma il fatto stava che il dabben prete nei sotterranei del castello lo scannò. Andrea Doria, appena commesso il delitto, comparve con le sue galee alla vista di Monaco per entrarci dentro ad assicurare lo acquisto, ma, presa lingua che la trama era capitata a male, si trasse al largo non si facendo più vedere. Certo, per argomentare la sua complicità al delitto, simile indizio sarebbe poco; ma rimane una lettera donde si ritrae manifesta: però io confesso questa lettera non avere visto, nè lo scrittore, che la rammemora, ne riferisce per disteso il dettato[3]. Ai consiglieri del re di Francia piaceva Andrea che eseguisse, non piacque che consigliasse; difatti giunto ch'ei fu in Corte incominciò a predicare si soccorresse Rodi in quel torno combattuto da Solimano; ciò persuadere non pure il bene della cristianità, ma l'onore di Francia e la voce del sangue altresì, però che la più parte di coloro che tanto virtuosamente si travagliavano alle difese dell'isola, fossero Francesi; pensava averne plauso, ed invece rincrebbe a tutti; ai gentiluomini, come quelli cui talenta talora mostrarsi generosi, ma che altri li conforti ad esserlo e' l'hanno per rimprovero, e lo pigliano in uggia: ai consiglieri, per astio ripugnanti a dare occasione d'ingrandirsi ad uomo nuovo: al Re, che, sprofondato nell'odio contro lo Imperatore, metteva in non cale la cristianità, la Francia e tutto, ma non doveva parere, onde gli recavano molestia inestimabile quegli uomini e quelle cose che contribuivano a scoprirlo. E poi non andò guari che i Francesi ebbero ben altro a pensare che a Rodi, imperciocchè l'ammiraglio Bonnivet respinto dalle Alpi, dava campo al marchese di Pescara, dopo allagato d'imperiali la Provenza, di mettere l'assedio a Marsiglia. Buoni e fortunati furono allora i servizii che Andrea Doria rese alla Francia col munire Marsiglia, e non una volta ma due, attentandosi a navigare fino ad Arles per cavarne provvisioni, non curato, anzi trovato Ugo di Moncada ammiraglio di Cesare che lo seguitava alla lontana, per la quale cosa gl'imperiali dopo quaranta giorni ebbero a partirsi dallo assedio di Marsiglia, che fu difesa strenuamente da Renzo da Ceri di casa Orsini, capitano illustre a quei tempi, e da un Libertà côrso, a cui non ingrati i Francesi posero lapidi, con iscrizioni commemorative la virtù di lui e la riconoscenza loro. Ora accadde, che, mentre Andrea Doria scorrendo su e giù attendeva a spazzare cotesti mari, il principe Filiberto di Oranges, quel desso che più tardi capitano dello assedio sotto Firenze, rimase ucciso alla battaglia della Cavinana, venendo sopra un brigantino di Spagna, o sia che l'aere fosco gli togliesse il vedere o qualche astuzia ci adoperasse Andrea, si trovò in mezzo alle sue galee, dove non valendo difese, questi lo fece prigione a man salva. Il Principe quanto a cortesie, non ebbe niente a desiderare, ma instò invano di essere liberato con la taglia, però che il Doria sotto buona scorta lo spedì al Re, il quale lieto di sì nobile cattura, promise al Doria un presente di quindicimila ducati, che non gli dette mai. Dopo ciò Andrea ridusse in potestà sua Savona, e s'impadronì di Varagine: in seguito, cominciando a imperversare la rea stagione, egli prese consiglio di ripararsi nel porto di Vado, pure stando su lo avviso se la fortuna gli mettesse dinanzi congiuntura di poter far qualche bel tratto; e la fortuna, amica ai solerti, glie la mise in questa maniera. A Don Ugo Moncada parve che conducendo un'armata fornita di tutto punto di diciotto galere spagnuole, avrebbe scapitato non poco di credito se in cotesto anno si fosse ridotto ai porti senza fare, o almeno tentare cosa alcuna di conto: preso lingua come il presidio di Varagine se ne stesse a mala guardia, colà navigando cautamente lo assalse alla sprovvista, e sul primo giungere sbarcò da tremila fanti spagnuoli. Si trovava dentro la terra Giocante Casabianca côrso, soldato vecchio uso a non isbigottirsi per poco, il quale, avendo animato con le parole, e meglio con lo esempio, il presidio a menare francamente le mani, ed il presidio non facendogli difetto, ne successe una molto fiera battaglia. Le galere spagnuole, tiratesi al largo per cagione del mare grosso che le spingeva alla spiaggia, cominciarono a trarre a casaccio empiendo di strepito la marina, non già di terrore la gente: il quale strepito, invece di recare danno al nemico, lo recò a lui, però che portandolo il vento fino a Vado, Andrea ebbe avviso della battaglia, onde sfrenate le galee in un attimo le spinse di furia in mezzo a quelle del Moncada sceme dei soldati: bastava tanto a farlo vincere, e pure lo favorì anco il vento: con facile vittoria ruppe l'armata spagnuola di cui solo tre galere riuscirono a scampare; ma egli alacremente perseguitandole le costrinse a investire sopra la spiaggia di Nizza; e nè anche allora le lasciò in pace, chè, calati subito gli schifi in mare ed empiutili di gente, si mise ad assalirle: senz'altro quelle pure erano spicciate se per caso non passavano di costà certe squadre di cavalleria imperiale, che corsero alla difesa delle galere spingendo i cavalli fin dentro al mare: allora Andrea si trasse indietro, pago di quanto aveva acquistato per cotesta vittoria, la quale rese chiara la prigionia dello ammiraglio Moncada, e di altri moltissimi così capitani come soldati spagnuoli. In questo la Francia, non patendo avere perduto ogni prevalenza in Italia, rovesciava con sinistri presagi giù dalle Alpi nuovi eserciti capitanati dallo stesso re Francesco, che ne rilevò quella fiera battitura di cui vanno piene le carte col nome di battaglia di Pavia, e veramente si avrebbe a dire di Mirabello. Francesco di Francia, caduto nelle mani del Principe di Borbone e del Marchese di Pescara, somministrava ad ognuno di loro vario argomento ad esercitare la propria cupidità: desideravano entrambi tenerlo in Italia, questi per adoperarlo come arnese a procacciarsi il reame di Napoli: quegli per macchinare novità nella Francia; ma il Re desiderava ad ogni costo uscire loro di sotto per moltissime ragioni, che qui non importa discorrere; ed in questo lo secondava il Lanoya vicerè di Milano, che, rinterzatosi col Borbone e col Pescara, tirava al suo interesse: contro il parere del Consiglio di Francia, la madre del Re, cui parevano mille anni cavare il figliuolo dalle mani del Borbone, non rifiniva di rispingere innanzi la pratica, sicchè altro non rimaneva eccetto si accordassero sul modo di mandarla ad esecuzione. I commissari imperiali per avere pegno di non essere assaliti nel trasporto del Re a Barcellona, chiesero le galee francesi si ritirassero ai porti, e quivi stessero disarmate, la quale cosa venne concessa. Allora il Consiglio di Francia mandò al Doria, che, recatosi dentro le sue galee presidio spagnuolo, si unisse all'armata che convogliava il Re a Barcellona. Andrea, rigettato questo partito, ne propose un altro: dessero al Lanoya galee della marina regia: a lui lasciassero le sue con le quali sarebbe ito a mettersi in agguato alle isole Yeres, dove uscendo notte tempo con quattro galee, si mescolerebbe inosservato alla squadra spagnuola, poi di un tratto assalita la capitana alla sprovvista, faceva conto di cavarne il Re a forza di arme; che messo subito sopra una fregata avrebbe trasferito a bordo di una delle galee rimaste indietro, la quale a furia di remi si sarebbe provata di condurlo a salvamento. Parve a tutti troppo zaroso il partito, massime alla madre, la quale temè e non senza ragione, che il figliuolo in cotesto investimento, e pei casi della zuffa notturna, non avesse a capitare male. Andrea, vista la sua profferta scartata, ricusò impiegare in altro modo le sue galee: solo richiesto, e per comando espresso della Francia, promise non molesterebbe gli spagnuoli per via. Cosa naturale è, che, quando due vengono a contrasto di pareri tra loro, uno lodi il suo, e censuri l'altrui; ma oltre il biasimo, intopperà sovente danno quegli che, non pago di tanto, vorrà vituperare l'emulo con le calunnie, od angustiarlo con gli smacchi; e questo fu ciò che avvenne allora in corte di Francia contro il Doria, a cui non si risparmiarono insulti, ed agl'insulti aggiunsero il pregiudizio di ritenergli le paghe. Andrea dall'altra parte non pure astenevasi da fare cosa, che gli gratificasse i ministri del re, ma compiacevasi del contrario, ricusando loro pertinacemente ogni donativo, e spesso lasciandosi sentir dire, che se volevano avere parte nelle prede, andassero seco lui a conquistarle sui mari. Insomma queste gozzaie giunsero a tale, che, presa licenza dalla Francia, egli andò ad accomodarsi con Clemente VII, il quale lo condusse capitano di sei galee, quattro sue e due di Antonio suo parente, assegnandogli, per soldo di tutte, scudi trentacinquemila per anno; non di manco l'armata alla quale venne preposto fu di otto, avendone il Papa aggiunte due altre della Chiesa. Per allora la licenza di Andrea non danneggiò punto la Francia, imperciocchè il Papa con esso lei si legasse e co' Veneziani, per tentare di mettere un po' di freno alla baldanza dello Imperatore, liberando Milano dallo assedio, levando di prigione i figliuoli del Re (dati per pegno della osservanza dei patti stabiliti a Madrid in baratto di lui) e cavandogli di sotto Napoli e Genova con altre più condizioni, le quali non occorre qui riferire. La Lega per avere a capo il Papa si chiamò _Santa_. I confederati, secondo il solito delle leghe, procederono languidi, onde la Spagna potè a suo agio rinforzare il presidio di Genova con 1500 fanti; le flotte loro essendosi riunite si trovarono in tutto sommare a quarantacinque legni. Armero veneziano ne conduceva tredici, Pietro Navarro sedici sottili, ed otto tra galeoni e navi; il Doria otto: allora questi capitani spartironsi la guerra; il Navarro tolse sopra di sè la impresa di Savona, ed, aiutato dagli abitanti, di leggieri se ne impadronì; il Doria e l'Armero occuparono la Spezia e Portofino; donde scorrazzando il mare ad impedire che entrassero vettovaglie in Genova, si confidarono averla per fame. Però considerato come il blocco marittimo assottigliasse sì, ma non togliesse il pane a Genova, scendendo le granaglie giù dalla Lombardia, mandarono a Francesco Maria della Rovere capitano dello esercito della Lega che chiudesse i passi dei gioghi, ma egli, o per inettitudine o per astio contro il Papa, ch'era dei Medici, non li chiuse. Il doge Antoniotto Adorno, vigilando a cessare le querele di ora in ora irrompenti per lo scarso vivere, ordinava si ricuperasse Portofino; nella quale impresa adoperò quattromila veterani e due mila gregari. Andrea, presa lingua del disegno, butta in terra Filippino Doria e Giovambattista Grimaldo con ottocento soldati dei buoni, i quali, fatta massa con gli altri di Filippino Fiesco, preposto al comando di Portofino, non solo bastarono a sostenere lo assalto, ma lo ributtarono, mandando molta di cotesta gente dispersa pei monti dove, peggiore della sanguinosa assai, incontrava la morte per fame. Le dimore cautamente imprudenti del Duca di Urbino operarono sì che Genova in quel punto non si avesse, e, danno troppo maggiore, che Francesco Sforza, non si potendo più oltre sostenere in Milano, capitolasse col Borbone, e il Papa, atterrito per le scorrerie di don Ugo di Moncada e dei Colonna, si levasse dalla Lega accordando con loro. Andrea, per comandamento del Papa levatosi dallo assedio di Genova, si condusse a Civitavecchia. Ma il Papa indi a breve si rinfrancava, imperciocchè in lui non fosse mancamento di prudenza, bensì la troppa timidità ad ora ad ora gli turbasse il giudizio, e con pronti messaggi contrammandava tornasse Andrea nel mare ligure ed impedisse il progredire dell'armata, che si sapeva già mossa da Spagna ai danni della Lega. Difatti in cotesti giorni salpava da Cartagena la flotta imperiale di trentasei galee piena di fanti e di cavalli capitanati da Antonio Lanoya vicerè di Napoli, Ferrante Gonzaga, e Ferrante d'Alarcone, che per fortuna di mare costretta a ricoverarsi in Corsica nel golfo di S. Fiorenzo, adesso con prospero vento veleggiava verso Genova: di tanto fu porto avviso ad Andrea giusto in quel punto in cui si riuniva al Navarro, e formarono insieme diciasette galee. L'Armero aveva preso stanza a Portovenere, e già messo mano a racconciare il naviglio; però gli spedirono tosto raccomandandogli si affrettasse a soccorrergli; ond'egli che animoso era molto, lasciata ogni cosa in asso, accorreva, senonchè il vento e il mare contrari gl'impedivano il cammino. Ad ogni modo il Navarro e Andrea, anco senza questo rinforzo, statuirono ingaggiare la battaglia, sul principio della quale il Navarro, che ebbe lode in quei tempi di pratichissimo nel maneggio delle artiglierie, imbroccò l'albero maestro della capitana nemica, il quale rovinando trasse seco giù il gonfalone dello Impero: cose che, quantunque fortuite, levano mirabilmente in alto le speranze dei combattenti e non mica dei superstiziosi soltanto, bensì degli altri che si sentono meno disposti a farne capitale ad animo tranquillo. Andrea andò a cacciarsi in mezzo a due galee spagnuole, e quivi fulminando alla dirotta una ne sconquassava, l'altra buttò a fondo: trecento uomini vi perirono a un tratto: l'Alarcone scampò come per miracolo aggrappandosi allo schifo; la fortuna parve pigliarsi cura di questo carceriere di Francesco di Francia, perchè tra breve custodisse prigione il Papa Clemente. Dei legni della flotta spagnuola quale più quale meno soffersero tutti, e forse tutti perivano, se prima in grazia della notte, e poi del vento mutato, non si fossero salvi dalla ruina. Quando spuntò l'alba le galee spagnuole si erano dilungate troppo, perchè Andrea e il Navarro potessero perseguitarle con profitto, e la stagione ormai inoltrata persuadeva i naviganti a ridursi stabilmente nei porti. Tuttavolta Andrea ci si fermò poco, imperciocchè Clemente VII, irrequieto nei suoi armeggi, invece di starsi forte su le difese ora che udiva stormire dalla parte di Lamagna nuovo nembo di guerra, e scendere capitano dei lanzichenecchi un Giorgio Frandesberg[4], il quale portava appeso all'arcione della sella nientemeno che una matassa di corde di seta rossa, mescolate con una di oro per impiccarne il Papa e i Cardinali, s'indetta col re di Francia, per natura sempre, ed ora per anni e per isventure oltre il consueto dimesso di spiriti perseveranti, a conquistare Napoli col patto, che mezzo si desse al conte di Valdimonte fratello del duca di Lorena, e mezzo alla Caterina dei Medici, ch'egli avrebbe condotto in moglie, sicchè per parentado venisse ad ordinarsi intero, com'era successo poco prima del reame di Spagna in virtù del matrimonio di Ferdinando con Isabella. Per mandare ad effetto così strano disegno, il Papa levava dai porti le armate della Lega e le spediva a Napoli, però con gli altri anco Andrea, il quale tuttavia non volle partire prima di avere provveduto che lo assedio dalla parte del mare a Genova non si allargasse e continuassero navi a costeggiare lungo le spiagge per impedire ci s'immettessero vettovaglie; dopo questo veleggiò per Civitavecchia, che tocca appena, imbarcava le bande nere con Orazio Baglione rimastone capitano dopo la morte del signor Giovannino de' Medici, e lo stesso conte di Valdimonte per traghettarle nel regno. Dove da prima le cose procederono prosperamente, ed oggimai le forze dei collegati si erano spinte fino sotto la città di Napoli, quando di repente il Papa, o sia che con nuovi spauracchi lo atterrissero, o con insolite speranze i ministri cesarei lo agguindolassero, o coi Francesi s'impermalisse, cessa le paghe a Renzo da Ceri, licenzia i soldati, e si ritira dalla Lega mandando a catafascio ogni cosa. Andrea richiamato a sua posta torna a gettare l'àncora in Civitavecchia. Intanto il duca di Borbone, in apparenza discorde dal Colonna e dal Moncada, in sostanza di concerto con loro, le convenzioni fatte col Papa dichiara reciso non volere osservare. Chi fosse questo duca di Borbone raccontano tutte le storie dei tempi: ribelle si fece al suo re forse per mente torbida, ma grande parte di colpa si vuole attribuire a Luisa di Savoia, che prima con ogni maniera di angustie, sia nella persona, sia negli averi, vessò il duca, poi di un tratto secondo la voltabile indole delle femmine, di lui (comecchè di quarantasei anni attempata) fieramente si accese, e, non potendo tirarlo alle sue voglie, con odio due cotanti più fervido dello amore prese a perseguitarlo da capo. Essendosi il Borbone riparato in corte di Carlo V, questi lo accolse come costumano i principi quando hanno bisogno di qualcheduno, e gli promise prima la Provenza e il Delfinato, quando si pigliassero; poi, per giunta, la propria sorella, vedova del re di Portogallo, in isposa; ma la Provenza e il Delfinato non si poterono pigliare; quanto alla giunta (vo' dire la moglie) non so se l'Imperatore volesse dargli, o se il Borbone si cansasse a pigliare. A tutto questo arrogi, che, essendo il duca di Borbone uomo di alti spiriti, sentiva che per ordinanza di principe non avrebbe ricuperato mai il suo onore, donde lo aveva casso la pubblica coscienza; e quando pure avesse voluto fare inganno a sè stesso, a rompergli la illusione dalla testa sarebbe venuto il fatto del marchese di Villena, il quale, richiesto dallo imperatore fosse contento ospitare il Duca nel proprio palazzo finchè la Corte dimorasse a Toledo, rispose: — quanto piaceva allo imperatore suo signore piacere a lui: però non gli facesse specie, se, appena uscito il duca dal suo palazzo, egli lo avesse dato alle fiamme, però che casa turpe per la presenza di un traditore non fosse più degna di albergare leale cavaliero spagnuolo. Ora parve al Borbone, che a fare rifiorire il suo onore non gli si parasse davanti altra via, eccetto quella di acquistare stato: veramente il silenzio per forza o per corruzione ottenuto non giustifica la colpa; ma in difetto di meglio a molti sembra così: ad ogni modo la bocca muta rincresce meno della lingua esprobatrice. Pertanto il Borbone lasciato il Milanese aocchiava Firenze, ma siccome allora la custodivano cittadini pur dianzi rivendicati in libertà, reputò prudente scansarla; e raccoltosi col Frandesberg mossero di conserva contro Roma. L'assalì; la vinse; ma nello espugnarla rimase morto: il Cellini vantatore narra ch'egli cadde di un colpo tratto per avventura da lui; le sono baie; lo ammazzò un prete con un tiro di falconetto dentro ad un fianco, come prete fu quegli, che nel medesimo tempo spense il principe di Orange a San Desiderio. Il capitano Giona, a richiesta del Duca moribondo, lo coperse col suo mantello perchè i soldati non si smarrissero di animo vedendolo morto; e poi, trattolo fuori delle terre di Roma, da quello sviscerato amico che gli era, gli dette onorevole sepoltura a Gaeta. Certo se uomo visse al mondo infelice, il duca di Borbone fu quegli: perse uno stato antico, e il nuovo non acquistò, da Francesco di Francia aborrito; detestato da Carlo di Austria; ai buoni in odio; dai tristi, che quanto meno possiedono virtù tanto maggiore la fingono, lacerato. E forse la nimicizia aperta dei gentiluomini francesi gli coceva meno del cerimonioso disprezzo degli spagnuoli: in vita gli tinsero in giallo la porta e la soglia del palazzo come in Francia costumavano allora co' traditori; l'acerbo insulto del marchese di Villena ho narrato; ed in morte altresì non ebbe perdono nè tregua. Il Brantôme viaggiando in compagnia di monsignore di Quelus, padre di colui che poi fu mignone di Enrico III, avendo visitato la sua tomba a Gaeta, la trovò negletta e coperta di semplice panno nero senza fregio alcuno, della quale cosa avendo egli chiesta la cagione, quegli che la teneva in custodia gli disse: tale sembrava avesse desiderato il morto, imperciocchè, quando il Cristianissimo lo intimò a restituirgli la spada di Contestabile e le insegne di San Michele, egli rispondesse: quanto a spada non dovergli rendere niente, imperciocchè se la fosse ripresa il dì, che commise al duca di Alanzone la condotta della vanguardia a Valensienne, e rispetto all'ordine di San Michele, lo cercasse a Ciantelle dietro il capezzale del suo letto, e ce lo troverebbe. Il tosone imperiale non volle portare mai. Nè tanto, eppure non era poco, bastò alla miseria di cotesto uomo, che veruna terra si rimase da esecrarlo, anzi fecero a gara Milano e Roma, e soldati non meno che borghesi; nella Lombardia impose balzelli così incomportabili, e così duramente li fece riscotere, che molti con vario genere di morte, presi dalla disperazione, si finirono: di Roma non parlo: colà i nabissamenti barbarici dirimpetto a quelli dello esercito di Sua Maestà apostolica parvero pietosi: intorno agli uomini illustri capitati male, e alle opere loro perdute, basti leggere il Valeriano nel suo libro _Della infelicità dei letterati_. A Cristoforo Marcello, arcivescovo di Corfù, i Bisogni spagnuoli attorsero intorno alla vita una catena di ferro; poi lo sospesero ad un arbore strappandogli ogni giorno un'unghia per fargli palesare il nascondiglio dell'oro che supponevano egli possedesse: morì di fame, di veglia e di dolore; tra il supplizio di lui antico, e quello dello Zima impeciato ed arso modernamente in Brescia dai Tedeschi, quale diversità ci corre? Spagnuoli e Tedeschi allora come ora soldati dello impero austriaco: gravi mali fecero sempre alla Italia gli stranieri di qualunque generazione si fossero; ma i Tedeschi più lunghi. A perdonarli, non basta ch'escano d'Italia; usciti, cominceremo a disporci al perdono; ma se potremo vendicarci sarà anco meglio. La copia della preda fu tanta, che gli stessi Spagnuoli avvezzi alle rapine americane ne rimasero a un punto maravigliati e soddisfatti, sicchè vedendo passare i poveri cittadini male in arnese facevano loro di berretta, ed al danno aggiungendo lo strazio favellavano: — addio veraci padri nostri, che tale noi dobbiamo chiamarvi meglio dei naturali pel bene che ci avete fatto, epperò pregheremo sempre Dio per voi[5]. — Non mancarono nè anco i soldati a credere, o forse lo finsero, perchè ci trovavano il conto, che il Borbone fosse di mala morte rimasto spento a cagione di certo spergiuro; perchè avendo egli messo sopra Milano la taglia di trentamila ducati, giurò che ei ci si trovava costretto per pagare le milizie; e se non lo faceva si contentava fin d'ora che Dio gli mandasse la prima archibugiata del nemico nel capo; la moneta per sè tenne, e l'archibugiata l'ebbe, se non nella testa, nel fianco; ma ciò non fa caso. A questo modo giudicavano i soldati la morte del Duca. Voglia il lettore darmi venia se ho largheggiato in questa faccenda del Borbone, perchè le cose che ho scritte ritrassi con molto studio da libri che ormai non si leggono più se non da pochissimi. La morte del Duca non avvantaggiò punto le cose del Papa, che, rifugiato in Castello Sant'Angiolo, di colta dispose partirsi da Roma e avrebbe fatto bene, ma poi avviluppandosi nelle solite ambagi, o male fidente, ovvero con i suoi nuovi amici intorato, si rimase, e calò ad accordi vergognosi con lo Imperatore. Cotesta parve dovesse essere la ultima ora della potestà temporale dei papi, imperciocchè, quantunque lo Imperatore co' soliti infingimenti, che celebransi parte principale della politica, si sbracciasse a dire, e a far dire, che la presa di Roma era successa senza saputa di lui, e, quello che forse appariva più forte, senza la volontà de' suoi capitani: avrebbe anteposto mille volte perdere al vincere in cotesto modo, e per mostra di dolore ne vestisse gramaglie: anzi, per non lasciare indietro modo alcuno di ipocrisia, decretasse processioni, preghiere solenni, e la esposizione del Sacramento, affinchè il Pontefice ricuperasse la libertà; cosa che senza tante invenie poteva compirsi in un attimo, solo che ne scrivesse un motto a Ferrando d'Alarcone, che lo teneva in custodia per lui: pure da molti e credibili riscontri storici abbiamo come sicuro, fosse suo intendimento, sotto colore di restituire il papato alla sua antica semplicità, torre al Papa la via di ingerirsi mai più nelle faccende di governo: che se cotesto disegno non ebbe esecuzione, ciò avvenne per cause affatto estranee alla sua volontà, di cui principali furono, le minacce di Enrico VIII, che allora vantava il nome di _difensore della fede_, e poco dopo spinse la Inghilterra allo scisma con Roma, e la paura, che, lasciata senza contrasto, la riforma non pigliasse il sopravvento così nel temporale come nello spirituale per tutta Lamagna; e più che altro smosse lo Imperatore la calata del Lautrecco in Italia, il quale procedendo di bene in meglio già si accostava a Bologna, e nondimanco quando inviò frate Angelio suo confessore a Roma, con la commissione di liberare il Papa, lo fece con modi così pieni di ambagi, che assai di leggieri davano ad intendere come ci s'inducesse molestamente, e quanto sarebbe andato lieto di non trovarsi obbedito: onde il Papa, che forse n'ebbe lingua, elesse mettersi in libertà da sè scappando di Castello sotto mentite vesti di ortolano, fidato su le zampe celeri di un cavallo, che gli donò Luigi Gonzaga; per questa guisa riparava a salvamento in Orvieto. Gli storici in generale non riportano, che Andrea in cotesta congiuntura operasse cosa che poco od assai valesse; solo in qualcheduno si trova, che appena egli ebbe odore della mossa del Borbone contro Roma, non mancò di levare i presidii delle galere, e sotto la condotta di Filippino spingerli alla difesa del Papa; senonchè, aggiungesi, tanto assillava gl'imperiali l'agonia del saccheggio, che stracorrendo con passi frettolosi avevano chiuso da per tutto le vie; ond'ebbe Filippino a ripiegarsi, e fu ventura, perchè essendo la sua buona e cappata milizia, ma non bastevole all'uopo, correva risico di rimanere spento senza pro. Dopo questo successo, considerando Andrea come prima che il Papa avesse a rimettersi in fiore da mantenere a' suoi stipendii galere, e' ci sarebbe corso un bel tratto, gli fece intendere che, seguitando il suo esempio, avrebbe riputato spediente accordarsi con Cesare, quantunque questo gli paresse ostico, però che il sacco dato a Genova dagli Spagnuoli non aveva ancora potuto mandar giù: ma il Papa, che tuttavia in prigione, non aveva smesso il vezzo di abbacare novità, gli mandò persona, a posta, che gli dicesse: badasse bene a farlo, che a questo modo egli avrebbe buttato la pietra nel pozzo senza speranza di ripescarla: provvedesse ad accomodarsi a tutti i modi con la Francia. Così il Papa consigliava accesamente, non già per benevolenza che sentisse verso la Francia, bensì perchè temeva che la potenza di Carlo, rimasta sola in Italia, di eccessiva diventasse strabocchevole, e lui senza ritegno facesse trasferire in Ispagna od a Napoli: epperò importava oltre modo a Clemente tenere sempre tesi i suoi archetti per pigliare al varco la occasione di migliore fortuna. Andrea, o per obbedire al Papa, o per cotesta sua ruggine vecchia contro gli Spagnuoli, o per vaghezza di riprovare co' Francesi, o per tutte queste cause insieme, chiuse per allora le orecchie alle profferte dei ministri imperiali, si riacconciò al soldo di Francesco, che lo accolse a braccia quadre assegnandogli di presente scudi trentaseimila all'anno per la condotta di otto galee: conchiusa la pratica, Andrea navigò da Civitavecchia a Savona, la quale teneva tuttavia il Re a sua devozione. Colà non istette guari Andrea, che gli giunse ordine da Lautrecco vedesse mo' di tentare Genova con qualche assalto, mentr'egli gli avrebbe porta una mano dai gioghi: crudo ufficio cotesto; però non sembra che facesse specie ad Andrea, quantunque si trattasse di portare adesso non solo le mani violente contro la patria, bensì affliggerla in mezzo a desolate fortune: di fatto la fame e la peste disertavano a cotesti tempi la Italia, solita accompagnatura dolorosa, non però la più trista, della invasione straniera. Genova poi, oltre la generale diffalta, pativa per giunta i mali del blocco; solo a qualche mercadante, in cui la cupidità del guadagno troppo più poteva della paura del capestro, aliando per coteste spiagge dirupate, riusciva scivolare con alcuna saettia carica di granaglia la quale pagavano un occhio: refrigerio ai ricchi soltanto, e scarso; i poveri languivano un pezzo, poi traballavano per inedia, e cadevano per non rilevarsi più. Andrea, nello approssimarsi a Genova, ebbe avviso come sei grosse navi fossero giunte allora allora a Portofino, cinque cariche di grano, ed una di varia ragione mercanzie, per convogliare le quali il governo aveva spedito sette galee, due del porto, due di Fabrizio Giustiniano, e tre imperiali dell'armata di Sicilia. Andrea in tutta la sua vita che incominciava ad essere troppa, non si era mai visto offerire dalla fortuna occasione più opportuna di questa per avvantaggiare di un tratto con sì lieve pericolo sè e il suo principe: però arrancava velocissimo a Portofino, dove, afferrata appena la spiaggia, buttò in terra milledugento fanti, commettendone il comando a Filippino; e più non volle che scendessero, sia perchè credeva che questi bastassero, sia perchè avendo pochi compagni al pericolo, gli sarebbe toccato a spartire con meno la preda. Il doge Adorno, non so se antivedendo provvedesse prima, ovvero avvisato sovvenisse, rinforzò il presidio di Portofino con ottocento soldati condotti da Agostino Spinola capitano non meno ardito di Filippino Doria, sicchè appena vide comparire la gente di Andrea, con baldanzoso animo le si spinse addosso: da una parte, e dall'altra combatterono con prodezza pari: Agostino prevalse; chè lo rincalzarono il presidio sortito dalla Rocca, e gli uomini del contado calati dai monti, mentre a Filippino non potè sovvenire Andrea respinto dal vento di tramontana, che allo improvviso si mise a imperversare: la gente, parte andò dispersa, parte ci rimase ammazzata: Filippino cadde prigione dello Spinola, il quale avvezzo alla voltabilità della fortuna, massime soldatesca, non gli fece ingiuria, e bene gl'incolse. Bene gl'incolse conciossiachè mentre il Doge tutto lieto menava vanto della riportata vittoria, ecco giungergli avviso, come Cesare Fregoso, figliuolo di Giano, scendesse giù dai gioghi con molta mano di fanti traendo ai danni di Genova; a crescergli lo sgomento gli susurrano dentro gli orecchi il popolo più diverso del mare, in riva al quale ei nasce, per impazienza di miseria, tedio della vecchia signoria e vaghezza della nuova già già balenare: allora il Doge con accesi comandi richiama lo Spinola, come con accesi comandi lo aveva spinto prima; e certo se diligenza bastava a riparare il danno, egli lo avrebbe riparato: però tutte queste cose concitate non potevano accadere senza che la fama se ne spargesse, e come suole le magnificasse, onde ai capitani delle sette galere parve prudente tornarsene a Genova per non rimanerne tagliati fuori, molto più che taluni delle ciurme davano a divedere spiriti inquieti, e come disegnarono fecero; senonchè trovarono la ruina nel partito, che speravano avere ad essere la loro salute, e ne fu colpa il vento, il quale mutatosi da capo concesse abilità al Doria di abbrivarsi loro addosso e catturarli tutti, e con essi le galere, eccetto una sola, e subito dopo con pari agevolezza s'impadronì dei legni carichi di grano e di merci preziose. Ricordano le storie, che, a facilitargli la vittoria, si mise sopra le galere nemiche lo scompiglio, avendo preso parte dei galeotti a gridare: viva la libertà! ed acconigliato i remi; e sarà come la contano: tuttavia, schierando Andrea diciassette galere contro sette, e' sembra che questo solo bastasse a fare smettere ogni pensiero di resistenza, non potendo essere in ogni caso mai valida nè lunga. Il doge Adorno ridotto a questo passo considerava stargli ora su gli occhi il Doria, e il Fregoso in procinto di assaltarlo, quegli con ventitrè galee, contando le nuove conquistate, dalla parte del mare, questi dal lato di terra con gente usa per lungo esercizio alle fazioni di guerra; lui, come tutti i signori vecchi, massime se sfortunati, fastidioso, il popolo oltre il naturale talento, per angustie di fame e per paura di peste, più che mai movitivo[6]: percotevano altresì la mente dei cittadini, e la sua, gli strazii successi di brevi anni addietro quando Genova fu presa di assalto: gli è vero, che quelli commisero gli Spagnuoli e ora si trattava di Francesi, ma nelle mani non occorre differenza di lingua, e tutte arraffano al medesimo modo: inoltre la città a tempi più antichi aveva gustato eziandio le mani francesi di che cosa sapessero: queste le difficoltà del vincere, e comparivano troppe, e pure non erano tutte. Però, non potendo resistere, mandò Vincenzo Pallavicino al Lautrecco, per gli accordi, che glieli concesse presto, e tutti, premendogli forse di trovarsi subito altrove; uno solo si eccettui, e fu quello di rimettere Savona sotto la podestà della Repubblica. Per cui considera attentamente la storia, apparirà questa cosa che sto per esporre degna di nota: il Doge sul punto di risegnare lo ufficio, anzi pure di uscire fuori di patria, attendeva a rimettere le mani addosso a Savona, bruscolo perpetuo negli occhi di Genova: e starà dubbio se ciò deva attribuire con biasimo all'indole sempre procacciante dei Genovesi, o se piuttosto con lode a tenace amore di patria: certo oggi questo amore s'intende diversamente, nè ti acquisterai merito di studioso della prosperità della tua patria togliendola altrui; ma, a quei tempi, s'intendeva così, e sembrava intenderla bene: anche la morale conosce i suoi andazzi. Ma poichè gli affetti si devono giudicare a prova di Etica, epperò non già dal modo di manifestarsi, bensì dalle origini, penso, che Antoniotto Adorno, quando sul punto di andarsene in esilio procurava la emula Savona tornasse nella podestà di Genova, dava alla patria buona testimonianza del suo amore filiale per lei. Il Lautrecco, non giudicando la negata condizione di Savona d'importanza tale da mandare a monte il trattato, commesso prima al Fregoso di ricevere la città a patti, si affrettava a Pavia, e s'ingannò, imperciocchè l'Adorno tenesse fermo, e nella nuova ostinazione si ha da credere, che contribuisse non poco la notizia dello allontanamento del Lautrecco. Allora il Fregoso mandò dietro al Lautrecco per significargli il successo, e richiamarlo, ma questi, ormai non si potendo più fermare, gli spedì in soccorso mille e quattrocento fanti tra svizzeri e francesi, ordinandogli, che aggiunti ai quattrocento, i quali gli aveva di già lasciati, e valendosi altresì dell'opera del Doria, s'industriasse espugnare la città. Cesare, comecchè gli paresse poca gente, pure facendo maggior capitale sopra le difese inferme, che sopra le valide offese, si spinse oltre occupando San Piero di Arena, e poi il convento di San Benigno, dove mise presidio, rimandando l'assalto al giorno dipoi; il quale non riputarono spediente aspettare Agostino Spinola e Sinibaldo Fiesco, che giovandosi del buio della notte, condussero con essoseco le compagnie del palazzo, sorpresero e di leggeri sbarattarono il presidio del Fregoso a San Benigno: sul far del giorno si avventarono giù dal balzo con buona speranza di vittoria; senonchè Cesare, vista la mala parata, si trasse indietro sopra la spiaggia, dove con opportuno consiglio si fece parapetto di due navi, che vi stavano costruendo, e delle barche che in copia avevano tirato fuori dell'acqua sul lido: quivi fermò da prima l'ardore del nemico, poi lo sbigottì con le spesse morti, con le quali come da luogo sicuro lo funestava; per ultimo proruppe fuori ricacciandolo a furia verso la città in cui entrarono assieme tumultuariamente amici e nemici: nel punto stesso il Doria con le galere surgeva nel porto. Il Doge si chiuse in Castelletto; la città si versava in pericolo presentissimo. Allora i deputati della città si fecero a trovare il Fregoso, dal quale accolti benignamente, ottennero dopo la vittoria i medesimi patti proposti prima di combattere: aggiunsero, che trattando con cittadino generoso avrebbono riputato inane e peggio mettere per condizione che le vite e le sostanze dei cittadini si rispettassero; nondimanco per debito di ufficio ce la mettevano: di vero col Fregoso, uomo d'indole magnanima, ne potevano fare a meno. Di lì a breve, intimato il doge Adorno a restituire il Castelletto, ci s'induceva senza farsi di troppo pregare, ottenendogli patti onorati Filippino Doria, il quale, trovandocisi prigioniero, con modestia e zelo lodevoli ci si adoperò. Il Senato, composti in pace cotesti viluppi, con pubblico decreto rese grazie così ai vinti come ai vincitori, perchè, esercitando cristiana carità, si fossero astenuti da funestare la patria con le vendette: furono coteste grazie decretate ed a ragione, imperciocchè dopo la concordia, che è il primo bene il quale possano godere gli Stati, la maggiore benedizione mandata loro da Dio consista nel frenare gli animi da trascorrere ad offese, che rendano gli uni contro gli altri implacabili i cittadini. Cacciato via di Genova un Adorno, egli era come di regola si sostituisse un Fregoso; e Cesare faceva sembiante desiderarlo; Francesco di Francia non si mostrava alieno: dicono, lo dissuadesse Andrea, facendogli toccare con mano come, per cotesta altalena fra le due famiglie emule, le parti in Genova non avrebbono quietato mai: consiglio che il Re giudicava prudente quanto onesto, e che per avventura moveva da un riposto concetto non onesto del pari, ed era, che bisognava sgombrare il terreno di Genova dalle piante degli Adorni e dei Fregosi, se pure si voleva che la pianta Doria vi germogliasse principale. Cesare Fregoso, liberata Genova, ebbe a consegnarla a Teodoro Trivulzio mandatoci governatore dal re Francesco; imperciocchè se dal Doria egli imparò non essere savio confidarla al Fregoso, altri o il suo giudizio gli fece conoscere, che sarebbe stato anco meno porla in balía del Doria: a questo mandò le insegne dell'ordine di San Michele. Se Andrea le avesse care, non so, ma forse è da credersi, conciossiachè gli uomini, fanciulli o adulti, pei balocchi tripudino, e nè per ora sembra ne vogliano smettere il vezzo. Andrea era giunto con gli anni a quella parte della vita in cui il comune degli uomini desidera riposare; ed ai Romani, i quali pur furono tanto operosi, parve, che dopo i sessanta anni entrasse il _senio_, o vogliamo dire il periodo di tempo in cui il cittadino, cessando a mano a mano dallo agitarsi, importa si apparecchi alla quiete suprema; epperò, non che essi biasimassero il ritirarsi a cotesta età indietro dai negozii, lo commendavano come onesto: nel Doria nostro, così doveva procedere in tutto la faccenda diversa, che a sessantuno anno condusse moglie: affermano alcuni, ed hassi a credere, ch'egli segretamente l'avesse sposata avanti, sendo la donna in età pari alla sua; si chiamò Peretta, ed era figlia a Gherardo Usodimare, nobilissima schiatta, e nipote d'Innocenzio VIII; dicono ch'ella fosse molto sufficiente donna, e può darsi; ma di lei non ci avanzano memorie, perchè noi possiamo o negare od affermare con verità cotesta sentenza; se lo universale menasse buona la sentenza di Teofrasto, che giudicò degna di lode la donna, la quale non dà a dire di sè bene nè male, dovremmo predicare ottima la Peretta; forse ella gli recò dote ricca; questo altro poi sappiamo di certo, ch'ella col figliuol suo (essendo rimasta vedova di Alfonso del Carretto marchese di Finale), e con la parentela di casa Cybo, gli fu cagione di scapito negli averi e di pericolo nella vita. La storia generale, nè le scritture, che ci rimangono della vita di Andrea, ricordano i suoi amori; ch'ei non ne avesse ci pare difficile; nè quel continuo esercitarsi di lui nelle armi fa ostacolo, imperciocchè il tumulto dello spirito e il commovimento del corpo, piuttosto che dissuadere, pare che persuadano le cose amatorie: neppure ci condurremo a credere, che gli scrittori ne tacessero per verecondia, dacchè il secolo non fu per niente verecondo, e chiunque dettò la storia di uomini illustri si fece in certo modo debito di raccontare gli affetti del suo eroe, quasi tributo a sensi gentili generatori di opere magnanime: forse Andrea, se non casto, fu cauto; e di vero l'amor suo verso la duchessa di Urbino si ha piuttosto per conghiettura, che per riscontro storico: con maggiore fondamento può credersi, ch'egli amasse una certa Chiara, dacchè nel suo testamento leggo lasciarle il frutto di settanta luoghi delle compre di San Giorgio[7], che le aveva assegnato per lo tempo antecedente, e nel suo quinto codicillo glielo conferma; nè per le stampe si pone il cognome della donna, bensì si surroga co' soliti discreti puntolini. E qui forse non cade inopportuno avvertire, come Andrea si mostrasse, nelle cose sue, piuttosto sottile, che scarso: di questo porge testimonianza il suo testamento in parecchi luoghi; nel primo, dove il Notaio attesta se voglia lasciare qualche elemosina allo Albergo dei Poveri, ed egli riciso risponde: no; nel secondo, quando dichiara essere rimasta una figliuola naturale di Giannettino, e commette al suo erede di maritarla stanziandole di dote _quanto a lui piacerà_; singolare è il terzo, nel quale espone, che gli eredi di Erasmo Doria vantano crediti sopra di lui, ma egli ricorda, che Erasmo ebbe perle per 900 fino a 1200 scudi per vendere, e le vendè di fatti; ma se ne appropriò il ricavato, e poi riscosse paghe di cui non rese mai conto; onde nel sottosopra egli giudica, che gli eredi di Erasmo devano resultare piuttosto debitori, che creditori della sua eredità; per ultimo dichiara, che bene tolse in presto da Cristoforo Pallavicino scudi mille, ma che, avendo commesso al medesimo costruire un Galeone, col quale corseggiando si fecero prede di cui il terzo per patto spettava al Testatore, che non ebbe mai, così anco in questo punto giudica, che, rivedute le ragioni, si troverà in credito, e non in debito. Oltre quelli che ho riferito, degli amori di Andrea Doria non mi è venuto fatto di rinvenire ricordo. CAPITOLO IV. Andrea raccoglie gente in Toscana per aiutare il Lautrecco nella impresa di Napoli. A cagione dei tardi provvedimenti va in Sardegna; e capita male. — Renzo da Ceri e gli altri mettono male biette in corte contro Andrea. — Nobile vittoria navale riportata dal conte Filippino Doria contro la flotta imperiale a Capri. Andrea osserva la fede data agli schiavi di liberarli se si fossero comportati virtuosamente. — Strano mutamento di fortuna nella Francia. — Cause per le quali Andrea lascia le parti di Francia. — Se sia vero che la battaglia di Capri vincessero le fanterie francesi. Insidie dei Barbesì contro la vita del Doria fatte vane dalla sagacia di lui. Colloquio di Andrea col Barbesì a Lerici, e suo prudente discorso. — Il Barbesì tenta sorprendere l'armata di Andrea e non riesce. — Smaniose pratiche per tenere saldo Andrea in devozione di Francia; si fanno più accese, e ci s'intromette anco il Papa il quale tira l'acqua al suo mulino. Ribalderie del Re e dello Imperatore per avvantaggiarsi uno a danno dell'altro. In quanta stima i Francesi tenessero il Doria. Opinione del Guicciardino, che da molto tempo Andrea avesse statuito abbandonare la Francia, del tutto maligna. Conto che facevano gl'Imperiali di Andrea. Condizioni della condotta di Andrea prima stabilite a Milano, poi confermate a Madrid: quali fossero. Andrea inalbera bandiera imperiale. A torto tacciato di tradimento dai Francesi. Giudizio dei Fiorentini intorno questo atto del Doria, e se giusto. Che troppo più uomini che non si vorrebbe appaiano non sai se maggiormente matti, o maggiormente codardi, questa è volgare sentenza, nè meriterebbe che qui si rammentasse, se non ci venisse spinta fuori dal considerare come il Cappelloni scrittore della vita di Andrea, adulando Giovannandrea erede di lui al quale la dedicava, tacque del tutto la impresa infelice della Sardegna, che in quel torno condusse Andrea; e fu pessimo consiglio, imperciocchè con la notizia di quella si chiariscono molte cose, che rimarrebbero oscure, e forse non senza carico dell'uomo, ch'egli intende sollevare al cielo. Movendo il Lautrecco per Napoli, mandava al Doria radunasse le forze marittime del Re in Toscana, e quinci di conserva con l'armata veneta, e le milizie di Lorenzo Orsini, noto nelle storie col nome di Renzo da Ceri, la sua impresa sul mare, ed, occorrendo, in terra sovvenisse. Andrea surse al monte Argentaro, aspettando le milizie francesi per imbarcarle, ma, o che il re di Francia intendesse piuttosto levare rumore per ricuperare i figliuoli, ostaggi di Carlo, che impegnarsi in fortune difficili, od altra più riposta causa lo consigliasse, fatto sta, che le milizie a cotesta parte inviò tardi, e con esso loro i fuorusciti siciliani, i quali, assembrati nei porti di Provenza, smaniavano tornarsene a casa: nè così egli procedeva improvvido, per arte o per colpa, col Doria solo, ma bene anco col Lautrecco, lasciato senza paghe e senza gente inscritta a compimento dell'esercito, avventurarsi in guerre lontane e piene di pericolo. All'ultimo la gente venne, e fu un tremila fanti, non contati i fuorusciti. Andrea, il signor Renzo, e messere Giovanni Moro provveditore dell'armata veneziana, ristrettisi insieme a Livorno, consultavano quello che fosse spediente. L'Orsino mal pratico del mare, e messo su dai fuorusciti siciliani, intollerante d'indugi, tempestava; il Doria, e il Moro, esperti, mettevano innanzi la stagione inoltrata, il navigare accosto alla terra perniciosissimo; co' venti, che durante il verno imperversano nel Mediterraneo, quasi sicuro trovarsi sbattuti sopra le spiaggie; tanto bastare, e tuttavia aggiungersi la diffalta dei viveri, nè sapere donde cavarli: perchè poi, da cotesto apparecchio di forze riuscito invano non pigliasse il nemico incentivo a crescere di baldanza, opinavano si tentasse la Sardegna contigua alla Corsica, portuosa, e di gente amica abbondevole, non meno che di cose al vivere necessarie. L'Orsino e i fuorusciti, quantunque molestamente, piegarono; e appena surti in Sardegna misero assedio intorno a Castello aragonese pensando averlo ad un tratto, e pensarono male, chè alla scioperaggine del Vicerè sopperì la diligenza di un Serra e dei fratelli Manca, sicchè, mentre logoravano tempo e vite in cotesta impresa, si levò un furiosissimo fortunale, che respinse tutto il naviglio, così legni sottili, come galee, tranne una sola, e fu francese, la quale, sbatacchiata dalla furia della tempesta in alto mare, si perse. Poco rileva a noi cercare le cause per cui la impresa capitò male; basti sapere, che l'Orsino, disperato di espugnare Castello aragonese, si volse a Sassari, e lo pigliava; ma gli ozi, gli stravizi, come suole, e l'aere perverso generarono la moría fra i suoi soldati, i quali, alla stregua che smarrivano l'animo, lo crescevano negl'isolani, ormai, per indizii manifesti, prossimi a un pelo di levarsi a furia, quando all'Orsino parve di cansare la mala parata; e forse non era a tempo, se Andrea, accostandosi alla spiaggia, non avesse messo a terra una forte squadra di uomini avvezzi alle fazioni terrestri del pari che alle marittime, e così liberatolo dalle mani di diecimila sardi, che, recintolo attorno, volevano vederne la fine. I capitani da capo si ristrinsero a consulta; e, come suole, quando le cose vanno per la peggio, finirono in contrasti. Il Veneziano diceva: avere avuto il fatto suo; volersi ad ogni modo partire; molto più, che, avendogli la tempesta malconce quattro galee, si era trovato costretto a mandarle pel rattoppo a Livorno, e, come disse, fece, volgendo a dirittura le prore verso la Puglia. Rimasero Andrea, l'Orsino, e monsignore Lange a contrastare fra loro, però che gli ultimi intendessero Andrea andasse a Tunisi, e quinci, rifatte prima le ciurme delle galee, come in luogo amico alla Francia, movesse per la Sicilia. Al Doria pareva, che di questa maniera consigli non potessero capire in cervelli sani, sapendo ben egli, a cagione delle sue correrie, quali e quanti conti tenesse aperti con lui il bey di Tunisi, e ad ogni modo commettere in balía di gente infedele il naviglio di Francia e il proprio repugnava alla sua natura piuttosto sospettosa, che cauta; però rotte le consulte, come capo della flotta fece sapere l'avrebbe incamminata verso la Italia, e quivi, rifornitala di ciurme, condotta a dare spalla a Lautrecco nel regno. L'Orsino, con i Francesi, ed i fuorusciti siciliani, tornarono in Provenza, donde parecchi di loro recatisi a corte, empirono l'animo del Re di accuse contro il Doria, o per maltalento, o per voglia di sgabellare le proprie colpe a carico altrui, o per superbia, che nel signore Renzo da Ceri, fra molte qualità di capitano eccellente, fu, per quanto ce ne tramandarono gli storici, menda capitalissima. Andrea, commesso al comando di sette delle sue galee il conte Filippino Doria, andò con la ottava a Genova; allora dissero, per ragguagliare il Senato dei fatti suoi, e sarà stato, ma i successi futuri diedero a divedere, che molte altre furono le cause di cotesta andata, e la narrazione le chiarirà. Qui ora accade che per noi si abbia a raccontare la famosa battaglia di Capri combattuta non già da Andrea, bensì da Filippino Doria, il quale fu come il braccio destro di lui, e con le sue galee. Le faccende di Francia nel regno di Napoli andavano bene: sarebbero ite anco meglio, se non mancava la pecunia, onde il Lautrecco, per racimolarne un poco, si trattenne nella Puglia a riscuotere la gabella su i montoni, che gittava un cento mila scudi all'anno: quindi, partitosi, si ammanniva allo assedio di Napoli, per condurre a buon fine il quale, avvisò gli ammiragli lo sovvenissero dal mare. Pietro Landi, provveditore dei Veneziani successo al Moro, faceva orecchio di mercante, attendendo a guadagnare Brindisi, ed altri luoghi marittimi nella Puglia, a profitto della Repubblica: vizio irremediabile di ogni Lega, di cui è indole non imparare mai, che col badare troppo a sè, perdono tutti: all'opposto Andrea spedì sollecito Filippino, a cui aggiunse Antonio Doria con un'altra galera. Filippino, gettate le ancore nel golfo di Salerno, stava specolando gli eventi. Il vicerè di Napoli Ugo Moncada, ignaro della ripugnanza del Provveditore veneziano di sovvenire il Lautrecco, ed all'opposto temendo, ch'ei fosse per riunirsi di corto col Doria, importandogli frastornare cotesta congiunzione, deliberò senz'altro assalirlo: a questo scopo, allestiti a Napoli ventidue legni, dei quali sei galee, due galeotte (vi ha chi rammenta anco quattro fuste) e gli altri tra brigantini, fregate e barche, ci mise sopra in buon dato artiglierie, e il fiore degli archibugieri. Sul punto però di movere, stette a un pelo, che la impresa non andasse a monte, imperciocchè saltasse su il Principe di Oranges a pretendere il comando dell'armata, come capitano generale, sostituito al Borbone; gli contrastava, e non senza ragione don Ugo, come quello, che vicerè era, ed ammiraglio; la milizia a sua volta si divise seguitando la parte del Principe, o quella di don Ugo, onde, per aggiustare lo screzio capitato in mal punto, accordaronsi col conferire il comando al marchese del Vasto e al Gobbo Giustiniano. Don Ugo ci volle andare come soldato. Le storie ricordano ci si trovasse Giovanni d'Urbino (quel desso che di umilissimo stato giunto ai primi gradi della milizia, movendo due anni dopo all'assedio di Fiorenza rimase ucciso a Spelle) con seicento Spagnuoli dei vecchi; fosse vaghezza, o debito, ci andarono altresì il capitano Giomo con duecento Tedeschi, Ascanio e Cammillo Colonna, Ettore Fieramosca, e quel capitano Gionas, sviscerato del Borbone, che lui, ferito a morte sotto le mura di Roma, ricoperse del suo mantello. Era intendimento dei capitani imperiali cogliere Filippino alla sprovvista, e Fabrizio Giustiniano, vocato il Gobbo, il quale conosceva quanto valessero i suoi compatriotti, assai gli andava confortando in questo disegno, e ci riusciva se il Moncada che, nonostante il comando in apparenza deposto, pure ordinava le cose a modo suo, non avesse raccolto, per incorarli, capitani e soldati a intempestive commessazioni in Capri, e poi, quasi che i nemici si vincessero con gl'improperii, non si fosse letiziato ad ascoltare certo Consalvo Baretto eremita portoghese, o, come altri dice, spagnuolo, che soldato prima, ed ora renduto a Dio, era in voce di santo, che ne versava a bocca di barile contro i Genovesi, e, facendo crocioni che pigliavano un miglio di paese, profetava andassero franchi: avrebbero riportato vittoria senz'altro ammazzando, ardendo, affondando i nemici e l'armata loro, donde sarebbe uscita la liberazione di Napoli: di tanto stessero sicuri; egli saperlo di certo, averglielo rivelato proprio Dio la notte passata mentre dormiva. Da tutto questo accadde, che il Moncada, invece di sorprendere fu sorpreso, imperciocchè un Biondo Agnese napolitano, incontrata certa galera di Filippino, che andava a macinare grano a capo di Orso, gli porse avviso della procella, che stava per iscoppiargli sopra; di botto il conte Doria si allestiva, e recatosi a bordo certe compagnie guascone (chi afferma duecento, chi trecento fanti), capitanate dai signori di Croy, e di San Remy, sferrò dalla spiaggia, andando contro il nemico: lo scoperse il 28 Maggio verso sera, veleggiante nel golfo di Salerno, e, parendogli troppo più duro scontro che forse non aveva immaginato prima, ricorse agli estremi partiti: quanti Spagnuoli si trovò avere sopra le galere, tanti fece ammanettare: i galeotti, che la più parte barbareschi erano, sciolse, promettendo loro restituirli in libertà se avessero menate le mani virtuosamente in pro suo. A Niccolò Lomellino commise pigliasse due galere (ma questi o perchè male intendesse, o per altra ragione a noi ignota ne pigliò tre) e si allargasse nel mare per avventarsi poi spedito alla riscossa delle galee pericolanti dopo ingaggiata la battaglia. Il Moncada, un cotal poco conquiso al subito aspetto dell'armata nemica, domandava al Gobbo Giustiniano, che si avesse a fare, a cui il Gobbo alquanto acerbo rispose, che a Capri era tempo di consulte, qui di combattere: e così sia, soggiunse il Moncada, e allora cominciò la battaglia, la quale fu combattuta nel felicissimo sito della costa di Malfi detto la Cava, anticamente seno pestano. Però non vuolsi pretermettere, come altri storici non solo tacciano su lo sgomento del Moncada, bensì all'opposto dicano, ch'egli si mise dentro alla battaglia tempestando, nella speranza di ottenere agevole vittoria delle cinque galee rimaste con Filippino. Aveva questi sopra la Capitana un grossissimo pezzo di artiglieria, di quelli che allora chiamavansi _basilischi_, i quali tiravano fino a duecento libbre di palla. Lo sparo di questi incominciò la battaglia con augurio buono, non meno che con profitto notabile pei Genovesi, essendo ricordato come di colta spazzasse via quaranta Spagnuoli col capitano di su la galea del Vicerè, i quali sul cassero con cenni e con voci facevano prova di spavalderia: poi e' fu un trarre continuo di moschetti, ma con poco danno dei Genovesi, che cauti si andavano riparando tra i palvesi; ed all'opposto gravissimo degli Spagnuoli, meno usi alle fazioni di mare, e quasi a tumulto stipati su legni. Se gl'Imperiali, tra cui accorreva pur troppo il fiore della cavalleria italiana, ne arrovellassero non è da dirsi: con furiosi gridi chiedevano battaglia manesca, la quale, appunto perchè essi desideravano, industriavasi di evitare il Doria, e per un tempo ci riuscì; all'ultimo cinque galere nemiche abbordarono tre delle sue: nè virtù, nè furore valsero contro il numero e la prodezza dei cavalieri imperiali, sicchè le galee del Doria balenavano per arrendersi, quando ecco, a golfo lanciato, sopraggiunge il Lomellino con la riserva. Narrano come la galera condotta da lui, chiamata la _Nettuna_, con tanto impeto investisse la Capitana del Moncada, che in un punto stesso gli ruppe l'albero maestro, e gli sfondò la fasciatura; subito dopo (tanto nei petti umani possono l'amore della libertà e l'odio antico) gli schiavi sferrati, parte tuffandosi in mare con le scimitarre strette fra i denti si appressavano, notando, alle galee di Spagna; sul ponte delle quali, arrampicandosi pel sartiame, arrivati, il terrore spargevano e la morte: parte rimasti sopra le galee vibravano fuochi lavorati, e pietre, e ferri, tutto quello insomma che la rabbia per arme ministra. Non mai battaglia fu combattuta più ferocemente di questa, che il pensiero di avere a cedere a mercadanti, ed a schiavi sferrati, metteva in furore quella cerna di cavalieri spagnuoli, tedeschi ed italiani; i ricordi del tempo testimoniano come degli ottocento archibusieri saliti su le navi ne rimanesse in vita solo un cento, e questi tutti feriti; e vi ebbe tale capitano spagnuolo, che mutò fino a sette volte alfiere, essendosi vie via fatti ammazzare con la bandiera in mano: ma i Genovesi appunto la dovevano sgarare a cagione degli schiavi sferrati; però che gli altri fossero uomini di grande e nondimanco ordinaria virtù, guerreggianti da entrambe parti per Francia, o per Ispagna, ma i Mori e i Turchi combattevano per sè, per la libertà, per rivedere la patria, e le carissime cose, che venerata e santa rendono la patria, onde una forza quasi divina ne ingagliardiva le braccia; e fulmini parevano nelle costoro mani i ferri, ed erano. Il Cappelloni, per crescere terrore alla narrazione, afferma come alla ira degli uomini si mescesse quella degli elementi: ma questo altrove non occorre scritto. E perchè più oltre io non dica, narrerò come la Capitana del Moncada combattuta dal destro lato dalla _Nettuna_, e dal manco da un'altra galea chiamata la _Mora_, cigolando affondasse: quella del Gobbo Giustiniani, che appunto da lui si chiamava la _Gobba_, scema di timone, di albero e di tagliamare, aggiravasi intorno a sè, quasi cane che si morda la coda; ardevano le galee del marchese del Vasto e dei Colonna, che soli superstiti fra i compagni furono salvi per cupidità, avendoli palesati uomini di alto affare le armi d'oro. Eccetto due galee tutto il navilio imperiale cadde in potestà di Filippino; anzi, indi a pochi giorni, anco una di queste galee, scampate fuggendo, tornò indietro con bandiere calate, e si arrese a Filippino; la conduceva un marchese Doria napolitano sgomento pel caso avvenuto al capitano dell'altra galea, che il Principe d'Oranges appena ebbe nelle mani fece strozzare per sospetto di tradimento. Non comparendo il vicerè Moncada, si misero a cercarne, e lo trovarono sotto la tolda, morto per ferite tocche nel capo di sasso, e di palla nel braccio. A testimonianza di codesti tempi, ricordo come allora corresse voce quella fine avere meritato il Moncada, perchè primo mise mano al saccheggio degli arredi sacri nella sacrestia di San Pietro dopo la presa di Roma. Vi rimase morto altresì Ettore Fieramosca, fratello di Cesare, quel sì famoso per la sfida di Barletta, il quale non vuolsi equiparare non che confondere con Francesco Ferruccio; però che quegli conducesse a termine fortunato un'opera di valore assai comune negli uomini militari, massime a quei tempi pel commercio con gli Spagnuoli puntigliosissimi; questi consacrò anima e sangue alla libertà di Firenze, forse d'Italia. Con più miserabile ventura ci cadde prigioniero il capitano Gionas, che, guascone essendo, con accesissime istanze fu chiesto dal sire di Croy, e lo ebbe: mandato a Parigi lo condannarono nel capo, perchè i principi, l'amicizia pei loro nemici, quanto più eroica, tanto reputano maggiore delitto. Le storie fra i morti degni di memoria ricordano un Marin Diaz, un Pietro Urias, Giovanni Biscaglino, il Boredo, l'Icardo, Annibale Genaio e Serone spagnuoli, Gaspare di Aquino, Pietro Cardona, il Santa Croce, il Principe di Salerno, il Zambrone e Giovanni di Varra siciliani. Co' rammentati altri mille cessarono la vita. L'esultanze dei Francesi furono infinite, sicchè in quelle prime caldezze non sapevano trovare modo alle lodi nè alle promesse: a Filippino assegnarono non so nemmeno io quante castella nel regno, e pensioni ed entrate che sommarono un tesoro; senonchè dalle parole in fuori non se ne vide altro effetto. Però ci hanno storici, i quali ci raccontano, che Filippino non vestiva di panni diversi, dacchè egli a sua posta facesse provare agli schiavi la verità del proverbio, che dice: passata la festa si leva l'alloro. Quello che Filippino si mulinasse pel capo, adesso ed anco allora, difficile sapere; questo è sicuro, che mandati tutti gli schiavi a Genova, e non poteva fare a meno, senza le ciurme non navigando galee, Andrea tenne puntualmente la promessa di Filippino, imperciocchè donato agli schiavi una galeotta, e con essa una insegna coll'arme dei Doria, gli lasciasse in potestà di tornarsene a casa a patto che, per cotesto viaggio, imbattendosi con legno cristiano, non lo avrebbono molestato, e, ridotti in patria, arso la fusta: questo largamente essi promisero; se poi l'attennero, Dio sa. Dimostra la esperienza queste nostre cose umane non essere mai tanto prossime a pigliare una via diversa, come quando hanno troppo camminato per la via contraria, sebbene la vicenda dal male al bene si operi meno frequente di quella dal bene al male; però Filippo macedonio fece prova non pure di modestia, ma di arguzia grande, quando, annunziategli tre prospere venture, pregò i Numi, che gli mandassero adesso qualche infortunio comportabile. La vittoria di Capri metteva i Francesi in isperanza di fornire tosto la guerra, molto più che, dieci giorni dopo di quella, il Provveditore veneziano conobbe la necessità di mostrare, che per qualche cosa Venezia erasi collegata con la Francia, ond'ei venne a spazzare il Mediterraneo con ventidue galee. All'opposto la vittoria di Capri segnò il termine della prospera fortuna pei Francesi ed il principio dell'avversa. Colpa di ciò lo abbandono, che Andrea Doria fece delle parti di Francia per seguitare quelle di Cesare. Gravi dovevano essere le cause per le quali Andrea, tenace odiatore, di nemico agli Spagnuoli diventò loro ad un tratto compagno, e grandi furono: già vedemmo com'egli in corte di Francia non ci potesse attecchire, e se ci tornò lo fece piuttosto per prova, che per isperanza di metterci radici. Di vero il soldo gli stintignavano sempre, e come tardo così veniva a spizzico per modo che per lui, al quale bisognava fornire le paghe e le panatiche alle ciurme delle galee, questa era una disperazione. Di siffatta sottigliezza francese, o nascesse da impotenza, o piuttosto da mala volontà, ne abbiamo testimonio nelle lettere, che scriveva Teodoro Trivulzio, allora pel re di Francia governatore a Genova, dove si lamenta, che sendo creditore di 20 mesi di pensione, non gli avessero di presente stanziato più di duemila franchi; massime da quella che scrisse l'8 Agosto 1528 a monsignore Montmorency gran maestro di Francia, nella quale dichiara ch'egli: _non saperia fare di questi miracoli de possermi intratener qua con niente_, e minaccia di lasciarne ad altri la prova[8]. Ancora gli stava per la gola avere consegnato il principe di Oranges a Francesco I, donde dopo la promessa di ventimila ducati di premio non aveva potuto cavare nè manco uno scudo; di fatti che questa pure fosse causa di discordia, gli uomini, i quali negoziavano le faccende politiche a quei tempi, lo crederono, e corse voce, che il Re, al fine di torre via cotesta gozzaia gli mandasse in acconto sul finire di giugno 1400 ducati; ma di questo fu niente[9]. Trovo eziandio, che quando il Re fermò la condotta col Doria, oltre il cordone di San Michele gli promise in feudo la terra di Martega in Provenza, e questa promessa pure andò vuota: oltre questi, e forse più potenti di questi furono incentivi pel Doria il sospetto, che ormai sapeva radicato nel cuore del Re sul conto suo, e la ferma deliberazione di promovere Savona a danni di Genova come luogo più prossimo alla Francia, e destro a penetrare nella valle del Po: in fatti a cotesti giorni ingegneri francesi con molta mano di muratori e marraioli si affaticavano intorno a Savona alla scoperta per metterla in termini di buona difesa, ed il Trivulzio, ai Genovesi che ne movevano acerba querela, dava parole, nè forse di più poteva, sebbene oggi per la notizia, che abbiamo delle sue lettere, si conosce come i modi praticati dai Francesi disapprovasse, parendo a lui, che disperare i cittadini di Genova fosse un disservire le cose del Re in Italia[10]: e tuttavia non sembra, che da quello per lui ripreso negli altri, sapesse o astenersi, o impedire egli medesimo, imperciocchè venendo in quel torno il Visconte di Turena per imporre nuove gravezze a Genova, lo lasciò fare, e se non era Andrea, che surse in pieno consiglio a dire, che i cittadini stremati da tante guerre non potevano dare danari, e potendolo non avrebbono voluto, perchè immuni per patto da straordinario sussidio, e perchè male si pretendeva larghezza da quelli, che delle cose promesse si frustravano. Il Turena s'inalberò e forse rimbeccava; più cauto il Trivulzio, esperto degli umori, entrò di mezzo con buone parole, e persuase il Visconte, pel suo meglio, a cansarsi: al quale consiglio questi si attenne incamminandosi verso Firenze con isperanza di migliore costrutto. Ma da veruno documento si possono, per mio avviso, argomentare meglio gli umori della corte di Francia contro Andrea Doria e Genova, come dalla lettera del signor Renzo da Ceri, scritta dall'Aquila il 14 Agosto 1528, però che in essa si dichiari aperto com'egli avesse presagito da un pezzo che il Doria si saria levato dalla devozione del Re, ed ora per rimediare al male proporrebbe Genova si smantellasse, un cento delle famiglie primarie se ne cavassero, e mandassero a Parigi con le donne ed i figliuoli per mostrare, che il Re non istima _quattro mercanti_, e dare esempio _perchè nè essi, nè altri burlassero S. M._ Non facendo questo, Genova si volterà col Doria, e lo Imperatore ci può fare assegnamento sopra fino a 500 mila scudi per valersene nelle guerre d'Italia: non le dando Savona, Genova si può tenere spacciata: e se Sua Maestà la si volesse rendere nelle mani obbediente al pari della più piccola terra di Francia, non avrebbe a fare altro, che ordinarle rifabbricasse a sue spese la fortezza della Lanterna, e toglierle la Corsica, alla quale impresa basterebbe, che l'armata passando per di là buttasse a terra un diecimila picche, e un duemila archibugi e ce ne avanzerebbe; e per ultimo, occupate le fortezze di ponente e di levante, metterci uomini suoi a guardarle, e così prosegue di questo gusto, per modo che Genova in caso di sinistro avrebbe provato più pii a sè un Dragutte, un Barbarossa o quale altro pirata di peggior fama corseggiasse allora pel Mediterraneo, che questo Lorenzo Orsino cavaliere cristiano. Che poi queste male biette partorissero frutto, non è a dubitare; nè lo stesso Re tanto si padroneggiava da sapere simulare lo interno cruccio; anzi, scrivendogli il Doria, non gli rispose nè manco, ed avendogli mandato prima un suo uomo per definire certe faccende, a stento lo accolse alla sua presenza, e gli dette tarda e cattiva spedizione. I Genovesi cui pareva pur troppo di avere a rimanere disfatti, dove, invece di torsi dagli occhi cotesta spina di Savona, la si avesse ad ingrandire, mandarono dodici ambasciatori a Parigi per persuadere il Re a restituirla: avevano per istruzione s'industriassero ottenerla con parole e promesse quanto più larghe sapessero: all'ultimo profferissero comperarla a rate: non si potendo fare a meno, con danari alla mano fino a 40,000 ducati. Il Sigonio afferma, che Andrea ci aggiungesse di suo la renunzia alle paghe, ma non lo trovo altrove, e non ci credo. Il Cappelloni, contemporaneo e segretario di Giovannandrea suo erede, ne tace, e siccome egli piuttostochè storie dettava panegirici, così è da credersi, che lo avrebbe dovuto sapere, e saputo non lo aría omesso di certo. Col Re fu tempo perso, ch'ei s'intorò contro Genova: i cortigiani, come suole, ne lo lodavano, chiamando costanza quella che era ostinazione superba ed ignorante: così i principi si sono visti non concedere mai in tempo graziosi o assennati quello, che poi lasciansi strappare inopportunamente codardi o castroni. La condotta del Doria cessava col mese di Giugno, ed i contratti finiscono legalmente con la decorrenza del termine contemplato; pure egli volle mandarne formale disdetta. In Francia gli uomini più che mai infellonirono per questo, usi come sono a dire empietà, quanto loro non garbi; però chiesero superbamente consegnasse i prigioni; al tempo stesso tentarono la fede di Filippino, il quale rispose col fatto di mandare i prigioni a Genova; Andrea quando gli ebbe nelle mani, pacato chiarì come innanzi tratto non gli paresse giusto chiedergli i prigioni prima di saldarlo delle paghe, e sborsargli il riscatto del Principe di Oranges, ed anco dopo questo non corrergli debito di sorte, imperciocchè le prede, ed il riscatto dei prigioni, per patto della condotta, dovessero andare in pro suo. Il Brantôme che visse in quei tempi alla corte di Francia, ed è testimone credibile, ci racconta come fosse giudicato Andrea avere torto, o almeno ragione per metà, dacchè la battaglia di Capri restasse vinta in virtù delle fanterie francesi. Questa è mera iattanza, dacchè, come fu notato, i fanti non oltrepassarono i 300, e qualcheduno afferma i 200: lo sforzo, bisogna pur dirlo, fecero gli schiavi nella speranza della libertà, la quale ottennero dal Doria con grandissimo scapito delle cose sue. Il Brantôme ci avverte altresì, che il Re, preso dalla collera, prepose capitano generale delle galee il signor di Barbeziù (che altri chiama eziandio Barbesi), uomo, _che non sapeva che fosse un mare, un porto, anzi neppure una galea, nè una fusta_, e gli commise con parole insidiose tranquillare il Doria tanto, che gli venisse nelle mani per potergli _mozzare il capo come fece poco tempo dopo col capitano Giona_. Il Barbeziù sferrava dai porti di Provenza con dodici galee fornite di fanti eletti, e se avesse voluto poteva con tante forze combattere a viso aperto: ma questo non gli garbava: preferì adoperare la lancia con la quale giostrò Giuda, ma nè anco questa gli valse, chè Andrea fu uomo, come volgarmente si dice, da bosco e da riviera; e dopo avere vinto in giovanezza i tranelli di un Borgia, non era tale da rimanere da vecchio nelle panie francesi: infatti, subodorata la cosa per la diligenza di Giovambattista Lasagna fermatosi in Parigi a sollecitare le faccende di Savona, Andrea si mise in nave coi prigioni, con una cerna di soldati vecchi, vettovaglie ed armi, ed entrato nel castello di Lerici, dopo averlo con ogni cura munito, si buttò infermo; prima però aveva mandato con celere corso una fregata al conte Filippino perchè l'ultimo giorno di Giugno, senza pure trattenersi un minuto, venisse via da Napoli a furia di remi, ed alla Spezia si riducesse. Il Barbeziù navigando giunse a Villafranca, dove trovata una galea del Doria in riparazione si astenne da toccarla, nella speranza, che cotesta sua mansuetudine avrebbe gettato polvere negli occhi al genovese Doria: onde, quando surto a Genova conobbe come l'uccello da parecchio tempo erasi tirato al largo, non è da dire s'ei facesse greppo: pertanto ei non si sgomentava, e spediva un barone di San Blancato a Lerici per pregare Andrea, che fosse contento di condursi a Genova, volendo negoziare con esso lui cose di grandissima importanza. Rispondeva Andrea, lo avrebbe già fatto e Dio sa con quale cuore; la maladetta infermità trattenerlo; gli fosse cortese il Barbeziù di andarlo a trovare fino a Lerici. Per qualunque uomo, che se ne intendesse, tanto avrebbe dovuto bastare; ma al Barbeziù, che si teneva per furbo, non bastò; venne a Lerici, dove, sempre filando sottile, mandava a invitare Andrea andasse a trovarlo su la Capitana, e Andrea da capo: se la malaugurata infermità gli avesse conceduto balía di movere passo, si sarebbe tratto fino a Genova per onorare come doveva l'ammiraglio del Cristianissimo, ma la sua malattia essere di qualità da non lasciargli forza di levare il fianco di letto: insomma, se il Barbeziù lo volle vedere, gli fu mestieri andarlo a trovare a casa. Introdotto ch'ei fu in camera al Doria, di promesse gliene fece un subbisso, a cui Andrea, cauto com'era nel dire, rispose con prudentissimo discorso: — contro ogni mio buon volere la mia sorte vuole, ch'io mi parta dal servizio di S. M. essendo più presto state esaudite, e credute le false parole di altri servitori, che le mie buone e vere opere, e mi persuadeva ancora, che non solamente dovessi essere soddisfatto di quello che mi era dovuto, ma di potere ottenere una grazia tanto giusta e pia, com'era quella di restituire Genova nel primiero suo stato, e torle via cotesto pruno dagli occhi di Savona, e poichè dell'una cosa e dell'altra ebbi ripetuta e pertinace repulsa, mi è parso di non fare più lunga esperienza del mio servizio: finchè starò in mio potere mi guarderò bene di operare cosa, che torni in pregiudizio di S. M., quando poi mi sarò accomodato con altri farò il debito secondochè richiederà l'onor mio[11]. — Non ci fu verso cavarne altro; il Barbeziù uscendo notò come gli artiglieri con le miccie accese vigilassero intorno alle bombarde, donde conobbe che a continuare gli artificii era tempo perso; però disegnava avacciarsi per le acque di Napoli nella speranza, che la fortuna gli parasse dinanzi la occasione di sorprendere le galee di Filippino: ma anco qui rimase presto tolto d'inganno, perchè costeggiando la Liguria vide un'armata di galee ferma su le ancore e protetta dai cannoni del Tino e del Tinello, che sono forti della Spezia, costruiti a destra e a sinistra su le rupi della imboccatura del golfo. Tirava di lungo per Napoli: con quali concetti, ignoro, ma dal successo dei suoi tranelli avrebbe dovuto giudicare, come vuolsi tenere da poco il capitano, il quale si confida più nello artifizio, che nella virtù; pessimo poi quello, che dalla fraude in fuori non conosce altra arte di guerra. Intanto cominciavano a farsi palesi gl'indizi di prossima ruina nelle fortune di Francia su quel di Napoli. Il Lautrecco aveva già tentato ogni via blanda per trattenere Filippino, e poi le acerbe fino a levargli i remi, e a negargli le vettovaglie; onde questi ebbe ricorso al cardinale Colonna governatore di Gaeta per lo Imperatore, che gli uni e le altre gli provvide. Allora il Lautrecco, presago dei mali, spedì sollecito in Francia Guglielmo di Bellay, perchè se il Re aveva a cuore la impresa di Napoli, tenesse bene edificato il Doria, ma il Re, non riputando il pericolo imminente nè tanto grave, ordinava a Pier Francesco Nocetto conte di Pontremoli, si recasse con diligenza al Doria, e facesse opera di svolgerlo promettendogli ventimila ducati pel riscatto dell'Orange; altri ventimila a saldo delle paghe; dei prigioni di Capri gli pagherebbe la taglia, o lascerebbe ne disponesse a sua posta; ai Genovesi cederebbe Savona. Egli erano pannicelli caldi; tuttavia il Doria per non lo disperare diceva: ci penserebbe su; ma quando fossimo stati in tempo di riparare, il Doria non aveva vissuto sessantadue anni, quanti allora ne contava, per ignorare, che i principi se offesi non perdonano, e se offensori perdonano anco meno, e le promesse larghe senza pegno di mandarle ad esecuzione tornavano a un darti erba trastulla. Il Lautrecco, informato come la pratica non attecchisse, si affannava rafforzarla mettendoci di mezzo il Papa, il quale doveva sodare Andrea del pagamento a giorno fisso con tante tratte sopra mercanti genovesi, sanesi e lucchesi. Il Papa, considerato come il Doria nel 21 Luglio avesse promesso ai Dodici di Balia, non innoverebbe niente contro il Cristianissimo prima che decorressero quindici giorni dal dì dello avviso, il qual termine poi scrivendo nel 6 Agosto al Trivulzio aveva protratto a venti, giudicò poterne cavare partito a suo profitto; onde proponeva: condurrebbe egli stesso il Doria, ma impotente a tollerarne la spesa, vi sopperisse il Re, e diceva per quanto, e giusta la discrezione pretesca dallo intero a quello ch'egli pretendeva la scattava di poco: poi aggiungeva, che, parendogli essere _stato uccellato_ fin lì dai principi, non si fidava a parole, però fino da ora gli consegnassero Cervia e Ravenna. Erano intemperanze a quei tempi, ma così il bisogno stringeva, che sembra gli commettessero di negoziare; invero ei non rimase da fare l'ufficio, che mandò uno dopo l'altro ad Andrea monsignore Jacopo Salviati, Sebastiano da Urbino, e il Sanga suo segretario[12]. Ma o ch'egli secondo il vecchio costume nei propri accorgimenti s'irretisse, o per soverchie ambagi perdesse la opportunità, e non sapesse nè anch'egli in qual modo conchiudere la pratica senza rincrescere a Cesare, e con accerto di guadagno per parte di Francia, o Andrea si schermisse dallo stringere (e questo credo più che tutto), fatto sta, che non si venne a conclusione di nulla. Si ricava eziandio dalle memorie dei tempi, che i Francesi, smaniando adesso per Napoli e pel Doria, commettessero in quel torno due cose fra loro contrarie, e la prima fu di porre in libertà Serrenone, segretario del Doria, sostenuto avanti dal Lautrecco, per cavarne lume dei suoi intendimenti segreti, e certo spagnuolo (se pure merita fede in questo il Guicciardino che lo racconta), il quale, arrestato per via, rinvennero portatore di lettere credenziali del Doria; la seconda di mettere in prigione Gismondo di Este messaggero di facultà grandi dalla parte di Cesare al Principe di Oranges, per acquistare partigiani alle fortune di lui; cattura, che si trova operata da un Giorgio Casale, fermo in Viterbo, presso il Papa, a nome di Francia. Costui non aveva giurisdizione alcuna per questo, e commise atto addirittura ingiurioso al diritto delle genti; tuttavia, scrivendo ad Ambrogio Talenti vescovo di Asti, ed al gran maestro di Francia signore di Montmorency, se ne vantava come di una _santa et bona opera_; ma dalla parte di Cesare, si faceva anco peggio, chè i suoi ministri, lui certo, se non consenziente, almeno consapevole, non si tenevano a imprigionare, ma assassinavano, come successe a Cesare Fregoso, e ad Antonio Rincone ambasciatori del Re di Francia al Gransignore di Costantinopoli. Per ultimo il Lautrecco, onde nulla d'intentato si lasciasse indietro, con maggiori e larghissime offerte, mandava un Giovanni Joachim e un Lionardo Romolo al Doria, e sempre invano, non avvertendo, che due cose animate od inanimate che sieno, quando non possono più stare insieme, più le tentenni, più le stacchi. Forse in questa febbre per mantenersi in devozione il Doria altri crederà, che ci fosse o eccesso di desiderio nei Francesi, o eccesso di piaggeria negli scrittori nel riferirlo: ma gli storici fiorentini, severamente imparziali verso Andrea, dicono espresso, ch'egli accostandosi a Cesare gli _dette vinta l'Italia_. Il Brantôme, in parecchi luoghi, parlando del Doria, afferma come tra i buoni ammiragli dello Imperatore ottimo fosse Andrea, che da prima servì fedelmente il Re, ed in processo con pari affetto lo Imperatore, e forse meglio, però che (egli aggiunge) male può tenere in suo dominio la Italia chi non imperi Genova e il mare; che se il signore Andrea non si fosse dipartito da noi, veruno poteva torci Napoli; ma il Re se lo alienò, e Andrea, ch'era altero, vedendosi straziare, mutò parte, nè dopo il suo commiato ci fu verso, che le cose della marina del Re andassero a segno; e mentre prima con la diligenza e prestanza sue poteva dirsi che Francia fosse quasimente signora del mare, cessò di esserlo, e tanto scadde, che per ultimo, ebbe a ricorrere, costretta, al sultano Solimano: la quale cosa ci fu d'ignominia non piccola, sembrando enorme (come dissero allora) chiamare un cane per disertare un cristiano; invece che prima, quando la guerra andava fra cristiano e cristiano, procedeva in modo meno barbaro. Il Guicciardini assevera, che coteste esitanze di Andrea erano lustre per parere; dacchè per suo avviso Andrea da parecchi mesi avesse fermo di voltare casacca; di ciò egli non riporta prova veruna, anzi dichiara crederlo per conghiettura, ma costui, che tristo era, misurava gli altri col suo passetto, e le sue conghietture il più delle volte sonano calunnie. Oggi rimane chiarito che se il marchese del Vasto e i Colonna con ragionari e profferte efficacissimi eransi industriati persuadere Andrea di lasciare le parti di Francia, a metà di Giugno non l'avevano per anco spuntata: di fatti il 14 di cotesto mese il Principe di Orange, scriveva allo Imperatore: — io per me fermamente credo, che se voi vorrete assicurarlo sul punto di dargli Savona, e su l'altro della libertà di Genova, pagargli il soldo delle sue galee con qualche promessa di alcuno suo vantaggio nel regno, voi lo potrete avere di certo. Voi conoscete, Sire, quale uomo egli sia, ed in quanta necessità ci versiamo adesso. Pertanto vi supplico, Sire, a non rifiutargli cosa, che vi domandi, perchè non vi occorse mai partito, che vi tornasse a taglio come la presente pratica se la si possa condurre a compimento[13]. Pure alla fine Andrea si risolvè: il Sigonio ci fa sapere come questo avvenisse in virtù di certo sogno nel quale gli comparve dinanzi un vecchio venerando che gli disse in latino: — _durum est, Andrea, contra stimulum calcitrare; Cæsarem sequere_. — Io per me all'opposto credo che il Doria stesse sveglio, e con tutti e due gli occhi, quando metteva fine alle sue perplessità. Il marchese del Vasto andò a Milano per accordare con Antonio da Leva a patto di tornare prigione qualunque fosse l'esito del negoziato, il quale però riuscì come si presagiva, breve e felice; allora il 19 di Giugno Andrea spedì il cugino Erasmo Doria, da Lerici a Madrid, con suo mandato a stipulare con lo Imperatore la condotta di cui i patti già erano stati fermi con Antonio da Leva. Condizioni principali di questa condotta appaiono essere, gli sia concesso levare Genova dalla soggezione dei suoi nemici e porla in libertà sua, affinchè si regga a forma di repubblica, reintegrandola in tutto il suo dominio, massime della terra di Savona, e Carlo sottoscrive piacergli, che così si faccia in buona e sicura forma: poi vengono i privilegi mercantili pei Genovesi, gl'indulti ai contumaci contro lo Imperatore, e tutto di leggieri si acconsente; infine i patti circa le galere: i prigioni, sudditi di S. M., Andrea non sia tenuto a liberare: lo farà da sè; bene inteso però, che in cambio dì ogni prigione gli si dia uno schiavo, od un condannato a vita; prepongasi al comando di dodici galee, e gli si paghino di stipendio scudi sessantamila d'oro del sole in rate bimestrali ed anticipate, con malleveria di mercadanti di polso, od in assegni di sua satisfazione _a ciò per mancamento di danaro non sia costretto a mal servire_; il titolo sia di capitano e luogotenente generale di S. M., con preminenza sopra ogni altro legno potesse essergli aggiunto: vuole stanza nel regno di Napoli per sè e suoi con porto atto alle galee: Gaeta piacerebbegli: domanda la tratta di Sicilia, o dalla Puglia di diecimila salme di grano, e palle, e polvere pel bisogno: dovendo fare fazione gli si conceda mettere sopra le galee fino a 50 fanti per ciascheduna a spese di S. M.; supplica che dei benefizi vacanti a Napoli ovvero in Ispagna provvedasi un suo parente fino a 3000 scudi di entrata, e _più secondo il buon volere di S. M._; cominci la condotta il primo Luglio e duri due anni fermi senza potere da una parte dare, nè dall'altra chiedere licenza, salvo che non fosse soddisfatto dei pagamenti, o lo Imperatore si accordasse col Cristianissimo. Consentesi facilmente ogni cosa tranne Gaeta, cui si sostituirà altro luogo di concerto col vicerè di Napoli: per le palle e la polvere si fa un taccio, e le adoperi o no gli si crescono millequattrocento scudi del sole all'anno, e ci pensi egli; circa al benefizio con la entrata di tremila scudi se n'è parlato con messere Erasmo in modo, ch'ei se ne chiamerà contento. La condotta fu segnata a Madrid il due Agosto 1527: appena Erasmo la recò a Genova, Andrea inalberava sopra la sua Capitana il gonfalone imperiale, quel desso, che Filippino aveva conquistato nella nobilissima vittoria di Capri; le insegne dell'ordine di San Michele di Francia aveva rimandato avanti. I Francesi allora ne levarono querimonie infinite, sicchè anco il Brantôme, sottosopra uomo dabbene, non rifuggì da scrivere tre rinnegati avere avuto la Francia: il contestabile di Borbone, Jeronimo Morone, e Andrea Doria: alcuni ci mettono anche il Principe di Oranges, ma a torto, egli dice, conciossiachè la colpa fosse del Re, il quale non si volle servire di lui; nè i Francesi soli lo straziarono allora, ma gl'Italiani altresì, in ispecie fiorentini. Il Varchi ci afferma come la mutazione del Doria accadesse con meraviglia di tutti, e biasimo della maggior parte, e il Re, e gli aderenti suoi lo appellassero traditore e fuggitivo, nè mosso già da carità di patria, cui egli stesso fece schiava, bensì per ingordigia di pecunia e di onori. Il Re poi ne serbò lungamente rancore, onde anco dopo la pace di Cambraia, scrivendo Carlo V al suo segretario delle Barre gli palesava il rovello mostrato da Francesco I contro il Doria, l'Orange, e gli eredi del Borbone. Il Segni, a sua posta, racconta come Luigi Alamanni con esso lui della libertà data a Genova gli ebbe a dire rincrescergli solo, che tanta gloria rimanesse offuscata da un'ombra, volendo accennare alla diserzione dalla bandiera di Francia; a cui dicesi rispondesse Andrea: doversi ringraziare sempre la fortuna quante volte porga occasione di operare alti gesti comecchè con partiti non al tutto laudabili, e lui scusare se non le paghe arretrate, e Savona opposta a Genova, certamente la persuasione, che Francesco non avrebbe mai reso le fortezze, molto meno la libertà alla sua patria. Qui vuolsi notare, che se pongasi mente alla improntitudine dei Francesi, usi a menare strepito, e dire infamia quanto non torni loro a grandissimo comodo, e soprattutto all'angoscia con la quale pativano la perdita del regno, non che quella del fiore dei gentiluomini di Francia, si riputeranno da noi più degni di pietà, che di perdono; e ciò quanto ai contemporanei del fatto; chi venne dopo assunse consigli più miti; e il Voltere, uomo pei giudizi storici tenuto meritamente in pregio anco dall'Hume, afferma con blanda locuzione, che Andrea pei consueti raggiri delle corti si reputò obbligato di mutare bandiera. I Fiorentini poi, oltre alle cause che ci occorrerà discorrere nel corso di questa storia, allo abbandono di Andrea delle parti di Francia (di cui essi mostraronsi in ogni tempo svisceratissimi) non a torto forse attribuivano la prima radice di ogni loro disastro; nella recuperata libertà di Genova ebbero a deplorare più tardi la perdita della libertà di Firenze; ed anco di presente di quelle bande nere, milizia illustre ed unica degna, che a cotesti tempi possedesse la Italia, però che rimanessero involte nella rotta patita dal Lautrecco sotto Napoli, dove giacquero morti il conte Ugo Pepoli capitano, Giovambattista Soderini, e Marco del Nero commissari: nè indi a poi poterono riordinarsi mai più. A vero dire il racconto del Segni mi ha garbo di cotesti favellii, onde gl'ingiuriati sfogano l'animo inacerbito, e che non avrebbono a trovare accoglienza nelle pagine della Storia. Io, per me, ventilate le ragioni pro e contro, penso potere conchiudere: avere avuto facultà il Doria di lasciare le parti di Francia senza un biasimo al mondo, perchè decorso il termine della sua condotta, il quale è pure il modo più naturale per cui le obbligazioni cessano: nè ci era mestieri disdetta, giacchè il giorno interpella per l'uomo, come dicono i legali, e poi la disdetta ei la diede, e se il Cristianissimo non gliela mandò, giudichino i discreti se la colpa stia in cui, ricercato, si astenne da cosa, che non poteva negare, ovvero in colui che, spontaneo, compì l'ufficio al quale non era punto obbligato. Il Guicciardino poi, che afferma (quantunque erroneamente[14]) come il Cristianissimo avesse licenziato Andrea, non si comprende con qual cuore, e rispetto a cuore passi, ma con qual fronte, si ostini ad appuntarlo. Tanto basterebbe per mio avviso a scolparlo, che se ci arrogi Savona accresciuta a detrimento di Genova, gli strazi, i sospetti, le ritenute paghe donde Andrea doveva pure cavare il soldo e le panatiche quotidiane per le ciurme, e per ultimo le insidie mortali, troverai di leggieri, che cause per abbandonare la Francia ei n'ebbe anco troppe. Circa all'accusa appostagli dai Francesi, che Andrea allegasse lo studio della patria libertà per onestare il tradimento, giovi riferire la sentenza del medesimo Varchi poco parziale (e altrove ne ho riferito il perchè) al nostro Doria: — io lascerò che ognuno creda a suo modo, detto che avrò, che avendo il Doria poco appresso (potendosene fare signore) rimesso Genova in libertà, cosa in tutti i tempi rarissima, ed in questi sola, merita che si creda più ai fatti di lui che alle parole degli altri. — Se veramente Andrea restituisse la libertà alla patria, esamineremo più tardi, che grave indagine è quella: basti per ora che così volgarmente fu creduto a cotesti tempi, ed anco ai nostri da parecchi si crede, o si finge, e che le condizioni di Genova da quelle ch'erano, e più minacciavano diventare, egli migliorò. CAPITOLO V. Andrea allestito il naviglio si avvia a Gaeta: mantiene in devozione Sprolunga: rende i prigioni di Capri alle dame napoletane, porta vittovaglie a Napoli traversando l'armata nemica. Morte del Lautrecco. Il marchese di Saluzzo dopo alcuna prova di valore si arrende. Pietro Navarro è strangolato. Il nipote di Consalvo onora di sepoltura Lautrecco e Navarro, e ci pone bellissimi epitaffi. — Elogio del Brantôme al Consalvo, e forse tace il meglio. — Andrea si arricchisce con le prede. Galeoni che fossero. — Condizioni presenti di Genova; accuse vere e false contro i Francesi. Andrea muove a liberare Genova dai Francesi; il Rapallo messo degli Otto con prieghi e con minaccie lo dissuade da farsi avanti; non gli dà retta. Strattagemma col quale l'armata francese, durante la notte, fugge da Genova; la perseguita Andrea e piglia due galee. Nuovi ambasciatori a Pegli per distorlo dal disegno di liberare la patria; al medesimo fine Giovambattista Doria gli occorre a San Pier d'Arena. Viltà antiche e moderne. Famiglia Doria per viltà repudia Andrea per consorto scrivendo al Cristianissimo. Ordine per pigliare Genova. Prodezza di Filippino Doria. Palazzo ducale convertito in Lazzaretto. Si chiamano i cittadini a suono di campana e non vengono. Spedisce per le ville messaggi a convocarli in piazza San Matteo, e vengono, ma pochi; espone loro le cause del suo partirsi dalla Francia, però non le espone tutte. I Genovesi, che prima lo ributtavano, ora piangono di tenerezza; un Fiesco vuole dichiararlo di botto liberatore della patria; i più prudenti lo temperano. Radunasi il Consiglio grande; i Dodici della Riforma confermansi. Provvedonsi armi e danari; Andrea preposto a dare compimento alla libertà della patria. Il Trivulzio chiede gente per reprimere il moto di Genova; le nega il Duca di Urbino; natura di costui; Amerigo da Samminiato, che lo dileggia, fa impiccare. Presa Pavia il Sampolo va al ricupero di Genova; arriva in San Pier di Arena; manda ad intimare la resa; araldo ingannato dallo strattagemma del Gentile. Il Sampolo si ritira senza far danno; i Genovesi procedono acerbi contro i parziali di Francia; due ne impiccano; si apparecchiano allo assalto del Castelletto; il quale reso a patti dal Trivulzio, ruinano; liberano lo Stato. Gavi si arrende, Novi no, ma poi hanno anco questa. Prudenza dei Genovesi di non mettere le città in mano ad amici potenti. Si attende a recuperare Savona; confronto di quanto operarono i Genovesi nel 1528 con quello che fecero i Piemontesi nel 1849; resa di Savona; atterransi le mura e si colma il porto. — Principii del governo di Genova. Consoli. Come abbia origine la disuguaglianza civile. Potestà e Nobili. Il governo oligarchico torna ad essere popolesco. Governi scomposti che succedono; Guelfi e Ghibellini; tirannide dei Doria e degli Spinola. Capitani ed Abati del popolo. Nuovi rivolgimenti che inducono a chiamare l'imperatore Enrico di Lucemburgo paciere; morto lui i Genovesi si danno al re di Napoli e ai duchi di Milano. Il popolo, eletto Simone Boccanegra doge, reprime la insolenza dei nobili, che spogliati di ogni prerogativa, la vanno vie via recuperando, eccetto il dogado, donde rimangono esclusi per decreto solenne. Nobili principali; _tetti appesi_. Famiglie Adorna e Fregosa nimicate per arte dei nobili, che nel torbido usurpano Stati. I Riformatori ordinati da Ottaviano Fregoso non fanno frutto, e perchè. Riforma del 1528 quale. Dicono che lo imperatore Ottone qualche cosa di simile instituisse, e non è vero. Questa riforma lodavano tutti a quei tempi. Corre voce lo Imperatore stimolasse il Doria a farsi signore di Genova, e non è vero; il popolo lo vorrebbe doge a vita, ed ei rifiuta: ricompense pubbliche; statua; censore a vita; festa della Unione instituita che dura fino al 1796. Andrea giudicato dallo Ariosto. Alcuni negano si devano mostrare le azioni umane quali veramente sono, e pretendono si abbiano ad accettare quali compaiono: vanità loro, e ufficio dello storico. Se Andrea provvedesse alla concordia solo o meglio di altrui. Se i partiti giovino alle repubbliche, e come. Popolo escluso dal governo; quali diritti gli conservano. _Confogo_ che fosse. Odio del popolo contro il Doria, che più tardi ne atterra le statue. Nobilume quanto vile. — I nobili vecchi nè anco tutti contenti della riforma. Superbia di nobili vecchi. Il Doria ordinatore della riforma la disprezza. Alberi delle famiglie. Spartizione degli ufficii, che si aveva a smettere, non si smette. — Nobili nuovi male soddisfatti della riforma, e perchè. — Altri errori della riforma descritti. — Merito del Doria nel liberare Genova dai Francesi. — Il Doria rende Genova serva degli Spagnuoli, e se ne adducono prove. — Pensa di pigliare con sue arti gli Spagnuoli, ed è preso. — Misero stato di Genova. — Giudizio dell'Oratore veneto su Genova. — Turpe gara degli oratori genovesi co' ferraresi e sanesi alla incoronazione di Carlo V. — Andrea locandiere, e soprassagliente dei reali di Spagna: lega ai posteri la servitù col suo testamento. — Turpi lodi del Bonfadio. — Andrea non si poteva ad un tratto farsi tiranno della patria, e perchè. — La tirannide mostra i denti con Giannettino figliuolo adottivo di lui. — Caso di Uberto Foglietta. — Parallelo tra Ottaviano Fregoso e Andrea Doria. — Giudizio sul Doria di scrittori moderni. — Elogi, scritture da abbonirsi. — Andrea nemico della libertà di Firenze e di Siena. — Ammazzato Alessandro manda soldati a tener fermo lo Stato. — Difese del Doria non reggono. — Che poteva egli fare per Genova; — che cosa per la Italia e nol fece. — Doria grande capitano, non grande cittadino. Andrea andava mettendo diligentemente in sesto le sue galere, che, alla consueta solerzia, adesso si aggiungeva la voglia di mostrare a Cesare quale e quanto amico avesse guadagnato, a Francesco, perduto; condotta poi la consorte Peretta a Lucca e quivi lasciatala, remigò per Napoli, dove arrivato, gli capitarono messi del cardinale Colonna, i quali gli commettevano: movesse da monte Circello verso Sprolunga per mantenere in devozione gli uomini di cotesta terra, spaventandoli un poco, però che si mostrassero in mal punto restii a fornire le vittovaglie; e riuscì facile impresa, imperciocchè non fosse in loro punto di malvolere, sibbene suggezione del presidio francese; onde, pigliato animo dalla presenza del naviglio imperiale, i terrazzani, respinti i Francesi, acclamarono Andrea, il quale, contenute coteste voci, ordinò salutassero lo Imperatore. Quinci mosse a Gaeta, dove non istette ad aspettarlo Giovanni Caracciolo principe di Melfi, che la teneva assediata: però grandi e festose accoglienze gli fece il Cardinale, esultante nella certezza, che le parti di Cesare prevalessero, e più pel rivedere i congiunti caduti prigioni nella battaglia di Capri; tuttavolta Andrea pregò il Cardinale, fosse contento di lasciarglieli nelle mani tanto ch'ei potesse consegnarli alle dame napolitane ridotte in Ischia; cosa, che di leggieri gli venne annuita: egli allora, caricata prima su le galee e sopra i legni minori copia di farina, si volse ad Ischia per compire la sua cortesia; e se ciò fosse con giubilo delle dame, massime delle parenti e delle mogli dei prigionieri, lo pensi chi legge. Quinci nonostantechè il Principe di Oranges lo ammonisse a badarsi, avendo saputo che gli venivano addosso dodici galee francesi, e sedici veneziane, volle sferrare, e prendere porto a Napoli a loro dispetto: di vero alla vista delle gentildonne, che dalle finestre come in teatro stavano a contemplare lo spettacolo, incominciò con avvolgimenti maestri a badaluccare ora con l'una, ora coll'altra delle galee nemiche a mo' di duello, finchè, scorgendole raccolte tutte in battaglia, schivato lo impari scontro, scivolò nel porto di Napoli conducendo in salvo tutto il carico delle farine. Il Lautrecco sotto Napoli di peste miseramente periva; gli subentrava il Marchese di Saluzzo nel comando ormai pieno di pericolo, scemo di gloria; imperciocchè non presentasse altra speranza, da quella in fuori di ritirarsi senza che andasse a sfragello; ma non gli riuscì, quantunque levasse il campo, nel fitto della notte, secondato da sconcio acquazzone; inseguito con la spada nei reni dagl'Imperiali, gli bastò il cuore di voltare faccia a Nola, rintuzzando co' cavalli di Valerio Orsino, e di Ferrante Gonzaga, la foga dei persecutori; pure prima ebbe rotta la retroguardia, poi la battaglia; con la vanguardia sola attinse Aversa, e qui gli toccò a rendersi. Narrando la vita di Andrea Doria, io comprendo ottimamente come possa parere a taluno, che, accennando così di volo i fatti generali entro cui si incastrano i gesti del nostro eroe, bastasse, e ce ne fosse di troppo, senza andare a discorrere quelli degli altri, e parrà bene; tuttavolta io non valgo a trattenermi di ricordare una opera di personaggio da inclito genitore, inclito discendente. Quando la virtù dalle radici si dirama per l'arbore, s'intende che sia nobiltà, e come un dì si procacciasse reverenza, e come oggi per le ragioni contrarie si procacci ludibrio dalle genti; nè il lettore m'invidii, se, affaticandomi in su questo doloroso deserto, che si chiama storia, qualora mi occorra una sorgente, mi ci fermi, per darne all'anima refrigerio. Nella rotta dello esercito francese, cadde prigione Piero di Navarra, il quale di staffiere del cardinale di Aragona, per la sua virtù, pervenne agli onori supremi; di lui scrissero gli Spagnuoli, che fu uomo d'infinita perizia, e di astutezza unico; nello immaginare mine ed artificii, atti alla espugnazione delle terre, singularissimo; nel maneggio delle artiglierie, primo fra tutti, e nell'arte di condurre gli strattagemmi; giudizio, che, universalmente dai suoi contemporanei ripetuto, i posteri confermarono. Fatto prigioniero dai Francesi nel 1512 alla battaglia di Ravenna, per avarizia del re Ferdinando di Spagna non fu mai riscattato; lo liberò Francesco I, e per siffatto modo stretto dal benefizio, ne seguì la bandiera: ragione per operare questo egli ebbe; il fatto era di bene dodici anni antico, ereditaria la ingiuria a Carlo V, e nondimanco immortale l'odio di lui: onde l'Imperatore, senza ritegno alcuno, ordinava al suo carceriere Riccardo gli mozzasse il capo: ciò parve barbaro al carceriere, molto più, che il Navarro fosse vecchio, e ormai ridotto a pessimi termini di salute; egli per tanto tolse sopra sè di farlo finire, chi dice con la corda per mano del boia, chi soffocandolo co' guanciali; pietà da schiavo, pure pietà. Poco dopo Luigi, nipote di Consalvo appellato gran capitano, principe di Sessa, dava al Navarro ed al Lautrecco nobilissima sepoltura nella sua cappella gentilizia, nella chiesa di Santa Maria nuova di Napoli, ponendo al primo questo epitaffio: — Alla memoria, e alle ossa di Piero Navarro biscaglino, nell'arte arguta di espugnare città chiarissimo, Ferdinando Consalvo, figliuolo di Luigi, nipote al magno Consalvo, principe di Sessa, onestò con lo ufficio del sepolcro un capitano, quantunque seguace delle parti di Francia, chè la virtù induce a reverenza anco il nemico. — Quello del Lautrecco, dettato anch'esso nel sermone latino, suona in quest'altra maniera: — A Odetto di Foa Lautrecco, Ferdinando Consalvo, figlio di Luigi di Cordova, nipote del magno Consalvo. Le ossa di lui, capitano di Francia, come volle fortuna, senza onore giacendo nella cappella avita, il principe spagnolo, memore delle miserie umane, ordinò si ponesse[15]. — Quindi il vecchio Brantôme, gentiluomo davvero, con bella eloquenza esclama: ed ecco un principe degno di laude eccelsa, però che, quantunque nemico, si mosse a fare al suo nemico così onorata e santa cortesia. Ordinariamente gli onesti uffici costumansi tra nemici viventi, più che per altro, per fiducia di compenso se mai uno venisse a cascare nelle mani dell'altro; ma, da vivo a morto, si guadagna poco. Certo si legge: Annibale avere onorato le ceneri di Marcello con urna preziosissima: ancora vedesi spesse fiate i nemici rimandare i corpi dei nemici spenti ai congiunti loro, ed agli amici, affinchè gli seppelliscano: dove poi gli accompagnino con pompe, o associazioni magnifiche, tanto maggiormente saliscono in fama di pii e di cortesi, come appunto fece il Marchese di Pescara con quello del cavaliere Baiardo, ma io vorrei un po' che oltre Luigi Consalvo m'insegnassero un secondo nemico, il quale commettesse così grossa spesa per onorare di sepolcro sontuoso il nemico, affinchè potessi registrarlo qui in memoria perpetua accanto a cotesto cavaliere cortese. Nè per mio avviso il Brantôme ha detto tutto, anzi ha taciuto il meglio, ed è avere osato dare sepoltura ed encomio a tale, che, per comando del suo antico signore, aveva patito morte ignominiosa. Oggi questo non pure non si attenterebbero fare, ma nè anco pensare; e forse erro; l'oserebbe qualcheduno del popolo, nell'anima del quale ribollono vizii e virtù, come gli elementi nei primordii della creazione del mondo, per comporre a posta loro un nuovo mondo politico. Ritorno al Doria. Essendosi Andrea messo a perseguitare le galee dei Francesi, che, sceme di presidio, in atto di fuggiasche si riducevano a Marsiglia, dicono ch'ei ne pigliasse quattro, due a Genova, e due a Varagine, e le mettesse in acconto dei suoi crediti con la Francia, ma non è vero, imperciocchè, essendosegli rotto il timone presso Ostia, perse tempo a restaurarlo, sicchè l'armata francese lo precorse sempre di cinquanta in sessanta miglia; bensì, passando lungo la costa delle Cinque terre, s'impadronì di due galee cariche di grano di un corsale marsigliese; che rimburchiò seco a Portofino; e prima aveva preso un galeone carico di zolfo, ed un altro sopra a Piombino con robe e cavalli; e perchè quale dei lettori lo ignorasse sappia galeoni che fossero, dirò, ch'erano legni di lunghezza pari alle galee, ma altissimi, foderati di grosso legname, con la poppa e la prua ricurve così, che più che di altro offerivano la forma del quarterone della luna; per l'altezza della sponda non andando a remi, lenti incedevano e male si governavano. Mentre che Andrea si avvicina a Genova, per restituirla in istato, che allora parve a molti, ed oggi tuttavia a qualcheduno pare libertà, vuolsi, che da noi si accenni a quali estremi fosse ridotta. Francia, crescendo ogni giorno nel maltalento, favoriva, a suo scapito, Savona; quindi di male in peggio i commerci; la riscossione delle gabelle impedivasi: da un lato aumentavano i bisogni, dall'altro le rendite diminuivano; a tutto questo arrogi la peste, a cui male si sarebbe potuto pigliare rimedio anco in tempi prosperi; adesso non se ne pigliava alcuno. Giambattista Lasagna, oratore della Repubblica presso il Cristianissimo, mandava lettera per torre via ogni speranza di mitigato animo nei consiglieri di Francia, che dicevano ormai risoluti a sostituire Savona a Genova nel principato della Liguria. Correva voce, che il Trivulzio avesse richiesto il Sampolo, capitano dello esercito della lega in Lombardia, di un nerbo di gente per tenere in cervello la città, ed era vero; correva voce altresì, che i Francesi avessero immessa la peste a Genova, e ve la mantenessero per disertarla, ed era falso; e nondimanco questo il volgo patrizio e plebeo credeva più assai di quello, come vuole ignoranza, la quale tanto più facile dà fede alle cose, quanto compaiono più esorbitanti e terribili. Così volgevano gli umori dei cittadini in Genova quando Andrea, con le galee, giunse alla Spezia. Lì primo gli occorse Geronimo Rapallo, uno degli Otto, che, presieduti dal Trivulzio, in nome di Francia reggevano Genova, il quale con parole, a volta a volta blande, od acerbe, lo intimava a volgere le prue, e non attentarsi di scompigliare il pacifico vivere di Genova: guardollo in volto Andrea, e gli rispose ordinando sfrenellassero i remi, e li mettessero in voga, sicchè sul tramonto del sole egli giunse a dare fondo alle ancore tra Carignano e Sarzano. Quinci spedita una fregata per pigliare lingua di quello, che si facesse al molo, questa tornò ad ammonirlo, che le galee francesi stavano rafforzandosi ai ponti della città, ed, a quanto pareva, gran calca agitavasi intorno, per la quale cosa non giudicò prudente tentare al buio la impresa; durante la notte sentì quasi continuo il trarre delle artiglierie, e non sapendo a che cosa attribuire tutta cotesta gazzarra, si tenne fermo; appena mezzo giorno, si spinse oltre, attelando l'armata a guisa di mezza luna tra la punta del molo e la lanterna, ma allora gli si fece palese lo strattagemma nemico, il quale con lo strepito dei cannoni coprendo i fischi dei comiti, il rumore dei remi, e le grida delle ciurme se l'era svignata. Andrea infellonito per aver dato nel bertovello prese a furia di remi a tempestare sul mare; ma le galee francesi avevano tolto troppo campo su lui per potere essere agguantate tutte; ne catturò due, una ad Arenzano, l'altra a Cogoleto; le altre inseguì fino al monastero di Arenò, dove diede volta per non perdere la occasione di liberare la patria. Con quanta ansietà egli vogasse verso Genova può immaginare chi legge; e certo quando, in prossimità di Pegli, gli si fece incontro una galea di quelle che custodivano il porto, per fermo ei tenne che i cittadini mandassero gente a profferirsegli compagni nei pericoli della impresa; invece erano tre ambasciatori, che, in nome della città, lo scongiuravano a porre giù l'anima da tentativo così pernicioso: non gli basterebbero le forze per impadronirsi di Genova; ad ogni modo espugnare il Castelletto non saprebbe, e, con questo sul collo, i cittadini avere a tremare gli ultimi eccidii: starsi accampato a Pavia uno esercito intero potentissimo di Francesi e di Veneziani, il quale si sarebbe mosso a soccorrere Genova se avesse retto ai primi assalti, ed a ricuperarla perduta: se amava la patria davvero si accordasse col Trivulzio, il quale proponeva restituire Savona a Genova, perchè a suo talento la governasse: Genova in perfetto stato di repubblica si componesse, di fuori ei non chiamerebbe gente (e Andrea sapeva per segreto avviso mandatogli dai suoi parziali per mezzo di Giovanni Lasagna, come di già con replicati messi l'avesse chiamata); di tanto dirsi il popolo contento, non pretendesse delle cose il troppo; rovina delle imprese, per ordinario, essere la presunzione dello stravincere. Andrea gli agguardò, non fiatò e diede ordine si tirasse innanzi. Nè finivano qui le tribulazioni, chè a San Piero di Arena ecco occorrergli Giovambattista Doria suo consorte, e fratello a Geronimo, che poi fu cardinale, e Andrea onorava per suo svisceratissimo, a sciorinargli sciolemi atti a gittare la perturbazione nell'animo di già agitato. In ogni tempo vissero tristi, che si rassegnarono a mangiare pane e vergogna, e persuasero gli altri a starsi contenti per paura di peggio, come se la morte non avesse a salutarsi allora liberatrice; in ogni tempo furono mali cristiani, che per non provocare gli oppressori quietarono codardamente, e confortarono gli altri a quietarsi, fosse pure dentro al sepolcro: frenello alle bocche in procinto di prorompere in liberi accenti; ceppo alle mani già pronte a stendersi in liberi atti: sgomentatori degli animosi, calunniatori dei caduti, e poi, secondo che la occasione concede, o soppiantatori o adulatori dei fortunati. Vissero, e vivono, e, intanto che speriamo eglino abbiano a cessare, noi li vediamo moltiplicare strabocchevolmente, conforme è natura di tutte le cose cattive. Anco cotesto suo congiunto Andrea appuntò dentro gli occhi tanto ch'ei non ne sostenne la vista, però che gli balenassero di luce sinistra per la memoria, che in quel punto lo assalse della infamia, con la quale si era vituperata la gente Doria, che non aborrì nel diciotto del passato Agosto scrivere lettere turpi al Cristianissimo in vilipendio di lui, dove dopo averlo rigettato dalla parentela loro, con ogni maniera abiezioni si umiliavano al Re[16]: ma si contenne, però che Andrea non si mostrasse meno potente a vincere le tempeste dell'anima, che quelle del mare: onde rivolto a Giambattista, e agli altri messi, i quali, a quanto sembra, erano rimasti a bordo della sua galea, con pacato e succinto sermone disse: — sè essere risoluto a liberare la patria, impresa dove nessuno dovea risparmiare il proprio sangue; quanto a lui confidava, che la opera come era giusta, e pia nel principio, così nel fine sarebbe riuscita felice. — Andò a mettersi da capo tra Sarzano e Carignano, e quivi chiamati intorno a sè il conte Filippino Doria, e gli altri valorosi compagni, aperse loro la propria mente, invocandoli aiutatori alla impresa. Risposero tutti: che volentieri, e sopra tutti mostrandosi acceso Filippino Doria, con gran voce esclamò: — andiamo con lo aiuto di Dio, che oggi comunque la vada non possiamo perdere. — E questo disse col medesimo concetto del Ferruccio, il quale, in procinto di mettersi allo sbaraglio nella estrema battaglia, si valse delle stesse parole, volendo significare, che, cimentandosi per la patria, se si vinca, si acquistano i premi che qualche volta gli uomini compartiscono in questa vita, se si muoia si acquistano quelli, che Dio sempre serba ai meritevoli nell'altra, e in ogni evento si guadagna la bella fama, che i tristi possono invidiare, non torre. Filippino pertanto, come più acceso degli altri, sbarcò, senza mettere tempo fra mezzo, la gente di tre galee a Carignano presso il palazzo Sauli, si avviò a porta dell'Arco, e, presala, proseguì per la piazza nuova. Cristoforo Pallavicino, e Lazzaro Doria procederono ad assalire la porta di Santo Stefano e il lido, commessi alla custodia del Broassino, che reputò spediente non opporre resistenza; però messoci presidio si affrettarono a riunirsi con Andrea; il quale a posta sua buttò in terra il presidio di cinque galee alla porta della Giaretta del molo presso San Marco, fugata agevolmente una compagnia di francesi, che la guardava (altri all'opposto afferma ch'ei fossero Genovesi comandati da Giovanni Brando côrso[17]) tendeva al palazzo ducale. Invece d'incontrare resistenza, come gli oratori gli avevano dato ad intendere, per atterrirlo, a tanto, per colpa della peste, di desolazione era ridotta Genova, che, per tutto il tratto di via, che giace fra la spiaggia e il palazzo, Andrea non occorse in anima viva, tranne una donna. Giunto al palazzo, custodito da cinquanta Svizzeri appena, i quali subito si arresero, con amaritudine conobbe come lo avessero convertito in lazzeretto di appestati, nè si trattenne per questo da entrarvi, ed ordinare dessero nella campana della Torre per raccogliere i cittadini, e poichè, aspettato un pezzo, vide, che, o per tema della peste o per altro, non accorrevano, egli si ridusse a San Matteo, quartiere della sua famiglia, e quindi spedì uomini in volta, non pure per la città, ma eziandio per le ville di Albaro e di San Piero di Arena, perchè convocassero così patrizii, come plebei nella piazza davanti la chiesa, che da cotesto santo s'intitola. I chiamati, alla fine, vennero, quantunque pochi. Andrea, dopo alternate le accoglienze, espose con efficace discorso le cause del suo abbandono dalla Francia, le quali disse essere state Savona tratta su a spiantamento di Genova, le non comportabili gravezze, il governatore straniero, la mala signoria di Francia, e queste erano vere, eccetto il governatore straniero, ch'egli stesso aveva consigliato al Re per escludere il Fregoso, e come in parte soltanto vere, così non erano tutte, nè le più stringenti per lui, ma, sì versando sopra la persona, e gl'interessi proprii, tacque delle altre; di sè toccò appena, e si distese, prudentemente generoso, sopra i beni della libertà, alla occasione mirabile di riordinarsi in repubblica con migliorati provvedimenti, onde la giustizia si fondasse su cardini sicuri, le leggi prevalessero, le fazioni cessassero. Lo Imperatore piglierebbe a proteggere lo Stato: quanto a lui, essersi messo a cimento per cominciare; si chiamerebbe soddisfatto, a prezzo di tutto il suo sangue, di potere finire: che se la Provvidenza lo risparmiasse, non accetterebbe altro premio del suo operato, da quello in fuori di lasciare la patria libera nelle mani dei suoi concittadini; egli poi se ne anderebbe, con le galee, al servizio di qualche principe della Cristianità, che volesse e potesse purgare il nostro mare dalla infamia del Turco. Parlava un po' da eroe, un po' da furbo, ma del furbo non si accorsero allora i Genovesi, i quali, per tenerezza, piangevano. Un Franco Fiesco non rifiniva di fare le stimate, ed avrebbe voluto, lì di botto, con pubblico decreto, si dichiarasse Andrea liberatore e padre della patria: ai più cauti parve buono soprassedere, perocchè, essendo in pochi, non sarebbe apparso laudevole indizio di concordia deliberare su cosa di tanto momento, senza il voto degli assenti. Il giorno successivo i cittadini, remossi gli appestati, convennero nel palazzo: erano 600; 400 del Consiglio ordinario, e 200 del Consigletto, presieduti dai Riformatori e dagli Anziani. Ambrogio Senarega fece la diceria, raccontando cose, che tutti sapevano; finita la quale, Battista Lomellino propose: i 12 della Riforma, già stabiliti da Ottaviano Fregoso, e, come innocui, dal governatore Trivulzio lasciati stare, si confermassero; altri sei mesi di tempo, per fornire l'opera loro, si concedessero: in essi, e nel Senato, tutta l'autorità del Governo si concentrasse: al Doria si commettesse la balía di dare compimento all'affrancazione della patria: per sopperire ai bisogni dello Stato si cavassero da San Giorgio 150 mila scudi di oro, a titolo di presto; i cittadini volenterosi offerissero pecunia di sussidio alla patria; i renitenti tassasse il magistrato: quattro maestri di campo deputaronsi alla difesa della città, e Filippino Doria capitano a tutte le genti armate meritamente preponevasi. Al governatore Trivulzio pareva, che, nonostante questo affaccendarsi dei cittadini, egli avrebbe potuto ridurli a partito, solo che lo sovvenissero con un 3000 fanti francesi, e rimandò a chiedergli al Sampolo, e questi glieli consentiva; senonchè gli si oppose Francesco Maria duca di Urbino, dichiarando come prima fosse da prendersi Pavia, e a questa impresa desiderarsi le forze intere, poi si sarebbero senz'altro impaccio voltati contro Genova, la quale, sopraffatta dal numero, non avrebbe potuto resistere: parve prudente la proposta, ma spesso accade, che le proposte in apparenza più prudenti, non proviamo più sicure in sostanza; e forse tale consigliando il Duca, compiaceva alla sua natura cauta così, che a molti parve codarda, ond'egli ebbe a patire parecchie trafitture massime da messere Amerigo da San Miniato, che gli compose contra quel sonetto dove si legge il verso: Il Duca vuol per corsaletto un muro; di cui il Duca tanto si arrecò, che, dopo avere adoperato ogni diligenza per averlo nelle mani, tostochè gliele mise addosso lo fece impiccare per la gola; o forse anco il Duca volle dare tempo al Doria di allestire le difese, dacchè grande fosse l'obbligo, che gli professava, per la sua fanciullezza tutelata dalle insidie del Borgia; e quantunque le conghietture, le quali si fondano sopra la gratitudine umana appaiono le più fallaci, tuttavolta nella trama dell'anima anco cotesto affetto entra e va contato. Il Sampolo, desideroso nondimanco di frastornare le provvisioni dei Genovesi, commise al Montjean, colonnello di 3000 Svizzeri, andasse ad invadere l'estreme terre del Genovesato; ma gli Svizzeri trovarono più conto a scorrazzare ed abbottinare le terre che si parassero loro davanti: tra queste Ivrea, che ne rimase deserta. Genova intanto non se ne stava a bada, e occorre scritto come di Corsica tirasse 700 soldati. Sinibaldo Fiesco, nelle sue castella, fece grande adunanza di gente. Lorenzo Cybo raccolse, di Toscana, circa 2000 fanti; in tutti, dicono, sommassero ad 8000 armati. In questa, Pavia cedeva, ed al Sampolo parve non differire più oltre per mandare ad esecuzione il suo disegno contro Genova; valica il Po, e le terre dove passa occupa: a Rocca Fornari si unisce con gli Svizzeri di Montjean, e si avvia per la Polcevera: sarebbe giunto grosso a Genova, se non gli fosse toccato a mettere presidio nei luoghi più aspri di coteste strette montane, nella previsione della ritirata; molto più che a San Francesco della Chiappetta gli si fece incontro Filippino Doria, il quale, con la guerra guerriata delle macchie e delle siepi, prese a tribolarlo. A questo modo il capitano di Francia giunse a San Piero d'Arena, donde inviò un araldo a Genova, che, con uno sproloquio di minacci alla maniera francese, intimò la resa. Risposegli, come si usa da cui fa da vero, poche parole, e buone: e, siccome da certi suoi tiri, che egli forse immaginò furbeschi, parve volesse pigliar lingua dello stato delle faccende, gli dettero i Padri licenza di speculare dove e quanto gli garbasse. Il Bonfadio ci attesta come i signori ciò facessero appunto per vincere lo schermidore di scherma, imperciocchè di difese certo avessero fatto procaccio, ma, o non le fossero tante, come dicono, o se pure erano non bastavano: per la qual cosa Paride Gentile, cui fu dato in custodia l'araldo, procurò che, passando per certe strade, dove vie via i soldati per le scorciatoie lo precorrevano, le trovasse piene di milizie. Ma posto da banda lo strattagemma del Gentile, che troppa copia di milizie i Genovesi non avessero raccolto, lo mostra il fatto, ch'essi non seppero opporsi alla ritirata del Sampolo: alla quale avvertenza taluno risponde, che, ad operare così, furono condotti dal detto antico: — ai nemici fuggenti ponti di oro — ed anco per mostrarsi in qualche modo grati al Sampolo, che impedì si desse il guasto alle possessioni, che i nobili genovesi avevano nel contado, e si ardessero due corpi di nave tirate sul lido di San Piero di Arena: modestia da una parte e dall'altra non sincera nè creduta, imperciocchè il Sampolo, è da riputarsi, che lo facesse per gratificarseli, li sperando amici e disposti a favorirlo, e i Genovesi, per chiarire che non si lasciavano pigliare alle apparenze, procederono rigidissimi contro quelli fra i concittadini loro, che seguitarono le parti di Francia, avendone le persone bandite, i beni incamerati, e due, che caddero loro nelle mani, spietatamente impiccarono. Subito dopo pensarono ad assaltare il Castelletto: anco qui gli storici affermano che il Trivulzio lo rendesse a cagione dei grandi apparecchi militari, che vedeva condurre per espugnarlo, e per diffalta di fodero; e non pare, imperciocchè negli articoli della capitolazione trovi stipulata la facoltà di ordinare delle _vittoalie et munitioni de qualunque sorte, che restano in castello a volontà di Sua Eccellentia_[18]; ed a cotesti tempi gli arnesi bellici spesso non bastavano a superare le fortezze; non mai presto. Il Trivulzio si arrese perchè, mandato un uomo a posta al Sampolo, per sentire, che cosa divisasse di fare, n'ebbe in risposta: — «non lo potere in modo alcuno sovvenire» — e voglio credere, che, dopo cosiffatta risposta, a lui, che i Genovesi tennero sempre in pregio, ripugnasse di guastare senza costrutto tanto nobile città: infatti Francesco I ce lo aveva mandato governatore per compiacere alle istanze vivissime del Senato[19]. Caduto il Castelletto in potestà del popolo non ci fu verso a frenarlo per condursi, con zappe e picconi, a sovvertirlo dalle fondamenta; ira di orso, che morde lo spiedo, che lo ha ferito, e lascia andare il cacciatore, che glielo ha vibrato: non mai fortezza difese tiranno contro la virtù di popolo, che risorga; non mai popolo avvilito potè impedire tiranno, che, anco senza fortezze, l'opprimesse, e, disfatte, le rifabbricasse; così, per non dipartirci da Genova, la fortezza della Lanterna, ruinata per ordine di Ottaviano Fregoso ai tempi di Luigi XII, non salvò i Genovesi da tornare in soggezione della Francia: il Castelletto in processo di tempo di nuovo eretto fu di nuovo distrutto, e ai giorni nostri vediamo, prima, sotto pretesto di quartieri militari, e poi, con quello di munire il porto, restituita la Briglia per astuta previdenza di un Lamarmora. Sgombra la città, misero mano a liberare lo Stato. Gavi ebbero a patto dal conte Antonio Guasco, che lo rese per quattordicimila scudi; proposto il medesimo partito a Pietro Fregoso per Novi, non l'ottennero, dacchè questi ributtava ora la offerta, come per lo innanzi respinse il consiglio di Andrea, il quale, appena entrato in Genova, gli mandava scritto: — lasciasse Novi in custodia della Signoria, e come buon cittadino andasse ad abbracciare quella Santa Unione, la quale, col favore et aiuto di Dio, con buoni ordini si era stabilita in maniera, che non poteva venir meno. Perchè a quel modo avrebbe goduto quella terra e restatone signore, che altramente facendo ne lo arieno privato del tutto: et come amico, lo esortava ad approfittarsi della occasione, senza lasciarsi pascere da promesse francesi. — Il Fregoso, che co' consigli di Livio Crotto suo cugino si governava, si ridusse a vivere in Alessandria, lasciando costui a guardia della terra col presidio di 1000 Francesi, i quali, dopo averla inabissata fino al Luglio del 1529, la resero alla Repubblica: così la perse il Fregoso, sè danneggiando e la città, e la Repubblica, giusta il costume degl'irresoluti, e dei dappoco, a cui succede nocere più, che i traditori non facciano. Trovo ricordato però, che i Genovesi avrebbono potuto espugnare Novi subito, indettandosi col conte Belgioioso capitano generale per lo Imperatore di qua dal Po; ma, poichè costui metteva per patto, dopo acquistate Novi ed Ovada, volerle tenere in nome di Cesare, ciò non _gustava_, ed amarono, innanzi di pigliare coteste terre a quel modo, lasciarle in mano a cui le possedeva; e così costumarono sempre i nostri padri co' potenti confederati, quando ebbero senno[20]. Ma la spina nel cuore era Savona, la Cartagine di Genova: amici o nemici, in questo i Genovesi accordarono tutti, che Savona si avesse addirittura a togliere via. Da prima mandaronci Filippino Doria, ed Agostino Spinola, e questo si ricava dal libro manoscritto di ordini testè citato: le istruzioni, che loro commisero vediamo essere molte, ma tutte appuntano ad una sola: si espugni Savona: però, abitando io di presente in parte di Genova, che ricorda sempre, per segni non cancellabili, le immanità operate così su le cose come sopra le persone dai soldati piemontesi, che v'irruppero nel 1849 a spegnere il tumulto, piuttostochè ribellione, suscitatovi per la battaglia di Novara, non vo' tacere, nè devo, che cosa cotesti antichi rettori raccomandassero ai capitani, sul punto di spedirli nella città ribelle, e pertinacemente per volontà, necessariamente per natura nemica: — minaccino dare il guasto ai Savonesi, ma se offeriscono la terra si astallino.... avvertirete sopra ogni altra cosa, che ai nostri sudditi, oppure ad un solo di loro non sia fatto danno alcuno: facendo che tutti gli soldati nostri paghino, nè che l'un suddito offenda l'altro in cosa alcuna et in questo fate esecutione rigidissima, perchè risolutamente vogliamo, che basti degli danni havuti et patiti per i nostri sudditi dai Saonesi. — Ora, se mettansi questi ordini del 1528 in confronto a quello, che fu commesso in Genova nel 1849, vorrei, che mi sapessero dire quale avanzo abbia fatta la civiltà, che sazievolmente noi millantiamo. Arrogi; tutti sanno, che i Piemontesi in Genova briccolarono bombe: di ciò interrogato il ministro Pinelli, con fronte rara altrove, comunissima a Torino, rispondeva così: — niente essere più falso delle bombe briccolate a Genova. — Un certo amico mio, che n'ebbe una proprio in casa, con danno piccolo e pericolo maggiore, presa la bomba ed incastratala nel muro, ci ha posto sotto una tavola marmorea, col giorno in cui gli entrò in casa, e le parole del ministero piemontese per iscrizione. Mi basti tanto. Resistendo ad ogni prova Savona, i Padri, per isgararla, mandaronci Andrea Doria, e Sinibaldo Fiesco, perchè quegli, per la parte di mare, e questi, per la parte di terra, la battessero: un signore di Moret, che la difendeva, la rese a patti: conghietturano pigliasse lo ingoffo, ma si avrebbe a giudicare di no, conciossiachè si accordasse per lo appunto come il Trivulzio a Genova, voglio dire con la facoltà di mandare un uomo al Sampolo per soccorso, il quale non ricevendo entro certo termine convenuto, si sarebbe arreso. Il Sampolo, ridotto al verde presso Alessandria, non lo potè sovvenire, ed egli si compose pel meglio: però, se da questa maniera accordo non ne venne macchia di onore al Trivulzio, mi sembra giusto, che non si deva appuntare nè manco lui; ma tanto è, o parlando o scrivendo, gli uomini adoperano due pesi e due misure; ed io, senza pure accorgermene, forse come gli altri. Finalmente i Genovesi tengono Savona, e gli ordini focosi, spessi, a più persone mandati perchè la temuta emula cessi di dare noia, sanno di febbre: a noi capitò nelle mani la istruzione a certo messere Loise sopra Savona del 15 Gennaio 1529; in essa gli si raccomanda: — amministri secondo i capitoli di Saona la giustizia civile et criminale, _senza passione, in questi massime principii_ — intanto si vanno componendo nuovi statuti, ma di ciò acqua in bocca; la ruina delle mura verso il mare, la distruzione delle fortezze nuove, specialmente dello Sperone, e il guastamento e il rompimento del porto, mena troppo più in lungo, che non saria il volere et il bisogno nostri: però raddoppiate diligenza, acciocchè possiate pervenire al compimento della opera desiderata, et in quella usate tutta la industria, arte, et ingegno vostri. — Ed avvertite, che questi erano i più miti consigli, dacchè Giovambattista Fornari con accesi sermoni aveva instato nelle consulte, affinchè Savona del tutto si sovvertisse, i suoi maggiorenti nel capo si multassero, gli altri per le colonie si disperdessero, ma non prevalse: quello, che si legge nella istruzione a messere Loise, fu fatto; e più, colmarono il porto con barche piene di sassi: quanto a reggimento la riducevano a condizione di soggetti. Ora delle cose interne. Verun popolo mai è stato più dello italiano infelice dopo la potenza romana; tutto gli nocque; il servaggio come la libertà, la virtù nell'arme e gli spiriti imbelli, ignoranza e sapienza; lo eccessivo vigore delle parti, causa di superbia, di rissa e di separazione: i reggimenti diversi, e tutti insieme, o quasi tutti retti da uomini d'ingegno profondo: gli Stati stessi, i quali, per conformità, sembrava si avessero ad accordare fra loro, avversi o per emulazione di potenza, od anco perchè la nimicizia comparisca maggiore tra quelli, che si rassomigliano, ma pure in parte differenziano fra loro. Fra le diverse specie degli animali, non esclusi gli uomini, i più forti distruggono i più deboli senza pietà; così, tra le repubbliche democratiche, aristocratiche e miste, occorre maggiore astio, che forse tra repubbliche e principati. Oltrechè le repubbliche italiane non trovarono modo di stringersi in confederazione durevole ed efficace fra loro, sicchè ognuna chiuse dentro sè il seme, il quale le tolse di crescere nella pienezza delle forze, e soverchiare su le altre. Venezia, come quella, che presto si compose in aristocrazia, diventò capace piuttosto a conservare, che a conquistare; chè le astutezze temeronsi più assai delle armi, e ci si fece maggiore riparo. Firenze fu bella di libertà popolare, e di vaghezza di arti e di discipline gentili, ma ingegno ella compartiva e modi alla famiglia di quei portentosi popolani, la quale, con istudio di molte generazioni, seppe logorare una grande repubblica, instituire un grande principato non seppe. Genova, con forze bastevoli a fondare uno impero, distrugge ed offende emule potentissime, genera ingegni, che trovano nuovi mondi, e non li danno a lei, nè sa immaginare miglior governo di quello di creditori uniti dal vincolo dei comuni interessi, e dalla necessità di riscuotere i balzelli per rientrare nei propri danari: i nobili la sommovono, ma non la reggono, eccettochè violenti e brevi; il popolo la regge spesso, e non la governa mai: ogni momento i cittadini commettono la libertà lacera in mani straniere per salvarla, e ad ogni momento la ripigliano; nè dal miserabile delirio sanano mai. Noi non potremmo comprendere, che fosse la riforma dello Stato eseguita dal Doria, nè che cosa valesse, laddove, così in due tratti, non si accennasse la storia civile di Genova. Afferma Uberto Foglietta come prima del 1100 non si conoscano annali: veramente oggi per istudii di uomini dotti, massime tedeschi, si conoscono anco più in su, ma non fa caso. Nel 1080 il Governo stette in quattro consoli; poco dopo in sei; indi tornarono quattro: sul principio tutto il governo in tutti; poi taluni preposti alle faccende di fuori ebbero nome di consoli del comune; tal'altri alle interne, in ispecie alla giustizia, ed appellaronsi Consoli dei placiti: la durata varia; ma non si confermarono mai nel maestrato fino al consolo Rustico de Rigo; e fu malo esempio. Intanto si altera la uguaglianza civile per acquisti fatti in terre lontane, come a mo' di esempio gli Embriaci, che diventano signori di Laodicea, di Antiochia, e di altre terre ancora, ovvero per ampliate possessioni in casa, come gli Spinola nella Polcevera; i consoli cittadini, dinanzi alle potentissime famiglie, piegavano o blanditi o atterriti: di qui, come suole, la giustizia guasta: però si ricorreva al rimedio, in cotesti tempi reputato spediente, e fu chiamare un potestà di fuori, dandogli balía di mettere mano nel sangue: al potestà aggiunsero otto cittadini, i quali primi pigliarono nome di nobili, perchè, di petto al potestà, non scomparissero, e fu titolo come sarebbe a dire magnifico: tuttavia, comunque usciti di magistrato, continuarono a chiamarsi così. Con questo reggimento, qualche volta disfatto, ed indi a breve restituito, Genova dura fino al 1227, nel quale anno, gli esclusi dalle cariche non patendo se ne fossero impadronite 250 famiglie sole, che diedero nobili ai potestà, si levarono a rumore, il governo del popolo ristorarono, gli uffici resero comuni a tutti; e andava bene: ma o il sospetto da un lato, o il dispetto dall'altro consigliò, che sopra i nobili si aggravasse la mano; donde nuove congiure, che dapprima non riescono, ma cupidità vince terrore, e, persistendo, i nobili vincono. Ora da questi rivolgimenti scomposti scappa fuori un rimescolío di Potestà stranieri, di oligarchia, e di tribunato, a cui per giunta si arroge la maladizione dei Guelfi e dei Ghibellini; quelli pel popolo, questi contro. Come dal fracido nascono i vermini, così, dagli ordini dello Stato corrotti, s'ingenera il tiranno, e in Genova fu Uberto Spinola, il quale però la prima volta, e solo, non fece frutto; la seconda sì, in compagnia di Uberto Doria, e presero titolo di capitani: a causa di gratificarsi le plebi, crearono l'Abate del popolo, specie di tribunato, complice, non freno della tirannide; e il popolo, a cui i nomi, almeno per certo tempo, tengono luogo di cose, per certo tempo quietò. Dopo venti anni il popolo (allora i sonni duravano più lungo, chè nessuno era lì per tentennarlo perchè si svegliasse) si conobbe legato peggio di prima, e di uno strettone rompe i legami: i Doria, e gli Spinola risegnano il capitanato: si richiama il Potestà di fuori; tornano a spartirsi gli uffici tra nobili e plebe. I nobili cedevano, come colui, che si tira indietro per pigliare la rincorsa e slanciarsi più innanzi: battaglie perpetue, e, dopo feroce irrequietezza, codarda agonia di riposo; sicchè non parve infame accogliere signore e paciere dentro ai muri lo imperatore Enrico, quel desso cui i Fiorentini chiusero le porte in faccia; nè lo accolsero solo, ma gli andarono incontro portandogli a regalare pecunia; sessantamila fiorini di oro per lui, e ventimila per la consorte, e fu nei tempi una grossa moneta. Egli in breve moriva, ma col tiranno non si spenge il servaggio, pellagra di popolo guasto: però Genova si volta e si rivolta, nè trova pace mai, ed ora si dà a Roberto di Napoli, ora a parecchi duchi di Milano; ma, in mezzo a tante nequizie, il popolo s'industria sempre a reprimere la fiera libidine dei nobili, intesi ad arraffargli tutto, per poi contenderselo fra loro. Un Simone Boccanegra, che fu primo doge, li privò degli uffici, del dogado, della facoltà di armare in corso, di mettere in punto navi pei traffici, di molti onori e comodi, e della isola di Chio; e se più tardi con Tommaso Fregoso ricuperarono gli uffici, e le altre prerogative, dal Dogado rimasero sempre esclusi; anzi Giorgio Adorno con solenne decreto statuì il doge avesse ad essere sempre popolano e mercante. Nondimanco i nobili durarono sempre potenti e prepotenti non pure contro il popolo, bensì contra quelli fra i patrizi che reputassero da meno di loro; e nobili per eccellenza si tennero i Doria, gli Spinola, i Fieschi ed i Grimaldi; gli altri chiamarono _tetti appesi_ o nobili aderenti; dopo, non paghi di avere messo la discordia fra loro, tentarono sconnettere il popolo e ne vennero a capo suscitandovi dentro le case Fregosa e Adorna; e l'una contro l'altra aizzando destreggiavansi ora co' primi, ora co' secondi, tanto che, cresciuti nelle forze private a scapito della pubblica, usurparono le terre dello Stato, e i Doria si presero Oneglia, i Fieschi Varese, i Grimaldi Monaco, e via discorrendo. Quello che accadde nei tempi prossimi della riforma accennai; il popolo, col doge Paolo da Novi tintore, tornò ad abbassare i nobili concedendo loro degli uffici il terzo, e i due terzi serbando per sè. Luigi XII di Francia ci metteva le mani, e, tagliato prima il capo a Paolo, ripose le cose nello antico assetto, cioè le cariche spartivansi a mezzo tra popolo e nobili. Ottaviano Fregoso, quando Genova si liberò dal dominio di Francia, ordinava, che dodici riformatori con piena balía le antiche leggi abolissero, ovvero emendassero; nuove ne instituissero, affinchè, esperti dei lunghi travagli, la combattuta repubblica avesse pace. Il disegno dell'ottimo cittadino non sortì effetto da prima per la improntitudine del suo fratello Arcivescovo di Salerno, che spaventò quel collegio con le minacce, e poi lo sospinse via violento dal chiostro di San Lorenzo dove si radunava, ed in processo di tempo per la fortuna delle cose, o piuttosto per astio di Andrea Doria, che distolse Francesco I da mandarci doge Cesare Fregoso, ed in sua vece c'inviò governatore il Trivulzio. Durarono in carica i Dodici riformatori; ma sotto la potestà altrui, che altro potevano provvedere se non i riti del servaggio? Questo pertanto si tenga a mente, che nel 1528 Genova era quasi una terra riarsa dalla lava delle discordie civili[21]: i nobili per legge antica esclusi dal Dogado: gli uffici spartiti a mezzo fra il popolo e loro. La riforma del 1528 fu questa: descritte cento famiglie delle principali, donde si esclusero Fregosi, Adorni, Montaldi e Guaschi, se ne cavarono quelle che tenessero sei case aperte in Genova, e sommarono a ventotto, a cui misero nome _alberghi_; le altre famiglie minori aggregaronsi a taluna delle ventotto confondendo fra loro armi e nome, con questa ragione, che si procurò innestare Guelfi con Ghibellini, e partigiani Adorni con partigiani Fregosi. Il Senato avesse facoltà, non obbligo, di aggregare in capo ad ogni anno dieci famiglie nuove, di cui sette cittadine e tre rivierasche: si ordinasse un libro d'oro, dove si segnassero i primi nobili, e poi i successivi mano a mano che fossero eletti, imperciocchè tutta la universa corporazione pigliasse nome di nobili. In costoro il governo intero, e annualmente riuniti tirassero a sorte trecento, i quali eleggessero a voti cento e costituissero insieme il Consiglio grande della Repubblica: da questo Consiglio usciva il Doge, del quale era officio proporre le leggi, che nuove cose introducessero, od emendassero le vecchie, sicchè altri non poteva; ed, una volta approvate, a lui stava curarne la esecuzione: alla sua persona appartenevano gli onori principeschi, non alla moglie, nè ai figli: abitava il palazzo ducale, e cinquecento trabanti lo custodivano. Ancora, dal Consiglio grande si tiravano a sorte cento, i quali componevano il Magistrato distinto col nome di Consiglietto: questo, unito ai Senatori ed ai Procuratori, amministrava le faccende più lievi, ed eleggeva gli officiali civici. Di più il Consiglio grande nominava dodici Senatori (che talora si dissero altresì Governatori); tenevano il maestrato due anni, appunto come il Doge, e questo di opera e di consiglio sovvenivano. Il Doge, finchè duravano i due anni, non poteva uscire di palazzo privatamente; i Senatori, a volta di due per due, stavano chiusi col Doge quattro mesi; di qui il nome di due di casa. Più largo magistrato erano i Procuratori: otto ordinari, eletti pure a voti per un biennio dal Consiglio grande, ma ci entravano come straordinari i dogi e i senatori smessi per tutta la vita: pare vigilassero l'entrate e l'annona. Modesto in vista, e forse più di tutti importante l'officio dei Censori; furono cinque; avevano a curare, che la legge non si alterasse; i Senatori se non dopo ottenuta da loro la patente entravano in carica, sindacavano gli ufficiali tutti, massime il Doge ed i Senatori, gli giudicavano, gli punivano. Il Senato insieme al Consiglio sentenziavano i reati di maestà, gli altri un potestà forestiero assistito da un giudice del maleficio e da un fiscale. Sette uomini chiamati straordinari rendevano ragione civile, pigliando a norma il Diritto romano, gli Statuti e la Consuetudine: composero eziandio una maniera di guardia urbana per tenere custodita la città con un generale, e quaranta capitani tutti nobili preposti alle milizie divise in quattro decurie; ogni decuria noverava cento uomini. Oltre a ciò tutte le genti dello Stato, così di città come di borghi, atte alle armi, sono descritte dai venti anni ai sessant'anni sotto i loro capitani, alle quali bisognando corre debito trovarsi con le armi in mano secondochè venga loro ordinato: però messe assieme con gli altri potevano gettare un diecimila uomini da fazione, forse anco più, perchè stringendo la necessità, non si avrebbe avuto persona, che si tirasse indietro dallo armarsi; ma di queste si teneva poco conto. In altri tempi siffatta milizia sommò a quarantacinquemila! A tale riducono gli Stati la discordia interna e la forestiera signoria[22]. Lo ufficio di San Giorgio rimane come nel 1447 quando fu istituito Stato nello Stato, e retto da otto protettori. E qui finisce: dicono che qualche cosa di simile facesse lo imperatore Ottone, e citano Tacito, ma veramente in questo scrittore non occorre nulla di ciò, nè in Svetonio, nè in Plutarco; solo sappiamo come Ottone, appena eletto, conferì la dignità sacerdotale a tutti i personaggi, ai quali siffatto onore si conveniva. Questa riforma fu a quei tempi lodata da tutti; prima, com'è ragione, lodaronla quelli che la fecero; i nobili nei quali si riduceva la somma delle cose la levarono a cielo; il popolo, dacchè i riformatori avevano avuto commissione di restituire la patria alla libertà, e udiva predicare liberissima la riforma, e la notizia della bontà dei reggimenti egli acquista non per discorso di mente, bensì per battiture sopra le spalle, più di tutti ne menava allegrezza. Correva voce, e non era vero, che Carlo V avesse proposto al Doria di farsene addirittura signore[23]; al popolo veramente pareva strano, che lo Imperatore volesse donare quello che non gli apparteneva, ma la supposta modestia di Andrea gli piacque, e quasi a mostrare, che Genova spettava ai Genovesi, prese a volere, che si offerisse ad Andrea il dogato a vita, ed il Senato con un tale suo invito alla trista glielo profferì, ma il Doria non morse all'amo, renunziandolo con parole amplissime: allora gli decretarono altre ricompense, donarongli una casa in piazza San Matteo con la iscrizione, che ancora oggi vi leggiamo murata: _S.C. Andreae De Auria Patriae liberatori munus publicum_; gli rizzarono una statua condotta in marmo da frate Giovannangiolo Montorsoli nel cortile del palazzo ducale; lui ed i cugini Filippino, Pagano e Tommaso fecero immuni in perpetuo dalle gravezze. Andrea elessero uno dei cinque Censori a vita; e questo ufficio senza farsi pregare accettò. Col medesimo decreto ordinavasi in capo ad ogni anno il 12 Settembre si facciano per tre dì processioni, al fine di ringraziare Dio della ricuperata libertà, con intervento di tutti i sacerdoti e di tutti i Magistrati, inclusive il Consiglio grande. La vigilia la guardia del palazzo col colonnello e le insegne vada a Fassuolo su la piazza davanti al suo palazzo preceduto da un uomo armato di tutto punto, e quivi dopo avere sonato un pezzo spari gli archibugi; e questa festa chiamarono della _Unione_. Non mancarono eziandio di coniare medaglie; quantunque il secolo non fosse come il nostro _medagliaio_. Ora di tutto ciò, che avanza? La casa donata continua ad essere possessione dei Doria; la esenzione perpetua dalle gabelle da molto tempo cessò, esempio nuovo per avvertire gli uomini, appena padroni del presente, che dal volere in perpetuo si astengano; ma non se ne asterranno. La festa della _Unione_ durò fino al 1796; chè a quell'ora ed anco prima il popolo aveva capito, come della libertà donata dal Doria non ci fosse causa di starsene col cuore contento; anzi gli parve capire l'opposto, onde poco dopo buttò giù la statua assieme all'altra di Giovannandrea suo successore, i di cui frammenti in parte salvati giacciono nel chiostro della chiesa di San Matteo. Pel palazzo vuoto di Andrea zufola il vento; dei marosi quale ha logoro, quale ha svelto i ferri su cui mettevasi il tavolato quando l'ammiraglio dal palazzo si recava sopra la sua capitana. La repubblica di Genova ancora essa non è più. Che dunque rimane di tutto questo? La fama. La fama; non vi ha dubbio, ma i posteri domandano buona o rea; giusta, od ingiusta. I giudizii dei contemporanei vari, e di chi venne dopo: e fie pregio dell'opera esaminarli. Ecci una setta, ch'io chiamerò poetica, la quale presumerebbe che si avesse a dettare storia, come i maestri dell'antica Grecia conducevano le statue degli Dei con opere di scoltura, voglio dire di bellezza perfettissima, senzachè vi apparissero nervo o vena, le quali rammentassero la complessione umana, imperciocchè ella dica: a che giova la sospettosa ricerca? A diffidare della virtù, e se il sospetto si converta in certezza allora il danno diventa anco maggiore. Sicchè pigliamo per buono quello, che dal consenso volgare ci viene porto per tale, e per non partirci da Andrea Doria stiamoci allo Ariosto, che nel XV canto dell'Orlando così giudicò di lui: Questi ed ogni altro, che la patria tenta Di libera far serva, si arrossisca, Nè dove il nome di Andrea Doria senta Di levar gli occhi in viso d'uomo ardisca. Cotesta forse è setta generosa, non prudente, imperciocchè lo ufficio della storia stia soprattutto nella giustizia, e poi frugando le azioni dei trapassati insegnare ai vivi quello di cui devano fidarsi, e quello dal quale devano maggiormente aborrire; onde, per giudicare con proposito di Andrea, voglionsi inquisire questi punti, che partisconsi in due: circa l'ordinamento interno, e circa lo esterno. Sul primo preme investigare: quale il suo merito nella Riforma, e che cosa questa riforma valga, e quali benefizi partorisse all'ordinato vivere civile; quanto al secondo esamina: se per virtù sua liberasse Genova dai Francesi; conceduto che dai Francesi, se dagli Spagnuoli eziandio la liberasse; e se, toltole il giogo della servitù straniera, le imponesse il suo. Poteva egli operare diversamente da quello che operò? E potendo, provvide meglio alle cose della patria in cotesta maniera, che facendosene principe addirittura? Ebbe ingegno e cuore per comprendere e sentire la libertà della Italia intera? Altri gli ebbe in cotesti tempi? Poteva approdare in quel torno simile concetto e come? La fama del Doria non adombra ingiustamente la fama di altro più degno cittadino meritevole di essere richiamato alla grata memoria dei posteri? Alla concordia egli non attese solo, nè meglio di altrui: a questi prima ch'egli ci pensasse provvide Ottaviano Fregoso per eccellenza della propria natura, e pei conforti di Raffaello Ponsorno segretario del pubblico, che in processo di tempo risegnato lo ufficio si fece frate; il quale Ottaviano volentieri consentì a dimettersi dal principato, e vedere la sua casa depressa eleggendo dodici cittadini con balía di riformare come e quanto reputassero spediente pel bene della patria. Gli si oppose, secondo che in altro luogo fu avvertito, il suo fratello arcivescovo di Salerno, il quale, come ai vili ambiziosi interviene, anzichè vivere libero, ebbe talento di servire a patto di dominare altrui. Tuttavolta non rimase interrotto il generoso concetto, che Stefano Giustiniano, e gli stessi Adorni continuarono a caldeggiarlo con soddisfazione non piccola della Italia tutta, e di papa Clemente in particolare, il quale persuaso da Agostino Foglietta (padre di Uberto, ch'io pendo incerto a salutare o più degno cittadino, o più arguto politico, gloria bellissima di questa nobile terra) ne scriveva spesso ed acceso ad Antoniotto Adorno. Ma per venirne a capo si opposero allora i tempi e gli uomini; però le vicende umane mutansi spesso; difatti i Francesi diventati signori della Liguria, volendo anteporre Savona a Genova, e dandone indizio manifesto col riscotere in essa il dazio del sale, e le altre gravezze, misero i Genovesi in cervello, che tra per questo, e per le ammonizioni di frate Marco Cattaneo, raumiliati, tutti si mostravano più che mai disposti a riconciliarsi col cuore per non iscapitare con la borsa. Il Trivulzio, o per bontà, o per manco di sagacia, e tuttavia costretto dai casi, barcamenava; onde non disfece i Dodici, che da Andrea furono trovati in piedi. Per ultimo è da avvertirsi che, questa smania di cacciare fuori dalle repubbliche le discordie, palesa o somma ignoranza o somma perfidia; dacchè non è mica male, che gli uomini appaiano di pareri diversi quante volte gli manifestino con modi civili; il male sta nelle violenze, e peggiori delle violenze nelle corruzioni, nelle calunnie e nelle frodi. I partiti, come vento in fiamma o in acqua, accendono la virtù cittadina, o commovendola, impediscono che si guasti; ed ognuno sa come Solone, il quale non solo fu legislatore, ma filosofo d'indole mitissima altresì, ordinava, che qualunque in Atene non si accostasse ad un partito uscisse come persona apatica e da niente. Però Andrea doveva regolare il moto, non già spegnerlo. Certo le guerre civili condussero a Genova la signoria dei forestieri, ma la pace del Doria fu la pace dell'antifona al salmo dei morti. Per questa riforma la plebe rimase senza voce o parte alcuna nel governo, nè la plebe solo, sibbene anco il popolo, imperciocchè l'arroto annuale delle dieci famiglie popolane all'ordine dei nobili essendo facoltativo, il Senato lo cessò più tardi; non gli mancando pretesto nella imperfezione della riforma, che avendo omesso specificare quali arti dovessero accogliersi e quali rigettarsi, nel dubbio si asteneva da promoverne alcuna. Certo qualche privilegio al popolo, così infimo come mezzano, rimase, e lo rammenta la storia: così a mo' di esempio, il giorno della incoronazione del Doge, egli ebbe il diritto, entrato in palazzo, di contemplare a suo agio le mense del banchetto festivo; gli abati dei Valligiani del Bisagno poterono, la vigilia del natale, portare in dono al Doge il _confogo_, ch'era un ceppo di albero ornato di fiori e di fronde; due bovi addobbati di vermiglio a suono di musica lo traevano sopra la piazza ducale, dove il Principe dopo averlo asperso di vino con molta solennità lo bruciava; indi a poco, ricevuti non so che confetti, popolo e bovi se ne tornavano pei fatti loro. Principi e patrizi, finchè poterono, nè più onorati nè più larghi doni consentirono alle moltitudini. I medesimi patrizi genovesi ai Côrsi abitatori dell'Algaiola, i quali per mantenersi in fede della repubblica furono dai propri compatriotti da capo in fondo disertati, per ristorarli del sofferto eccidio e della miseria presente, concessero in virtù di amplissimo decreto accattare per Genova; un papa Corsini sopra i testoni fè incidere la leggenda: — li vedano i popoli e se ne rallegrino! — E ai tempi nostri un conte di Cavour porge esempio di quanto possa da un lato l'audace sfrontatezza, e dall'altro la pazienza e l'errore, scrivendo, al popolo non ispettare altro diritto da quello in fuori di chiedere la carità. Come il popolo questa esclusione patisse, quali umori generasse ora non è da dirsi; — solo accenno, che i popolani in compagnia degli aggregati non posarono mai, ed anco dopo molti e molti anni in odio di cotesta riforma e delle peggiori aggiunte congiurarono di ammazzare il doge, i governatori, la nobiltà vecchia, ed impadronirsi dello Stato. Il popolo per mezzo di uno Aurelio Fregoso tentò Francesco I granduca di Toscana a sovvenirlo, allettandolo con la promessa della signoria di Genova, nè questi se ne mostrava alieno, e lo faceva, se non lo impedivano le condizioni del paese, la vigilanza dell'oratore spagnuolo presso la Repubblica, e il ritorno di don Giovanni di Austria dalla vittoria di Tunisi. Carlo Botta, il quale scrive storie qualche volta con l'abbondanza di Livio, e sempre con i concetti di un missionario, s'inalbera contro il popolo genovese, ch'ebbe ardimento di torsi tarda vendetta ed innocente contro il suo simulacro, e sbalestra in parole contro di lui: dov'egli avesse, con senno, meditato la cosa, forse gli sarebbe parso come il popolo in quel punto saldasse al vecchio Doria la partita da tempo così remoto accesa sui libri della sua ragione, imperciocchè reietto il popolo, sotto pretesto di libertà, dal governo della Repubblica, prevalse un ordine peggiore del Centauro assai, il quale almanco, secondochè la favola porge, mezzo fu uomo e mezzo bestia, componendosi questo di due bestie intere patrizi e mercanti, senza dignità come senza onore, e piuttostochè ad ira movono a pietà le parole del Botta, se si pensa com'egli in altre storie racconti le prodezze di cotesta nobilea istituita dal Doria, la quale non rifuggì da recarsi a Parigi per chiedere a Luigi XIV perdono di avere avuto ragione, e dopo consegnata ai Tedeschi Genova, con le braccia in croce supplicava il popolo di non mettere a cimento la sua vita per non porre essa in pericolo le sue genovine; onde il popolo, avvisando che se la sua virtù non era, la viltà non salvava, con alte voci ammoniva: — armi, armi ci vogliono, non parole; dateci le armi, e se non vi volete salvare da voi altri, vi salveremo noi, e voi con noi. — Nobilea, la quale meritò che Giovanni Carbone, servitore della osteria della Croce bianca, nel riportare al palazzo le chiavi della porta di San Tommaso, dicesse al doge Giovanfrancesco Brignole Sale: — signori, queste sono le chiavi che con tanta arrendevolezza essi hanno dato ai nostri nemici; procurino in avvenire custodirle meglio, perchè noi col nostro sangue le abbiamo acquistate. — Nobilea, che stava in palazzo tremante a consultare il modo di mettere fuori il terzo milione di genovine con quel più che chiedeva l'avara crudeltà del Cotek, mentre garzoni di osteria, pattumai, pescivendoli, fognai, facchini, di ogni maniera plebe, chiedeva armi per combattere, e la nobilea le negava, sicchè prima fu mestieri combattere per avere le armi, poi per adoperarle contro il nemico. Anzi, comecchè la riforma fosse ordinata a beneficio dei nobili vecchi, nè manco essi furono contenti, e forse taluno aveva ragione: in fatti dichiarando alberghi quelle sole famiglie, che tenevano sei case aperte, si guardò piuttosto alla potenza, che al merito, onde parecchie rimasero escluse delle più illustri, mentre altre sorte su da piccola gente ci furono ascritte: per la quale cosa non tutte le ventotto designate accettarono farne parte; ricusarono cinque, e lo strano cumulo o aggregazione successe veramente per ventitrè[24]. Se cosiffatta comunella di famiglie avesse potuto alla lunga attecchire ignoro; certo è che nè questa, nè altre cose si operano per legge, se i costumi repugnano, ed a Genova sembra i costumi repugnassero. Di vero la distinzione di nobile vecchio, e di nobile aggregato disparve, come nota argutamente Foglietta, dalla sopraccarta delle lettere, non già dai cuori: durarono entrambi corpi separati ed emuli fra loro. Gli aggregati, non potendo mai spogliare il nome antico pel nuovo, ne presero due; bene ordinava il Senato ne adoperassero un solo, quello dello albergo a cui vennero aggregati, ma non faceva frutto. Le antiche case rifuggivano dal mescersi per via di nozze con le nuove: ogni commercio evitavano; le jattanze delle donne e dei giovani gli umori di già alterati inciprignivano. A dimostrazione di odio, e di paura nei nobili vecchi di restare in processo del tempo confusi co' nobili pensarono una sottigliezza, la quale fu questa: sotto pretesto di conservare le proprie sostanze, diedero opera a comporre gli alberi delle famiglie procurando li confermasse il Senato: in simile faccenda i Lomellini procederono più accesi degli altri; ma il Senato, accortosi del tiro, se ne astenne: allora ricorsero ai Tribunali con varie industrie procurando sentenze, che gli ratificassero: avvisati i Giudici tacquero: e tuttavolta anco questo non valse, imperciocchè (strano a dirsi!) colui il quale, a fine di concordia, cotesta riforma ordinava, meno degli altri pregiavala, ed attendeva ad adempirla; di ciò porge prova manifesta il suo testamento, dove in più luoghi Andrea vieta alle donne della propria famiglia le nozze co' nobili _ascritti_; nè i nati da cosiffatti sponsali egli accetta eredi in mancanza di discendenti maschi. I nobili vecchi avevano grande entratura nelle corti dei principi, massime nella spagnuola, dove patrizi ad un punto e mercanti sapevano procurarsi di grossi guadagni per rimanerne poi scottati più tardi; intanto poderosi di aderenze e di ricchezze fabbricavano palazzi magnifici; vivevano alla grande; superbia ostentavano pari al fasto, e per avventura di più. Gli uffizi da prima non si partirono a mezzo tra nobili vecchi e nobili nuovi, però che le divisioni non ci avevano più ad essere, anzi tutti insieme formare un ordine solo; ma durò poco, e questo spartimento ebbe a farsi quasi subito, non per legge, ma per consuetudine; e fu solo nel 1545, quando in virtù dell'alternativa dovendosi eleggere dall'ordine dei nobili vecchi il Doge successore a messere Andrea da Pietrasanta, i nuovi la spuntarono, facendo uscire Giovanni Battista Fornari, che pure era dei loro. I vecchi in cotesta occasione misero innanzi, che ciò che si era fin lì osservato per pratica, con legge si confermasse, tempestando con minacce, che si sarieno dati a principi forestieri, e magari anco al diavolo, a patto di non trovarsi soperchiati dai popolari, chè per essi popolani e nobili nuovi formavano tutta una pasta. Rimasero vinti, e per allora, comecchè la provassero ostica, la masticarono, ma non la ingollarono mai; più tardi tornarono a far rivivere le covate pretensioni, e la sgararono. Potevano i nobili nuovi contentarsi della riforma, e tuttavia anch'essi ne vivevano di mala voglia; sia perchè lo spregio in che si vedevano tenuti dai vecchi gl'inaspriva, sia perchè vivono irrequieti nelle città tanto quelli, che patiscono la offesa, quanto gli altri, che la fanno; i primi smaniando ricattarsi; i secondi paurosi di rendere il mal tolto con la giunta; donde accade, che la disuguaglianza non si potendo mantenere per ragione, si mantenga per forza, e per forza chi la sopporta s'ingegni levarla via, e siccome la vendetta non piglia mai per consigliera la temperanza, così a prepotenza vecchia subentra prepotenza nuova, ed i privati, muniti di armi, e intesi a valersene, fanno sì che la città rimanga debile e disarmata. Errori di questa riforma furono: escludere il popolo dal reggimento dello Stato, e la prosunzione di costringere in miscela impossibile due ordini di cittadini: mentre questa concordia si aveva a trovare lasciando a ciascheduno ordine facoltà liberissima di trasformarsi in un altro o per merito di virtù, o per favore d'industrie felici, ed intanto assegnare ad ambedue la sua equa parte nel governo della patria. Se si potesse torre di mezzo ogni distinzione tra uomini ridotti a vivere insieme in comunanza civile sarebbe bene, forse; ma torla via parmi impossibile; però riesce fastidioso assottigliarci il cervello a indagare quello, che fosse per avvenirne: pigliamo dunque questa convivenza umana quale ci si presenta, ed ordiniamola pel meglio. I Romani in quale modo si abbia a fare praticarono felicemente un tempo; poi l'obliarono, e quello che accadesse fra loro, e fra i Fiorentini, i quali non l'obliarono, perchè non lo seppero mai, il Machiavello avvertì. E fu errore eziandio di questa riforma, assegnare le cariche supreme dei 300 del Consiglio grande, e dei 10 del Consiglietto, all'Ordine, non alla persona, tirandole a sorte; donde accadeva, che uscissero uomini spesso incapaci. Errore concedere diritti, esenzioni, o privilegi agli ordini dei cittadini, imperciocchè la uguaglianza loro di faccia alla legge si possa mantenere, e però si deva. Insomma se la sera il dì, e il fine lauda la impresa, bisogna dire, che da questa riforma nacquero nuovi mali, e fu impedito rimediare agli antichi. Ora, trapassando ad altra disamina, diremo, che avendo di già esposto con quanta agevolezza venisse fatto ad Andrea impossessarsi della città, parrebbe insania paragonarlo in questo a Cammillo, ad Arato, a Pelopida, o a Trasibulo; nulla in questo fatto ti apparisce, che sia da lodarsi per magnanimo ardimento, o per aperta virtù, o per astuta ferocia. Inoltre i Genovesi, quanto furono facili fin lì a tirarsi addosso il dominio straniero, altrettanto si mostrarono valenti a buttarselo giù dalle spalle, quante volte lor piacque: in ogni caso il merito nuovo di Andrea per avere cacciato i Francesi adesso, varrebbe a bilanciare il demerito antico di averceli introdotti. Certo parecchi cittadini dei maggiorenti, e taluno anco suo consorte lo intimarono con prieghi e con minacci a levarsi da cotesta impresa di liberare Genova, ed invece di gratitudine e di gloria gli promettevano aborrimento ed infamia: questo non si può negare, ma è vero altresì, che troppi più lo chiamavano; ed egli avrà provato allora, come noi adesso proviamo, che i codardi sono più pronti a impedire, che gli animosi a fare. Liberato che ebbe Genova dai Francesi, che cosa fece egli mai se non renderla mancipia degli Spagnuoli? Di ciò la storia somministra in copia riscontri. Notabili questi: al primo patto stipulato fra Andrea e Cesare per la sua condotta, il quale si versava intorno alla libertà di Genova, lo Imperatore rispose succinto: — piace e così si faccia in buona e valida forma. — Ora essendo stata questa condotta prorogata per due anni a Bologna, il 10 Marzo 1530, Cesare crebbe di proprio moto lo stipendio ducati 500 per ogni galera, con che però Andrea pensasse a provvederle di polvere e di palle a conto suo; dopo il leccume egli così di straforo l'accettazione semplice del primo patto muta con parole agguindolate, le quali a tempo e luogo porgono il filo per convertirle in lacciuolo: — e s'intenda, che cotesta repubblica, e i cittadini, e giurisdizione suoi sieno conservati e mantenuti, purchè osservino, e conservino la nostra autorità, e preminenza imperiale[25]. — Lascia da parte, che dell'alterata forma non si accorse Andrea, e minor bruscolo, che 6500 ducati all'anno non sono, basta ad offuscare la vista; tu, per poco che ci posi la mente, conoscerai come Genova sia serva in mano al Doria per assoggettarla altrui. Anzi l'uno serviva all'altro; il Doria, con la reputazione dello Imperatore, si teneva sottomessa la Repubblica, ed in cotesto strano reggimento si confermava: lo Imperatore per converso, con la reputazione del Doria, e il favore dei suoi partigiani, si conservava divota la città. Di vero, o ch'era mai il Doria, se avesse liberata veramente la patria, per istipulare in privata scrittura, e affatto speciale ai suoi interessi lo Stato di lei? I cittadini, pigliando la cosa sul serio, non volevano più che l'oratore cesareo stesse a Genova nel modo di prima, al quale effetto spedirono Vincenzo Pallavicino a Montobbio dandogli per commissione di dissuadere don Lopez oratore di S. M. cesarea a venirci, procurando però di adoperare parole e modi i più acconci a non isdegnarlo[26]: l'oratore non gli dette retta, e ci andò, e dopo lui altri, e comandavano a bacchetta; più tardi Carlo V volle rimurare la fortezza ed introdurci presidio spagnuolo, e il Doria tentennò quasi assentendo; poi, fatta migliore considerazione, si oppose; ma per suo utile; imperciocchè, fino a tanto che Genova per suo mezzo rimaneva subietta allo Imperatore, fosse mestieri con esso lui trattare come confederato, mentre che se lo Imperatore vi dominasse direttamente, la città acquistava forze proprie a scapito suo, ed egli si riduceva in condizione di suddito pari ad ogni altro. Lo Imperatore, lasciando correre, operò in guisa, che Genova gli restasse attaccata con due maniere d'interessi diversi tra loro gelosi, e nondimanco costretto a vigilare l'un l'altro per mantenerglisi in fede; i quali furono, gl'interessi dei nobili adescati in Ispagna con la ingordigia dei guadagni, mediante i traffici, e con la paura del perdere i presti, che aveva cavato da loro, porgendo una fama credibile come taluno dei nobili genovesi gli andasse creditore niente meno che di un milione di oro; grossa somma ai tempi nostri, a quelli ingentissima: l'altro interesse fu quello del Doria preso dai doni, dal soldo, dalla grandezza della sua casa fondata sopra uffici e feudi di provenienza imperiale, e posti su quel dello impero. D'ora in poi Genova non ha più vita propria, ed anco si mostra intaccata dentro come chi patisce del male del tisico. Fuori veruno la rappresenta, e se il re di Francia chiederà più tardi gli mandino ambasciatore Luigi Alamanni, e la facultà di servirsi, egli ed i confederati suoi, dei porti della Liguria, il Doge ed il Senato circa l'oratore risponderanno: temere, fra questo e lo ambasciatore cesareo non fosse per uscirne contesa; liberissima essere Genova: tuttavia fresca della riforma, ed aderente a Cesare; però dovere innanzi tutto devozione a lui, onde sembrava spediente senza il suo consenso non aversi a movere foglia: quanto ai porti si serva, ma badi bene; Turchi non se ne vogliono; e poichè il Re aveva messo avanti non so che parole di danaro, anco a questo con breve sermone risposero: la borsa pubblica vuota, piene quelle dei privati, ma su questo non avere la Signoria potestà veruna. Celebri sempre i Genovesi per anteporre l'utile privato al pubblico, e ne lasciarono esempio miserabile nella formazione della propria città, dove, ad ogni piè sospinto, tu miri come il cittadino, invece di mettere la sua casa in guisa che la città se ne ornasse, pigli un pezzo di patria per accomodare la sua casa. Adesso poi gl'intelletti si chiudono così, che il Veneto sagace referendo al suo Senato la condizione di Genova di cotesti tempi notava con parole piene di sapienza civile: — circa alla forma poi del governo fuori dello Stato, in questo non essendo loro accaduto necessità di trattare con gli altri Stati, nè potentati, eccetto che col re Filippo, il quale si è sempre mostrato loro assai comodo, et oltre a questo non essendo loro occorso di maneggiarsi altramente, non si possono promettere, che in ogni caso potesse esservi un numero di persone esercitate in simili governi, ma si ha da sperare, che la necessità partorirebbe virtù ed ingegno[27]. — E, come si chiudono gl'intelletti, avvizzisconsi i cuori, sicchè a noi Italiani non rimane altra balía che di venire a turpe gara di titoli e servitù, come scrisse quella intemerata coscienza dei tempi nostri Giovambattista Niccolini; e valga il vero, Jacopo Bonfadio, che pure piaggiava la nobilea genovese, ci descrive a questo modo la preclara cortesia accaduta fra Giovambattista Lercaro spedito in compagnia di Francesco Fiesco e Niccolò Giustiniano alla incoronazione dello Imperatore a Bologna, e gli oratori francesi e sanesi. Mentre Carlo V, addobbato degli arredi imperiali esce da una cappella per entrare in un'altra a sentire la messa, ecco occorrergli gli oratori sanesi, e pretendere la precedenza. Il Lercaro non la intende e contrasta; il maestro delle cerimonie, udito il piato, giudica in pro dei Sanesi: non per questo il Genovese lascia la presa, anzi perfidia allegando non so quale decreto, in virtù del quale lo Imperatore antepone i Genovesi ai Fiorentini; però i Sanesi inferiori a questi non aversi a pigliare in considerazione: allora Carlo infastidito, invece di uscire ultimo, esce primo, e gli oratori dietro alla rinfusa: ma la cosa non finiva qui; entrati nella cappella maggiore, l'oratore di Ferrara vieta al Lercaro di salire sul palco, e il Genovese senza badargli tira di lungo; di qui rumore da capo: allora il Papa comanda al Ferrarese, taccia; quegli per obbedienza tace, ma subito gli sottentra nella lite l'oratore di Siena, e il Lercaro, ch'è, che non è, gli appiccica una solenne ceffata; un compagno del Sanese sopraggiunge alla riscossa, e ghermita la cappa del Lercaro gliene straccia fino in fondo un gherone; per lo che inviperito il Lercaro gli mena tale col piè sinistro un calcio, che colui ranchettando esce di chiesa piagnoloso per dolore: — cotesto fatto, conchiude il Bonfadio, fu per il Lercaro bellissimo et onorevolissimo, però che egli avesse in quel giorno con le mani, co' piedi, e con la lingua difeso le ragioni della Repubblica. — Se il Bonfadio, scrivendo così, piaggiava bassamente, o, come credo piuttosto, irrideva malignamente le miserie della patria, certo una giusta Nemesi lo trasse più tardi al patibolo infame. Dove andò Genova? Quella Genova, che durante la guerra pisana aveva messo in assetto 627 navigli, e nella veneziana 165 galere con 45000 Genovesi, di cui ottomila vestiti di oro e di seta? Al partirsi della libertà, il demonio del male si rovescia sopra di lei come sopra di un'anima dannata; i commerci arricchiscono pochi, e l'universale languisce; la fame ci si dà la muta con la peste, e spesso desolano di conserto la città; di qui un nugolo di ladri come sorci notturni, e come sorci frequentatori di fogne, che adesso cominciano a munire con grate di ferro; incendii spaventevoli, e moti di mare, che, minacciando sobbissare la Liguria, sforzano i magistrati, venuta meno ogni provvidenza umana, di ricorrere alla divina. Menate in processione le reliquie di San Giovambattista placaronsi i flagelli, così affermano gli storici tutti, però che allora tutti fossero bigotti o fingessero. Gesti contro ai pirati se ne fecero, ma pochi, e piuttosto in utile dei privati che della città: tali i fasti della repubblica di Genova, dopo che con falso nome di Libertà venne posta nella subiezione di Carlo imperatore di Austria e dei suoi successori. Mette sgomento nel cuore a vedere quella robusta natura del Doria studiarsi, con ogni maniera bassezze, a convertire il suo palazzo di Genova in locanda per comodo dei suoi imperiali padroni; e lui locandiere non solo, bensì soprassagliente, nella gravissima età di ottantaquattro anni, per menare incolume nella Italia, sopra una stupenda quinquereme, Filippo di Spagna che il mondo nomò _demonio meridiano_. Contrista profondo considerare come nel suo testamento, allorchè i casti pensieri della tomba arieno a purgare l'anima dell'uomo con la virtù di un secondo battesimo, Andrea, non pago del proprio servaggio, scongiuri ed ammonisca gli eredi e successori suoi a servire il cattolico Re di Spagna, e delle Sicilie[28]: e Giovannandrea, che subito gli tenne dietro, dopo avere per quanto gli bastò la vita compiuto il legato di Andrea, presso a morte anch'egli commette all'erede procuri mantenere il suo palazzo sempre in assetto così, che possa servire di albergo ai padroni, che passeranno per Genova. Nè mancò allora un Bonfadio, come ve ne ha dovizia anco adesso, il quale, adornando con istile di retore la tristizia dei tempi, a quel modo che si costuma co' fiori ai defunti, diceva: — indi in poi si attese meglio alle azioni civili et alle buone arti della pace, le quali indubitatamente si devono anteporre agli studi della guerra. — Così scambiandosi le carte in mano, lodaronsi sempre gl'inciviliti cui ozio con vergogna talenta meglio di libertà con travaglio. Egli allora non poteva farsi tiranno, però che quantunque fosse stata la sua, in ogni tempo, potentissima casa, e tuttavia durasse, pure non n'era egli mica principale nè capo. La libertà poi impartiva vita alle nostre repubbliche come l'anima ai corpi umani, ed a morire si provavano dure: in fatti perchè i Medici potessero togliere la libertà a Firenze ci fu mestieri una sequela di uomini insigni di varie virtù tutte volte alla dominazione, ricchezze eccessive, Stato a poco a poco soverchiante la uguaglianza civile, subiezione dei vari ordini di cittadini per via di presti, e di ogni altra maniera comodi; parecchi cardinali, e due papi. Inoltre, e parmi questa considerazione capitale, perchè Andrea venisse a capo nella impresa di levare Genova di sotto alla dominazione della Francia, aveva necessità che i patrizi del suo paese prima e dopo lo sovvenissero: ora è da credersi, ch'eglino si sarebbono tirati indietro dal pericolo di cimentarsi col re Francesco, e da mettere a repentaglio vite e sostanze pel fine unico di barattare la servitù di Francia con la domestica; la quale, a cui la prova, riesce così amara che poco più è morte. Alla tirannide domestica bisogna ammannire di lunga mano il fondamento e con astuzia grande. Intanto notiamo come le arti di Andrea somigliassero quelle degli altri cittadini che all'ultimo si misero la patria sotto; la nostra storia c'insegna che quando una parte, per abbattere l'altra, ha conferito soverchio potere ad una famiglia, o ad un uomo, ovvero ha sofferto che con vari colori, comecchè in apparenza onesti, se lo pigli, ha pagato cotesta gioia infelice a prezzo di libertà; di ciò porgono testimonianza gli Scala, i Carrara, i Visconti, i Baglioni, i Bentivogli, i Petrucci, e senza aggiungere nomi i tirannelli d'Italia quasi tutti; poi, quando si vuole riparare al male, difficilmente si può, chè negli animi entra la paura, e l'interesse assidera il cuore; in ispecie se il tiranno proceda industrioso a blandire, e risoluto a percotere senza badare a rispetti. Così Andrea, spente le fazioni Adorna e Fregosa, legò Genova al carro della sua fortuna, onde questa città, principalissima del Mediterraneo, oggimai non poteva più operare contro di lui, ma nè anco diverso da quanto a lui talentasse. Genova, in ordine agli antichi instituti, aveva a mantenere negli arsenali venticinque galere con le ciurme sforzate in punto, e da parecchio tempo ella ne possedeva alcune poche a custodia del porto; ben ella, tosto ricuperata la libertà, mise mano a costruirne dodici, e così per gli eccitamenti dei padri, vi si affaticavano alacri dintorno, che in breve stavano per fornirle, quando di repente nel mezzo di una notte arsero tutte. Il Bonfadio, non senza malizia, raccontato il fatto, aggiunge: — se questo fosse a caso o per trattato di huomini, non havendone certezza, non ardisco affermare cosa veruna. — Però importa avvertire come Andrea in quel torno non possedesse più di tredici galee, che poi accrebbe fino a venti, onde fu visto un cittadino di città libera tenere ai suoi comandi una forza, contro la quale la città non avrebbe saputo che cosa opporre; indizio certo, se non di libertà perduta, di prossima servitù. Nè reca troppa specie il valore delle galee, il quale, quando furono venti, poteva sommare a un quattrocentomila ducati, bensì le genti preposte a governarle, che tu puoi mettere mille per galera; sicchè tu vedi che Andrea, cittadino privato, poteva di punto in bianco buttare a Genova un ventimila tra schiavi e soldati; e da ciò argomento di che razza libertà con costui si avesse a godere. Certo, se egli avesse voluto assoggettarsela, su quel subito, nessuno gli avrebbe potuto resistere, ma, per durare anche poco, bisognava smettere le faccende marittime, e, stando fermo in città, logorarsi nelle contese domestiche, e così scemare di reputazione come di forza, mentre le vittorie, le prede, e il grado di ammiraglio gli davano autorità e potenza irresistibili: nota eziandio che, fermandosi in casa avrebbe dovuto mettere a capo dell'armata altro capitano, e ai tempi che correvano non era da fidarsi nè manco dei prossimi parenti, e tu considera come Filippino, uomo di smisurato valore, che vinta la impresa di Capri aveva pure dato prova ad Andrea di fede piuttosto unica, che rara, non venne mai più preposto da lui a cosa di conto, e d'allora in poi le sue galere egli capitanò da sè, finchè non valse a surrogarlo l'erede Giannettino, e questi morto, il figliuolo Giovannandrea. Però di quello che Andrea sapeva dissimulare con senile prudenza apparvero più tardi manifesti segni in Giannettino, e tali per cui l'Adriani, storico grave, e della buona scuola, là dove discorre delle cause della congiura del Fiesco c'insegna, che rimosso Andrea, come quello che si credeva con la riputazione sua, e il favore dei partigiani mantenesse Genova nella divozione dello Imperatore, la città avrebbe potuto molto agevolmente restituirsi al vivere antico, e più che tutto impressionava il timore, che Giannettino passerebbe il segno, bastato ad Andrea, il quale si mostrava contento nella propria patria dell'onore, che ai suoi concittadini era piaciuto dargli, ed alcuna volta anco di meno, a patto però, che vi si fosse mantenuto lo Stato del tutto parziale allo Imperatore, da cui egli ricavava utile, e credito grandissimi. Della insolenza, del soldatesco e però prepotente piglio, e dei modi, più che principeschi, tirannici di Giannettino fanno fede parecchi storici genovesi; nè li contrasta nessuno. Onde per dirlo con frase proverbiale, se Genova quanto a servitù non si trovava in forno, certo era su la pala. E quando ogni altra riprova mancasse, basterebbe questa. Oberto Foglietta, che quantunque laudato ampiamente qui sopra, noi non possiamo celebrare secondo i meriti per alcune giuste e sante parole dette al Doria, dichiarato reo di maestà condannarono a perpetuo esilio; se gli confiscassero anco i beni, non è chiaro, ma siccome ce lo affermano povero, forse non glieli poterono pigliare perchè non ne aveva; nè, finchè visse Andrea, gli perdonò mai; lui morto la Repubblica lo ribenedisse certo a mediazione di Giovannandrea, a cui dedicò gli elogi degli uomini illustri. Ora le parole provocatrici del rancore implacabile di Andrea furono queste. Dopo avere nel suo libro della Repubblica di Genova confortato costui ad imitare lo esempio di Ottaviano Fregoso, il quale ruinando la fortezza mostrò quanto avesse più a caro il bene della patria, che la grandezza sua, gli disse: — se la patria tu ami davvero, rendile le galee, che questo solo fie valevole argomento, che alla grandezza della casa tua il pubblico bene tu preferisci: conciossiachè come potremo noi salutarti liberatore, se conservi in casa tanta potenza con la quale, quantunque volte ti piaccia, opprimerai la libertà? Come benediremo te padre, se un cittadino, un uomo di una di quelle famiglie da cui presumi avere affrancato la patria, dimostrò maggior segno di affetto, e desiderio della libertà di te, che pure te ne vanti liberatore? Nè la fortezza al Fregoso, nè il principato, quella abbattuta, questo dimesso, erano cose, che fossero a lui meno profittevoli o meno accette, che le tue galere a te. — E non pertanto il nome di Andrea Doria sonò e suona come di cittadino principalissimo in Genova, mentre quello di Ottaviano Fregoso o va obliato o appena si rammenta: questa, oltrechè ingiustizia suprema, sarebbe indizio manifesto di non sanabile perversità se, considerando diligentemente la cosa, non andassimo capaci come ciò avvenga, piuttostochè per ispregio di coscienza, per fallacia di giudizio: infatti celebrando Andrea Doria padre della patria e restauratore di libertà, essi errano nell'oggetto, non già nello affetto. Avventurati noi, e bene imprese le nostre fatiche se ci fosse concesso raddrizzare gli storti giudizi! Nobilissima mercede dello storico è la potenza di rendere, e far sì che altri renda la giustizia ai meritevoli, togliendola a cui indegnamente la usurpò: intanto i lettori leggano questo, e ci pensino sopra. Ottaviano Fregoso profferse sincero la renunzia al dogado; Andrea finse, però che, conservando lo ufficio di censore perpetuo, poneva fondamento alla tirannide: Ottaviano, ruinando la fortezza, si fece inerme dentro città armata, Andrea, mentre Genova (fortuna o insidia che fosse) perde le galee, ritiene le sue e le accresce di numero. Il primo, libero di sè, leva ogni dipendenza alla patria; costretto dalla forza altrui la confida alla protezione della Francia, il secondo liberissimo sottopone la Repubblica all'Austria; bene la governa indi innanzi la gente Doria, ma per lei. Genova ormai, come la favola racconta che avvenne allo incantatore Merlino, sepolta viva dentro un avello imperiale, si sente morire. La maggiore o minore servitù non rileva o poco, imperciocchè la libertà consista, è vero, nel patto delle franchigie, ma troppo più che nel patto, stia per mio avviso, nella potenza di costringere altrui ad osservarlo preciso e sincero. E poichè la materia non solo lo comporta, ma altresì ne fa debito, dirò come in certo libro di _Elogi dei Liguri illustri_, pubblicato da certo abate Giovambattista Raggio, un anonimo, il quale si segna con le lettere A. B. dettando lo elogio di Agostino Spinola, dopo avere, e a ragione, biasimato la strage del Fiesco e dei parziali suoi a Montobbio, di cui sarà discorso in appresso, scrive così: — oltrechè non sappiamo quanto fosse la magnificata libertà concessa dal Doria alla patria, nè quanto possa dirsi giustamente donato il non tolto, ma ai nomi oltraggiati ripara la posterità nella calma delle passioni e delle parti. — Ma ciò non piace all'abate Raggio, il quale, redarguendo l'anonimo scrittore, dichiara, che se la bontà delle cose si deve argomentate dagli effetti grandi, sarebbe stato ad ogni modo degno di eterna lode il beneficio del governo ordinato dal Doria, come quello, che partorì fuori pace, concordia dentro, ricchezze, e copia dei beni di Dio. Ed è falso, eccetto le ricchezze, che ci furono sì, ma salario di servitù; e se come il Raggio avverte, cotesta riforma piacque allo storico Giustiniano, doveva ammonire eziandio, come la famiglia di lui appartenesse alle ventotto degli oppressori; se giorni di pace succedessero alla riforma, lo dica la storia d'Italia; se concordia dentro, lo attestino i tumulti del 1547 e del 1575. Nè basta; chè lo stesso abate, dopo avere magnificato le leggi del Doria, ed il vivere libero instituito da lui, ecco che nello elogio di Ambrogio Spinola mi esce fuori a commendare questo, però che ardisse prima contrapporsi alla traboccante autorità di Giovannandrea successore di Andrea Doria, la quale, soprastando a tutti, minacciava spegnere la libertà; e ci racconta come Ambrogio, valendosi dell'autorità sua e del favore che godeva larghissimo in corte di Spagna, impedì la promozione al dogado di Agostino Doria caldeggiata a tutto uomo da Giovannandrea per aumentare sempre più casa sua. Donde possono cavarsi due considerazioni; la prima, che se la tirannide dei Doria non mise radice in Genova, più che ad altro se ne deve grazia alla fortuna, la quale negò ad Andrea successori quali li dava a Cosimo dei Medici a Firenze, e suscitò emulo a loro Ambrogio Spinola, capitano famoso, che meritò comune con Demetrio il nome di _poliorcete_[29] e per dovizie fu chiamato il _ricco_, contendendo col quale era più facile scapitare che vincere: la seconda considerazione cade su l'essere gli elogi di tutte le cattive maniere di scritture pessima, come quelli, che guastano la politica, alterano la morale e sconciano l'arte: massime se composti da diversi, e raccolti in fascio, che allora ti compariranno sovente uno contrastare all'altro; nè per essi ti riuscirà più intendere quale regola di giustizia tu abbia a seguire, e quale d'ingiustizia evitare. Andrea Doria non pure della libertà della propria patria si mostrò tenero, ma eziandio dell'altrui finchè ci trovò il conto; questo mancatogli, si attenne alla tirannide, parendogli potere fare con essa a maggiore sicurtà. Da principio noi lo vediamo studioso a indurre Firenze ad accordare con Cesare, al quale effetto persuase Luigi Alamanni, che lo accompagnò in Ispagna, a tornarsene a Firenze, e quivi adoperarsi presso la Signoria, onde mandasse oratori a Cesare prima che ei si partisse da Barcellona, che per la parte sua egli avrebbe cercato, che l'accordo ad ogni modo seguisse. Luigi, venuto a Firenze, espose la proposta, la quale fu argomento di pratica nel Consiglio. Antonfrancesco degli Albizzi lesse un discorso pro, Tommaso Soderini contro, e, mandato a voti il partito, si vinse non si accordasse, a ciò indotti da parecchie ragioni, ma più che tutto dai giuramenti di Francesco I, il quale prometteva, sopra la sua fede di gentiluomo, non sarebbe mai entrato in lega con Clemente VII, nè fatto accordo senza metterceli dentro. Ira o coscienza lo inasprisse poi, tale dimostrò Andrea in seguito animo iniquo contro a Firenze, che se di più non le nocque, certo è da credersi non dipendesse da lui. Ricordano le storie come tre galee del Doria, venendo da Napoli, passarono via dinanzi a Livorno senza salutare, com'è di costume, il porto, onde Beco Capassoni, il quale era contestabile della fortezza, riputandole nemiche, ne sfondò una con le artiglierie; e comecchè i Fiorentini mandassero persone a posta per iscusarsi, Andrea mise mano addosso, per rappresaglia, a molte bestie in Val di Serchio, e agli averi dei mercanti a Genova, a Lucca e a Pietrasanta, e questo parve caso luttuosissimo non solo per ciò, ma anco e più, perchè fu colpa, che Jacopo, e Francesco Corsi perdessero il capo, e certo vetturale di Calcinaia restasse condannato alla forca, come si può vedere nel libro undecimo delle storie di Benedetto Varchi. Baccio Valori, avendolo richiesto lo soccorresse di artiglierie per pigliare Volterra difesa dal commissario Francesco Ferruccio, gli mandò un cannone da sessanta, due colubrine, un mezzo cannone, e un sagro con 360 palle di ferro, che, imbarcate alla Spezia, giunsero alla spiaggia di Bibbona il 18 Aprile 1530; e peggio ancora, come lo vediamo somministrare ai danni della Repubblica fiorentina veracemente e sola in travaglio per la libertà d'Italia, così le taglia insidioso i nervi alle difese: i mercanti fiorentini stanziati a Lione, mossi da patria carità, ed anco pei conforti di Luigi Alamanni volendo sovvenire il commissario Ferruccio che attendeva in Pisa a far massa di soldati, tanto da comporre un esercito nuovo, il quale con lo aiuto dei Cancellieri e dei montanari di Pistoia bastasse a rompere l'esercito imperiale e papalino assediante Firenze, collettarono fra loro ventimila scudi di oro; nè li potendo rimettere per via di lettere di cambio, consegnaronli all'Alamanni affinchè per terra o per acqua li portasse a Genova, e quinci a Pisa con destro viaggio. Messere Luigi, per più sicurezza, scelse il cammino per terra, e, giunto al confine ligure, spedì al Doria un messo per averne il salvocondotto di passare incolume le terre del Genovesato, non immaginando nè manco per sogno, che, stante la molta amicizia la quale passava fra loro, fosse per negarglielo Andrea, e questo fu quello che per lo appunto gl'intervenne con molta amarezza di lui e biasimo del Doria, non pure dei presenti, ma dei futuri. Animo e corpo il Doria si era dato a Cesare. E poichè fu confitta la Italia in croce, Andrea più tardi si mise di mezzo a sconficcarla: forse per avanzarne i chiodi. Quando i fuorusciti e i Cardinali fiorentini spedirono oratori in Ispagna a movere querela contro al duca Alessandro, il Doria prese a favorirli grandemente proponendo a Carlo V, che dove avesse restituito la libertà a Firenze, egli si sarebbe adoperato, con molta speranza di venirne a capo, ad ordinare una lega tra Lucca, Siena, Firenze e Genova, la quale eleggendo lui per capitano, lo Imperatore avrebbe potuto noverare il nuovo Stato fra quelli a lui massimamente devoti. Ma la necessità sola agguanta i principi per gli orecchi, e gli costringe ad ascoltare la ragione dei popoli; Carlo allora si sentiva gagliardo così, che poco dopo, assalita Provenza, sperò conquistare la Francia; e poi, per imperiale istinto, dalle repubbliche ei repugnava: nè penso che il comando di Andrea sopra una lega poderosa gli garbasse: ragione per dubitare della fede di Andrea lo Imperatore non aveva, che co' benefizi se lo era legato; ma se fidati è buono, non ti fidare è meglio di lui, e se questa regola di governo nacque prima in Corte non so; so questo per altro, che da moltissimo tempo vi fu accolta e ci ha stabile stanza. Riuscito invano siffatto tentativo, Andrea si sprofondava nell'odio contro la libertà. Nel 1527, tornando di Spagna in compagnia di grossa mano di soldati, udita la morte del duca Alessandro, gl'invia in Toscana per mantenervi i popoli in devozione dello Imperatore, e però impedire, che si riscattino dalla servitù. Col granduca Cosimo si mostrò svisceratissimo, per quanto glielo permettessero il tenace interesse, il gelo degli anni e l'indole sospettosa. Dopo ciò non si dica, che Andrea avversando la libertà fuori, la favorisse in casa, dacchè ella non sia pianta, che qui attecchisca e lì no; formando ella parte di umanità, perseguitandola in un luogo, la perseguiti da per tutto. Altri dice: Andrea fare oltre, e meglio di quello ch'ei fece, per avventura non potè; il bene e il male formano termine di confronto nelle vicende umane, che, quanto al bene assoluto, non si conosce, ed anco, conoscendolo, all'uomo forse non è concesso arrivarci: così, se il governo di casa non fu buono, parve almeno l'unico possibile in coteste contingenze, e, tranne poche mutazioni, durò 269 anni; fuori, nella rovina delle fortune italiche, fondò stato immune dalla immediata potestà straniera: forse le prerogative attribuite al Doria superarono la modestia del cittadino di libera repubblica, ma potè risparmiare alla patria l'onta del presidio spagnuolo. In questo modo ragiona una scuola che, per essere timida e bugiarda, si presume prudente. Della riforma interna abbiamo detto quanto basta. Rispetto a Genova, affermiamo, che, se Andrea avesse secondato il senso patrio, che nel popolo genovese non venne mai meno, e la operosità, stupenda dote di lui, avrebbe potuto ammannire cinquanta galee, le quali avrieno posto la Repubblica in grado a secondare le occasioni di avvantaggiarsi con le leghe, ampliare e confermare lo Stato. Nè fa ostacolo la fede allo Imperatore, imperciocchè, messo anco da parte, che la patria deva andare innanzi a tutto, e che commette ingiustizia suprema chiunque obblighi, o si obblighi a fare cosa contraria a lei, onde la forma del contratto non può vincere la sostanza di quello; non curato nè pure lo esempio, non che dei principi, dello stesso Papa (esempi a vero dire dagli onesti imitabili poco), di leghe strette, allo improvviso tronche, rannodate da capo, per iscioglierle alla prima occasione sotto pretesto di cacciare i barbari d'Italia, nulla impediva ad Andrea che, venuto il termine della prima condotta, si scansasse da rinnovarla, essendo appunto la decorrenza del tempo il modo più piano col quale cessano le obbligazioni. Per lo contrario Andrea, con venti galere in Genova disarmata, qui è tiranno, in Ispagna schiavo; condottiero altrui, non cittadino: egli conta la patria fra i suoi capitali fruttiferi; la milizia diventa un traffico per guadagnare moneta, o buscare, se capita, qualche terra o città; la patria vassalla siede con le ciurme sopra i banchi delle sue galere e voga con lui. Ora fa più di ventotto anni, che, scrivendo io il libro dello _Assedio di Firenze_, giudicai Andrea Doria nè grande cittadino, nè della sua patria liberatore: nel medesimo libro, e a modo che mi spirava amore, mi posi con industria a purgare Michelangelo Bonarroti dall'accusa di avere derelitta per formidine la patria; ora il cercare lungo pei volumi della storia mi confermava nel giudizio intorno al Doria, da quello sopra il Bonarroti mi dissuadeva. Miseria grande ella è questa per noi! che, tenendoti al male, quasi sempre ti apponi, mentre per converso con la medesima spessezza tu la sbagli supponendo il bene. Così oggi come allora io penso, che se in Andrea fossero stati cuore e mente magnanimi, avrebbe potuto, volendo, mutare la faccia della Italia; la lega delle Repubbliche, tardi ed in mal punto immaginata, se fosse stata proposta allo Imperatore mentre durava in lui la paura dei Francesi, poteva farsi, e costituirsi gagliarda, mercè di vincoli con sapienza tessuti; non difficile, anzi destro approfittarsi dell'odio, che i due emuli si avvicendavano implacabile; e quando anco si fosse dovuto con industria prolungarlo ed inasprirlo, questo non è vietato da legge divina od umana, quando sia per liberare la patria dalla servitù straniera. Ne porgevano congiuntura propizia le cose della religione scompigliate in Alemagna, torbide in Francia; il Turco minaccevole: forse (questo però assevero non senza peritanza) il Papa non si sarebbe, almeno in quel torno, mostrato nemico alla salute della Italia. Quanto poi alla prova riesca agevole abbattere questi colossi dalla fronte di bronzo, dai piè di creta, lasciati da parte gli esempi, che si rinnovano cotidianamente dinanzi agli occhi, ci basti toccare i prossimi ai tempi dei quali favelliamo. Di vero la Repubblica di Firenze resse sola contro lo Imperatore e il Papa, e stette ad un pelo per vincerli, nè vuolsi dubitare nè manco, che gli avrebbe abbattuti tutti, se le fosse proceduto amico Andrea, come pur troppo ella ebbe a sperimentarlo nemico: più tardi la fortuna offerse un'altra occasione con la guerra di Siena; nè fu reputato folle, bensì arditissimo il disegno di Francesco Burlamacchi da Lucca. Certo in fama non si salisce, che con molto rischio. Vari i talenti degli uomini, ma vari hanno da essere altresì i premii. Andrea fu vago sopra tutto di beni terreni, ed ebbe in copia sostanze, e quelli, che corre il costume di appellare onori; fu principe, fu cavaliere, prima di San Michele, poi del Tosone; una bestia e un santo; ammiraglio di re, d'imperatore e di papa; tanto deve bastargli; la fama di liberatore della patria ei lasci ai pochissimi eccelsi, che si misero dentro a tanta impresa anima e corpo, senza pretendere, come senza sperare altro guiderdone, eccetto la lode, e le più volte postuta. Questo poi io ho reputato debito scrivere, non in odio di Andrea, ma per giustizia verso coloro, i quali dal fatto magnanimo non si aspettando altro che fama, è mestieri, che questa sia conservata per loro intatta ed intera. Se le parole paressero troppe a taluno, pensi, che lo errore s'insinua negli animi umani come il pruno dentro le carni presto, e profondo, sicchè a volernelo cavare ci bisognano tempo e diligenza infiniti. Se il Doria non fosse stato un grande capitano, adesso io non istarei a dettarne la vita, ma affermo risoluto, che, scrivendo di lui, non penso, e non ho pensato mai esporre i gesti di un grande cittadino. CAPITOLO VI. Pericolo di Andrea di essere preso dai Francesi e come ne scampa. Va a Barcellona a pigliare lo Imperatore; liete accoglienze e sospetti. Carlo a Genova. — Benefizii fatti dallo Imperatore al Doria, e se è vero che questi donasse il principato di Melfi al marchese del Carretto. — Disfatta e morte del Portondo. — Impresa di Andrea alle Baleari. — Guerra turca; sua origine e suo incremento. — Solimano sotto Vienna; di un tratto si parte, e perchè. — Il Doria in Grecia. — Venezia ricusa partecipare alla guerra. — Espugnazione di Corone. — Lamba Doria. — Geronimo Tuttavilla. — Todare Trigidito e sua morte. — Severità di Andrea per mantenere la disciplina. — Prende i Dardanelli di Morea e di Romelia. — Descrizione del palazzo di Fassuolo. — Andrea vi accoglie Carlo V. — Vasellami di argento gettati in mare. — Il Turco va a ripigliare Corone. — Ardimento di Geronimo Pallavicino e di Cristoforo Doria. — Battaglia sotto Corone. — Valore del capitano Ermosilla e di Antonio Doria. — I Turchi disfatti fuggono. — I Francesi mettono sossopra il mondo per vendicarsi di Carlo V. — Morte del papa Clemente VII. — Querimonie della Cristianità per la lega di Francia col Turco. — I corsali Barbarossa acquistano il reame di Algeri e come. — Ariadeno chiamato da Solimano in Costantinopoli. — Rivolgimenti a Tunisi; — Andrea persuade a Carlo V la impresa di Tunisi; la favorisce il Papa che dona al Doria stocco, cappello e cingolo benedetti. — Grandi apparecchi. — Provvidenze contro le cortigiane. — Costumi portoghesi e spagnuoli. — Morte del conte di Sangro. — Presa della Goletta. — L'ebreo Synam. — Ordine del Barbarossa di ammazzare settemila cristiani. Pietosissimo caso del figliuolo del giudeo Synam. — Battaglia di Tunisi. — Chi la ingaggiasse primo. — Prodezza di Ferdinando Gonzaga. — Tunisi preso, e patti col re Muleasse. — Nuova guerra tra il Re di Francia e lo Imperatore; il quale lo provoca a duello. — Consulta di Carlo in Asti, e consigli che gli dà Andrea. — Guerra in Provenza. — Venerazione di Carlo V per le forche. — Assalto improvviso dei Francesi contro Genova; che è ributtato. — Capitani d'Italia combattonsi pro e contra, e tutti ai danni della patria. — Strage di Alessandro duca di Firenze, e sollecitudine di Andrea a danno della libertà: — in grazia sua la servitù in Firenze si conferma. Qualunque ordine politico possiede sempre dentro a sè tre cagioni, una per nascere, la seconda per durare tempo più o meno lungo, l'ultima per morire: su coteste prime caldezze ognuno si mostrava contento, e poi ad ogni modo corre comune il dettato, che di defunti non si parla a tavola; nonostante questo, così proviamo i nostri disegni incerti, che la sgarrò di un pelo, che la barca non sommergesse nel porto; imperciocchè lo Imperatore avendo, sotto pretesto di difesa, mandato verso Genova duemila Spagnuoli di fresca leva, che, per essere mal vestiti, peggio pagati, di ogni cosa necessitosi, avevano nome di _Bisogni_[30], i Genovesi, a cui parve la medicina peggio del male, risposero si sarebbero guardati da loro e non li vollero ricevere; della qual cosa preso odore il Sampolo, che trattenevasi in Alessandria, spedì segretissimamente nel mese di Dicembre i capitani Montegiano e Vallecerca con duemila fanti e cinquanta cavalli a cogliere alla sprovvista la città; e se tanto non potessero, almeno s'industriassero pigliare Andrea Doria; nè questo dovere riuscire impossibile, e nè manco difficile, pel continuo dimorare ch'egli faceva nel suo palazzo di Fassuolo fuori delle porte di San Tommaso. I capitani adoperarono diligenza, e per giungere inattesi o rimandarono indietro, o trassero con esso seco la gente in cui s'imbattevano, e la fortuna si piacque a mostrare loro lieta la faccia fino al palazzo di Andrea, dove arrivarono quasi sul fare del giorno: propizia l'ora, quiete alta dintorno, nel palazzo tutti sepolti nel sonno: studiano il passo, e già mettono le mani sopra i serrami delle porte, quando di un tratto si leva il grido: _all'armi!_ Andrea, senz'attendere altro, si getta d'intorno una vesta tanto che il copra, e per la via sotterranea guadagna la spiaggia, dove spiccato un salto dentro la barca che ci teneva sempre allestita, egli stesso sfrenella i remi e si salva. La fortuna di un tratto mutato sembiante aveva disposto, che, mentre il Doria tenendosi ormai fuori di pericolo viveva a sicurtà e senza sentinella, due soldati, l'un tratto dalla cupidità di sbancare l'avversario, l'altro dalla bramosia di rifarsi del perduto, vegliassero tutta notte co' dadi in mano, onde poterono di leggieri udire lo scalpiccío, che moveva la gente, comecchè procurasse ire cauta. — E qui, poichè tutte le cose si disfanno per adattarle alla comodità delle nuove generazioni, non fie discaro conservare la memoria della reliquia di certa statua vecchia la quale un dì vedevasi collocata sul muro di cortina tra San Michele e San Tommaso: sopra di questa le tradizioni varie; una fra le altre testimonia ce la ponesse Andrea in ricordanza del fatto ed in onore del soldato, che primo dette la sveglia. Veramente ci era poco da onorare; ma quando il conto torna, anco ai peccati mortali si accendono i moccoli. Il Vallecerca, vista andare a vuoto la insidia, saccheggiò ed arse il palazzo del Doria, così compiendo da ladro una impresa incominciata da traditore. Dopo ciò, premendo a Carlo di Spagna passare in Italia per incoronarsi a Bologna, mandò al Doria, andasse a pigliarlo a Barcellona, al che egli si accinse con apparecchio veramente stupendo; ammannì di tutto punto quattordici galee, ornandole in guisa, che facevano maraviglia a vederle; le ciurme di seta, gli ufficiali di damasco cremesino vestiti, egli solo di negri panni abbigliato; giunto in compagnia di cinquanta gentiluomini, sfarzosi per broccati di oro e per gemme, al cospetto dello Imperatore, mentre faceva l'atto dello inchinarsegli per baciargli il ginocchio, Carlo lo trattenne e lo salutò levandosi il berretto, e quando se lo ripose in capo volle ad ogni modo, ch'egli facesse lo stesso: onore da tempo lungo, e con ismaniosa cupidità desiderato da Antonio da Leva, e sempre invano; ond'egli ne viveva sgomento così, che, ricercato come andasse il suo male, che fu di podagra, con sospiri rispondeva: non essere già i piedi, che gli dolevano, bensì la testa; alludendo al non potersela coprire alla presenza dello Imperatore. Quantunque anche ai nostri giorni si cerchino e si stimino coteste inanità più che meritano, l'uomo si meraviglia a considerare come da quelli, di cui ragioniamo, con passione si cercassero, e con religione si riverissero; così il vecchio Brantôme raccontando, che convenuti a mensa la regina Isabella ed i re Ferdinando, e Luigi XII, questi impetrasse, che quarto ci sedesse Ferdinando Consalvo, preso da entusiasmo sclama: — di guisa che per giudicio universale fu stimato cotesto giorno non essere stato meno glorioso per lui dell'altro nel quale entrò a capo del suo esercito trionfante in Napoli, dopo disfatte le forze francesi, e degli aderenti nostri in Calabria, a Cerignole e al Garigliano! — Fatte, e ricambiate le accoglienze, che gli uomini costumano fra loro quando si sentono mutuamente necessari od utili, Andrea, come si ha da testimone credibile, favellò in questa precisa sentenza allo Imperatore: — Potentissimo principe, essendo io per propria natura più amico dei fatti, che delle parole, non mi estenderò in queste, e mi sforzerò operare quelli: assicurando V. M. che, come devoto servitore, procurerò con ogni diligenza e fede eseguire quelle cose, che a me parranno di suo servizio, e capaci di condurla alla grandezza nella quale desidero vederla stabilita. — Carlo rispose naturalmente per le rime, e l'uno rimase incantato dell'altro come doveva succedere. Che di ciò sentissero invidia i cortigiani non istento a credere, che cotesta peste da per tutto germoglia, e nelle corti nasce; onde i più prudenti fra i consiglieri cominciarono così di straforo a susurrare, che questo commettersi alla cieca in balía del Doria era una gran cosa; desiderare tal materia seria considerazione, e via discorrendo; ma Carlo, meglio avvisato di loro, o più audace, un bel giorno, recatosi su la galea capitana del Doria, gli ordinò pigliasse il largo quasi per provarne la velocità; di un tratto, domandatogli se ogni cosa si trovasse in punto a bordo, ed ottenutane affermativa risposta, diè il segno della partenza, onde i cortigiani rimasero avvertiti della levata delle ancore dallo sparo delle artiglierie, e le apprensioni per lo Imperatore sentissero davvero o simulassero, ebbero senz'altro a tenere dietro al padrone. Provarono per viaggio fortunali grossissimi; la notte di Santa Maria della Neve furono a un cappello di annegare quanti erano: pure, come piacque a Dio, il 12 Agosto sursero nel porto di Genova: le luminarie, le gazzarre e i falò infiniti; e' parrebbe che in simili congiunture sieno giudicati necessari i lumi per accecare, gli strepiti per intronare. Lo Imperatore comparve vestito con un saio di teletta di oro, ed una cappa di velluto chiazzata di pagonazzo e rosso; in capo un tocco di velluto nero. Dalla galea scese in terra per via di un ponte di legname, e di scala coperti di panni rossi, gialli e bianchi: al sommo della scala avevano eretto un arco trionfale con istorie dimostranti il buono animo dei Genovesi verso gli Spagnuoli, i quali pure ieri avevano messo a sacco ed a sangue la loro città: menzogne sempre inutili e sempre fatte; tanto apparenza vince verità. Una di queste figure rappresentava Andrea che con una mano sorreggeva Genova, con l'altra portava la spada, lo Imperatore con tutte e due la incoronava, e pareva le mettesse il collare, mentre il Doria con la spada ignuda la teneva ferma per forza. Duecento gentiluomini con roboni di raso, e grosse collane di oro al collo stavano lì a complirlo con salutazioni perenni e tanto continui inchini, che sembrava per tutta la vita loro non avessero atteso ad altro, che a provare di rimanersi curvati: colà presentarongli una bellissima mula; chè male potevasi andare in Genova a cavallo allora, e non bene adesso; ella era arnesata di oro con gualdrappa pure di oro fino a terra; non so se dopo cavalcata dallo Imperatore l'ammazzassero; in Bonifazio certo Côrso al suo bel cavallo, poichè ebbe portato lo Imperatore, spaccò il cranio, dicendo che veruno dopo lui doveva vantarsi di montarlo; se l'avessero spaccato anco al Côrso non gli avrebbono dato il suo avere. Lo storico, cortigiano anch'egli, dimenticato il nome di parecchi che sacrificarono la vita in pro della patria, ricorda quelli dei nobilissimi staffiere e garzone, che la mula presentarono e condussero. Lo Imperatore, e la mula, sotto il baldacchino, il Doria, il gran Cancelliere, l'ufficiale che lo precedeva con lo stocco ignudo, e la torma dei cortigiani fuori del baldacchino, s'incamminarono verso San Lorenzo: quivi scesero ed entrarono in chiesa; dicono a pregare, e sarà: tuttavia dopo morto, il grande Inquisitore presumeva diseppellire lo Imperatore, e giudicarlo, perchè lo aveva per eretico. Fatte le orazioni, recaronsi al palazzo della Signoria, assegnato per istanza allo Imperatore. Gli scrittori dei gesti di Andrea affermano, che egli albergasse lo Imperiale padrone nel suo palazzo di Fassuolo, e vanno errati, imperciocchè pochi mesi prima gli era stato arso, nè le sue facultà allora sommavano a tanto da condurre la magnifica fabbrica, che anco ai giorni nostri vediamo: di fatti nella iscrizione marmorea, che la fascia dintorno, leggiamo essere stato compito nell'anno MDXXVIIII. Entrato lo Imperatore in palazzo, si levò tumulto, perchè il popolo, secondo una sua vecchia usanza, si avventò sul baldacchino per lacerarlo, e portarne via i brandelli, la quale cosa non sofferse il Doria, e, composto subito il rumore, aggiudicò il baldacchino ai Lanzichenetti, che facevano la guardia allo Imperatore. Di questo costume trovo anco altrove le tracce, e assai più strane. A Palermo, quando lo Arcivescovo nuovo eletto andava a pigliare possesso dell'ufficio nel Duomo, il popolo a furia gli stracciava i panni da dosso, ond'era miracolo s'egli ne uscisse vivo, nè lo fecero smettere fino al 1658, nel quale anno Pietro Martinez de Rubeo arcivescovo e vicerè, tirandosi dietro duecento lance, ordinò, che al primo che si attentasse strappargli un lembo del piviale strappassero un lembo di carne, e non badassero se la misura eccedeva; il popolo, cui non garbò il baratto, stette quieto cotesto anno, e poi. Trovare le origini di simile usanza è arduo; forse vuolsi credere, che i potenti lascino, ed anco eccitino il popolo a rompere nei ferini istinti un'ora, per governarlo senza rimorso per tutta la loro vita da bestia. Nè si ha da tacere la spesa che fecero per lo Imperatore e il modo tenuto per provvedere la pecunia; trassero a sorte trecento dei più ricchi, e di questi da capo ne tiravano fuori ogni dì dieci, i quali avevano a fornire cento ducati di oro a testa; in tutto mille scudi; con questi dieci, quattro altri dei maggiorenti a ciò commessi, dovevano curare che lo Imperatore non difettasse di quanto il bisogno chiede e la delizia desidera. Dicono lo Imperatore si fermasse in Genova quarantaquattro giorni, onde contando solo i mille scudi al dì, e la caracca di messere Anselmo Grimaldi, che fu il maggior legno avessero mai visto fino a quel tempo, la quale la Signoria di Genova acquistò con settantacinquemila ducati per farne presente allo Imperatore, tu troverai, che con mezza la pecunia spesa dai gentiluomini Genovesi a dorare la catena della servitù straniera, somministrata in tempo alla democrazia di Firenze, avrebbe infranta cotesta catena per sempre. Certo, se non era molto cospicuo lo ufficio di soprassagliente per condurre lo Imperatore in Italia, fruttava assai, dacchè il Doria seppe cavarne per sè, oltre al Tosone di oro, venticinquemila scudi di mancia, e il ducato di Melfi, tosone anch'esso non però di montone morto, bensì di uom vivo: di fatti spettava a ser Giovanni Caracciolo, dichiarato ribelle per avere seguìto le parti dei Francesi, onde i suoi beni, per ragione di confisca, erano stati incamerati al fisco imperiale: dicono Andrea tentennasse repugnando a vestire le spoglie altrui, ed aggiungono altresì, che poi s'inducesse a pigliarlo in grazia dei conforti degli amici, massime che don Sancio Bravo, portatore della patente imperiale per la investitura del feudo, andava dicendo, che col rifiuto avrebbe mostrato amarezza del piccolo dono, ed animo inchinevole a mutar parte. Oneste scuse a cose disoneste; chè Andrea non apparisce mai uomo da cercare il nodo nel giunco, quante volte si trattasse di pigliare; e novella eziandio il dono fatto più tardi di questo principato al suo figliastro Marcantonio Del Carretto marchese di Finale, salvo tremila scudi ch'ei si trattenne per donare ai suoi famigliari. La verità è questa: trovando Andrea molto profittevole ai suoi interessi imparentarsi con Antonio da Leva, furono insieme d'accordo, che il figliuolo della Peretta avrebbe condotto a moglie donna Giovanna figlia di Antonio, a patto, che Andrea si obbligasse a donargli il principato, alla quale cosa egli acconsentì, dichiarando espressamente che intendeva goderne lo intero usufrutto sua vita naturale durante; solo gli avrebbe assegnato sul medesimo una pensione vitalizia senza più[31]: di qui per avventura l'errore dei tremila scudi, ch'egli non si riservò in esclusione di ogni altra rendita; ma al contrario tutte le rendite ei ne ritenne salvo tremila scudi: però il principato non gli uscì di casa, chè sendosi morto Marcantonio senza prole, la donazione si ebbe per non avvenuta. Questo per sè, pel suo congiunto Girolamo un cappello cardinalizio. In questo tempo Andrea condusse a termine una impresa, che, sebbene non andasse del tutto a versi dei suoi desiderii, pure riuscì di utilità inestimabile alla Spagna, e di certo non ne scapitò la sua fama di capitano felicissimo, onde gli fecero il nome di Andrea _buonafortuna_. Rodrigo Portondo, ammiraglio di Spagna, il quale insieme ad Andrea aveva accompagnato l'Imperatore a Bologna, inteso come un certo Aidino delle Smirne, creatura di Ariadeno Barbarossa, vocato il Cacciadiavoli, corseggiava pel Mediterraneo con un'armata di galeotte e di fuste, dubitò scemare di reputazione non poco là dove, prima di ridursi ai porti di Spagna, non tentasse qualche impresa onorata; per la quale cosa si mise subito a cercare Aidino, e gli venne fatto incontrarlo presso l'isola Frumentaria. La fortuna per questa volta non propiziò l'audacia; chè audacia veramente fu quella del Portondo di condursi con sette galee (altri dice otto) contro centotrenta legni tra galeotte, fuste, caracche, trafurelle e brigantini; nella battaglia infelice rimasero morti il Portondo e la più parte dei suoi; gli altri presi con tutte le galee, le quali Aidino condusse trionfando in Algeri. Per questa vittoria il Barbarossa, salito ad inestimabile baldanza, disegnò fare la impresa di Cadice, emporio in ogni tempo floridissimo di commercio, allora primo. Lo Imperatore pertanto commise al Doria si recasse speditamente a stornare cotesto turbine di guerra, e poichè gli parve a ciò non potere bastare con le sue quindici galee, a cui pure ne aggiunse un'altra napolitana, Carlo avvantaggiandosi delle prime caldezze della pace di Cambraia, chiese all'emulo Francesco in prestanza tredici delle sue, ed egli, che a sbalzi credè essere generoso e sempre fu improvvido, gliele concesse. Così, con ventinove galee, Andrea si mise in mare, drizzando le prore verso le Baleari, dove saputo che il Barbarossa, avendo diviso la flotta, si era con parte di essa ritornato in Algeri, e parte ne aveva spedito al promontorio di Battaglia, venne in isperanza di vincerlo così spezzato. Accostatosi a terra vi sbarcò tre compagnie di fanti ordinando loro pigliassero di assalto il Castello di Cercelli, ed espugnatolo, attendessero a liberare gli schiavi cristiani ed a menare prigioni quanto più potessero Mori e Turchi; non si scompigliassero, si riducessero con celeri passi alle navi. Alicotto corsale di Caramania, considerando con la squadra dei legni ai quali era preposto non potere mettere riparo alle forze del Doria sul mare, nè tampoco difendere il castello, comandava, che parte dei suoi entrassero nella rocca capace a sostenere per più giorni l'assalto, procurando prima di chiudere dentro certi sotterranei ottocento schiavi cristiani; egli poi si ridusse dentro terra per ingrossarsi con gli Algarvi, incoli di coteste contrade, di genio feroci, valentissimi in armi. Il castello assalito di leggieri fu preso; i cristiani trovati restituisconsi a libertà: fin qui lieta ogni cosa; ma ai soldati se non iscorrazzavano dentro il paese non sarebbe parso vincere; alle ciurme perdere il credito se non esercitavano le mani a rovistare il castello; però trasgrediti i comandi quelli dilungaronsi dalla spiaggia, questi si diedero ad arraffare. L'Alicotto, che stava su le intese, quando ebbe visto i fanti a bastanza appartati dal lido, con forte mano di gente fece loro impeto addosso, e tosto li costrinse a piegare; i chiusi nella rocca pigliato animo da quella vista sortirono urtando i predoni, così che tosto gli ebbero volti in fuga. Andrea dal castello della galea contemplando la viltà dei suoi, arse di sdegno, e immaginò che dov'egli si fosse allargato, costoro per disperazione arieno atteso a menare virtuosamente le mani, e s'ingannò; imperciocchè a cotal vista essi perderono affatto gli spiriti, e sebbene Andrea vinto allora da pietà si spingesse alla riscossa, tanto non si potè affrettare, che non ne rimanessero ammazzati quattrocento e più; non si contarono i feriti. Tuttavolta l'utile che si cavò dalla impresa fu giudicato grandissimo, però che oltre gli ottocento cristiani liberati, e le galee che in parte l'Alicotto sommerse, e in parte il Doria acquistò, si costrinse il Barbarossa a deporre il pensiero di assaltare Cadice; e veramente non fu poco guadagno. Chiunque si diletta di storie, non terrà, io credo, questa sentenza strana, che a volere cercare ragione nei fatti degli uomini talora ci è da perdere la ragione: di vero, che Francesco di Francia, anche dopo la pace di Cambraia, conservasse la gozzaia contro lo Imperatore, si comprende, ma come nel medesimo punto in cui gli aveva prestato le galee a combattere i Turchi gli concitasse sottomano contro il Gransignore, non si comprende. Pure la è cosa che non si può revocare in dubbio, e certo se la casa di Austria allora non si opponeva, per la Cristianità era finita, e con esso lei periva la causa della Europa civile; forse del mondo: e come se il pericolo minacciasse unicamente l'Austria, ella fu lasciata sola o quasi, chè, se ne cavi il Papa, il quale ci mandò per legato il cardinale Ippolito suo nipote, lei non sovvennero in cotesta guerra la Francia, nè i Moscoviti, nè i Polacchi, nè i re d'Inghilterra e di Portogallo: molto meno le tante repubbliche, e terre franche, e principi minori della Europa, anzi, mirabile a dirsi! neppure i Veneziani. Però è da dirsi, che l'Austria, colta in momento che sembrava averle a tornare nocivo, se ne avvantaggiò con sagace consiglio, imperciocchè lo Imperatore, trovandosi allora a Ratisbona per assettare i dissidii religiosi, i quali nella massima parte fornivano pretesto a Federigo di Sassonia e al Langravio Filippo di osteggiare la grandezza di lui, potè in quel consesso persuadere tutti della terribilità del caso, onde sopite, o messe da parte le discordie, con forze congiunte fu deliberato opporsi al barbaro nemico. A noi non tocca descrivere le vicende di cotesta guerra: tanto ci basti, che Solimano invase le terre dello impero con tale uno esercito, che, dopo quello di Serse, gli storici non ricordano maggiore; s'industriò di tirarci anco i Tartari, ma questi nicchiarono; con la Persia era in pace; non lo molestava veruno: interrogato da Lionardo conte di Nugarola vicentino, oratore del re dei Romani, intorno alle cause della guerra, rispose breve e superbo: — sè essere imperatore dei Romani, anzi dello intero occidente, retaggio della sedia di Costantinopoli occupata da lui: volere adesso vendicare con le armi la ingiuria fatta a Giovanni Zapol legittimo re di Ungheria; — poi come colui, che assai si compiaceva del soprannome di _Magnifico_, datogli dalla gente, donati il Nugarola ed i compagni suoi di vesti di seta e di tazze di oro, gli accommiatò. Il fiore dei cavalieri italiani accorse in cotesto estremo alle difese dello impero; e con lode così dei contemporanei come dei posteri (conciossiachè messe da parte le colpe e i delitti di parecchi fra loro sarebbe ingiusto negare che fossero strenui capitani di guerra) Ferdinando Gonzaga, Guido Rangone, Sforza Baglione, Marzio e Pirro Colonna, Giambattista Gastaldo, Otto da Montaguto, Piermaria da San Secondo, Filippo Toniello, Gabriele Martinengo, Alfonso Davalos, ed anco pur troppo Fabrizio Maramaldo, il micidiale di Francesco Ferruccio. A quanto sommasse l'esercito turco corre diverso il grido; chi dice meno, conta trecentomila uomini, chi più seicentomila; lo imperiale, compresi gli ottomila cavalli ungheresi pagati dal Papa, si componeva di centoventimila di cui novanta fanti, il resto cavalli. I Turchi da prima investirono Strigonia e vinsero sul Danubio; poi, passato su molti punti la Sava, gittaronsi sopra la Stiria; di lì nella Carintia. Solimano intanto accampava sotto Vienna, e mentre stavasi in affanno pei vicini assalti, di repente ecco levate le tende, traghetta il Muer e la Drava e si riduce a Belgrado, seco menando a guisa di mandra trentamila schiavi, di cui parte non piccola, non sapendo come nudrire, anzichè liberare fece mettere a morte; come un dì Annibale in Italia, ed oggi i Francesi, maestri di civiltà, nell'Algeria. Certo le piccole fortezze di Gratz e di Strigonia opposero alle armi turche più dura resistenza che non si sarebbe immaginato; acerbe furono le percosse che, nel contado di Linz, rilevarono i cavalli turchi per virtù, prima del conte palatino, poi del conte di Lodrone, ma la ritirata di Solimano di sotto le mura di Vienna fu vanto di Andrea Doria. Mentre Solimano minacciava dalla parte di terra, rimase con ottimo consiglio deliberato movere con armi marittime contro la Grecia, imperciocchè si presagisse, che se ne sarebbe cavato taluno di questi intenti, forse anco tutti: o liberare la Grecia, o prendere Costantinopoli, o levare tanto rumore dopo le spalle di Solimano, da staccarlo da Vienna. Così la proposta di quelle imprese piacque allo Imperatore, che ad ogni costo ci si voleva trovare, e fu a stento se il fratello Ferdinando lo persuase a non partirsi di Germania. Andrea pertanto andò solo, governando da quarantotto a cinquanta galee, e da trentacinque o quaranta navi grosse, chè i ricordi di cotesta impresa tra quei diversi numeri ondeggiano: surto a Messina per imbarcare gli archibusieri ed ordinare altri apparecchi, non potè avere da Ettore Pignatello sollecita spedizione come desiderava la impazienza sua, e la gravità del caso, però che cotesto principe, il quale reggeva la isola in nome dello Imperatore, fosse caduto in mal punto infermo, donde il ritardo funesto alla impresa, che si giudica avrebbe partorito effetti assai più proficui, se Andrea con maggiore sollecitudine passava in Grecia: di fatti se avesse potuto agguantare l'armata turca composta di sole settanta galere, che male provvista di ciurme, e con le poche appestate si riparava nel golfo di Larta, non si dubita che l'avrebbe distrutta. Quando prima fu in punto, Andrea sferrava dal promontorio delle Colonne costeggiando Calabria, e sempre affrettandosi per lo Jonio, dopo essersi lasciati addietro Corfù e Cefalonia, pervenne a Zante: qui gli occorse la bella e potente armata dei Veneziani condotta da Vincenzo Cappello, e dopo ricambiati, secondo il costume, con lei, i saluti a colpi di cannone, egli mostrò desiderio di favellare all'Ammiraglio; il quale, non si sa per qual caso, assente, egli si ebbe a contentare di tenere colloquio con Girolamo Canale capitano dell'Adriatico: ridottosi insieme con lui, con efficace discorso, e non senza caldissime preghiere, lo sollecitava a unire l'armata veneziana alla sua, chè insieme avrieno di leggieri spazzato i mari, depresso per sempre le forze turchesche, e, per poco gli favorisse la Provvidenza, espugnato Costantinopoli, come quello che adesso si trovava vôto di difensori: badasse a non lasciarsi fuggire di mano la occasione unica per opprimere così spietato nemico; ed anco a non aprire con la casa di Austria tale un debito, che Venezia forse avrebbe pagato amaramente più tardi. Il Canale rispose vietarglielo il comando del Senato stretto in nuova lega con Solimano; a lui da ricettarlo nei porti, e dal concedergli si provvedesse di vettovaglie in fuori, non essere concesso sovvenirlo in altra maniera. Così ora gli ufficii del Doria sortivano con Venezia effetti diversi da quelli che un secolo prima avevano fruttato le parole di Lorenzo Ridolfi; imperciocchè allora, pei conforti di lui, il Senato, fatta lega co' Fiorentini, impedì che Filippo duca di Milano riducesse sotto la sua tirannide la universa Italia, mentre per questa o colpa od insania, l'Austria, a quanto sembra, procedè mollemente più tardi contro il Turco dopo la battaglia di Lepanto, e così, tra i dispetti ed i sospetti dei principi cristiani, in quella ed in altre occasioni, il Turco potè, non pure scampare, ma vie più radicarsi in Europa, dove tuttavia dura sfregio di secoli, sopra la faccia della cristiana civiltà. Omer Alì avendo preso odore dello arrivo dell'armata imperiale, si mosse a precipizio, e, comecchè Andrea gli spedisse dietro Antonio Doria con sette delle più sparvierate galee, non gli venne fatto raggiungerlo: saputo al Cerigo, che ormai passato Napoli di Romania, il turco stava per attingere l'Eubea, tornò ad unirsi ai suoi che avevano dato fondo nel porto di Sapienza sopra Modone. Qui i capitani, a parlamento raccolti, deliberarono espugnare Corone estimato a cotesti tempi validissimo arnese di guerra, posto a dodici miglia di distanza da Modone sul lido; per mare poi più di venti, stante lo sporgere che fa da quella parte il promontorio del Gallo. Andrea si andò accostando alla fortezza bel bello, e, riconosciutala con molta accuratezza, si accorse volersi per espugnarla non ordinaria virtù; messe le fanterie a terra, le divise in due squadre, preponendovi a capitani Geronimo Tuttavilla conte di Sarno, e Don Geronimo Mendozza, perchè questi a destra, quegli a sinistra, battessero la terra e s'industriassero pigliarla o per via di scalata, o con lo assalto dopo aperta la breccia; al primo commise sette pezzi di artiglierie da battere muraglie; al secondo è da credersi ne confidasse altrettanti, ma non lo trovo scritto; in mare dispose l'armata in semicerchio, ponendo davanti le navi grosse, le galere dietro; gittati gli uncini sopra gli scogli intorno alla terra per forza di argani quanto può, vi si appressa niente curando il fulminare delle artiglierie, nè il saettare dei Turchi; quantunque a diminuire, se non ad evitare del tutto cotesto danno, avesse Andrea provveduto col mettere su nelle gabbie varie artiglierie minute, e certi moschettieri cappati, le quali traendo a scaglia, ed i secondi, con tiri inevitabili, diradavano assai i difensori dai muri. Al conte Sarno, dopo una furiosissima batteria, venne fatto di buttare a terra grande spazio di muraglia, onde corse co' suoi valorosamente allo assalto, sostenendo lo sforzo delle difese estreme, che il furore somministra, massi, calce viva, olio bollente, pece strutta e simili; però da questa parte, bisogna confessarlo, disperazione vinse valore, che al Sarno toccò alla perfine dare indietro, lasciati a piè dei muri trecento morti, e troppi più traendone seco feriti; forse, se non calava la notte, erano le sue perdite maggiori. Il Mendozza con gli Spagnuoli non riuscì a fare la breccia, epperò non si mosse all'assalto dopo la muraglia atterrata; bensì volle cimentarsi a scalarla a muro saldo, e gli andò male. Per la parte di Andrea il lembo ultimo, o vogliamo dire corno dell'armata condotto da lui (ed era il sinistro, mentre al destro, dov'erano le galee del Papa, presiedeva Antonio Doria, ed in mezzo stavano le poche galee di Rodi capitanate dal Salviati priore di Roma), postosi rasente le fortificazioni del molo, quasi le toccava, lasciando indovinare com'egli intendesse venire a battaglia manesca: però non appariva a qual partito si appiglierebbe per traversare cotesto tratto che pure passava tra le gabbie delle galee e le mura, quando di repente si videro spingere fuori macchine, che prolungandosi, si andarono a posare a modo di ponti sul parapetto delle opposte muraglie. Industria nei Genovesi non nuova, che solenni fabbricatori di macchine sappiamo averla con buono esito adoperata anco nella espugnazione di Gerusalemme come ne pongono testimonianza gli storici delle Crociate, e Torquato Tasso cantò[32]. Sopra cotesto aereo calle primo si avventurava, e primo attinse le opposte mura Lamba Doria giovane non degenere dalla stirpe illustre; dopo lui parecchi i quali, percosso col ferro chi già balenava stupido per meraviglia, compirono la disfatta del nemico che precipitando in fuga rovinosa, abbandonata la terra, riparò nella Rocca: in questo modo cadde nelle mani di Andrea tutta la parte di Corone, che apparendo come separata dalla isola, si appella _Isola_. Il conte di Sarno punto sgomento dal duro intoppo attese tutta notte a tirar su trincere e bastioni per ripararsi dal balestrare dei nemici, i quali tenevano, oltre la Rocca dell'_Isola_, alcune torri fabbricate su gli angoli dei muri di cortina; di più, avendo preso certa spia greca spedita da Lepanto ai Turchi di Corone con lettere promettitrici di sollecito soccorso, fatto prima per ogni buon rispetto tagliare il capo a cotesta spia, immaginò mettere in opera certo suo strattagemma, il quale, riuscendo, avrebbe con poco rischio dato fine a tutta la impresa: e bene gl'incolse ad essere provvido, però che, sul fare del dì, in mezzo ad un folto nuvolo di polvere fu udito formidabile strepito di arme a mano a mano accostarsi alla terra: erano settecento cavalli condotti da Tadare Trigidito, il quale a sua posta, non meno bene esperto, fece prova con subito impeto sforzare Teodoro Spinola lasciato con una compagnia di fanti a guardia del luogo, e per cotesta via entrare nelle torri; senonchè lo Spinola sostenne la puntaglia, mandando celere al Sarno per lo amore di Dio lo aiutasse, nè il Sarno mancò, spingendo in fretta colà Pietro della Tolfa con trecento archibusieri dei meglio, che dettero dentro e ributtarono ferocemente i Turchi. Tadare un po' per avere rinvenuto da questo lato scontro più aspro che non aspettava, e un po' perchè mirando impegnata la migliore e maggiore gente del Sarno nella difesa del Borgo si avvisò gli si aprirebbe altrove facile o meno ardua la via, si avventa a briglia abbattuta sul destro fianco delle mura; il Sarno, visto quel moto, salta fuori dei parapetti con quanti armati si trovava dintorno, facendo le viste di volersi andare a mettere tra la muraglia e Tadare; di qui la furia nei Turchi di spronare più dirotto; all'improvviso ecco sparire, come se le inghiottisse la terra, prima una squadra dei cavalli, dopo quella un'altra, ed un'altra ancora. Di fatti, trascinate dal proprio impeto, traboccavano dentro una fossa profonda fatta scavare dal Sarno durante la notte, e ricoprire poi con frasche e con canne: allora non fu battaglia, ma strage: al Tadare ed ai maggiorenti mozzati i capi, portaronli fitti su le picche intorno alla Rocca ed ai muri, intimando la resa. I Turchi scorati si resero, a patto di avere salve le robe e le vite, e fu concesso; ma poi nol volevano loro attenere, però che essi in casi pari si fossero mostrati fedifraghi; lo impedì il Doria, dicendo essere spediente con atti generosi persuadere ai Turchi modi più miti di guerra, anzichè, con la imitazione dei loro costumi, confermarli nella efferatezza[33]. Quinci il Doria andò a Zante, dove mise presidio spagnuolo, ed accordatolo co' Greci, perchè in ogni evento, con animo concorde ed un solo volere provvedessero alla comune salvezza; dopo rifornite di munizioni le navi, andò a combattere Patrasso. I Turchi, al suo appressarsi, sgombrarono la terra, riducendosi parte nella Rocca e parte dentro ad un muro, che la circondava con forte riparo; però, a schiantare il muro, si piantarono otto cannoni in batteria, e a torre i difensori dai ballatoi si attelarono mille archibusieri lì attorno; poi si mise mano al bombardare: in mezzo allo scompiglio i guastatori, con opera tanto pronta quanto animosa, cacciaronsi sotto, empiendo di fascine la fossa scavata dai Turchi in giro al muro, e poichè in più parti si era aperta la breccia, senza pigliare riposo; mossero allo assalto, il quale non attesero i Turchi, fuggendo alla rinfusa dentro la Rocca; dove non potendo sostenersi a lungo, si resero a patto di uscirne liberi e passare nel paese di Lepanto con quello che avevano addosso, dalle armi in fuori, e salvo l'onore delle donne: e tanto venne loro promesso ed attenuto anco troppo, imperciocchè taluni soldati per avere fatto cenno di sfogare su certe donne turche voglie libidinose e ladre, furono, per comandamento di Andrea, impiccati senza pietà; e poi, studioso che anco dai barbari la sua parola come religiosa si venerasse, egli medesimo, insieme col Sarno e col Salviati, volle accompagnare i prigionieri fino sul lido. Andrea, poichè vedeva succedergli prosperevoli le cose, si accinse a tentare i Dardanelli, e quivi difilato si avviò per mare, commettendo al Conte che co' suoi vi s'incamminasse per terra, parandosi facile e breve la via. Questi Dardanelli si avverta non confondere con gli altri che con nome pari stanno nel Bosforo, l'uno dal lato della Europa, l'altro dell'Asia; di quelli di cui ragioniamo, uno è in Acaia, o vogliamo dire Morea, l'altro in Etolia o Romelia; entrambi chiudono la imboccatura del golfo di Lepanto; formidati arnesi a quei tempi, ma più quello costruito da Baiazzetto sul lido etolio con batterie a fior d'acqua, le quali rendevano lo appressarsi delle armate nemiche non solo pericoloso, ma di sicurissimo esizio. Andrea, in ciò affannandosi molto certo Greco mascagno, a prima giunta ebbe profferte di resa dal Dardanello di Morea, chiamato _Rio_, cui egli conchiuse subito, e uscitone il presidio, diello a saccheggiare ai suoi, che però non poterono approfittarsi di altro, tranne vettovaglie, armature e targhe con archi. In questa arrivava la gente del Sarno, che a mano a mano imbarcavasi, e tragittavasi sopra la opposta sponda di Romelia; ma poichè tra i rimasti si sparse la fama del sacco fatto dalla gente di mare, e come suole se ne esagerava la fama, questi presero a tumultuare recusando seguire i compagni in Etolia, anzi, rompendo in aperta ribellione, si sbandarono pel contado mettendo a ruba i Greci amici. Anco qui tornò in vantaggio del Sarno essere provvido capitano, però che, sceso appena con la gente che aveva sopra la sponda etolia, si mise subito a rizzare su trincere e parapetti, i quali dette in custodia ai suoi archibugieri. Non erano ancora coteste opere condotte a termine, quando si vide venire per di dietro e di fianco certe squadre di cavalli sortite da Lepanto in soccorso degli assediati, contro i quali non giudicò opportuno movere all'aperto, non gli parendo potere combattere da due parti con frutto: allora prese a confortare gli archibusieri a tenersi quanto meglio potessero coperti, ed a far prova della consueta virtù, e certo ce n'era mestieri. I Turchi s'infransero contro cotesti ripari di fresco costruiti; e tramontato il sole, rifecero i passi tra per trovarsi più che non temevano laceri, tra per non potersi, mancata la luce, vendicare, pure mandando ai compagni assediati promesse di soccorso pel prossimo dì. Il Conte, dopo scorso lo spazio convenevole di tempo, ripassò sopra la sponda acaia per pigliare contezza della cagione onde non l'avessero raggiunto le rimanenti squadre dei suoi che furono quattro bande d'Italiani, una spagnuola: e poichè seppe il caso, si fece con pronti passi a trovarli, supplicandoli per onore della milizia mutassero consiglio, per affetto dei compagni, per istudio della propria salute tornassero al campo; non gli riuscì troppo arduo persuaderli; il duro fu col Doria, il quale, stando su loro intorato, diceva: — che, poichè se n'erano iti, non li voleva più accettare, lasciando ai Turchi la cura di erudirli negli ordini della milizia a suono di corda o di palo: — e quando, dopo molta ressa, parve ammollirsi, scappò fuori con un patto nuovo che li percosse più acerbo della vecchia rigidezza, e fu di volerli decimare a modo romano: alla fine consentì lasciarli in vita, confidando, che nella prossima battaglia con prove di militare virtù alleviassero, almeno in parte, il vituperio passato. Con queste genti il conte Sarno, pieno di buona voglia, passò dall'altra sponda, attendendo, per quanto fu lunga la notte, a rinforzare le fatte trincee e a costruirne nuove: appena si mise un po' di giorno, i Turchi di Lepanto tennero la promessa, anzi vennero tre volte tanti, ingrossati dai presidii tratti fuori dai castelli vicini, e risoluti di espugnare le trincee; per lo contrario il Conte era disposto non li volere aspettare nei ripari, e tostochè li vide, lasciatavi dentro una mano di archibugieri capace a ributtare gli assediati, caso mai si cimentassero a sortire dal castello, venne fuori allo aperto, con ischiera stretta, difesa su i fianchi dagli archibugieri sparsi. Per essere stata cotesta, piccola battaglia, non fu per ciò meno pertinacemente, nè meno lungamente combattuta delle più famose, però che durasse lo intero giorno, nè i Turchi giungessero mai a sgominare la schiera del Sarno per quanti urti le dessero; molti i morti di qua e di là; più i Turchi, i quali, comecchè incavallati, e i nostri pedoni, pure per lo incredibile agitarsi, più presto affralirono, onde a vespero non potendo più reggere, voltate le spalle, andarono a pigliare riposo. Il Doria, d'accordo col Sarno, statuì non aspettarli al nuovo giorno, e rinfrancati i corpi di cibo e di bevanda, gli animi accesi con la speranza del saccheggio, e l'obblio degli errori commessi, nel mezzo della notte, battè furiosamente dalla parte di terra e di mare il castello chiamato Moliereo; poi tra lo strepito, le tenebre e la paura, spinse la gente invelenita allo assalto. A chiarire qual gesto fosse, basti tanto. Il presidio giannizzero vi si fece ammazzare tutto, e volendo perfino con la propria morte offendere i Cristiani, taluno di loro mise prima di cadere fuoco alle polveri, onde il castello e la terra ne rimasero sconquassati: oltre a cinquanta degl'imperiali sbalestrati in aria perirono: il naviglio altresì ebbe a patirne danni per morti pesti dai sassi, arbori rotti e vele lacerate. Qui trovarono due grossissimi pezzi di artiglieria, uno dei quali Andrea donò al prode conte di Sarno, l'altro al priore Salviati; il rimanente bronzo prese per sè, e recatolo a Genova, ne adoperò parte per farne gettare la statua di Nostra Donna, la quale pose nella Cappella, poco prima edificata da lui sul molo, col ritratto della preda tolta ai Turchi alla Pianosa, per comodo delle sue ciurme; la quale statua donata nel 1826 dal Principe Panfili Doria a certa confraternita, oggi orna l'altare dell'oratorio della Madonna del Rosario, fondato sul primo tratto della salita di San Francesco di Paola. E non vi ha dubbio, dalla impresa di Andrea nel Levante potevasi ricavare maggiore profitto di quello, che torre via Solimano dalle terre dell'Austria; tuttavolta, non fu poco, e se più non si potè, non vuolsi darsene la colpa a lui; nei luoghi presi lasciò presidio, massime a Corone, al quale prepose il Mendozza, e siccome questi ci si adattava di pessima voglia, così egli per levargli via ogni sospetto, gli diede fede di cavaliere cristiano, che lo avrebbe in ogni stremo, anco a proprie spese, soccorso, dove lo Imperatore fosse stato impedito, e a questo modo tranquillatolo, si condusse a Genova. Qui per la prima volta Andrea accolse Carlo V, che di Germania trapassava in Ispagna, nelle proprie case di Fassuolo. Un dì appartennero ai Fregoso, per donazione che la Repubblica ne fece a quel Piero Fregoso che conquistò Cipro; Andrea le ampliò, dentro e fuori da Pierino del Vaga, e da altri maestri della scuola di Raffaello di Urbino le fece dipingere; vi condusse acque, vi piantò boschi, orti e giardini, cominciando da svellere scogli, deviare torrenti, e per ultimo portarci terra; asprezze liguri vinte con pertinacia pari, spesa maggiore dei corsali barbareschi su i mari; poi case e giardini ornò di terrazze e di colonne di marmo di Carrara in copia stupenda; i fregi architettonici, i bassirilievi e le statue allogò al toscano Montorsoli, non ultimo tra gli allievi del Buonarroti; l'empì di arazzi, di tappeti, di damaschi e di broccati, varia la suppellettile e tutta preziosa; i vasellami di oro, di argento, e altre materie finissime valevano un tesoro, dimora piuttosto da uguagliarsi a quelle dei potentissimi principi, che da anteporsi alle altre di qualsivoglia più facoltoso privato; e nondimanco, se la esamini con sottile diligenza, ti parrà quale veramente era stanza di Corsaro, e di tale, che, non osando ancora scoprirsi tiranno, pure intendeva non essere considerato cittadino uguale agli altri; di fatti le opere sotterranee vincono due volte le sopra edificazioni; sotto terra tu trovi forni, mulini, lavacri e celle infinite, dove teneva chiusi prigionieri e schiavi; e magazzini per riporvi le munizioni, gli attrezzi navali, e le prede; sotto terra un passaggio per cui, dopo molto scendere e avvolgersi riesci al mare, e fitti tuttavia contempli sopra gli scogli parecchi ferri corrosi dalla ruggine, per via dei quali, mercè di assi distesi a traverso, si faceva il ponte per iscendere dalle navi o per salirci: e lì dintorno, e pur sempre comprese nel medesimo recinto di muro, le fabbriche dei cordami, le case degli ufficiali, degli aguzzini e dei soldati. È fama, che lo stesso Carlo V, il quale munificentissimo principe fu, rimanesse sbalordito da tanta sontuosità, e ne tenne anco motto ad Andrea, che, secondo si costuma, gli profferse a parole larghissimamente ogni cosa, e lo Imperatore, dipartendosi dal canto suo da ciò che si pratica, invece di ringraziare rifiutando, accettò, e se con gusto di Andrea noi non possiamo dire; senonchè lo Imperatore per torlo di ansietà, se pure è che ansietà sentisse, aggiunse la condizione, che ogni arnese restasse al suo posto in perpetua custodia dei Doria, per goderselo quantunque volte od egli o taluno dei suoi fosse da fortuna o da vaghezza condotto a visitare Genova. La tradizione conserva eziandio la memoria di un fatto, che si afferma accaduto in cotesta congiuntura, ed io non trovo registrato in veruna storia; il quale, sia o no vero, dimostra quale opinione si avesse della sua splendidezza, ed anco un tal po' la indole dei patrizi genovesi, che sembra a que' tempi fosse un miscuglio di ostentazione e di parsimonia. Dicesi dunque, che Andrea, per via dell'andito fabbricato sopra gli scogli tutto allo intorno chiuso di tappeti e di arazzi, dal palazzo conducesse lo Imperatore sopra la maggiore delle sue galee acconcia per modo, da presentare allo aspetto un delizioso giardino, la quale galea, mentr'essi s'intrattenevano in gravi ragionamenti, senza che lo Imperatore se ne accorgesse, fu rimburchiata dalle barche in mezzo al porto; di ciò avendo egli preso inestimabile diletto, quando prima il conobbe, confortato dal maestrale che ventilava soave su le acque, disse, che gli sarebbe riuscito piacevole pranzare costà. Espresso appena il desiderio imperiale fu soddisfatto; chè come per incanto apparvero subito messe magnifiche tavole rallegrate da musiche di suoni e di canto che levavano intorno alla galea gente travestita in Deità marine: ma quello che più mosse ad inarcare le ciglia fu, che, ad ogni mutare di vivande, erano i vasellami di argento tolti dalla mensa e scaraventati nel mare. Rispetto a Carlo lo spreco ci sarebbe stato sempre, ma non tanto, se vero è quello che il Brantôme riferisce di lui, voglio dire, che, per parere singolare in tutto, ogni atto volontario della vita egli rinnovasse tre volte, così tre vivande cibava, tre volte beveva, e così di tutte le altre cose tanto di quelle che si possono dire, che di quelle altre, le quali si devono tacere; ma pei cortigiani procedeva diversa la bisogna, a cui la facoltà di soddisfare smodatamente gli appetiti della vita somministrò in ogni tempo causa suprema per attaccarsi alle Corti. Cotesta profusione taluni giudicarono prodigalità, i più pazzia; ma Andrea, che non era matto, e prodigo anco meno, aveva ordinato stendessero pel mare sotto la galea una larghissima rete, dove caduti i suoi vasellami, dopo partito lo Imperatore, bravamente li ripescò, parendogli, com'era vero, ch'essi troppo meglio stessero negli armari che nel fondo del mare. A Solimano recò grave molestia la perdita di Corone, non tanto perchè fosse fortezza di conto, quanto perchè somministrasse baldanza ai Greci di desiderare, e macchinare cose nuove; quindi deliberò riacquistarlo. Il Mendozza, che vedeva quel nuvolone ammannirsegli addosso, sollecita lo Imperatore con grande istanza a sovvenirlo; al Doria ricordò la promessa; veruno dei due gli venne meno, anzi lo Imperatore, per giovargli troppo, gli nocque, imperciocchè, desiderando inviare Andrea in coteste parti più che potesse gagliardo, gli scrisse avrebbegli aggiunto dodici galee costruite per cura di Alvaro da Bazano nella sua assenza di Spagna; però le aspettasse. Il Doria salpava da Genova per Napoli con ventisette galee e trenta navi grosse, divisando costà mettere a bordo le bande dei veterani spagnuoli reduci dalle guerre di Lombardia, ed attendere il Bazano, ma trovò, come spesso accadeva, che gli Spagnuoli, ammutinati per difetto di paghe, scorrevano rubando il paese, o terra di Lavoro, ed avevano altresì sforzato la città di Aversa: il Bazano non si era anco visto, e qualunque se ne fosse la cagione, nè allora nè poi convenne alla posta: degli Spagnuoli giunse a capo il marchese del Vasto, il quale, saldandoli delle paghe e riprendendoli con acerbe parole, gli ridusse alla obbedienza: uno pagò per tutti; il capitano Molina accusato per capo; veramente egli non aveva misfatto di più nè peggio dei compagni, e così pareva a tutti; ma assicurati che da lui in fuori non si saria presa altra vendetta, sembrò anco ai compagni, che veramente egli fosse stato il caporione del tumulto, e lasciaronlo di quieto mazzerare. In simili rivolgimenti un Molina ci ha da essere sempre, e bazza a chi tocca. Intanto che Andrea si allestiva, fece risoluzione di mandare innanzi Girolamo Pallavicino, arditissimo uomo, e sembra gli tenesse compagnia Cristoforo Doria, giovane non meno arrisicato di Lamba, se pure non appartennero questi due nomi ad un individuò solo: questi con destra galea dovevano portare agli assediati vettovaglie e diecimila scudi per le paghe, e più delle paghe e della vettovaglia desiderata la nuova dello imminente soccorso; andarono gl'intrepidi Genovesi, nè perchè trovassero la flotta turca attelata dinanzi Corone mutarono consiglio; chè anzi fulminando su le acque a golfo lanciato nella folta dei nemici si abbrivano, e, poco o punto offesi della grandine delle artiglierie, li trapassano. Stavano tuttavia i Turchi trasecolati del temerario ardimento, quando Girolamo e Cristoforo, sbarcate la munizione e la pecunia, appresi certi segreti necessari intorno ai nemici, di bel mezzogiorno, respinti consigli e preghiere, com'erano venuti se ne vollero andare. Anche qui sperimentarono la fortuna cortese, la quale non solo tolse che le palle nemiche li fracassassero, ma anco volle che dalle galee turche, lanciatesi con inenarrabile furore a dare loro la caccia, come per miracolo scampassero. Andrea pertanto essendo rimasto da essi ragguagliato, che i Turchi attendevano rinforzi di Levante, massime il Moro di Alessandria temuto corsale, rotto ogni indugio, veleggiò per Zante; quivi occorse nell'armata veneziana, dalla quale ebbe avviso l'armata turchesca per lo arrivo del Moro, cui egli non era giunto a prevenire, essere cresciuta fino ad ottanta galee, e mostrarsi ottimamente presidiata da grosse bande di Giannizzeri, esperti in mare, condotti da Luftimbey di Gallipoli; di aiuto non si parlò pure un motto; nè per questo egli o smarrì l'animo, o mutò consiglio, e deliberato in tutto di osservare la fede al Mendozza, spedì da capo Girolamo Pallavicino ed il consorto Cristoforo perchè specolassero il numero e la posizione del naviglio nemico; costoro andarono, e secondo il solito risposero ai desideri di Andrea, il quale, approfittandosi del tempo, pel cammino diritto si avviò a Corone, passando tra capo Gallo e la isola di Ticanussa, che i paesani chiamano Venetica, un canale angusto e più di un miglio lungo, e fu arrisicata ma necessaria navigazione, però che il vento soffiando di terra, se così non avvisava, avrebbe sospinto le navi in alto mare. Questo fu l'ordine di battaglia per accostarsi a Corone: il Doria mandò innanzi due galeoni, uno suo, l'altro del Belluomo siciliano, con raccomandazione di rasentare quanto più potessero a mancina la riva; caso mai i Turchi tentassero spuntare da cotesta parte, essi calate le ancore facessero prova di ributtarli virtuosamente; dopo ciò spinse oltre le navi a due a due di faccia alla costa sempre dal lato manco, ed egli con le galee navigava a canto, pigliando a destra ed abbracciandole con una lunga elittica, e ciò per difenderle ed esserne difeso; che o intatto o con poco danno egli voleva uscirne per istringere i Turchi da due lati, e di fronte costringerli a rimanersi fra le batterie di Corone e lui: il Salviati, priore di Roma, con le galee pontificie tenne il corno destro, il centro Andrea, e andava seco Federigo figliuolo di Pietro Toledo vicerè di Napoli a cui il padre lo aveva commesso per erudirsi nella milizia; il sinistro corno toccò ad Antonio Doria. Luftimbey, quantunque sollecitato, come poi ne corse la fama, dal Moro, non volle scostarsi dalla riva e dar dentro alle linee prolungate troppo e sottili di Andrea, come nè aggrupparsi su le punte dei corni e quivi ingaggiare battaglia togliendosi dinanzi alle batterie delle fortezze: vuolsi credere, che in questa pertinacia lo confermassero la fiducia di potere da per tutto bastare contro il nemico come quello, che tanto gli stava sotto per numero di navi e per forze, ed il sospetto, che scostandosi dal lito parecchi legni imperiali scivolassero a munire Corone di fodero e di armati. Caso fosse o colpa, due delle navi che procedevano di conserva vennero a intricare insieme sartiame ed antenne, donde scompiglio e trepidazione pel fumo e lo scoppio delle artiglierie. Gli Spagnuoli, poco pratichi del mare, disperati della salute, pigliano a buttare giù i palischermi, e a saltarci dentro per fuggire: questi sopraccarichi colano a fondo; molti per la paura di annegare annegano. I palischermi rimasti a galla i Turchi sfondano a cannonate: poi investita una nave ci saltano su e quanti ci trovano ammazzano; subito dopo si arrampicano su l'altra dove il capitano Ermosilla era riuscito a tenere molta parte dei suoi; qui si fecero prove mirabili, chè conobbero potere dare salute non ispirare salute; ma non pareva che i Cristiani ne avessero a uscire, perchè i Turchi avevano guadagnato di colta la prora e il ponte di mezzo; nonostante ciò l'Ermosilla, ritiratosi nel castello di poppa, si difendeva con zuffa a coltellate. Andrea di botto si avventa con alquante galee, e tale spara dintorno una grandine di palle da levare la voglia ai Turchi di venire in soccorso degli assalitori delle navi, e con ordine concitato commette ad Antonio voli alla riscossa; questi non sapendo come sovvenire agli amici così accapigliati co' nemici stette un momento in forse, poi sparò sul mucchio; degli Spagnuoli ce ne rimase parecchi, ma, per buona fortuna, dei Turchi fu grande lo sperpero. In mezzo alla confusione Andrea, inteso a mandare a compimento il suo disegno, secondandolo il vento che si era messo gagliardo, spunta oltre a destra appoggiando a Corone; allora si conobbe espresso la battaglia andare perduta pei Turchi assaliti dai fianchi, e di fronte esposti alle batterie di Corone, le quali, sicure ormai di non offendere amici non rifinivano di lanciare palle. Dopo lungo ed ostinato combattere, dove copia di Giannizzeri rimase morta, e molti caddero prigioni, tra i quali Jusuff, vecchio loro capitano, i Turchi presero ad allargarsi tribolati da Antonio Doria, il quale non poteva darsi pace, che gli avessero ad uscire salvi dalle mani. Mentre con buona fortuna si combatteva sul mare, il Mendozza, soldato non meno avveduto che valoroso, sortì fuori assaltando il campo trincerato, che i Turchi avevano fatto intorno a Corone per assediarlo dal lato di terra, ed anco qui solertissimo Andrea gli porse efficace soccorso, ordinando alle fregate ed ai brigantini della flotta, che surti sopra lo estremo lito con la opera dei moschettieri tenessero lontani i cavalli, mossi di dentro terra per dare aiuto agli assedianti. Dispersi i nemici, il campo preso, cadde nelle mani del Mendozza tanta copia di vettovaglie e di arme, che tra per questa preda e tra per le provvisioni sbarcate dal Doria, dalla estrema penuria si fece trapasso alla massima abbondanza. Andrea, rilevato il Mendozza dal comando della fortezza, ci lasciò Roderigo Maricao, capitano spagnuolo, con le fanterie vecchie imbarcate a Napoli; l'agà giannizzero Jusuff rinviò non solo senza riscatto, ma con doni, sempre intento a condurre i Turchi a pigliare costume della buona guerra; studio, che forse in lui fu qualche volta soverchio, e non ne uscì senza biasimo, come la Cristianità non ne rimase senza danno; avrebbe ancora desiderato riportare più frutto da cotesta impresa perseguitando il nemico, e lo tentò, ma avendolo trovato surto su le ancore sotto le batterie delle fortezze di Modone, non giudicò spediente assalirlo con tanto suo svantaggio: per la quale cosa si ridusse al porto di Messina, dove Ettore Pignattello, vicerè di Sicilia, lo accolse sopra un ponte fatto sul mare, cerimonia che, per molta onoranza, si costuma co' re e con i personaggi di altissimo affare. Le paci tra i principi, il più spesso pongono fine in apparenza a nemicizie vecchie, ma sempre però danno esordio alle nuove: onde Francesco I non si tenne mai tanto gravato da Carlo, nè tanto si sentì struggere dalla smania di movergli guerra, come dopo la pace di Cambraia; ed aveva ragione; chè gravissimi n'erano i patti, e, se Carlo fosse stato prudente, avrebbe avvertito, che quanto più duri gl'imponeva, tanto maggiore creava la necessità di romperli; ma la fortuna fra i suoi doni ci mette sempre una benda. Francesco adesso le più strane leghe tentava; aizzato Enrico VIII, questi gli rispondeva lusinghiero, perchè infellonito contro Carlo, a cagione del repudio della moglie Caterina zia di lui, voluto dal Re per sospetto di parentela in vista, in sostanza perchè inuzzolito della Bolena; nè qui si fermava, che, agitando più immani conati, s'ingegna mettere in fascio il Turco e il Papa, ci avrebbe mescolato anco il diavolo; se però con lui fosse riuscito è incerto; certissimo, che riuscì col Papa e col Turco. Col Papa s'imparentò per via delle nozze di Caterina, figliuola a Lorenzo duca di Urbino, con Enrico duca di Orleans, il quale, morto il delfino, gli successe nel regno; con Solimano statuì attendesse a nabissare la Italia meridionale, intantochè egli attenderebbe a mandare sottosopra la settentrionale. Il Papa, per tenere il piede in due staffe, con Francesco si stringeva in parentado mediante le nozze della nepote come ho detto, mentre con Carlo si era già legato sposando Alessandro, suo figliuolo bastardo, con Margherita figliuola bastarda di lui, e giunto a questo si reputava beato, parendogli essersi costruito tal cassero donde potere, senza pericolo di offesa, rifarsi secondo le congiunture sul male di ambedue; reduce a Savona da Marsiglia, dove le belle nozze celebraronsi, egli seco stesso gratulavasi nella speranza di aver vinto con buono studio rea fortuna; Andrea, che lo andò a cercare a Savona per condurlo a Civitavecchia, forse fu messo a parte dei disegni dello astuto Pontefice; ma la morte, che tiene continuo fra le forbici il filo della nostra vita, e non si conta mai, appena giunto a Roma, lo tagliò fuori dai vivi; e la notte stessa della sua morte i cardinali in fretta, e in furia gli surrogarono Paolo II; sicchè in un attimo vita, concetti e nome di Clemente VII vennero dal regno dei fatti travolti in quello delle memorie; nè già tra le buone e nè anco fra le mezzane, bensì tra le male pessime; dagli offesi da lui la sua fama abominata e ai pochissimi beneficati comportabile appena. La nuova lega della Francia col Turco mosse eziandio in cotesti tempi querimonia grande per la cristianità; lo attestano gli stessi Francesi contemporanei; fra gli altri il Brantôme, il quale dice che apparve enorme chiamare un cane (così allora i cristiani appellavano i Turchi, e così allora appellarono e continuarono ad appellare poi i Turchi, i cristiani) a disfare la Cristianità, mentre prima la guerra tra cristiano e cristiano si conduceva in modi meno feroci. Ma il francese dopo stretto alla gola di confessare la verità, adesso gavilla per farsi una ragione ed afferma, che quando la lega della Francia col Turco non avesse fatto altro, che salvare dalla ruina la Chiesa di Gerusalemme e il Santo Sepolcro, che Solimano voleva ad ogni patto ruinare, e se ne tenne alle supplicazioni del Re, questo sarebbe stato un solenne servizio reso alla Cristianità; e qui mentisce, conciossiachè i maomettani venerino non meno dei cristiani Gesù e Mosè, quantunque non li reputino in dignità pari a Maometto; quindi il Brantôme rinfaccia a Carlo, che nè anch'egli si deve tenere per uno stinco di santo, dacchè la guerra di Alemagna non avesse già impresa per religione, bensì per ispogliare i protestanti; così vero questo, che permetteva ai Lanzichenetti vivessero a modo loro, ed egli concesse l'interim per guisa, che il suo confessore ordinario, non lo volendo assolvere, gli fu mestieri ricorrere ad altro; e sarà, ma ciò o non rileva, o significa questo, che invece di uno furono due degni di condanna; e la cosa stava per lo appunto così. Solimano, non estimando riuscire a mettere piede in Sicilia, o messo a mantenercelo, laddove non possedesse luogo destro per ripararsi, e rifornirsi all'uopo, cercò di assicurarsi in Africa. Ibraimo, consultato su ciò, rispose avrebbe molto di leggieri ottenuto il suo intento, qualora potesse tirare dalla sua Ariadeno Barbarossa re di Algeri, il quale consiglio avendo incontrato grazia presso a lui, lo mandarono a chiamare per mezzo di oratori a posta. Poichè Ariadeno Barbarossa ebbe fama, a quei tempi, essere, assieme al Dragut, i soli ammiragli capaci di reggere a petto di Andrea, e con l'uno e coll'altro egli sostenne dure battaglie, ci sia lecito dare breve contezza del primo: del secondo più tardi. Orucco e Ariadeno fratelli, furono soprannominati entrambi Barbarossa, di padre greco vasaio a Lesbo[34]: di genio cupidi, di mano prodi, irrequieti per indole e per necessità, si fecero pirati: per acquistare un solo brigantino patirono molto; dopo più agevole assai mettere insieme per virtù delle rapine dodici galee ed altri legni minori: pigliarono nome di amici del mare, e così erano, ma al punto stesso nemici di quanti c'incontravano sopra; in breve diventarono terribili da Gibilterra ai Dardanelli, e per converso molti gli amarono con tenacissimo affetto, non solo perchè prodighi del rapito, come la più parte dei ladri sono, facilmente chiamavano altri a parte delle prede, ma eziandio perchè, se eglino procedevano tenaci nell'odio da un canto, dall'altro li provavano sviscerati nello amore tutti quelli che avevano a fare con loro. Diventati poderosi sul mare, cercarono sede opportuna sopra le coste del Mediterraneo per le stanze iemali e pei ripari; ne offerse loro la congiuntura Eutemi re di Algeri, che improvvido gli appellava aiutatori a combattere Orano allora tenuto dagli Spagnuoli: solito il fine; Eutemi scannato, si fa signore Orucco, mentre Ariadeno rimase solo a governare il naviglio. Orucco si resse un pezzo, con le arti consuete ai tiranni, le quali più o meno forbite, a seconda dei tempi, miriamo sempre, e da per tutto uguali, corruzione e terrore; all'ultimo anch'egli, combattendo contro gli Spagnuoli, rimane morto; gli subentrava Ariadeno uomo d'ingegno pari, di fortuna migliore; costui, inteso appena lo invito, con lietissimo animo si mosse, imperciocchè quanto maggiormente ha virtù di agitare il cuore dell'uomo lo spingesse: innanzi tratto la cura di conservare lo acquistato, cosa che, in mezzo a tanti e sì diversi nemici arabi e spagnuoli gli riusciva ogni dì più difficile; in seguito la protezione di grande imperatore pareva a lui, gli desse balía a imprendere gesti più alti, poi il desiderio di più vasta dominazione, per ultimo l'orgoglio blandito. Oltre gli acquisti per le terre italiche, cui egli capiva essere più scabrosi a farsi e a mantenersi, gli se ne offeriva uno molto destro nel regno di Tunisi da parecchio tempo sconvolto con guerre civili; causa del subbisso questa: certa mala femmina Lentigesia vocata, o quale altro fosse il suo vero nome, moglie del re Maometto, volendo nel regno supplantare il proprio figliuolo Muleasse a Maimone primogenito nato da altra donna, gli appose accusa di tramato parricidio; ed il marito vecchio, porgendo facile ascolto, secondo che accade, alla moglie giovane, cacciò Maimone in carcere, chè micidiale del proprio sangue aborrì diventare; Lentigesia, toltosi quel primo ostacolo davanti, corrotti coi doni i maggiorenti del regno, gli ebbe complici ai nuovi delitti, e di lì a breve, attossicato il vecchio re, assunsero al regno il figliuolo di lei: al quale, per quanto sembra, i cieli erano stati cortesi delle qualità, che formano il perfetto principe, raccontandosi, che, il primo dì della sua elezione, mettesse a morte Maimone con diciotto fratelli nati da diverse madri; i nipoti tutti; ed anco degli stessi baroni, aiutatori alla rea opera, parecchi: però dei fratelli ne scamparono due: Abdelmelec e Roscette; il primo, presa la vita in uggia, si rese monaco e morì come la più parte dei frati maomettani o non maomettani si muoiono, tenuto dai devoti per santo, dagli altri per capone. Roscette, rifuggitosi presso l'arabo Abdalla, incontrò grazia al cospetto di lui, e se lo fece congiunto, dandogli a sposa una figliuola; nè qui si rimase, chè mediante sue pratiche, aizzò contro Muleasse le tribù arabe già infellonite per le atrocità commesse, pel governo acerbo e soprattutto pel molto addomesticarsi ch'ei faceva co' corsali del Barbarossa e di altri Turchi famosi: le quali tribù avendo deliberato ribellarsi, per dare fine onesto al moto, pigliano Roscette e addobbatolo con le regie insegne, bandiscono volerlo insediare nel trono dei suoi maggiori. Da una parte e dall'altra raccolte genti, si venne a battaglia in campo aperto, dove dopo molto contrasto rimase sconfitto Muleasse, che si ritirò dentro Tunisi, e quivi attese, senza più oltre sortire, a sostenere l'assedio. Gli Arabi, manchevoli di artiglierie, imperiti negl'ingegni di espugnare fortezze e spinti da naturale voltabilità, dopo pochi giorni sbandaronsi: allora Roscette o sia che non si estimasse più sicuro presso il suocero, o quale altra causa a noi ignota lo movesse, riparò nella reggia di Ariadeno, un dì aiutatore dello snaturato fratello; e Ariadeno lo accolse festosamente, forse con animo lì per lì sincero (chè i primi pensieri dell'uomo sperimentiamo per ordinario benigni) e forse fin d'allora presago gli avrebbe porto l'addentellato per entrare nel reame di Tunisi; fatto sta, ch'ei lo condusse seco a Costantinopoli, e, presentatolo a Solimano, gli disse come intendeva valersene ai danni di Muleasse e a benefizio comune. Veramente Turchi o non Turchi, corsali o no, quando si tratta di acquistare un regno, la giustizia non ha mai messo scrupolo ad alcuno, ma, ogni volta che ci trovino il conto, anco ai corsali come ad ogni altro principe battezzato piace comparire onesti. Solimano s'innamorò di Ariadeno, ed Ariadeno, come di regola, di Solimano; tal coltello, tal guaina; però Ariadeno ebbe subito grado di uno dei quattro principali pascià, e fu bandito grande ammiraglio del mare con la commissione di rimettere Roscette a Tunisi; ampliare la dominazione turca nell'Affrica ed anco in Italia, se si poteva. Ariadeno, tolti seco sopra l'armata mille dei più valorosi Giannizzeri, si voltò in Calabria, mandando ogni cosa a ferro ed a fuoco davanti a sè: faceva precorrere la voce essere suo intendimento disertare il paese per vendicarsi dei danni recati dal Doria nella Morea, ed era strattagemma per cogliere alla sprovvista Muleasse, il quale, senza fallo ragguagliato dalla fama o dalle sue spie, deposto il sospetto non aría atteso a guardarsi. Di cotesta, piuttostochè guerra, ladronaia, meritano due casi che ne teniamo ricordo, comecchè singolari; il primo fu che i Turchi, trovate a Citerario sette galee nei cantieri sul punto di essere varate, le arsero; il secondo, che a Fondi la scattò di un pelo se non misero le mani addosso a Giulia Gonzaga, nipote di Pompeo Colonna, fanciulla di prestantissime forme, la quale ebbe di catti a fuggire in camicia: tempestarono lungo le coste della Calabria, e per le romane; presero Civitavecchia; scorrazzarono fino ad Ostia; e mentre in Roma e a Napoli si viveva in angustia grande, affannandosi in trepide non già gagliarde nè generose difese, ecco di un tratto il Barbarossa, imbarcate le genti, voltarsi a Tunisi: lo prese con inganno, lo tenne con virtù: finse avere seco menato Roscette, e dava ad intendere ai Mori, il re loro giacersi infermo dentro una lettiga regalmente ornata, che faceva portare dietro di sè; ma Roscette, come prigione, custodivasi a Costantinopoli; se i Mori, conosciuto lo inganno, ne arrovellassero, non è da dirsi; pigliate le armi, asprissimamente combatterono; ma visti morti da tremila di loro, e troppo più i feriti, cagliarono: allora il Barbarossa lenì le piaghe con parole blande e co' doni; anco reggendo, a paragone del Muleasse, fu giudicato benigno; così persuaso dalla indole propria e dal senno: chè aveva a capire non sarebbe corso gran tempo in cui dovria mettere alla prova la fede dei Mori. — Proseguendo nella conquista non andò guari che, mercè la opera di certo eunuco sardo, e dello agà dei Giannizzeri, ridusse alla devozione di Solimano tutto il regno di Tunisi. Per simile caso rimase acerbamente commosso lo Imperatore, parendogli come per esso non solo gli venissero disturbati i suoi disegni di conquista, ma fosse eziandio capace a fargli perdere il suo; onde riuscì agevole al Doria persuaderlo di pigliarsi cotesta impresa; anzi, stimolato com'era dalle istanze dei mercanti spagnuoli, i quali per torsi quel fastidio dintorno gli profferivano ogni maniera soccorsi, lo trovò disposto a partire con lui semprechè il Papa lo assicurasse, che, nello intervallo, la Francia non lo offenderebbe: il Doria pertanto ne tenne proposito a Paolo, e questi che si sentiva tuttavia tremare i polsi per la comparsa del Turco ad Ostia, non ebbe mestieri eccitamenti; lodò il Doria con altissimo encomio, facendogli altresì presente dello stocco, del cingolo e del cappello benedetti, insigni per oro e per gemme, come si costuma coi massimi difensori della fede; promise partecipare alla impresa con le sue galee, e spingendo la generosità fino al termine estremo, dove la Corte romana arriva nelle occasioni solennissime, permise a Carlo risquotere non so che decime dai preti dei propri regni: rispetto alla Francia, se si movesse, guai! Di vero la Francia non pure dava promesse larghissime di stare ferma, ma anzi ammannì la propria armata nel porto di Marsiglia per sovvenirlo (come protestava) all'uopo; in fatti, già s'intende, per dargli addosso, e finirlo dove mai la fortuna gli si chiarisse nemica; ciò fu cagione che Carlo, profferendo alla Francia grazie infinite, spedisse in fretta l'ordine ad Antonio da Leva, per mezzo del marchese del Vasto, che crescesse il presidio di Milano, e non levasse la barba di su la spalla per guardarsi dai tiri alla traditora dei Francesi e degli Svizzeri aizzati da loro. Il Marchese, fermatosi a Genova, conferì con Andrea il modo della impresa; era avviso del primo, che le galee genovesi movessero a pigliare le galee napoletane, e le sicule, procedendo poi di conserva a Barcellona, per torvi lo Imperatore. Adamo Centurione, tenuto da Andrea in conto di fratello, notò mal consiglio essere quello, che allungava il tempo e cresceva i pericoli senza prò. Andrea piuttosto andasse per Carlo a Barcellona; nel frattempo i legni siciliani salpassero; fosse per tutti la posta in Cagliari; e così piacque. Le galee, che Andrea condusse, furono trentadue; dieci del Papa, ventidue proprie, oltre ad una quadrireme bellissima, tutta dipinta e indorata, coperta di una tenda di velluto chermesino e di tela di oro: i marinari e i soldati vestivano di seta: i soldati mirabili per armi e per armature di forbito acciaio messo a rabeschi di oro: imbarcò ancora copia di artiglierie, così per la difesa dei legni, come per mettere in terra nelle fazioni campali: di combattenti non si patì penuria, però che la gioventù cristiana traesse dalle città e dal contado di tutto punto armata, soprammodo vogliosa di combattere cotesta santa impresa, ed anco un po' per abbottinare le terre dell'Affrica in fama di straricche per dovizie proprie e per rapine dei corsali. Gl'Italiani assoldati dallo Imperatore sommarono a cinquemila fanti in tre colonnelli capitanati dal conte di Sarno, da Agostino Spinola e da Marcantonio del Carretto marchese di Finale, figliastro di Andrea; ottomila Tedeschi bene in ordine vennero di Lamagna sotto la condotta di Massimiliano Eberstenio, e con esso loro cavalieri in buon dato, i quali senza pretendere soldo si mettevano in quella guerra al solito per devozione. Tutta questa gente distribuita sopra quaranta navi grosse fu avviata a Civitavecchia, dove con cerimonie solenni il Papa la benedisse, e consegnò il gonfalone della chiesa a Virginio Orsino capitano delle sue galere. Napoli fornì dodici galee, sette allestite dal vicerè Toledo, e cinque dai principi di Salerno, e di Bisignano, dallo Alarcone, dal Caraffa, e dallo Spinello. La gioventù siciliana, non volendo parere da meno della ligure, si armò, e provvide munizioni e naviglio a proprie spese: colà misero a bordo tutti i veterani spagnuoli stati di presidio a Corone, e nei luoghi di Levante, e cannoni di ogni maniera, e copia di vettovaglie da restarne maravigliati. Il Doria trovò in Barcellona lo Imperatore in procinto di partire con ottomila fanti, e settecento cavalli leggeri; i primi assoldati da lui; i secondi fornitigli dai grandi di Spagna, di cui lo seguitarono parecchi per acquistarsi la grazia sua e poi quella di Dio: principale tra questi Ferdinando di Toledo duca di Alba. Eravi eziandio Luigi infante di Portogallo cognato dello Imperatore, che venne con duemila Portoghesi spertissimi in mare su di venticinque caravelle ottimamente in arnese o vogli di artiglierie, o vogli di munizioni: stavano altresì ancorate in porto sessanta navi giunte di Fiandra per via dell'Oceano, che costeggiando raccattavano di porto in porto vettovaglie ed armi. Sul punto di sferrare fu bandito nè fanciullo nè femmina si attentassero a salire su le navi; la cagione s'ignora, ma forse sarà stata la difficoltà di trasportarli e nudrirli, imperciocchè rispetto ai costumi non sembra che gli Spagnuoli, massime i Portoghesi, a cotesti tempi stessero troppo su lo spilluzzico; così vero che il duca di Alba rammentato qui sopra, cattolicissimo se altro fu al mondo, movendo più tardi in Fiandra per le guerre di religione, menò seco una cappata banda di diecimila moschettieri, di cui facevano parte milleduecento cortigiane, ottocento a piedi, e quattrocento a cavallo, tutte belle e brave (ci attesta Pietro di Burdeglia abate di Brantôme che se ne intendeva) come principesse, e i Portoghesi giunsero in quel torno a tanto di eccesso, da pretendere santificati, in grazia di cerimonie religiose, abbominevoli accoppiamenti[35]. Questa l'armata imperiale; centosessanta navi grosse di gabbia; centotrenta galee, venticinque galeotte, e tre galeoni, una gran caracca della religione di San Giovanni, venticinque caravelle, ottanta squarciapini, trenta fuste; di legni minori un nuvolo; le fanterie trentaduemila e più, gli uomini di arme mille, stradiotti settecento; secondata dal vento toccò la spiaggia affricana in Utica, oggi porto Farina; la galera capitana al primo giungere dette in secco, ma subito la trasse fuori il Doria, che, girato il capo di Cartagine alla Torre dell'acqua, si trovò davanti Tunisi a mezzo Luglio del 1535. I Cortigiani, dallo incaglio della galea imperiale, cavarono ottimo augurio; se rompeva, lo avrebbero predicato migliore; intanto squadre fitte di cavalli fulminavano su e giù per la costa minacciando far volare via il capo, a cui primo si attentasse sbarcare; ma il marchese del Vasto, che fu in cotesta impresa luogotenente dello Imperatore in terra, come Andrea lo fu sul mare, le disperse a furia di cannonate e di moschettate: intoppo più duro gli si parò davanti la Goletta. Questa era una torre grande, munita attorno di forti bastioni armati di grossa artiglieria, e circa dodici miglia distante di Tunisi; lì presso entra l'acqua del mare e vi fa stagno, donde per via di canale angusto e povero di acque può andarsi in barca fino a Tunisi; traversa la foce del canale che sbocca nello stagno un ponte di legno, per cui è mestieri che passi chiunque, venendo da Levante, vuole ire a Tunisi. Ariadeno vi aveva preposto alle difese un suo creato, valorosissimo uomo, per nome Synam: più volgarmente noto col nomignolo di Giudeo, o perchè dalla legge giudaica avesse apostatato, ovvero in quella durasse. Quali e quanti i fatti di armi lì presso furono combattuti non importa raccontare; tanto basti. Il marchese del Vasto, mediante gli approcci, si accostò ai bastioni, che dalla parte del mare slargavansi assai, e prese a piantare le artiglierie per batterli, lasciando a custodia di quelle alcuni colonnelli italiani e spagnuoli. Il conte di Sarno, il quale per indole, e troppo più per colpa della fortuna sperimentata fin lì parzialissima, era diventato oltre il giusto audace, volendo mostrare dispregio ai Turchi, piantò il suo padiglione fuori della trincera quasi bravandone gli assalti, i quali non si fecero aspettare: dopo un'ostinata battaglia, gl'Italiani presero a cedere terreno; allora il Conte infellonito si caccia dinanzi a tutti, con la voce garrendoli, con lo esempio eccitandoli; i Giannizzeri intesi a vendicarsi danno di volta appartandolo artatamente dai suoi: egli, improvvido, dietro; di un tratto quando nessuno può sovvenirlo gli si serrano alla vita, e lo finiscono con innumere ferite; subito dopo si avventano contro i suoi sbigottiti, ricacciandoli laceri e sanguinosi fin sotto agli occhi degli Spagnuoli, i quali non distesero un passo per soccorrerli, o per vendicarli. Il conte di Sarno fu pianto da tutti, lodaronlo pochi, che la temerarietà anco dagli animosi, se in mal punto adoperata, piuttosto che valore reputasi follia; grandi poi corsero le querimonie a carico degli Spagnuoli, come quelli che, disamorati ai propri commilitoni, lasciarono menarne scempio sotto gli occhi propri; però indi a pochi giorni toccava a loro di pagarne il fio: perchè sortiti da capo i Giannizzeri fecero con tanta ferocia impeto contro gli Spagnuoli, che questi percossi da inusitato spavento ne rilevarono una dolorosa batosta. Il marchese del Vasto, da quello eccellente capitano ch'egli era, da ciò trasse argomento di conciliare gli animi degli Spagnuoli e degl'Italiani, disponendoli con forze unite a vendicarsi dei danni sofferti, e così per lo appunto successe in capo a pochi giorni, dove le due nazioni, combattendo a gara, penetrarono fin dentro i bastioni nemici, sebbene poi dallo sfolgorare delle artiglierie si trovassero costretti a dare indietro. Intanto essendo stati condotti a termine gli approcci dalla parte di terra, il marchese del Vasto si concertò con Andrea per batterla al punto stesso dal mare. Il giorno di poi sul fare dell'alba di qua e di là presero a tonare le artiglierie; Andrea, tenute ferme le navi su le áncore, e messi cannoni sopra le gabbie, spazzava i difensori dalle muraglie: le galee divideva in tre squadre di venti l'una, le quali, dopo abbassata l'alberatura, di tutta voga passando rasente ai muri sparavano: quindi di là allontanandosi facevano luogo alle sopravvegnenti: durò la bisogna senza intermissione fino a mezzo giorno con tanto rovinío, con tanto e sì pauroso frastuono, che la terra ne traballò, e se ne commosse il mare; il fumo denso, e fermo a cagione dell'aere senza vento, non concedeva la vista dei danni a vicenda cagionati dall'un lato e dall'altro: quando incominciò il fumo a diradarsi parve a taluno fosse sparita la fortezza, e poco dopo si conobbe aperto come tutto il sommo di quella tracollando avesse sepolto con immensa ruina arme ed armati. Salvaronsi pochi, e con essi Synam, i quali pel ponte fuggirono verso Tunisi: a mezza strada occorse loro Ariadeno tempestando; costui, con parole ebbre, uomini malediceva e Dio, ma l'amico Synam pacato ne blandì la rabbia dicendo: — a che monta il furore? Quanto da uomo poteva farsi noi abbiamo fatto; vieni e vedi. — Di vero il Barbarossa accostatosi contempla una macerie di sassi colà dove surse la Goletta, onde subito ridivenuto benigno esclamò: — era scritto! — Ed abbracciato e baciato lo amico, lo ebbe di ora in poi caro due cotanti più di prima. Così cadde la Goletta, e con essa vennero in potestà dello Imperatore centocinquanta pezzi di artiglieria di bronzo, cinquanta grossi di ferro, quarantasei galee, sei galeotte, ed otto fuste ricoverate dentro lo stagno. Allora Muleasse si presentò allo Imperatore, e poichè nel fargli omaggio questi non risparmiò veruno atto di abietta umiltà, persuaso dalle adorazioni orientali, piacque a costui, che gli promise restaurarlo nel regno; anzi, non si sa se più stupido di mente o di cuore, additandogli le ruine di Goletta gli disse: — ecco, questa porta vi ho aperto per tornarvene a casa. — Potrei astenermi di raccontare il modo col quale Tunisi cesse alla fortuna di Cesare, ma poichè ci accaddero alcuni fatti alla italiana milizia onoratissimi, ed altri (questo importa di più) pei quali questa nostra umana natura rivela la sua origine divina, chi vorrà biasimarci se cediamo al talento di raccontarli? Il Barbarossa ora spediva celeri messi dentro terra per raccogliere gente, e gli riuscì, perchè, se avevano in uggia lui, troppo più odiavano Muleasse, e poi ci adoperò la pecunia, supremo persuasore dei popoli così selvatichi come ingentiliti: in breve furono ventimila cavalli, oltre gli assoldati. Lo Imperatore, colto tempo opportuno, mosse l'esercito contro Tunisi con questa ordinanza: gl'Italiani sul corno sinistro verso lo stagno, gli Spagnuoli a destra presso gli oliveti, i Tedeschi in mezzo con l'artiglieria; il duca di Alba conduceva i cavalli in dietroguardo rinfiancati con parecchie squadre di archibusieri, per timore che venissero sopraffatti dalla cavalleria nemica: inoltre nel presagio dell'arsura, accostandosi ormai il mese di Luglio, i capitani ebbero mente ad ordinare ai saccardi portassero su le carra molti otri pieni di acqua, ed ai soldati si munissero di borraccie di acqua mescolata col vino: com'è da credere, innanzi ch'ei si affrontassero col nemico, le borraccie non contenevano più stilla, ed avendo scorto nella pianura non so quali cisterne essi fecero le viste di scompaginarsi per l'agonia del bere; nè le voci curavano; e la presenza degli ufficiali ormai non valeva a tenerli; fu mestieri si mettesse dinanzi lo stesso Imperatore, il quale posta la mano sul coperchio di una cisterna con gran voce esclamò: — nessuno beva qui, se ama la vita, che queste acque attossicarono i Giannizzeri, e me ne ha chiarito il re Muleasse: osservate gli ordini, che il nemico, cogliendovi alla sprovvista, non vi mandi per la mala via: ogni squadra che starà ferma al posto avrà un otre pieno di acqua. — Fosse vero questo, o piuttosto un suo trovato, giovò, imperciocchè le compagnie, ricredute di potere approfittarsi delle cisterne, stettero in ordinanza. Intanto anco il Barbarossa si era messo in assetto di sortire da Tunisi: dicevano traesse seco centomila combattenti tra Turchi, Arabi e Mori, e si ha a tenere esorbitanza per fare o più splendido il trionfo o meno turpe la disfatta di Cesare: provava Ariadeno inestimabile fastidio di settemila cristiani suoi prigionieri, chè condurli seco gli pareva male, o lasciarseli indietro anco peggio: strettosi a parlamento con alcuni, che suoi più fidati erano, od egli reputava tali, dopo varie opinioni si fermò in questa: gli avrebbe chiusi tutti dentro la Rocca e a due a due incatenati fra loro; in caso avessero balenato di tentare novità, alcune guardie a ciò commesse, dato fuoco a lunga traccia di polvere, avrebbero fatto scoppiare le mine, onde quanti erano sarebbero stati scaraventati per l'aria. Synam giudeo s'industriò con bellissime ragioni a removerlo dal fiero concetto, ma non fece frutto; e gli diceva: — cotesto sarebbe stato segno di disperazione, dalla quale gli uomini forti davvero aborrono sempre per generosità, e perchè altri non si disperi: perduto uno Stato per virtù o per fortuna altrui, per fortuna, o per virtù propria potersi riacquistare; ma la fama con le nostre mani contaminata non si ricupera; che il nome nostro inspiri timore, a noi giova; nuoce, se orrore. — Nè raccontando questi casi io dubito, che altri possa pensare da me, per arte, dipinto troppo crudele il Barbarossa, e troppo mansueto il Synam, perchè quanto al Barbarossa importa ricordarci, come nei tempi che i nostri padri videro, il Danton facesse nelle giornate di Settembre ammazzare nelle prigioni di Parigi quanti monarchisti ci si trovavano, non dopo, ma prima che i nemici irrompessero dalle frontiere; non in castigo di fatti operati, ma per paura che gli operassero. Del Synam poi gli storici ci conservano una pietosissima avventura; l'ultima del viver suo, la quale se palesa quanto tesoro di affetto si ascondesse nel cuore di cotesto Corsale, testimonia altresì la profonda amicizia che a lui professava il Barbarossa: ed è ragione, che se nelle forti nature allignano, più spesso che non si vorrebbe, passioni truci, esse, e solo esse somministrano a un punto il terreno adattato alle lodevoli e alle buone. Synam ebbe un figlio giovanetto, il quale caduto nelle mani del signor Iacopo di Appiano, signor di Piombino, venne dal medesimo amorevolmente nudrito, e qui fece bene; volle poi che ricevesse il battesimo, e qui non fece bene nè male; per ultimo supplicato renderlo al padre, previo il consueto riscatto, si rifiutò, e qui commise ingiustizia. Il Barbarossa, tornando nel 1544 di Francia in Levante, sostò a Lungone, donde spediva al signor Iacopo un uomo discreto a proporgli la restituzione del fanciullo; in compenso di che egli prometteva serbare incolume la isola dell'Elba, ed ogni altra spiaggia dintorno. Il signor Iacopo rispose ad un bel circa come il Papa in pari occasione, _non possumus_; ma il Barbarossa ch'era turco, montato in furore, devastò Capoliveri con tutta la parte della isola spettante al D'Appiano, e più oltre minacciando, prometteva, passato il Canale, di andare a mettere Piombino in un sacco di cenere: io non so se il Papa udita simile antifona si sarebbe intorato nel _non possumus_; fatto sta, che Iacopo si persuase come, volendo, egli poteva benissimo; onde, senz'aspettare altri danni, rimandò il fanciullo al Barbarossa con parole di ossequio, e con ricchi doni, il quale tornato a Costantinopoli adoperò diligenza affinchè il figliuolo si conducesse presto e sicuro nelle braccia del padre, in quel torno ammiraglio dell'armata turchesca nel golfo Persico. Il Synam, quando prima si vide comparire davanti l'amatissimo capo, mosse ad incontrarlo traballando a modo di ebbro, e nello stringerlo al seno tanta piena di affetto lo assalse, che, prosciolte le braccia, stramazzò morto senza nè una parola nè un gemito. L'ordine della battaglia, per quanto possiamo conoscere dalle sparse e varie memorie, sembra fosse il seguente: gli stradiotti, o cavalli leggeri, che allora si tiravano di Grecia, e per lo più erano albanesi, passarono dal dietroguardo a badaluccare innanzi le prime schiere: dello esercito si formò una massa profonda a mo' della falange macedone; in capo delle compagnie, di tratto in tratto, si preposero squadroni di uomini di arme, o vogliam dire cavalieri di grave armatura: sui fianchi, sparpagliati, gli archibusieri per non si trovare all'impensata assaliti di scancío. I panegiristi dello Imperatore lasciarono scritto ch'egli primo ingaggiasse la battaglia, e lo bandirono degno della corona civica per avere salvato Andrea Pontico cavaliere di Granata, che ferito si versava in estremo pericolo, essendo rimasto col cavallo morto addosso; la corona gli avranno senza dubbio offerta, ed egli presa, e col sentirsi ripetere quel gesto, forse avrà finito col crederci anch'egli; chè la presunzione è maliarda capace di questi tiri, ed anco di maggiori; ma il vero fu, che lo Imperatore, pei conforti dei suoi capitani, si ridusse al sicuro nella battaglia dei Tedeschi, e la zuffa ingaggiò Ferdinando Gonzaga, anch'egli milite volontario senza carico alcuno nello esercito imperiale; egli fu che alluciato un Moro, che alla burbanza degli atti, alla splendidezza delle armi ed al cavallo stupendamente bello appariva maggiormente fra gli altri, gli si avventò contro con la lancia, e tanto la fortuna secondò l'ardimento che di un colpo passatolo fuor fuora lo spinse a rotolare sopra la sabbia: poi tratta la spada saltò in mezzo ai nemici, i quali, sovvenuto dai suoi incorati dallo esempio, ebbe con piccolo sforzo dispersi. Il Barbarossa aveva fatto trainare copertamente dietro le sue schiere tre grossi pezzi di artiglieria, avvisando accostarli quanto meglio potesse alla falange nemica, e lì aperta allo improvviso la fronte scaricarli addosso di lei; sperava con un nugolo di scaglia scompigliarla, e così trovare modo a farci penetrare la furia dei cavalli; ma gli andò fallito il disegno per la viltà dei suoi fanti, di cui le prime schiere ripiegarono sconfitte su le seconde, e queste sopra le altre, sicchè poi tutte rimasero travolte nella fuga; nè il Barbarossa, comecchè giudicasse la giornata perduta, cessava la guerra; all'opposto sperava provare la fortuna migliore al cimento dei muri; lo assicuravano i bastioni antichi della città, ed altri validissimi, che ne aveva fatto fabbricare di nuovi; soprattutto il cassero; ma a lui toccò vedere rinnovato il caso di Uguccione della Faggiuola, il quale lasciata Lucca per ridurre in devozione Pisa sottrattasi alla sua autorità, gli si ribellò dopo le spalle, sicchè invece di ricuperare una città, ne perse due; ed ecco il modo in che successe. Francesco da Medeleno di Spagna, e Vincenzo da Cattaro, entrambi rinnegati, come quelli nei quali molto si confidava il Barbarossa, furono con parecchi altri preposti alla custodia dei prigioni cristiani; udita ch'ebbero la espugnazione della Goletta, si misero a mulinare intorno alla partenza dello esercito imperiale; conobbero la vittoria impossibile, scabroso il resistere; certo, se cascavano in mano dei cristiani, di essere mandati su la forca: allora si sentirono presi da compunzione grandissima per lo peccato commesso, e deliberarono emendarlo; però, avvisati i prigioni dello esizio che pendeva loro sul capo, li fornirono di arnesi per isferrarsi; questo avendo compito acciuffarono con repentino impeto parte dei custodi alla gola, e parte con una grandine di sassi lapidarono: quindi, rotte le porte delle armerie, si misero in assetto, mostrando volere difendere la fortezza finchè loro bastasse la vita. Se questa ventura arrivasse acerba al Barbarossa non importa dire, che sbigottito e smanioso si diè a correre intorno alle mura esortando i prigioni a deporre cotesto periglioso partito; badassero bene; rizzate le scale agevole a lui ripigliare la fortezza di assalto, e allora guai a loro! Gli aprissero le porte; al sollecito obbedire egli avrebbe perdonato l'errore commesso: potevano rispondergli ad archibugiate; non si sa perchè gli fecero la risposta co' sassi, ma anche questi bastarono a chiarirlo, che egli era negozio finito, e che bisognava allontanarsi: di vero la faccenda stringeva, dacchè i prigioni col continuo inalberare e calare delle bandiere si affannavano a porgere avviso agl'Imperiali dello accaduto perchè si affrettassero, e lo imperatore bene avvertiva i segnali, ma che cosa significassero non si apponeva: al fine, partito Ariadeno con settemila Turchi da Tunisi per la porta opposta a quella dove si trovava lo Imperatore, il magistrato della città si fece alla presenza di Carlo, profferendogli e raccomandandogli la terra; e questo fece eziandio Muleasse, e lo Imperatore promise, ma non potè attenere, imperciocchè, entrato subito dopo l'esercito, trascorse, massime i Tedeschi, agli eccessi a cui per ordinario si danno in balía i soldati irrompendo nelle città vinte, anco se cristiane: pensa se turche: contaronsi i morti fino a settemila; delle altre immanità si tace. Andrea, desideroso che la vittoria fosse piena, commise ad Adamo Centurione, che tolte seco quattordici galee, andasse a dare la caccia al Barbarossa, ma costui, scoperto ch'ebbe alla lontana come i ponti delle galee nemiche andassero gremiti di Giannizzeri, reputò prudente astenersi da venire a cimento con disperati, donde il Brantôme nel concetto, che il Barbarossa fosse francese, e non potendo mettere giù la gozzaia contro il Doria, afferma che all'opposto il Barbarossa fu quegli, che dette la caccia al Centurione, e non istà così: Andrea non sapendo come con l'Ariadeno fossero andati settemila Turchi, immaginò poterne avere facile vittoria, e fu per questo, che gli spinse dietro le galee mezzo vuote di presidio; chè i soldati essendosi dispersi per la cupidità del sacco non ci fu modo di radunarne su quel subito molti, nè i migliori; quando poi seppe dal Centurione, che bisognava ammannirsi a duro scontro, tosto si mise convenevolmente in ordine, e mosse a combatterlo, ma il Barbarossa non attese a dondolarsi, e quanto prima potè riparava in Algeri. Il Francese, sempre nello intento di scemare la gloria di Andrea, e crescere, l'altra del Barbarossa aggiunge, che, partitosi da Tunisi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto, andò a saccheggiare Minorca, e a pigliare porto Maone, ed anco qui, sia malignità od ignoranza, erra, però che il Barbarossa scampasse da Tunisi sul finire del 1535, ed alla impresa di Maone non si attentò prima della partenza di Andrea, nè la condusse già per virtù di arme, bensì con inganno, facendosi mettere dentro con mentite bandiere; per cui i Maonesi riputandoli amici rimasero distrutti. Lo Imperatore restituì il regno di Tunisi a Muleasse omicida di diciotto fratelli e di tutti i nipoti; oltre a ciò legittimo erede compariva essere Roscette, non egli; così operando forse avvantaggiò la fede cattolica, non certo la carità cristiana, nè la giustizia, senza la quale gli è un fabbricare su l'arena. Gli storici ci fanno sapere, come il magnanimo Carlo altro tributo annuo non imponesse al nuovo re di Tunisi tranne quello di sei cavalli e dodici falconi; ma il magnanimo Carlo, non nato austriaco invano, le cose sue sapeva assettare meglio di quello che non immaginino gli storici; di fatti, oltre allo avere assicurato il quieto vivere dei cristiani a Tunisi, lo esercizio della religione liberissimo, e i commerci, volle, che se ne cacciassero via i Corsali, ed aveva ragione; poi i nuovi convertiti di Granata e di Valenza, e fu sospetto iniquo, che non si fossero convertiti di buono; tutta la costa e le città litoranee sue; sua la Goletta con dieci miglia di contado dattorno; egli ci terrebbe presidio spagnuolo, lo pagherebbe il Muleasse; le pesche del corallo spettassero a Carlo: per osservanza dei patti, desse statico il re, in mano dello Imperatore, il suo primogenito. Se Carlo adoperava così con gli amici, fa ribrezzo pensare come conciasse i nemici. A celebrare questa impresa furono stanche un dì le trombe della fama; poesie, prose panegiriche a rovesci; i ranocchi abbondano alla stregua del pantano; ecci anco un poema epico _La Tunisiade_, parto della Musa di un vescovo tedesco; e un dì ne lessi non so che brani tradotti; a cui piglia vaghezza li troverà nell'_Antologia_ di Firenze: poi feste, falò, gazzarre, e _Tedeum_ come costumano oggi (i _Tedeum_ un po' meno) e costumavano ieri e costumeranno domani. Tanto agita potente il cuore umano la religione delle grandi opere, che mille volte delusa sul pregio di quelle, mille volte crede, che la vera opera magna sia l'ultima applaudita. Coniaronsi anco medaglie, e Andrea non si rimase da coniare la sua: questa da un lato lo rappresenta ignudo fino alla cintura, e più, con un remo in braccio appoggiato all'arbore della galea; nel rovescio si mira inciso lo emblema, ch'egli fece ricamare nello stendardo, e drappellò sopra la quadrireme conduttrice dello Imperatore da Barcellona a Tunisi, e da Tunisi a Palermo; il quale emblema mostra una stella radiata circuita da otto dardi: vi si legge dintorno: _Vias tuas, Domine, demonstra mihi_. Io so bene, che il ricordare poco o molto la inanità delle cose nostre non emenda la superbia umana; nè la stoppa arsa al cospetto del Papa, nè lo scheletro alle mense dei re di Babilonia, nè lo stendardo ai funerali di Saladino furono mai utili predicatori: e tuttavia ufficio è nostro ammonire sempre, quando ne capiti il destro, nella speranza che un dì i semi, non che ad altro, confidati alla sabbia germoglieranno. Qui ora giovi sapere, che la conquista di Tunisi con tanto sforzo ed a prezzo di così larga vena di sangue conseguita, andò perduta in processo di tempo a cagione del divieto chiesastico di cibare carne il venerdì e il sabato! Certo soldato francese, colto in trasgressione, fu preso e spedito in catene al Santo Offizio per esservi condannato: fortuna volle, che le galeotte algerine corseggiando pigliassero la nave dove ei si trovava: condotto in Algeri, come colui che ingegnoso era molto, espose ad Occialy il modo di espugnare Tunisi, indicandogli i lati deboli, e i luoghi acconci a scavarci le mura e le vie sotterranee: onde al Turco non riuscì arduo ricuperarla, il quale per cavarsi dalle mani la scheggia della Goletta la rovesciò dai fondamenti: a questo modo ebbe fine la dominazione degli Spagnuoli nell'Affrica occidentale. Intanto Francesco Sforza ultimo duca di Milano periva, e Re di Francia e Imperatore, lì pronti a stendere sopra lo Stato di lui le mani ingorde; l'uno e l'altro iattavano diritti per dominarlo; ed erano vani tutti, da uno in fuori; la viltà del popolo che non voleva o non sapeva cacciarli ambedue. La Francia voleva di più, e se lo pigliava, Nizza e Savoia; n'era signore il duca Carlo, zio del re, ma ragione di sangue nei petti umani non mise mai ostacolo all'odio e alla rapina; e poi lo zio ricambiava il nepote, quando gli veniva il destro, a misura di carbone; anzi i principi, quanto più congiunti, tanto più disposti a contendere, però che la parentela moltiplichi le cause dell'interesse fra loro; e poichè il re di Francia aveva trovato il terreno tenero, dopo Nizza e Savoia gli venne appetito (e questo succede sempre) di Susa, di Torino, di Chivasso, e se li pigliò; per questi, innanzi di occuparli, mancava perfino di pretesto a farlo, ma, occupati ch'ei gli avesse, era sicuro che in qualche archivio avrebbe trovato anche il diritto. Cesare Fregoso tenta cose nuove in Genova in pro della Francia, e non riesce; postosi in salvo, lascia dietro gli amici a pagare i cocci rotti; e questi sono conti che si saldano col capo: e così fu per Agostino Granara e Tommaso Sauli; al Corsanico venne fatto fuggire, ma lo raggiunse Andrea, che mandò lui e la nave che lo portava a cannonate nel fondo del mare. Lo Imperatore colto impreparato, per tenere a bada il re Francesco, lo agguindola con non so quali negoziati di nozze, e promesse d'investirlo del Milanese; e Francesco, dando nello impannato, mette campo a Cigliano. Strana cosa questa, che i principi sempre si truffino e sempre si fidino tra loro! Trovarne la ragione è impossibile: si comprende ottimamente che il grande desiderio che si ha di una cosa, metta intorno agli occhi ed agli orecchi la benda, ma sempre, fitto fitto, una volta dietro l'altra è da rinnegarne la pazienza! Carlo pertanto dissimulò, finchè non giunse a Roma, dove gli oratori di Francia gli chiesero la investitura del ducato pel re; lo Imperatore gli rimandava ad altro giorno per la risposta, il quale arrivato, egli prese a dire, con inestimabile passione, in pieno concistoro, le molte, e molto gravi ingiurie patite da Francesco: chiamò Dio giudice fra loro, e tanto si accese con le parole, che conchiuse profferendosi a definire la lite col suo avversario in singolare certame, con la spada in mano, e ciò per non esporre la cristianità alla ferocia turchesca, disertare tanti paesi floridissimi, ed essere cagione della morte di numero infinito di innocenti. Di ciò era nulla, o poco, ed egli il faceva per lavorare di traforo i principi italiani, i quali, paventando la sua soverchia grandezza, s'industriavano attraversarlo, massime il Papa, a cui pareva proprio provvidenza di Dio, che questi due flagelli d'Italia si dessero a vicenda sul capo, e si finissero; ma Paolo, che delle cortigianesche arti era maestro, finse della passione di Carlo altamente appassionarsi, le braccia stese al collo di lui; se piangesse non dice la storia, ma avrà pianto di certo; lo raumiliò con soavi parole, e impose silenzio agli oratori francesi, che dopo pochi ed interrotti accenti ebbero a tacersi. Dicesi che lo Imperatore tenesse in Asti, coi suoi più provati servitori, una consulta sul quanto fosse da farsi in Italia; quello che da altri fu consigliato non occorre riferire. Andrea gli toccò tre punti importantissimi; il primo fu che avesse a mutare Don Pietro di Toledo, molte essendo e gravi le querele del popolo contro di lui, il rancore dei baroni profondo; le mutue offese tali, da conciliarsi anco fra piccole genti scabroso, tra grandi a superbe impossibile. Lo stesso Carlo avere sorpreso pure, e trattenuto appena, il marchese di Pescara e il Vicerè con lo stile brandito nella propria corte, che bramavano venire al sangue. Ora parergli questo sicurissimo, che il Vicerè, approfittandosi del tumulto dei prossimi casi che avrebbero impedito di vigilarlo, sarebbesi vendicato; e posto eziandio che per lo addietro le cause delle querele fossero state o poche o lievi, di corto dovevasi temere di vederle diventate molte e gravi; donde, molesta discordia in pace; in guerra pericolo. Circa a Milano, due considerazioni dissuaderlo da conservarlo; l'una, che la Francia convinta della bontà del proprio diritto non sarebbe mai stata ferma da farlo prevalere; l'altra, che i principi italiani sospettosi nel vedere augumentarsi tanto la potenza imperiale in Italia, si sarebbero perpetuamente industriati a scemarla con ogni via: pendere perplesso in questo se ei dovesse o cederlo, o tenerlo; ma in questo altro essere chiaro, che innanzi di cederlo a principe debole, incapace a sostenervisi, lo serbasse per sè, conciossiachè a quel modo non sarebbe per nocergli quando se lo aspettasse meno: ridotto in potestà sua, fôra agevole reggerlo come parte di grande impero; per converso, separato e in mani dei nobili, facile a dare di volta; nè troppo nella bontà della persona preposta confidasse, perchè posto (ed era zaroso) che la persona eletta, anco contro la comodità propria, si mantenesse in fede, chi lo assicurava dei successori di quella? Procuri metterci di presidio un cinquecento uomini di arme, e un trecento cavalleggeri, a cui il popolo, bene inteso, facesse le spese, ma vietisi loro rigidamente vivere di rapina; al contrario sieno pagati, e paghino; così il popolo, vedendosi tornare il danaro in tasca, o non mormorerà di averlo a contribuire co' balzelli o mormorerà meno; anzi qualcheduno se ne loderebbe, perchè nel girare, che la moneta fa, se da un lato si parte o scema, dall'altro va e si accresce: ai soldati preponesse uomo dabbene, il quale col principe di Ascoli Antonio da Leva, vicerè di Milano, in fraterno accordo si comportasse. Quanto alla impresa di Provenza, che lo Imperatore disegnava fare, esortarlo a deporne il pensiero; e in questo avviso concorsero il marchese del Vasto, Fernando Gonzaga, Paolo Luciasco e il Gastaldo. Lo Imperatore non mutò il Toledo, e Dio sa s'ebbe a pentirsene; lo fece tardi, e quegli si partì da Napoli pieno di sangue, per girsene a Firenze presso il generoso Cosimo, a morirvi d'indigestione di beccafichi[36]. In Provenza s'incocciò ad ogni costo andare, sospinto da voglia ambiziosa e avara di mettere la mano su quello dell'emulo, e dallo assiduo serpentare, che gli moveva attorno Antonio di Leva, il quale, per dargli nel genio, mostrava tirarlo pei capegli colà dov'egli agognava precipitare; rispetto a Milano piacque a Carlo quello che sempre agli uomini, principi o no, piace; tenere. Se Andrea, nel dare cotesto consiglio, coprisse qualche suo recondito livore, è incerto; però fu creduto, e gliene incolse male, come a suo tempo si farà manifesto. Lo Imperatore, dopo respinto l'ammiraglio Cabotto, assediò Torino, ed assembrati da quarantacinquemila fanti e duemilacinquecento tra uomini di arme e cavalli leggeri, per tre diverse strade incamminano tutti a Nizza; la banda più grossa spalleggiata dal Doria per la riviera di Genova, e lungo la costa le galee le portavano bagaglio artiglierie; di vettovaglie la sovvenivano. Come questa impresa capitasse male, a noi non è spediente riferire per minuto: ne basti tanto, che essendo stato deciso dai capitani del re di dare il guasto al paese, perchè il nemico venisse a patire mancanza di fodero, i padroni delle terre e i contadini ebbero piuttosto mestieri di freno che di eccitamento; di che non poteva darsi pace lo Imperatore, parendo a lui che al popolo gregge non dovesse premere se un pastore piuttosto dell'altro lo tosasse; ed aveva torto, imperciocchè il popolo, quantunque non ami il padrone domestico, odii lo straniero; e il proprio si tirò addosso, e soffre, o crede essersi tirato addosso, e sopportare spontaneo, mentre l'altro presume, gli si voglia mettere sul collo per forza: in ogni caso, e sotto tutti i governi, ogni volta ne capiti la congiuntura, piacque al popolo dimostrare con gli atti ch'egli sa e sente essere arbitro in casa sua. Il re di Francia commosso, secondochè raccontano gli storici, dai danni patiti volontariamente dai Provenzali per devozione di lui, attese a guiderdonarli alla reale, cioè esentandoli per dieci anni da pagare i balzelli: dono è di re non torre. Scorrazzata la Provenza in parte, espugnato Tolone dove Andrea surse sbarcando arme, munizioni ed armati, preso Aix, adesso incominciano per Carlo le dimore, che avevano poco innanzi perduto Francesco in Italia; gli effetti pari, le cause diverse ed egualmente fallaci; qui lusinghe di accordi e di nozze, là lusinghe di consegnargli per tradimento Marsiglia; se questo trattato veramente ci fosse, gli storici non hanno saputo chiarire; qualcheduno ne fu incolpato, e tanto bastò, anzi ce ne fu di avanzo perchè i giudici lo mandassero a morte: ma la forca prova pochissimo adesso; allora nulla, chè a quei tempi tenevano la forca non testimonio del vero, bensì arnese cospicuo di regno, onde impiccavano per genio, per terrore, e talora anco per lusso; così vero questo, che lo Imperatore Carlo V, quante volte gli occorreva vedere un paio di forche, cavatosi ossequiosamente il berretto, le salutava; e questa devozione egli possedeva per eredità dell'ava Isabella la cattolica, di cui il cuore piissimo per tenerezza sdilinquiva quando mirava le forche ornate a festa, mentre al buon Sisto V, verace vicario di Gesù in terra, non meno pio di lei, mettevano _fame_[37]! E quello che apparirà strano è questo, che non solo Carlo, il quale a fine di conto ci mandava, le salutasse, bensì ancora i soldati che ci erano mandati; da tanto i popoli istruiti in quale stupida abiezione valga a ridurli il servaggio, redenti che sieno a libertà, la tengano cara; senza lei degne d'invidia le bestie. Mentre Francesco ributtava di fronte l'odiato nemico, non meno sollecito attendeva a levargli rumore dopo le spalle; in ciò egli aveva aiutatori segreti i principi italiani, e il Papa stesso: a questo effetto il conte Guido Rangone, Cesare Fregoso e Cangino Gonzaga sollecitavano a fare massa dei soldati alla Mirandola, dando voce volere andare a Torino in soccorso del Padilla; senonchè Andrea Doria, il quale con occhio obliquo li vigilava, e non faceva a fidanza, persuase lo Imperatore a rimandare indietro Antonio Doria con le sue galere, e settecento archibusieri capitanati da Agostino Spinola, perchè guardassero Genova: taluno afferma non essere stata questa sagacia di Andrea, bensì fortuna, chè gliene porse avviso il capitano Lonarcone sua spia: e posto che fosse così, non verrà meno per questo in Andrea la reputazione di solertissimo capitano. Antonio, messi gli archibugieri a terra, gli mandò con Bartolomeo Spinola a Novi, ma n'ebbero subito a sloggiare, imperciocchè, appena giunto, sapesse come la gente della Mirandola, ingrossata con alcune squadre di Bernabò Visconti, e di Piero Strozzi, in tutto meglio di diecimila tra fanti e cavalli, partita da San Donnino senza artiglieria, per la valle della Scrivia si affrettasse a Genova. Celeri stracorridori, spediti da lui, avvisarono la Signoria tenesse le galee in punto a Voltri, dov'egli arrivò trasportato per cotesti aspri colli in lettiga, sendo dalla podagra mal condotto; e la sera dopo entrò in Genova. La gente di Francia, sboccata da Seravalle nella Polcevera, si attendava a San Francesco della Chiappetta gridando: _Fregoso!_ e _Libertà!_ I contadini traevano al grido di Fregoso, un po' per odio contro ai patrizi, e molto contro gli Spagnuoli: di libertà non intendevano: quinci i Francesi andarono a Cornigliano, donde, partiti in due schiere, mossero ad assalire la sommità di Granarolo e la torre dello Sperone. La città attendevali munita presto e bene: Agostino Spinola si tolse il carico della difesa di San Benigno e di Fassuolo; Suarez oratore spagnuolo, con mille fanti tirati fuori di Alessandria, si postò su le mura del Bisagno; Antonio Doria, con duemila fanti, a Pietra Minuta e a Carbonara, Melchiorre Doria vigilava con le galee nel porto. Respinto l'araldo, venuto ad intimare la resa, si mise mano alle armi; la squadra condotta dal Rangone scala la torre dello Sperone, dove, ostando invano i militi volontari di Genova e certo capitano Corso, si arrampica con inestimabile ardire un alfiere, che pianta subito la insegna di Francia su la muraglia: pochi dei compagni lo seguono perchè alla prova trovarono corte le scale fabbricate in Polcevera; pure tra quelli che la volevano sgarare, e questi che inferociti si ostinavano a ributtarli, s'ingaggia una zuffa terribile; a farla finita ecco arrivare Agostino Spinola, che di colta abbatte la insegna, e alfiere e assalitori scaraventa a rompersi le ossa su i macigni a piè della torre. I nemici sbigottiti tornano colà donde erano venuti. Liberati da questa fortuna i Genovesi, tengono dietro le solite feste, e i soliti supplizi; ma di pochi e oscuri; ai Polceveraschi perdonano, allegando avere fabbricato le scale corte; e parve la scusa buona per non mandarli alla forca; a me sarebbe sembrata idonea per mandarceli, se si fosse potuto, due volte; la prima per avere fabbricato scale contro la Patria; la seconda per averle fabbricate con inganno; due tradivano, e a due stendevano la mano. Marsiglia non solo seppe resistere per la virtù dei Francesi, e molto eziandio per quella di Giampaolo Orsino, ma sortite alcune bande guascone ed italiane, a tale stretta ridussero con subito assalto Cesare, che si trovò in pericolo della persona, nè si salvava, se Marco Emilio veronese, con certi altri cavalieri italiani che stavano attorno, non gli avesse alquanto respinti. Tornandogli avversa ogni cosa, lo Imperatore, invece di assediare, si trova assediato; sicchè il suo esercito, per procurarsi un po' di vettovaglia, aveva bisogno di mettere ogni dì a saccomanno il paese: non trovando di meglio, e questo parendo ottimo, i soldati presero a empirsi di frutta, e di uva, donde una dissenteria maligna, che menò scempio nel campo. Lo Imperatore, avendo rassegnato lo esercito sul finire dello Agosto, lo trovò scemo della metà: per sè, ed anco pei superstiti atterrito deliberava rientrare in Italia, ma non lo avrebbe potuto, se il Doria non lo sovveniva di vettovaglia e di trasporti. Ora da capo la improvvida pigrizia sloggia dal campo di Carlo per girsene a pigliare stanza in quello di Francia; tornava destrissimo per un po' di sforzo, che ci si mettesse, fracassare gl'imperiali sgomenti, e pure i Francesi si peritarono: solo vennero alle mani più volte ricambiandosi dolorose botte due capitani Ferdinando Gonzaga, e Giampaolo Orsino: entrambi italiani erano; quegli per Austria; questi combatteva per Francia: per la Patria nessuno! che ormai la gravavano i fieri tempi nei quali ogni atto di valore dei propri figliuoli ribadiva un anello della catena di lei. Carlo tornato a Genova alberga nel palazzo Doria; quivi andarono a congratularsi con lui i vassalli, per elezione o per necessità condannati alla perpetua lode del padrone, se il nemico vinto, per la vittoria contro lui, se vincitore per averlo contenuto di stravincere: e poi lo Imperatore non poteva perdere nè errare: chi fallì fu Antonio da Leva, il quale gli suggeriva il mal consiglio: scrivono ne morisse di dolore; per me dubito sia morto anch'egli per soverchio di frutta mangiate; ma strane sono le passioni degli uomini e strani i casi che partoriscono: comunque sia, la sua morte fu giudicata pena condegna allo avere tratto lo Imperatore al passo disastroso; nessuno lo compianse; a lui, consigliandolo il Doria, Carlo si affrettò dare nel viceregno di Milano il marchese di Pescara per successore[38]. In questa cascò improvvisa la notizia della strage di Alessandro duca di Firenze: morto il tiranno non si spegne la tirannide se il popolo si trovi disposto a servitù; così veramente non era tutto a quei tempi il popolo fiorentino, bensì avvilito dalle battiture sofferte; disposta a servitù era, e molto, la parte che si appella degli ottimati, allora come sempre nemica alla libertà, a patto però di essere chiamata compagna alla dominazione, e tale, o per genio o per virtù del grado, anco Andrea Doria, e già lo avvertii: qui poi dirò com'egli d'accordo col Guicciardino procedessero operosissimi per mantenere Firenze in catene: i suoi offici questi; spedì celere una delle proprie galee a Livorno per sovvenire il Castellano se in fede, se traditore ammazzarlo; scrisse lettere ortatorie al cardinale Cybo (e non ce n'era di bisogno), affinchè perdurasse fermo in pro del signore Cosimino; ad Alessandro Vitelli fece dire, pigliasse la occasione a' capelli per avvantaggiare il fatto suo in grazia della imperiale riconoscenza; confortò il marchese di Anguilar, oratore di Cesare al Papa, ed alle proprie aggiunse le raccomandazioni dello ambasciatore Figuerroa, perchè con 2000 Spagnuoli si accostasse al confine toscano, ed il medesimo consiglio dette altresì al marchese del Vasto; il signor Cosimino ammonì, come giovanetto, a non perdersi di animo a cagione di coteste rivolture, ed il signor Cosimino gli rispose ringraziandolo come padre; e quanto ad animo stesse quieto; si fidasse in lui; e aveva ragione, però che in Cosimo fosse materia da fabbricare quattro tiranni, non che uno. CAPITOLO VII. Solimano, prevalendosi della discordia tra lo Imperatore ed il Re di Francia, piglia Castro e minaccia la Italia intera. — Il Papa si ricorda essere padre dei fedeli. — Congresso di Nizza. — Eremita che intende accordare Dio e il Diavolo, novella narrata dal medico Turini a papa Paolo III. — Tregua di Nizza. — Francesco e Carlo si vedono alle Acque morte. — Parole risentite scambiate fra Andrea Doria ed il re di Francia. Inverosimiglianza della proposta del Doria di trasportare il re di Francia a tradimento in Ispagna intanto ch'egli si tratteneva su la galea. — Anco da questa conferenza non riesce utile alcuno. — Osservazione del Bonfadio, e perpetua stupidità del popolo. — Andrea muove contro il Barbarossa; propone lega ai Veneziani a danno del Turco; non viene accettata, e perchè. — Piccole cose di Andrea e sperticati encomii del Bonfadio. — Lodi di Cesare Fregoso per la sua carità verso la patria. — Scontro alle Melere con poca gloria di Andrea. — Veneziani bisognosi di aiuto ne ricercano il Doria che ostinato lo nega. — Sue insidie per mettere i Veneziani in discordia con Solimano. — Lega del Papa, i Veneziani e l'Imperatore contro il Turco; i Veneziani abbandonati dal Doria rammentano l'antica virtù. — Comune pericolo riunisce i collegati. — Pier Luigi Farnese patrizio veneziano e marchese di Novara. — Assalto della Prevesa. — Andrea vuole rinforzare il presidio delle galee veneziane con fanti spagnuoli, si ringrazia, e non si accettano; donde nuove gozzaie. — In questa guerra tutti fanno il proprio dovere, tranne Andrea, che ne ritrae danno ed infamia. — Tenta Durazzo. — Piglia Castelnuovo. — I Veneziani disgustati dal Doria si accomodano con Solimano. — I Turchi ripigliano Castelnuovo; morte del Sarmiento. — Chi fosse il corsale Dragut; Giannettino lo piglia e lo mette al remo; trova grazia presso Peretta moglie di Andrea, che, per 5000 ducati con molto biasimo suo e danno della cristianità, lo libera. — Imprese del Dragut liberato. — Gand ribellasi allo Imperatore, che per reprimerla si affida passare per la Francia; lusinghe e pericoli; diamante lasciato cadere nel bacile che gli offeriva Diana di Poitiers. — Impresa di Algeri dissuasa dal Doria è statuita; cause che la persuasero a Carlo V. — Apparecchi e primi disastri. — Riunione delle armate ad Algeri. — Sbarco differito e perchè. — Resa intimata e reietta; si fa lo sbarco; scaramuccie durante il giorno e la notte. — Orribile uracano. — I Turchi finiscono i corpi avanzati degl'Italiani; minacciano lo sterminio del campo italiano ch'è soccorso da Giannettino Doria; pericolando egli stesso lo sovviene lo Imperatore. — I Turchi sono respinti e perseguitati fin sotto le mura; sortita di Osfan-Agà: strage dei nostri; valore dei cavalieri di Rodi: sgomento dello Imperatore, che tenta le supreme prove per salvare l'esercito e gli riescono. — Rinforza l'uracano; ruina dell'armata imperiale; superstizione di Carlo V; casi pietosi. — Virtù e costanza del Doria singolarissime; egli manda a dire a Carlo se parte, lo andrebbe ad aspettare a capo Matafus. — Generosità di Ferdinando Cortez, e sua perdita di smeraldi, o come altri dice di una perla. — Consulta se lo esercito deva ritirarsi; Carlo n'esclude il Cortez, e perchè. — Ritirata travagliosa; torrente grosso di acque la impedisce; Giannettino e i Genovesi costruiscono un ponte per traversarlo. — Parole di Carlo al Doria, promette ristorarlo dei danni, e lo fa, ma sottilmente. — Partenza da Matafus, ed eccidio miserabile di cavalli. — Nuova procella e rovina di navi; casi fortunosi della gente sbatacchiata dalla bufera. — Carlo torna in Ispagna a far penitenza, Andrea in Genova a riordinare l'armata. — Ghiottoneria dello Imperatore. — Mutue offese tra Carlo e Francesco. — Insidie a monsignore di Granvela. — Strage del Rincone e del Fregoso. — Nuova guerra tra lo Imperatore e Francesco rotta da tre parti. — Si parla di quella di Perpignano. — Consigli del Davalos a Cesare e superbe risposte di lui. — Provvidenze del Doria. — Solimano in lega col re di Francia manda il Barbarossa nel Mediterraneo; devastazioni sue quando viene. — Carlo per l'ultima volta albergato dal Doria. — Invitato di conferire a Bologna col Papa, Cesare rifiuta; pure consente parlargli a Busseto; il Papa attende a tirarvi l'acqua al suo molino, e non riesce. — Cesare bisognoso di danaro ne trova da Cosimo duca di Firenze. — Guerra d'Italia: assedio di Nizza per parte dei Francesi e dei Turchi. — Arti francesi con Genova non approdano. — Assedio di Nizza. — La Segurana e il Conte di Cavour. — Il Simeoni difende il Castello; Turchi e Francesi danno indietro. — Male parole e peggio fatti tra il Barbarossa e il Polino. — Il marchese del Vasto soccorre Nizza. — Fortuna di mare e perdita di galee del Doria a Villafranca. — Guerra del Piemonte. — Andrea dissuade il Davalos a soccorrere Carignano; ragioni per le quali il Davalos si reputa obbligato a sovvenirlo. — Battaglia della Ceresola. — Curiosi particolari di quella. — Stupenda alacrità di Andrea e dei partigiani dello Imperatore a rifare lo esercito. — Pietro Strozzi alla Mirandola; in Lombardia; rotto alla Scrivia; raduna nuove squadre; va a Montobbio; penetra nel Piemonte e piglia Alba. — Il Barbarossa va via; danni da lui recati all'Italia quando parte; con Genova propone accordi; pure le ruba una nave; immanità sua contro le ossa di Bartolomeo da Talamone: è ributtato da Ortebello; saccheggi e ruine per le terre del regno; se ne torna per ultimo a Costantinopoli. — Si rinfocola la guerra tra il Re di Francia e lo Imperatore, a cui si aggiunge Enrico VIII d'Inghilterra: mentre si aspetta il finimondo segue la pace. — Cause di questa. — Chi fosse il Furstembergo e casi suoi. — Reputazione delle bande italiane per gli assalti delle terre. — Milizie tedesche bestialissime sempre, ed in abbominazione agli stessi propri capitani. — Pace di Crepy, e patti della medesima. Mentre gli animi di Francesco di Francia e di Carlo austriaco pareva avessero ad essere più inviperiti che mai, e le opere mostravano la superba febbre di superare l'un l'altro, di un tratto gli emuli cagliarono, e ciò perchè la forza non rispondeva al mal volere: ancora, se le feroci cupidità di Solimano sgomentavano Carlo nemico per bisogno, non assicuravano Francesco amico per comodo: in fatti il Turco, dopo avere con molta segretezza raccolto armi alla Vallona, quinci mosso allo improvviso, pigliò Castro in prossimità di Otranto, dando voce che intendeva ridurre la universa Italia in servitù, e siccome Solimano era uomo da fare le cose anco prima di dirle, così vuolsi credere che cotesto modo di aggiustare le liti fra loro non garbasse ai contendenti; e meno che agli altri al Papa, il quale, a vero dire, quante volte ci è andato del suo interesse, si ricordò chiamarsi padre dei fedeli, e l'ufficio suo obbligarlo a procurare la concordia fra i principi cristiani, affinchè si unissero a combattere il Turco, di dì in dì crescente terrore della cristianità; però tutto acceso di zelo egli si diede con messaggi e con lettere a procacciare un colloquio tra Carlo e Francesco: a Nizza la posta: avuta l'accettazione della pratica, si dispose a partire egli prima, sia che così persuadesse la cerimonia o lo sforzasse la voglia, o con lo esempio intendesse tirare gli altri. Non si lodava il partito, anzi in Corte si presagiva sarebbe tempo perso. Al quale proposito non disdirà raccontare un caso, che quantunque lepido forse più che alla gravità della storia non convenga, pure, a mio avviso, dipinge anch'egli stupendamente gli uomini e i tempi. Andrea Turini medico del Papa, ogni volta che udiva dire di questa andata del Pontefice, tentennato il capo, rideva: richiesto intorno alla causa della sua ilarità, rispose: io penso al romito che volle mettere il diavolo d'accordo con Dio. — Ora essendo state riferite (male comune e delle corti vizio) le parole del medico al padrone, questi volle che gli raccontasse il fatto non avendolo udito prima nè poi. Il medico, chiesta ed ottenuta licenza di favellare aperto, incominciò: — Beatissimo Padre, voi avete a sapere che ci fu un tratto un santo eremita, il quale, non si sapendo capacitare come le creature di Dio non vivessero di amore e d'accordo fra loro, prese ad addomesticare insieme parecchie di quelle bestie che si reputano nemiche naturalmente; bisogna dire, che il dabbene uomo, dopochè se ne furono strangolate talune, e mantenendo le altre in istato permanente d'indigestione, riuscisse nel desiderio oltre la speranza: di qui, fatto superbo, aspirò a cose maggiori; fra cui, massima, quella di accordare il diavolo con Dio: a simile scopo pertanto, trovato un dì il Padre Eterno, gli tenne questo ragionamento: — Satana ti fu rubello e tu il punivi; bene sta; ma avendo consentito ch'egli serbasse potenza oltre il ragionevole, mira un po' quale e quanto strazio meni delle anime con le sue tentazioni, e non senza qualche scapito della tua autorità; ancora, tu, padre di ogni misericordia, senti affetto eziandio per quelli che ti offesero; ond'io argomento, che se un po' di penitenza (s'intende della buona) ti mostrasse Satana, tu saresti disposto a perdonargli. — Il Padre Eterno gli rispose: — proprio la è come tu di', e basta che cotesto figliolaccio, col cuore contrito ed umiliato, recitasse le parole, _peccavi Domine, miserere mei_ — egli lo avrebbe ribenedetto. Lo Eremita, oltre modo lieto, prese commiato, dicendo: — gli è affare fatto! — e di buon passo andò a trovare il Diavolo, a cui, con parole accomodate, espose l'antica magnificenza, la perduta beatitudine, e la pratica delle opere buone, onde l'anima si nudrisce a ben fare, e riamata ama, ponendo cura di mettere tutte queste cose in contrasto coll'angoscia di sentirsi, tormentando altrui, tormentato; cibarsi di odio e di pianto; ardere senza consumarsi mai nel fuoco penace; tornasse, oh! tornasse a splendere nei cieli, luce, dopo Dio, prima; ed altre più ragioni addusse, che non preme riportare; le quali scossero la mente del superbo così, ch'ebbe a dire si sarebbe composto più che volentieri, a patto si trovasse modo di non offendere il suo onore. Il padre Eremita rispose: che di questo non doveva nè manco darsi pensiero; non inesperto del mondo, conoscere le convenienze; secondo il suo giudizio, nel congresso con Dio, opinava dovesse bastare la confessione intera dei proprii torti; anzi per impedire ogni cavillo intorno alle parole, proporsi da lui che si avessero a profferire queste e non altre: _peccavi Domine, miserere mei!_ — Satana fece un po' greppo, ma poi esclamò: — Orsù via per farne un fine, la vada come vuoi. — Allora lo Eremita giubbilante: — hai tu nulla di premura per le mani! — E il Diavolo: — andava appunto per l'anima di una Badessa, ma non ci è furia; tanto l'anima è mia. — Dunque, aspettami qui, riprese lo Eremita, che, in meno che non si dice un credo, io vado e torno con la risposta. — Così dicendo, gli volse le spalle correndo e cantando per la consolazione il _Te Deum_; però egli non si era dilungato anco venti passi, quando il Diavolo, richiamatolo in dietro, lo interrogava: — e' parmi che un punto sia rimasto dubbio nel trattato, il quale importa grandemente chiarire. — Bada, non mi girare nel manico, lo Eremita ammonì il Diavolo; non ci casca dubbio; tutto rimase stabilito fra noi. — Non è vero, non è vero, esclamò il Diavolo, infatti dimmi un poco chi di noi due, io o il Padre Eterno ha da recitare le parole: — _peccavi Domine, miserere mei?_ — Come! Dio le avrebbe a dire a te? — Ma sicuro, poichè il torto fu proprio tutto suo. — Sei tu che le hai a dire, tu le cento volte, sciagurataccio, e ripetere picchiandoti il petto con una pietra del monte Calvario. — Come così è, non se ne fa nulla, brontolò Satana, e bufonchiando fuggissi via, intanto che si lasciava dietro un fetore di odio e di zolfo da ammorbarne. E come il medico Turini aveva presagito, accadde; dacchè i potenti emuli, non che si accordassero, non vollero nè manco vedersi; Francesco ricusava udire parola di pace, se non gli si rendeva Milano, e Carlo si turava la orecchie quante volte gli toccassero il tasto di Lombardia; ne uscì una tregua per dieci anni, e non fu poco. Indi a breve (così appaiono strani o gli accidenti, o gli uomini) occorse, che Andrea, trasportando lo Imperatore a Barcellona, si trovasse ridotto a mal partito a cagione di un fortunale, che si mise per le acque della Provenza, ma temendo di guai si peritava a ripararsi in qualche porto. Il re Francesco, che a caso si trovava per quelle parti, udito il caso, spedì sopra una salda e sparvierata galea oratori a Cesare con profferta di ospizio alle Acque morte, o Fosse mariane: accettato lo invito vi si condusse Cesare, e con esso seco Andrea; poco dopo ci capitò re Francesco in compagnia della consorte, dei figli, e del Cardinale di Lorena; nè basta, che mentre a Nizza stando sul pertinace aveva sempre ricusato conferire con Cesare, adesso di un tratto volto l'animo, scortato tuttavia dalla moglie e dai figliuoli, saliva la sua quadrireme; adoperando con lui, non dirò ogni onesta, ma più sviscerata accoglienza, fino ad abbracciarlo quattro volte e sei. Andrea, che si trovava allora appunto di settantadue anni vecchio, consapevole di che cosa coteste lustre sapessero, si era tratto sopra la estrema punta della prora, riguardando il mare; — Francesco reputò cotesto atto discreto, e cortese molto, tale persuadendogli la regia indole, dacchè i potenti quando ci hanno interesse, ogni dubbio sembiante reputino ossequioso; onde fece istanza presso lo Imperatore, perchè permettesse ad Andrea di andare a complirlo. Andrea, obbedendo al comandamento di Cesare, si condusse al cospetto del Re, il quale, con la fatuità francese, gli disse: — Siamo contenti, ad intercessione dello Imperatore, ritornarvi nello antico luogo della grazia ed amicizia nostre. — E il ligure cui nè il servire lungo, nè i molti anni erano bastati a domare l'anima fiera rispose: — E farà bene, però che, mentre io l'ho servita, non le mancassi mai di osservanza, nè di fedeltà... — Lo Imperatore che lo vide alterato, temendo di peggio, lo interruppe invitandolo a baciare la mano al Re, ma questi non volle, e sorridendogli blando lo prese pel braccio e gli chiese in cortesia che volesse mostrargli parte a parte cotesta sua quadrireme giudicata per quei tempi stupenda: qui fu che Francesco, notando un grosso cannone con le armi di Francia, gli domandò come gli avesse servito. — Al che Andrea rispose: — Bene! — Il Re allora gli disse: — Adesso ne fabbrico di lega migliore al servizio vostro. — E Andrea di rimando: — Sarà! ma io mi contento di quelli dello Imperatore, che hanno lega più salda, e non mutano mai; tuttavia, salvo il servizio di Sua Maestà, per quanto sono e posso mi profferisco intero alle voglie di lei. — Il Re, senz'altro aggiungere, lo lodò della sua ottima mente, e tornato a poppa disse allo Imperatore: — Per certo Vostra Maestà possiede il più raro ed eccellente capitano di mare che mai sia stato: sappiatelo conservare[39]! E intanto si era industriato levarglielo. Affermano altresì, come in simile congiuntura, e per lo appunto quando Carlo accostatosi al Doria, lo induceva a fare atto di ossequio al re Francesco, ei gli bisbigliasse negli orecchi ad afferrare la fortuna pei capelli, la quale gli profferiva modo di finire a un tratto le liti col nemico, trasportando lui e la sua famiglia a furia di remi a Barcellona, ma lo Imperatore non volle. Questo fatto si ha da rigettare addirittura per falso, imperciocchè, essendo corso fra due, non può essere stato scoperto dal Doria come quello a cui tornava in disdoro; e nè anco si deve credere lo rivelasse Carlo d'indole circospetta e chiusa; e quando pure fosse vero ch'ei lo avesse rivelato, io per me terrei come cosa sicura, ch'egli lo affermasse per iattanza o per certo altro suo meno lodevole scopo. Il Brantôme, il quale eziandio lo riferisce, non ci crede, ed è gran cosa, mostrandosi corrivo a prestare fede a tutto quanto torna in aggravio ai nemici di Francia; ai pratichi delle storie si fa manifesto come la sia novella calcata sul caso di Pompeo il giovane, il quale, avendo tratto i Triumviri a banchettare sopra la sua trireme, in siffatta guisa ammoniva il luogotenente, che chiamatolo a parte gli proponeva scostarsi dal lido con voga arrancata per menarli tutti prigioni: — Questo dovevi fare, non dirmelo. — E forse anco il caso di Pompeo fu novella, o sua millanteria per comparire onesto al paragone degli emuli, come fra i tristi per ordinario costuma quando hanno lasciato passare la occasione di avvantaggiarsi con la ribalderia. Da cotesto congresso, nonostante l'aspettativa mirabile, non uscirono a gran pezza i benefizii sperati, o sia, come penso, che i popoli giudichino, e male, le azioni dei principi mosse sempre da cause di Stato, mentre le governano, come per gli altri mortali e più degli altri mortali, infelicissime passioni, e sia, secondochè opinano gli storici, Carlo lusingasse il re Francesco con migliori speranze sul Milanese. Il Bonfadio, non senza qualche malignità, proverbiando cotesta voltabilità di principi, scrive nei suoi Annali: essere stata immensa la maraviglia dei popoli nel considerare come dalle gravi e fresche nimicizie loro sorgesse in cotesto luogo di punto in bianco così grande amore, o come fosse possibile, che, dopo così segnalata dimostrazione di benevolenza, facessersi le aspre guerre, che poscia seguirono. Popoli stolti, che si scannavano allora a libito dei principi, e non rinsaviti adesso! Intanto Solimano fatta massa di gente (dicono 200,000 combattenti) e di naviglio, manda con 250 vele, 1200 cavalli, e 1500 giannizzeri il Barbarossa in Italia; aperta che questi ne avesse la porta, seguiterebbe egli stesso. Il Barbarossa, tentati Otranto e Brindisi, non li potè espugnare, come avvertimmo; entrò in Castro, non per forza di arme, bensì a patti, tramettendocisi mezzano Troilo Pignattelli, ribello dello Imperatore per giusto sdegno contro il Vicerè di Napoli, che gli aveva morto il fratello; tuttavia la capitolazione non venne osservata, che col Turco resistere o arrenderglisi, fare capitoli o non li fare, per ordinario, egli era tutt'uno; e, siccome Solimano aveva Troilo in delizia, e s'ingegnava tenerselo bene edificato, più tardi, non potendo o non volendo riparare al danno, lo vendicò con la strage dei predatori, il che era più spiccio, e costava meno. Andrea, per impedire tanta ruina, si affrettava a navigare in Levante con quante più galee potesse, e legni agili, e presti: al tempo stesso, scrivendo a Lopez Soria oratore cesareo presso i Veneziani, proponeva, che, dove la Repubblica avesse deliberato correre la fortuna di Cesare contro il Turco, egli si sarebbe unito con loro, menando seco cinquanta, ed, al bisogno, anco sessanta galee. I Veneziani, allegando non so quali scuse, tiraronsi indietro: la verità era, che sospettosi di Carlo non meno che di Solimano, desideravano in segreto, che tra di loro si sconquassassero, mentre essi, rimasti interi, fra mezzo potessero dei mutui danni avvantaggiarsi: poveri consigli di Stato che, ormai decaduto, si affida meno nella propria virtù, che negli errori altrui. Le imprese condotte in quel torno da Andrea fruttarongli poca gloria, e qualche danno: pigliò due galee vuote abbandonate sopra la spiaggia, e del pari a man salva dodici schirazzi turchi carichi di grano, che dall'Egitto portavano al campo della Vallona; questi e quelle, dopo presi, arse, non si trovando gente a bastanza per marinarli. Il Bonfadio da queste piccole imprese piglia argomenti di levare a cielo la liberalità di Andrea, affermando che se molti, come pur troppo pochi, possedeva allora personaggi la Italia simile a lui, non avrebbe avuto a desiderare più oltre i Fabbrizi e i Papiri: esorbitanza di encomio che rivela, per mio avviso, animo piuttosto beffardo che piaggiatore, però che essendo Genova in cotesto tempo da crudelissima fame travagliata, sarebbe stato carità di Patria trovare modo di sovvenirla con quel po' di vittovaglia; lode imperitura si merita piuttosto quel Cesare Fregoso, di cui il miserabile fine dovremo raccontare in qualche parte di queste storie, il quale comecchè in bando da Genova, ed offeso pure, adoperò in guisa presso il re di Francia, che a sollievo della miseria dei suoi concittadini, ottenne per essi la tratta dei grani dalla Provenza. Alle Melere Andrea, incontrati i Turchi, gli superò, ma anco questa fu vittoria di scarso onore, e piuttosto di danno che di profitto; conciossiachè le galee nemiche arrivassero a dodici, e ventotto fossero quelle del Doria, cinque ammannite da Giannettino a Genova, le altre provviste dai vicerè di Napoli Toledo; e se da un lato vi rimase morta o prigione grossa mano di giannizzeri e di spachi a cavallo della guardia di Solimano, dall'altra, avendo assalito Andrea prima del giorno i legni nemici, fosse la colpa sua, o dei luogotenenti, lacerò le proprie non meno che le galee turchesche. Intanto, per inopinato accidente, mutavansi le condizioni dei Veneziani, e con le condizioni le voglie. Alessandro Contarino, sopraccomito veneziano, avendo incontrato sul mare Ianus bey, spedito con due galee ambasciatore al Pesaro in Corfù, gli fece i debiti saluti, e non ottenne risposta; onde, o perchè veramente gli reputasse corsali, o perchè volesse sfogare l'odio contro quei barbari, abbrivatosi loro addosso, con voga arrancata le sfondò; della quale cosa fatto chiaro Solimano, e nutrendo eziandio gozzaia contro la Repubblica, perchè avesse sovvenuto di fodero il Doria, ed accettatolo nei proprii porti, ed anco non senza ragione dubitando, ch'ella lo avesse istruito intorno alle condizioni del suo campo alla Vallona, con altre più cose che lo rendevano sicuro dell'avversione dei Veneziani, a vedergli mettere piede fermo in Italia, deliberò andarsene a dare loro una terribile battitura a Corfù. Il Doria a sua posta, ragguagliato come Solimano gli avesse spedito contra una grossa squadra di navi per opprimere anco lui, cauto si scansava a Messina: qui vennero a trovarlo oratori veneziani, ed anco messaggeri del Papa, perchè si movesse al soccorso di Corfù, ma egli si pose risoluto sul nego, non si lasciando per focosa pressa smovere dal suo proponimento; nè le sue scuse apparivano disoneste; al contrario vere; la stagione troppo inoltrata perchè scorso più che mezzo Settembre, malconci i legni, di provviste scemi, le ciurme per morti, per infermità e per ferite stremate; a tutto questo non potere in altra parte riparare menochè a Genova; però il malo animo ci entrava per la sua parte, che rancoroso egli fu molto, e se fosse vero che dal canto suo non si omise fraudolenza per aizzare i Turchi contra ai Veneziani, fino al punto di scrivere lettere all'ammiraglio Pesaro, con le quali si ragguagliava dello assalto fatto dal Contarino in modo da parerne egli istigatore, e farle poi capitare in mano al Barbarossa, noi lo dovremmo accusare di peggio; ma in cotesti tempi a siffatti tiri non si badava punto, ed anco ai nostri poco. Dopo ciò dubitando, che qualcheduno lo disservisse in Corte, egli spedì Adamo Centurione a ragguagliare lo Imperatore, il quale, uditolo alla presenza del nunzio apostolico e dell'oratore veneziano, uscì fuori con queste parole: — Tutti noi abbiamo mancato; solo il principe Doria ha fatto il suo dovere. — I Veneziani, che cominciano a capire comune il pericolo adesso solo, che loro massimamente percuote, si danno a tutto uomo a procurare lega fra essi, il Papa, e lo Imperatore contro il Turco: certo Andrea a cotesta lega gli spinse, ma è dubbio se fossero a lodarsi i modi che tenne, e più dubbio ancora se commendabile il fine. La lega pertanto si fermò a Roma, ma le provvigioni furono scarse; gli effetti pochi. Andrea, avendo navigato con le sue galee a Messina, quinci per preghiere del Pesaro e del Viturio di passare a Brindisi non si staccò, ora allegando il timore delle galee di Francia, ed ora il bisogno di rattoppare le navi; inoltre con mente peggiore si querelava dei negati soccorsi nella guerra per lo addietro sostenuta, e al Papa, inteso a raumiliare l'animo cruccioso di lui, rispondeva ne avrebbe scritto a Cesare in Ispagna, e frattanto tornavasi a casa. I Veneziani, rimasti soli, ricordarono l'antica virtù, e Gerolamo Pesaro con suprema difesa, ributtati gli assalti turcheschi da Corfù, rimandò Solimano lacero a Costantinopoli: il quale pari allo antico Anteo, che ripigliava vigore dalle sconfitte, indi a breve mandò formidabile armata ad assaltare i due Napoli greci, di Morea cioè e di Malvasia, uniche terre rimaste ai Veneziani sul continente elleno, e dalla parte del Friuli uno esercito punto meno poderoso per rovesciarsi in Italia. Allora anco lo Imperatore cominciò a capire, che il pericolo dei Veneziani diventava comune anco a lui, e la lega, rilassata fin lì, si strinse a scopi fruttuosi. Ne furono i patti principali: si amministrasse con trecento legni, dei quali 200 galee; gli altri di varia ragione navi; 50000 avessero ad essere fanti, 4000 cavalli; Ferdinando re dei Romani assaltasse Solimano in Ungheria: il Papa ogni lite occorrente definisse. Andrea capitanasse le fazioni marittime, Francesco Maria duca di Urbino le terrestri; altri all'opposto afferma Ferdinando Gonzaga[40]. Andrea toccava in quel punto il settantesimo terzo anno della età sua. In questa congiuntura troviamo, che i Veneziani, in onta alla rea fama, e derogati gli statuti della repubblica, crearono gentiluomo veneziano Pier Luigi Farnese, e lo Imperatore lo fece marchese di Novara con 9000 scudi di rendita annua sopra i dazii di Milano: ciò si nota però che la costui vita d'ora innanzi s'innesti come filo sanguinoso dentro quella del Doria. E ci ha chi afferma che tutti gli stroppii degli amici non dolgano agli amici; la quale sentenza maligna molto può dubitarsi se vera sempre tra privati, ma nelle faccende pubbliche tienla, senza eccezione, sicura; e il minor male che dalle leghe ti possa venire egli è questo, che sul più bello l'amico ti lasci solo nelle peste: e così accadde nella nuova lega. Quando il Doria navigò in Levante già era rotta la guerra, e i Veneziani avevano respinto Solimano dalla Canea e da Retimo in Candia, mentre il patriarca Grimano, tentato l'assalto della Prevesa con esito infelice, aveva dovuto ritirarsi nel golfo di Arta; tosto giunto a Corfù, egli conobbe di piccolo soccorso sarebbero riuscite le galee veneziane, come quelle che scarseggiavano di soldati; però offerse al Cappello fornirlo di fanterie; ma questi, sospettoso a torto o a ragione, rispose averne abbastanza; tuttavolta se ne rimetterebbe a lui; e Andrea gli rispose avrebbe fatto bene; sopra ogni galea ricevesse venticinque soldati, e il Cappello gli accettava non senza larghissimi rendimenti di grazie, ma poi non li pigliò mai; onde, fosse per questa o per quale altra causa, dovendo Andrea movere con l'armata verso la Prevesa, tolse al Cappello, che pure la desiderava, la vanguardia, pigliandola per sè, preponendoci luogotenente il suo consorte Francesco Doria; la battaglia commise al patriarca Grimano, mandò alla coda il Cappello con quattordici galere, e il galeone del Bondumiero cui rinfrancò con altre cinque galee a modo di bersaglieri: siccome poi il Gonzaga, sentendosi mal destro a combattere sopra le navi, aveva proposto di scendere a terra con buona mano di fanti per tenere da un'altra parte in soggezione il Turco, il consiglio piacque; però, appena arrivati su la bocca del golfo, Andrea commise a Giannettino si recasse a terra a speculare le coste, il quale andato, dopo breve ora tornò, referendo il luogo pieno di macchie non dare il passo, o darlo aspro e insidioso: allora fu tenuta consulta. Il Gonzaga instava perchè lo sbarcassero; Andrea, per dissuaderlo, oltre le informazioni raccolte da Giannettino gli fece osservare, che per poco crescesse il vento da Levante, che in quel punto soffiava, egli sarebbe obbligato di tirarsi al largo lasciando gli amici in terra in balía della fame e del ferro, imperciocchè il presidio turco del castello si fosse già rinforzato col soccorso delle prossime terre, e si avesse certezza che sarebbe andato di mano in mano aumentando: parergli partito migliore, che il Gonzaga scendesse in luogo più acconcio a foraggiare, e vedere di cogliere alla sprovvista Lepanto, e le altre terre litorane; intanto egli starebbe su lo avvisato, e caso mai il Turco uscisse, egli lo andrebbe a trovare per combatterlo: prevalse il parere di Andrea; però lasciate alquante navi su le áncore, le altre volsero le prue a Calafighera, trenta miglia dalla Prevesa per foraggiare e fare acqua. Era intendimento del Barbarossa non uscire a battaglia conoscendosi inferiore di forze, nè temeva potessero sforzare la imboccatura del porto per trovarcisi il canale stretto così, che due galee di fronte non ci potessero passare, e avendo i castelli tanto di giannizzeri come di artiglierie ottimamente forniti; dove mai la sforzassero, gli sembrava che le sue galee, protette dal cannone delle fortezze, non potessero essere combattute, mentre, andando allo aperto, disperava della vittoria; ma certo eunuco di Solimano, che gli storici del tempo chiamano Monuco, lo garrì come poco animoso, affermando, per quanto grande fosse il numero delle navi cristiane, non sosterrebbero la vista delle insegne del Sultano cacciate via dal terrore del suo nome, con più altre parole eccessive, consuete a cui abbia prosunzione molta e senno poco; onde il Barbarossa, temendo che costui nell'animo di Solimano non lo disservisse, si dispose a mal suo grado uscire. Andrea navigava tardo e male; chè i venti, a cagione dell'Equinozio, voltabili lo sbatacchiavano ora innanzi, ora in dietro; sicchè allo appressarsi della isola di Santa Maura, ecco raggiungerlo alcune saettie greche, ed avvisarlo che l'armata turca uscita dalla Prevesa si era attelata lungo la costa a mancina, nel luogo appunto dove stava poc'anzi il patriarca Grimano, e certo con lo intendimento, che provando la fortuna contraria, potessero salvarsi sul prossimo lido. L'ordine di battaglia del Barbarossa questo: egli con la Capitana in mezzo, nel corno destro Tubac, al sinistro Salecco, entrambi provati in combattimenti innumerevoli: innanzi a tutti, e sopra tutti famoso Dragut, con trentatrè galee, galeotte e fuste. Andrea pertanto, avendo a movere contro al Barbarossa, ebbe a rifare il cammino osservando la stessa ordinanza praticata prima, e siccome pareva che ei non ci andasse di buone gambe, Francesco Doria, accostatosigli con la sua galea, ad alta voce gridò: — Cugino Andrea, non mi pare questa occasione da perdere, chè il vento gagliardo ci aiuta a dar dentro; fa vela, metti mano ai remi; io ti precedo. — Dopo siffatte parole non era lecito ad Andrea rimanersi senza infamia. Inalberato pertanto lo stendardo col Crocifisso, segno della battaglia, comandò celeremente ai collegati che, se i Turchi assaltassero lui, essi investissero il nemico di fianco, nel caso contrario opererebbe il medesimo egli. I lodatori del Doria affermano che il vento di un tratto cascò; gli altri storici tacciono. Il Grimani, aggiungono i primi, si allargò in mare, e il Cappello stette in fra due su quello che si facesse; per la quale cosa Andrea, temendo di rimanere solo, si allargò e prese ad aggirarsi intorno le navi, pure aspettando che i compagni avanzassero in battaglia. Altri, nella voglia di scolpare il Doria, mal destro, accusa e scolpa ad un punto il Patriarca e il Cappello, affermando che Dio, mosso dalla strage la quale stava per succedere, levò dall'animo del Patriarca e del Cappello il partito di schierarsi in battaglia: inanità e peggio: a quei tempi non si conoscevano ancora i diarii governativi, ma gli sfrontati ci erano; di fatti, essendosi il Doria riservato la vanguardia, stava a lui appiccare il combattimento là dove non avesse principiato il nemico; e che l'andasse proprio così si ricava eziandio dagli storici del tempo non piaggiatori, i quali rammentano come, dopo Francesco Doria, il Grimano, per torre Andrea dalla intempestiva ordinanza, andasse a dirgli che il manco di vento non lo mettesse in apprensione, perchè se i bastimenti a vela non avessero potuto giungere a tempo, si poteva vincere con le sole galere, sia perchè superavano in bontà ed in numero le turchesche, sia perchè le schermiva il galeone posto quasi baluardo fra loro; e Andrea, senza punto commoversi, gli rispose: stesse di buono animo, si restituisse al suo posto; egli farebbe il debito; attendessero gli altri ad eseguire il proprio, e nè anco potè stare alle mosse il Cappello, chè, saltato in corazza sopra la galera di Andrea, con parole accesissime lo confortò a cogliere la occasione di fare a un punto sè immortale, e incolume la cristianità dalla infamia dei barbari; egli profferirsi parato ad attaccare la zuffa, egli sostenere lo sforzo della puntaglia: nondimeno anco lui rimandò il Doria con blande parole. Dragutte intanto si accostava guardingo, sospettando agguati, e poichè, speculato il mare, non vedeva apparire causa alcuna di pericolo, pigliava animo di accostarsi bel bello al galeone del Bondumiero, senonchè questi, da quel valoroso uomo che era, se lo lasciò avvicinare a mezzo tiro d'archibugio, e poi, di un tratto, tale gli sparò addosso mirabile copia di artiglierie, che quegli pieno di terrore si ritrasse indietro. Intanto Andrea si allargava vie più, e il Barbarossa, non sapendo che pensare, si peritava, finchè poi, pel soverchio dilungarsi del nemico, avendo conosciuto com'egli schivasse la battaglia, con franco animo si volse a combattere il galeone ed alquante navi rimaste indietro, tra queste quella di Francesco Doria, cui Andrea spedì la più spigliata delle sue galee per levarlo dalla baruffa, ma egli, ributtata la offerta, stette a menare le mani. La pioggia, che sul tramonto del dì si mise dirotta, affrettò il buio, il quale protesse la ritirata cristiana, che ormai, per lo scompiglio, più che per altro, meritava il nome di fuga, e per tale la tenne Andrea, che comandò spegnessero i lumi a fine di non essere scoperti; tuttavia il Barbarossa agguantò ed arse due navi, di cui una fu dello abate Bibbiena, l'altra di Pasquale Mocenigo, entrambi i quali combatterono come chi non chiede patto e non lo attende; l'armata cristiana si salvava inseguita fino a dodici miglia fuori di Corfù; Andrea, malconcio, menò pubblica esultanza; vecchi trovati a dissimulare disfatte, da nessuno creduti e sempre messi in opera. Il giorno appresso due navi che si lamentavano perdute si videro comparire lacere sì non vinte, e questo per la virtù dei capitani Mancino Navarrese e Boccanegra entrambi spagnuoli, e il Bondumiero, tuttochè rimasto solo, difese mirabilmente il suo galeone, e dopo molto contrasto lacero da oltre cento cannonate, rotti gli alberi maggiore, della mezzana e della contromezzana, le vele sforacchiate, infrante le antenne, le traglie e i frasconi, quasi senza avere parte che sana fosse, lo cavò dalle mani dei nemici, i quali quanto più lui commendavano e levavano a cielo, altrettanto la inconsueta viltà del Doria vituperavano. Di cotesto fatto, allora e poi, si levarono querimonie grandi a carico del Doria; i malevoli ai Veneziani però insinuavano lo mandasse a male il Cappello, per istruzione segreta dei Dieci contrarii alla impresa, la quale era stata risoluta in Senato dai Pregadi; all'opposto i malevoli allo Imperatore bandirono: suo scopo essere stato impadronirsi dell'armata veneziana, mettendo a bordo delle galee di San Marco presidio spagnuolo, e poichè questo tiro non gli era venuto fatto, desiderasse piuttosto la ruina che la riuscita della impresa; non manca neppure chi ne incolpa addirittura il Doria, il quale, secondo la opinione loro, si mosse a questo non per cause di stato, bensì per deferenza al Barbarossa, principali fra essi il Giovio e il Brantôme, e ciò per virtù del proverbio antico, che tra corsaro e pirata non ci ha guadagno, che di barili vuoti: anzi, più oltre arrischiandosi, assicurano che il Barbarossa rendesse poi la pariglia al Doria quando questi in compagnia del marchese del Vasto avendo dato in secco con quattro galee su le coste di Villafranca, ei non lo volle assalire, nonostante la pressa che gli fece dintorno il Paolino ammiraglio francese, allegando per iscusa lo scirocco che soffiava contrario ed era all'incontro propizio. Tra le discordanti opinioni, dovendo dire la mia, parmi evidente che ce ne fosse pel manico e per la mestola; intendo cioè che la impresa sinistrasse un po' per le insidie spagnuole contro Venezia, e un po' pel sospetto dei Veneziani; e nel processo dei tempi questi umori si palesano in altri fatti, massime alla battaglia di Lepanto. Che il Turco prevalesse così nel Mediterraneo, da minacciare Napoli e Sicilia, lo Imperatore non voleva, ma nè anco garbavagli stremarlo in modo che i Veneziani, non avendo più cotesto freno da rodere, voltassero altrove il consiglio e le armi, molto più che a Carlo coceva ricuperare le terre del Milanese, le quali giusta il suo avviso erano state rapite dai Veneziani all'avo di lui, Massimiliano: ora tenuta bassa, e potendo, tolta di mezzo la repubblica veneziana, non si giudicava impossibile distendere la dominazione spagnuola sopra la universa Italia o immediatamente con la forza, o mediatamente per via d'industrie degli uomini proprii o di principi vassalli. L'Austria successe in questo concetto alla Spagna, e all'Austria, per mio giudizio, se si lasciasse fare, vorrebbe sostituirsi la Francia; la Italia appena vi potrà fare riparo col volere concorde; all'opposto in sè discorde, e co' governanti paurosi, io dubito se potrà uscirne senza scapito. Però nonostantechè la esperienza per ordinario predichi invano, tu che leggi considera collo esempio del Doria, che libertà sia quella che ci lascia la protezione di un potente straniero: oggi la piaggieria ripetuta da tutte le bocche e da tutte le penne in cotesti tempi della Patria affrancata per virtù di Andrea Doria cascò, e sotto di lei comparisce la verità, ch'egli, capitano di ventura al soldo di Spagna, procacciava con ogni via la servitù della Patria, e la propria fama, per compiacere all'imperiale padrone, avviliva. Il Barbarossa essendosi tratto (come fu detto) quindici miglia accosto a Corfù, parve il facesse in oltraggio dei cristiani: della quale cosa commosso il Gonzaga prese con veemente orazione ad eccitare il Doria, e gli altri capitani a non volerlo patire, e si ebbe promesse in copia, e fatti scarsi; sicchè al Barbarossa venne conceduta abilità di ritirarsi alla Prevesa, prima che dai nostri si fosse pure risoluto movergli contro: tuttavia, parendo anco al Doria, che, tornandosene a cotesto modo in Italia, sarebbe stato con troppa offesa della sua rinomanza, si dispose ad assalire Durazzo; disperato dal Cappello, il quale gli fece toccare con mano mal sicuro il porto, si volse a Castelnuovo, impresa non ardua atteso lo scarso presidio dei Turchi, che lo difendeva; e nondimanco ella andò, non so se io mi abbia a dire illustre o luttuosa per la morte di quel Boccanera, che tanto strenuamente difese la sua nave alla Prevesa. Preso Castelnuovo, il Doria ci mise dentro per presidio quattromila Spagnuoli, di quelli che, dopo avere levato tumulto a Milano, si trovarono al sacco di Roma; di che accrebbero, e con ragione, le querele i Veneziani, come ciò contradiasse ai capitoli della lega, i quali portavano, che gli acquisti della guerra tra i collegati si spartissero; nè si rimasero ai lagni; ma incerti ormai se più avessero a temere dai nuovi amici che dai vecchi nemici, statuirono di botto una tregua di sei mesi col Turco, procurata a mediazione di Lorenzo Gritti, e per gli uffici del Rincone, il quale, oratore del re di Francia presso Solimano, lo raumiliò tutto dandogli ad intendere, i giovani patrizii agguindolati da faccendieri cesarei, avere condotto Venezia in cotesta improvvida lega contra il parere dei vecchi senatori, risoluti ad osservare l'amicizia con la Casa Ottomana; e poichè a Solimano così giovava credere, così credè. Prima però che cotesta tregua si chiarisse, Ariadeno acerbamente sopportando la perdita di Castelnuovo, trasse a soccorrerlo, ma gli stette nemica la fortuna, però che, arrivato in vicinanza alla Vallona, un temporale di subito sorto gli sconquassò la intera flotta, spingendo talune galee e galeotte a rompersi fra gli scogli. Allora i capitani della lega furono da capo intorno al Doria, perchè uscisse a dare il colpo di grazia al Barbarossa così spennacchiato, ma egli alla ricisa negò, dicendo, e non senza ragione, non correre tempo adesso di nuove imprese, se pure non si voleva, che fortuna, pari a quella del Barbarossa, toccasse anco a loro. Dei fatti dentro quell'anno dal Doria compiti, si mostrò contento l'Imperatore solo; gli altri no, e il Papa stesso certo giorno, stando a mensa, lo punse con queste parole: — che il signore Andrea, andando debitore della propria reputazione alle sue galee, operava da quell'uomo accorto ch'egli era, schivando metterle ad ogni poco a repentaglio. — Ad ogni modo lo acquisto di Castelnuovo durò poco, chè l'anno dopo il Barbarossa lo riprese con la perdita di tutto il presidio spagnuolo parte fatto schiavo, parte ucciso; tra i morti il Sarmiento, che dopo avere fatto mirabili prove della sua prodezza, sparve tra i rottami di una mina; onde quando il Barbarossa ordinò cercassero il corpo per decapitarlo, e mandarne il capo mozzo in dono a Solimano, non lo poterono trovare. Anco della fine miserabile del Sarmiento si diede carico al Doria, imperciocchè, dopo avergli promesso lo avrebbe in ogni angustia soccorso con prontissimo aiuto, altro non fece, che mandargli da Brindisi due navi di grano. Ora racconteremo la presa del Corsale Dragut così ai suoi tempi famoso. Ei nacque nell'Anatolia, in certo borghetto per nome Carabalac, di condizione oscura; affermano i suoi parenti agricoltori; di forme egregio, l'ebbe in delizia Aron corsale del suo paese, il quale, cedendo alle fervide preci di lui diventato adulto, gli confidò una fusta con la patente di andare in corso; con questo fece parecchie prese, e così, ingagliardito di forze aspirando a cose maggiori, assalta il Pasqualigo nel golfo di Venezia a cui affonda due galee, e tre gliene toglie, fra le altre la Temperanza, galea per varie fortune in questa storia famosa. Poco dopo disfece le galee per difetto di ciurme, tranne la _Temperanza_, e se ne compose una bella e buona armatetta di nove galeotte, e con questa navigando pel Tirreno, cagionava, così per mare, come sui prossimi lidi, danni pari al terrore. Andrea gli teneva l'occhio addosso per cogliere il destro di schiantarlo di un tratto, e adesso, parendogli venuto, ordinava a Giannettino, suo alunno e figlio di elezione, andasse a distruggerlo; gli commetteva ventuna galee, e gli dava per compagno Antonio Doria, soldato di reputazione; questi cercatolo pei mari non lo rinvennero; in Corsica udirono avere salpato per combattere Capraia; dato di volta alle prue, nell'accostarsi alla isola, tennero averlo nelle mani sicuro, dacchè il vento portasse fino a loro lo strepito delle artiglierie; raddoppiarono le forze dei remi, ma arrivando ansanti, anco di qui lo trovarono sparito, però che dopo avere dato alla rocca una furiosissima batteria, sceso in terra il Dragut, fatta una funata di schiavi, e cacciatili a bordo, anco da Capraia era sguizzato altrove. I Doria pertanto, tornati in Corsica, ebbero lingua, il Corsale essersi visto lungo la costa di Ponente; seguironlo cauti, e lo ebbero a man salva, mentre sceso nel golfo della Girolata, stava in terra spartendo la preda. Taluno storico racconta di battaglia combattuta, e vinta per virtù di certo strattagemma immaginato da Giannettino; le sono novelle, dacchè non l'avrebbe taciuto il Cappelloni, il quale, come avvertimmo, fu segretario di Giovannandrea figliuolo di Giannettino, mentre nella vita di Andrea, dettata da lui, espone il fatto per lo appunto nel modo in che fu raccontato da noi. Se ciò cocesse al Dragut non importa dire; tuttavia fece buon viso alla procella; e messo ai ferri, e al remo mostrò, come la fortuna possa togliere tutto, tranne la dignità, ed al signor Parisot, che poi fu gran maestro di Malta e ci si trovava presente, mentre per consolarlo gli diceva: — senor Dragut, usanza de guierra — egli imperturbato rispose: — y mudanza de fortuna. — Condotto a Genova quasi in trionfo, e imprigionato nella magione di Fassuolo, rinvenne grazia al cospetto di madonna Peretta, cui parve ingeneroso quel superbire della facile vittoria; ond'ella impetrò si mandasse al consorte Andrea stanziato a Messina; il Principe lo donò allo Imperatore perchè lo tenesse a sua posta, ma questi, aborrendo forse pagarlo più che non valeva, rispose, al predatore toccare a disporre della preda: allora Andrea, considerando mal sicuro, e di troppa spesa custodire un siffatto prigione, e dall'altra parte temendo le feroci rappresaglie dei Turchi; nè la propria natura consentendogli a spegnerlo col veleno, deliberò accettarne il riscatto: per avventura così operando compiaceva meglio al genio ligure: dicono lo tassasse di soli tremila ducati, ma saranno stati di più; li pagò il Barbarossa; il Dragut tornato in fiore gli volle restituire; intanto egli, riavuta la libertà, compariva ai cristiani a due doppi più feroce di prima; armato un piccolo legno, con battaglia manesca s'impadroniva della galea del visconte Cigala; e di qui prese balía a ricomporre una squadra di quarantadue vele con millecinquecento Turchi da fazione; con questa disertò le coste di Spagna e d'Italia, Malta, il Gozzo e Rapallo; vinse Castellamare e Tripoli; prese i danari, che dalla Francia portavano su di una galera a Malta; mise a un dito il sovvertimento della incipiente città di Portoferraio, allora battezzata Cosmopoli, ma il nome non attecchì: per ultimo condusse imprese, che nel corso di questa vita ci sarà mestieri raccontare. Per simile fatto grandi levaronsi, così in Francia come in Italia, querele contro Andrea Doria, quasi la Francia non andasse fino a Costantinopoli a cercare il Turco per avventarlo contro la Cristianità, e Andrea la protervia altrui molto bene rimbeccava con questa, ed altrettali ragioni: veramente che lo interesse sia entrato per qualche cosa nella condotta di lui, non vo' negarlo, ed io l'ho detto, ma che solo lo dirigesse, non sembra giusto che si abbia a credere. Accenno come, in questo scorcio di tempo, la città di Gand essendosi ribellata da Carlo V, egli facesse disegno di reprimerla celere e feroce: ogni altra via difficile, agevole quella per mezzo la Francia, pure avendo bilanciato il prò e il contro, a lui parve bene accettare; e della fede del Re più che tutto lo affidava il senso di avere cotesto negozio comune con esso, imperciocchè sia interesse di tutti i re, che i ribelli, a ragione o a torto, ricevano pronto castigo e feroce: quanto alla differenza di Milano, causa di perpetua lite tra Francia ed Austria, l'Imperatore non pativa difetto di buone parole, ed era disposto ad usarne: nè egli solo, bensì i cortigiani suoi, i segretarii, e i ministri, a cui non lo voleva sapere, dicevano e scrivevano: la cessione del Milanese al re Francesco oramai cosa decisa; inoltre, da quel trincato ch'era, Carlo non omise termine di tenersi bene edificata Diana di Poitiers, baldracca di Francesco, che poi redò con la corona di Francia il suo figliuolo Enrico: e sopra tutte le altre carezze la vinse questa: mentr'ella gli mesceva l'acqua per lavarsi le mani, Carlo lasciò cadere destramente nel cantino un anello del valore di molte migliaia di ducati, e nonostante tali cautele non fu senza angoscia il suo soggiorno in Francia; però che il Re cadde allo improvviso infermo, e caso mai fosse morto, l'Imperatore sapeva il Consiglio ed i figliuoli suoi deliberati a tenerlo; ma passeggero incomodo fu quello, e Francesco sempre più incaponito a credere, che la nuova benevolenza gli avesse reso favorevole il vecchio emulo nella pratica del Milanese, e così sopita per sempre ogni causa di guerra fra loro, si lasciò andare fino a mostrargli le lettere dei maggiorenti gandesi, i quali, rotta la devozione allo impero, si profferivano alla Francia; e Carlo ringraziava ed appuntava quei nomi; entrato più tardi in Gand gl'impiccò tutti; ma Francesco da cotesto tradimento vilissimo non cavò costrutto alcuno, conciossiachè l'Imperatore ora con questo, ed ora con quell'altro pretesto, andasse menando sempre il can per l'aia, nè a fine di conto si venne ad altra conchiusione, che a rinnovare la guerra più nemici di prima. Nè manco ci occorre discorrere le guerre in quel torno operate dalle armi cesaree in Ungheria, e nella Germania: ci basti dire com'egli adesso statuisse valicare in Affrica per la impresa di Algeri: da ciò molti, massime Andrea, lo distoglievano: anzi questi gli scrisse lettere ortatorie dove, come soleva, più volte lo appellò figlio, e lo ammoniva non parergli spediente, ora che il Turco aveva preso Buda, mettersi attorno a gesti difficili; inoltre la stagione (eravamo in Ottobre) piena di pericolo attese le procelle equinoziali, e la qualità della spiaggia persuadevano a differire; non pertanto Carlo s'intorò a farlo, sembrandogli, che a primavera, pei rumori di guerra che la Francia disegnava movergli, non gliene sarebbe offerto il comodo, e poi perchè assai gli premeva compiacere agli Spagnoli, smaniosi di torsi di su gli occhi quel nido di corsali, che infesto prima, era cresciuto per la sopravvenienza dei Turchi cacciati da Tunisi; i commerci ne rimanevano malamente offesi, e pareva peggio che ostico, ai devoti Castigliani, che mentre il Re loro non finiva di travagliarsi per Germania, Italia e Fiandra, lasciasse manomettere i regni paterni; per ultimo Carlo ambiva, in difetto di meglio, potere mostrare che sul Turco si era rifatto; e fu povero consiglio, imperciocchè in ogni evento, Algeri presa, non avria compensato Buda perduta, e Vienna chiusa in assedio; nè il Barbarossa in Affrica era da mettersi a paragone con Solimano in Ungheria. Immenso lo apparecchio della impresa. Napoli somministra seicentomila ducati di sussidio, o come allora dicevasi, di _donativo_, che il Governo metteva per forza: Sicilia centomila. La religione di Malta mandò le sue galere; la Spagna, oltre le venticinque mantenute dal governo cui soprastava l'ammiraglio Bernardino Mendozza, ne allestì altre non poche a spese di mercanti e di baroni. In Italia assoldaronsi seimila fanti sotto i colonnelli Agostino Spinola, Antonio Doria e Cammillo Colonna, quattrocento uomini di arme eletti e cavalleggeri, i migliori che mai si fossero visti; Andrea, cui toccava l'obbligo di trovarsi alla impresa con venti galee, ci andò con ventidue, tuttavia dicendo, che se tornava con mezze, gli sarebbe sembrato di fare un bel civanzo, e parve indovino. Messo in punto ogni cosa, lo Imperatore s'imbarcò menando seco Ottavio Farnese nipote del Papa, e suo genero novello; trentacinque furono le galee con le quali sferrò dalla Spezia drizzando il corso verso Maiorca, dove aveva dato la posta al Mendozza, che ci si doveva trovare; dinanzi a lui veleggiavano navi cariche di bene undicimila fanti tra Tedeschi ed Italiani. Quasi a diffidarlo, la fortuna gli fece provare, appena messo in cammino, il tempo nemico: sbarattate le navi dalle galee ripararono a San Bonifazio in Corsica, dove lo Imperatore le raggiunse a fatica: qui ebbe accoglienze piuttosto immani che barbare, dacchè trovo registrato, nei ricordi in Corsica (e l'ho già detto), come certo isolano accomodasse lo Imperatore di un suo stupendo cavallo, al quale poi spaccò con un colpo di archibugio il cranio esclamando: che dopo avere portato lo Imperatore non meritava si sottoponesse ad altro uomo del mondo. Levate le áncore da San Bonifazio, ecco nuova procella scompigliare i mari, e dopo vari errori spingere navi e galee a Minorca; quinci recossi a Maiorca, dove gli occorsero Ferdinando Gonzaga con le galee sicule e le navi in numero di cinquanta con fanti, cavalli, copia di vettovaglie e artiglierie. Da prima intesero aspettare il Mendozza con la rimanente armata; senonchè Andrea, avvertendo che l'ammiraglio spagnuolo di faccende marinaresche peritissimo, approfittandosi del tempo favorevole, doveva senza dubbio aver tirato di lungo, persuase a rompere gl'indugi, cosicchè col mare sconvolto, non però burrascoso, arrivarono alla vista di Algeri. FINE DEL PRIMO VOLUME. NOTE: [1] Gentiluomo di artiglieria; titolo e grado nella milizia dell'artiglieria, risponde a luogotenente, e fu introdotto in Italia dagli Spagnuoli. [2] Per la lega di Cambraia oltre i paesi rammentati da assegnarsi al Papa e al duca di Savoia, fu convenuto che l'Austria dovesse avere Roveredo, Treviso e il Friuli; lo Impero Padova, Vicenza e Verona, la Ungheria, la Dalmazia e la Schiavonia; la Francia Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda e le dependenze del Ducato di Milano; la Spagna Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli, Mola e Polignano; ai D'Este e ai Gonzaghi si restituiva quanto avevano gli avi loro posseduto, ed erano più giusti. Questi i concetti di un Papa, che ha fama di avere voluto restituire la Italia. [3] Pietro Gioffredo, _Storia delle Alpi marittime. — Monumenta Historiæ patriæ scrip._ T. II, p. 254. Però vuolsi notare, che lo scrittore si mostrò parzialissimo al Doria, e racconta il fatto con tanti particolari, che riesce difficile negargli fede. [4] Questa fisima del Frandesberg, che poi non mandò a compimento, è nota all'universale, e tutti gli storici la riferiscono: meno nota è quest'altra di un lanzichenecco della sua compagnia, ch'egli troppo bene eseguì: costui si votò a recitare il rosario quando si fosse composta la corona con 70 testicoli di prete; e appena l'ebbe terminata osservò la parola. _Brantôme_ poi ne assicura che di parecchi, così soldati come capitani, imitarono il buon lanzichenecco nelle guerre civili di Francia: tra gli altri un gentiluomo angiovino per nome Renato de la Bouvraise signore di Bressaut, a cui fu tagliata la gola in Anversa, senza fallo in isconto del peccato di avere reciso tanti testicoli sacerdotali. Certo non pagò la pena del taglione; ma la qualità compensava il numero. [5] — Adios señor padre: bien te puedo llamar padre mejor que mi padre naturale por tan gran bien que me havey hecho y a jamais rogare a Dio por vos — Così il _Brantôme_ copiosissimo scrittore di particolari importanti circa ai tempi, e agli uomini di cui tengo proposito. [6] Ho notato altrove come presso i Côrsi si conservino assegnati al popolo gli epiteti di _novitoso e movitivo_: certo di pretta origine toscana e degni di essere restituiti alla lingua. [7] Ogni luogo valeva 100 lire fuori banco, a un dipresso franchi 82. [8] «Havendo fatto domandare la mia pensione dell'anno passato per possermi aggiutare.... l'homo che tengo in corte mi scrive che V. S. gli ha detto havermi fatto provvedere de doi miglia franchi, over sia di un quartero di detta pensione.... per il che prego che V. S. sia contenta come in lei confido, et come mi ha fatto scrivere li dì passati, operare che habbia la mia pensione dell'anno passato, et che sia meglio trattato; altrimenti monsignore dacchè io non saperia fare di questi miraculi de possermi intratener qua con niente et sarò costretto lassar, che altri venga a provare come si viva di quà et se gli saperanno stare senza provvisione.» [9] — Del capitan Andrea Doria.... ho avviso, che al tutto l'è ben satisfacto et se qualche cossa leggiera ci restava è levata et delli xx mila ducati della _ranson_ d'Oranges el Re le ha mandati xiiij mila et presto manderà el resto. Lettera di Ambrogio Talenti vescovo di Asti a Niccolò Raince 27 Giugno 1528. _Documenti_ per servire alla Storia d'Italia raccolti dal Molini e annotati dal Capponi. [10] V. M. cerca tener contenta questa città, et che intertenghino questi cittadini et quelli di Savona fanno tutto il contrario per disperarli, che non trovo ad alcun bon proposito per il servizio di V. M. _Lettera_ di Teodoro Trivulzio al Cristianissimo del 28 Agosto 1528. Doc. cit. [11] Queste parole occorrono con lievi varianti nella lettera scritta da Andrea Doria a Teodoro Trivulzio, il 19 Luglio 1528. Vedi _Raccolta di documenti per servire alla Storia d'Italia_ citata. [12] Per dare conoscenza dei tempi giudico opportuno riferire quanto scrive il Varchi del fine di questo segretario di Clemente VII: fu letterarissimo giovane, e indegno della miserabile morte ch'ei fece, la quale fu che la madre sua, mentre cercava far morire una femmina ferventemente amata da lui, nè bella nè giovane, dubitando che come maliarda lo avesse con le sue incantagioni ad amarla costretto, avvelenò in una insalata il figlio, la donna ed altri suoi amici. _St._ I. 6. [13] Je croy fermement que si vous l'assurez de ce point (cioè di dargli Savona) et de la libertè du dit Gènes, et payer la soulde de ses galeres avec quelque promesse de lui faire quelque bien en ce royalme, que vous le pourrez avoir pour vous. Vous savez sire quel homme il est et de la necessité où vous êtes. Je vous supplie, Sire, de ne vouloir refuser riens qu'il vous domande, car jamais chose ne vous vint tant a propos que cest accord s'il vient a bien. — _Lettera_ del Principe di Oranges 14 Giugno 1527. _Carteggio_ di Carlo V tratto dallo Archivio, e dalla Biblioteca di Borgogna e di Brusselle. [14] Anco il Bonfadio negli _Annali delle cose genovesi dal 1528 al 1550_ lo assicura, ed ancora egli a torto. [15] Questi epitaffi si riportano dal Brantôme e dal Summonte. [16] A insegnamento perenne mettiamo qui la lettera come si legge nei _Documenti di Storia italiana_ pubblicati dal Molini, tom. II pag. 54: — Sire. Mentre el Capitano Andrea Doria è stato al servizio di V. Mayestà li havemo portato benevolenza et honore, vedendolo acepto servitore del nostro re. Essendo poi partito da V. Mayestà ce ne siamo doluti quanto se pò dolere sentendo, che a V. Mayestà ne dispiace, che ultra la offesa del nostro Signore, posia, essendo di una medesma casa, havere fato suspeti appresso de vostra Mayestà quello, che la fidelle nostra servitù non merita, la quale da li nostri passati è stata osservata a li predecessori de V. Mayestà, e sarà da noi fidilissimamente in sino a la fine, come di ciò havemo longamente ragionato con Monsur il Marichial Trivulcy locotenente di V. Mayestà in questa città, et speriamo con le opere di fare ogni dì più chiaro in che adopereremo le facultà e le vite insieme a tutte le volte che bisognerà farlo in servitù di S. Mayestà, la quale umilmente suplichiamo ad haverci per ricomandati e non permettere, che li errori di uno posino nocere a tuti noi, e parenti, e amici nostri. Sire per non dare più tedio a V. Mayestà faremo fine alla presente, pregando Dio, de bon core per la felice vita e glorioso Stato di V. Mayestà. Da Genova a di xviij di Agosto del MDXXviij. Di V. X.ma Mayestà fideli subditi et servitori. La famiglia Doria. [17] Vedi il Bonfadio _Annali_, e aggiunge come il Brando questo facesse per gratitudine del buon governo dei Genovesi in Corsica: e' pare, che burli costui. [18] Capitolazione tra Andrea Doria, e Teodoro Triulzio del 28 Ottobre 1528. _Documenti_ cit. Vol. 2, p. 60. [19] Istruzione ai Magnifici V. Pallavicino e Gasparo Bracelli, 6 Agosto 1527: Vorriamo che, per pace et quiete universale della città, procuraste fare dichiarare governatore.... l'illustrissimo messere Teodoro di Triulcio parendone signore qualificato et attissimo a tale reggimento. [20] _Libro di Ordini_ civili e militari, dati dal Doge e Governatori a vari personaggi illustri dopo la riforma. MS. nella Bibl. dalla Università: — Istrutione ad Agos. Calvi provveditore del nostro esercito oltra il giogo: «.... procuri impossessarsi di Novi et di Ovada concertandosi col conte Belgioioso capitano generale di quà dal Po per S. M. Cesarea — ma però in nome della Repubblica: havendo detto conte proposto ne prenderia la possessione in nome di S. M., il che non è _gustato_; affinchè sappiate anche voi la intentione nostra, _piuttostochè_ detto luogo di Ovada pervenghi in potere di esso signor Conte a nome de sia chi si voglia, vogliamo piuttosto ch'esso resti di chi è al presente.» [21] Mi è parso meglio paragonare Genova così, che servirmi della immagine del Campanaccio, il quale nel _Januen. reipub. motus a Io. Aloysio Flisco excitatus_ la paragona alla luna perchè sovente perde la libertà, e ad un tratto la riacquista; e mette fuori i versi di Sofocle: _Obscura nunc, sed innovatur illico_ _Vultum, sumit, auget, atque splendidum_ _Et cum refulget nitida lumine plurimo_ _Spoliata rursum lucem tenebras induit._ A un tratto fosca, la sembianza a un tratto Rinnova, e cresce splendida e gioconda E allor che più co' suoi raggi innamora In tenebre improvviso ella si chiude. [22] _Relazioni venete su Genova._ Raccolta Alberi. Relazione II. [23] Questo affermano i piaggiatori del Doria, non già come fatto di cui abbiano notizia certa, bensì per via di congettura, la quale viene distrutta dalla capitolazione di Andrea con lo Imperatore. [24] Galluzzi, _Storia del Granducato di Toscana_, 1575. [25] — Y se entienda que a quela repubblica y los ciutadenos della y su jurisdicion sean conservados y mantenidos.... _guardàndose nuestra autoritad, y preheminencia imperial_. — [26] — Vada a Montobbio presso M. D. Lopez di Siviglia, e lo dissuada da venire a Genova oratore per S. M. Cesarea, e star qui come prima, — essendo il tempo presente diverso da quello di quando qui si trovava, e ridotti al modo di vivere di repubblica del nuovo instituita — lo studio nostro è giustificare con esso la terra talmente, che con manco sdegno che si può non venghi più oltre; anzi, che se ne ritorni addietro, siccome è nostra volontà che facci. — Libro di ordini ms. della Bibl. della Università. [27] _Relazioni venete_. Alberi, Relaz. II. [28] — Quem etiam et ejusdem illustrissimi Domini Joannis Andreæ successores, et hæredes hortatur, et paterna monitione admonet ut toto tempore eorum vitæ debeant catholico, et serenissimo Hispaniarum et utriusque Siciliæ regi et ejus descendentibus fideliter et diligenter _inservire_ et operam suam strenue etc. etc. — [29] _Poliorcete_, espugnatore di città. [30] E _Bisogni_ veramente erano, imperciocchè, sbarcati a Sestri di Levante, e ridotti a soli 1000, furono per vie montane incamminati in Lombardia: stretti da necessità, ed anco per genio ladro, quanti incontravano per istrada tanti svaligiavano, quando di meglio non potevano, delle scarpe, del cappello, di tutto insomma, fino alla camicia. Le milizie austriache, sia che di Spagna ce le inviassero o di Lamagna, non calarono mai in Italia nè con intendimenti, nè con modi diversi da questi. [31] Vedi lo strumento del 25 Giugno 1533 ratificato il 12 Ottobre del medesimo anno: — mi contento e mi obbligo, accompagnati che saranno li sopradetti donna Giovanna e Marcantonio insieme, di assegnare, et deputare quella parte di entrata pel mantenimento loro, che parerà conveniente et honesto.... a patto che il Carretto pigli nome di Doria — _salvo et riservato titulo, et usufructo integro pro ipso illustrissimo principe Melfi durante eius vita_. La pensione poi era limitata _ad substentationem et alimenta_. — [32] Canto XVIII. Guglielmo il duce ligure. . . . . . . . . . . . . . . . in fra i più industri ingegni Nei meccanici ordigni uom senza pari. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lancia dal mezzo un ponte; e spesso il pone Sull'opposta muraglia a prima giunta. [33] Questo fece il Doria co' Turchi: oggi non si costuma più co' Cristiani, anzi con fratelli, comecchè traviati: auspici Lamarmora, e gli altri che lo precederono. [34] Il Brantôme lo pretende francese: antica agonia di cotesto popolo di pretendere suo tutto ciò che ha fama, fosse pure detestabile. [35] Questo strano caso racconta Michele Montagna nei suoi viaggi d'Italia, e conferma l'ambasciatore veneziano Antonio Tiepolo nella sua relazione al Senato. _Mutinelli_, S.ia arcana, T. I, p. 121 — furono presi undici fra Portoghesi e Spagnuoli i quali, adunatisi in certa chiesa prossima a San Giovanni Laterano, facevano alcune loro cerimonie, e con tremenda scelleraggine, bruttando il sacrosanto nome di matrimonio si maritavano l'un l'altro, congiungendosi insieme come marito con moglie. Ventisette si trovavano e più insieme il più delle volte, ma questa volta non ne hanno potuto cogliere più che questi undici, i quali anderanno al fuoco come meritano. — Il Montagna c'istruisce in virtù di quale argomento essi si conducessero a ciò fare: la fornicazione, essi dicevano, è peccato: nondimanco col rito chiesastico diventa sacramento; dunque la santità del medesimo rito torrà via la materia peccaminosa da ogni e qualunque altra congiunzione. La Inquisizione approvando la maggiore e la minore del sillogismo, trovò che la conseguenza peccava, e sposati e sposatori condannò ad essere arsi vivi. Certo il sillogismo era sbagliato, ma correggerlo col fuoco parve eccessivo. [36] Nel 1553. Enrico I d'Inghilterra era morto d'indigestione di lamprede in Normandia nel 1135. [37] Brantôme, _Vie de Charles V_. — Leti, _Vita di Sisto V_. [38] Gioverà avvertire due essere stati i Davalos, uno Francesco Ferdinando che fu marchese di Pescara, l'altro Alfonso marchese del Vasto; spesso li confondono gli storici molto più ch'ebbero mogli entrambi con lo stesso nome, il primo Vittoria Colonna celebre donna; il secondo Vittoria di Aragona. Quegli vinse a Pavia, questi fu perditore a Ceresola. [39] Il Brantôme riporta in altra guisa le parole di Francesco, le quali egli afferma avere ricavato dalla bocca di certo vecchio: secondo lui il re di Francia avrebbe favellato così. — Signor Andrea: bisogna che lo Imperatore mio fratello ed io facciamo eterna riconciliazione ed allestiamo insieme una gagliarda armata per mettere a terra il Turco, e voi ne sarete il capitano per tutti e due. — Egli è agevole capire come cotesti sensi fossero espressi artatamente per purgare la Francia dalla infamia acquistata per cagione della lega col Turco ai danni della Cristianità. — [40] Così anco l'Ulloa nella vita di don Ferrante Gonzaga, che aggiunse, capitano dell'armata veneziana essere stato Vincenzo Cappello a cagione della morte a quei giorni accaduta di Gerolamo Pesaro, il quale lasciò grandissimo desiderio di sè; Marco Grimani patriarca di Aquileia venne preposto alle galee pontificie cui dettero compagno Paolo Giustiniano. INDICE. Dedica _Pag._ v CAPITOLO I. Da cui nascesse Andrea Doria, e quali i primordii della vita di lui — pag. 1 CAPITOLO II. Condizioni d'Italia sul finire del XV secolo. — Andrea è fatto tutore del duca Francesco Maria della Rovere. — Quali i concetti di Cesare Borgia. — Imola presa, e di Caterina Sforza. — Tradimento fatto al duca di Urbino. — Insidie di Alessandro VI al cardinale di San Pietro in Vincoli riuscite invano. — Strage del duca di Camerino e dei figliuoli suoi. — Pietosissimo caso di Astorre Manfredi. — Congresso dei Baroni Romani alla Magione. — Andrea Doria scansa le mortali insidie del duca Valentino, e salva il duca e la duchessa di Urbino. — Maria manda a vuoto le trame del cardinale Giuliano della Rovere per le castella del nipote — pag. 34 CAPITOLO III. Disuguaglianza civile causa perpetua di ruina negli Stati. Dei governi misto e semplice, e quale dei due il più sincero. Rumori di popolo; _castiga villano_; due Doria ammazzati; nuova spartizione degli uffici tra popolo e patrizii. — Accordi politici non durano; i patrizii sopraffatti esulano a Savona; e ogni dì inaspriti ricorrono alla Francia. Il Re distratto altrove tepido paciere. Guerra del popolo contro i nobili, e consigli di Andrea. Mutate le cose di Francia il Re entra non più paciere, ma vendicatore dei nobili. Paolo da Novi doge popolano decapitato e squartato: altre stragi: rimettonsi le cose come prima. Lega di Cambraia. Fama di Giulio II usurpata; sue contese con la Francia; il Papa promove novità a Genova; i congiurati scoperti hanno mozzo il capo. Giano Fregoso con forza aperta toglie Genova alla Francia. Andrea Doria prefetto del mare. — Gesto nobilissimo di Andrea sotto la _Briglia_ dove rimane ferito. — Prosperando le cose di Francia Andrea si ripara con l'armata a Portofino. — Sconfitta dei Francesi a Novara. — Torna Ottaviano Fregoso doge in Genova, e il Doria con esso. Guerra turchesca, l'arcivescovo di Salerno geloso di Andrea si adopera a torgli l'ufficio di prefetto del mare, e non riesce. Gesti di Andrea a Gianutri e alla Pianosa, dove si combatte aspramente. — Carlo V disegnando prevalere in Italia tenta pigliare Genova alla sprovvista e non riesce; l'anno dopo la piglia per forza, e la saccheggia. — Tragedia di Monaco non senza sospetto di partecipazione del Doria. — Andrea in corte di Francia persuade soccorrersi Rodi e invano; difende le coste di Provenza, durante la invasione degl'imperiali in Provenza; e cattura Filiberto principe di Oranges; piglia Savona e Varagine; vince il Moncada ammiraglio di Spagna e lo fa prigioniero. Francesco I rotto a Pavia. Dal consiglio di Francia vuolsi, che Andrea metta in pegno le sue galee pel sicuro trasporto del Re in Ispagna; nega, e si proferisce liberarlo per virtù di arme: non è atteso; mal soddisfatto dei Francesi, spirata la condotta, si accomoda col Papa. Lega santa per frenare lo Imperatore. — Andrea contro la patria, tenta Portofino, ed è ributtato. Le cose della lega vanno a rifascio, il Papa si stacca dalla lega, e Andrea va a Civitavecchia; rimandato a combattere la flotta spagnuola la disperde nel mare ligure. Di un tratto il Papa si scosta da capo dalla lega, e si accorda col Colonna e col Moncada; il Borbone non mena buoni gli accordi. — Sacco di Roma. — Potere temporale del Papa minacciato dall'Austria, difeso dalla Inghilterra. Andrea da capo al soldo della Francia, e da capo contro la patria sua. — Dopo varie fortune piglia Genova; dissuade il re Francesco a metterci doge Cesare Fregoso, e ci va governatore Teodoro Triulzio. — Piglia moglie. — Suoi amori. — Sua parsimonia. — Codicilli singolari del suo testamento — pag. 63 CAPITOLO IV. Andrea raccoglie gente in Toscana per aiutare il Lautrecco nella impresa di Napoli. A cagione dei tardi provvedimenti va in Sardegna; e capita male. — Renzo da Ceri e gli altri mettono male biette in corte contro Andrea. — Nobile vittoria navale riportata dal conte Filippino Doria contro la flotta imperiale a Capri. Andrea osserva la fede data agli schiavi di liberarli se si fossero comportati virtuosamente. — Strano mutamento di fortuna nella Francia. — Cause per le quali Andrea lascia le parti di Francia. — Se sia vero che la battaglia di Capri vincessero le fanterie francesi. Insidie del Barbesì contro la vita del Doria fatte vane dalla sagacia di lui. Colloquio di Andrea col Barbesì a Lerici, e suo prudente discorso. — Il Barbesì tenta sorprendere l'armata di Andrea e non riesce. — Smaniose pratiche per tenere saldo Andrea in devozione di Francia; si fanno più accese, e ci s'intromette anco il Papa il quale tira l'acqua al suo mulino. Ribalderie del Re e dello Imperatore per avvantaggiarsi uno a danno dell'altro. In quanta stima i Francesi tenessero il Doria. Opinione del Guicciardino, che da molto tempo Andrea avesse statuito abbandonare la Francia, del tutto maligna. Conto che facevano gl'Imperiali di Andrea. Condizioni della condotta di Andrea prima stabilite a Milano, poi confermate a Madrid: quali fossero. Andrea inalbera bandiera imperiale. A torto tacciato di tradimento dai Francesi. Giudizio dei Fiorentini intorno questo atto del Doria, e se giusto — pag. 130 CAPITOLO V. Andrea allestito il naviglio si avvia a Gaeta: mantiene in devozione Sprolunga: rende i prigioni di Capri alle dame napoletane, porta vittovaglie a Napoli traversando l'armata nemica. Morte del Lautrecco. Il marchese di Saluzzo dopo alcuna prova di valore si arrende. Pietro Navarro strangolato. Il nipote di Consalvo onora di sepoltura Lautrecco e Navarro, e ci pone bellissimi epitaffi. — Elogio del Brantôme al Consalvo, e forse tace il meglio. — Andrea si arricchisce con le prede. Galeoni che fossero. — Condizioni presenti di Genova; accuse vere e false contro i Francesi. Andrea muove a liberare Genova dai Francesi; il Rapallo messo degli Otto con prieghi e con minaccie lo dissuade da farsi avanti; non gli dà retta. Strattagemma col quale l'armata francese, durante la notte, fugge da Genova; la perseguita Andrea e piglia due galee. Nuovi ambasciatori a Pegli per distorlo dal disegno di liberare la patria; al medesimo fine Giovambattista Doria gli occorre a San Pier d'Arena. Viltà antiche e moderne. Famiglia Doria per viltà repudia Andrea per consorto scrivendo al Cristianissimo. Ordine per pigliare Genova. Prodezza di Filippino Doria. Palazzo ducale convertito in Lazzaretto. Si chiamano i cittadini a suono di campana e non vengono. Spedisce per le ville messaggi a convocarli in piazza San Matteo, e vengono, ma pochi; espone loro le cause del suo partirsi dalla Francia, però non le espone tutte. I Genovesi, che prima lo ributtavano, ora piangono di tenerezza; un Fiesco vuole dichiararlo di botto liberatore della patria; i più prudenti lo temperano. Radunasi il Consiglio grande; i Dodici della Riforma confermansi. Provvedonsi armi e danari; Andrea preposto a dare compimento alla libertà della patria. Il Trivulzio chiede gente per reprimere il moto di Genova; le nega il Duca di Urbino; natura di costui; Amerigo da Samminiato, che lo dileggia, fa impiccare. Presa Pavia il Sampolo va al ricupero di Genova; arriva in San Pier di Arena; manda ad intimare la resa; araldo ingannato dallo strattagemma del Gentile. Il Sampolo si ritira senza far danno; i Genovesi procedono acerbi contro i parziali di Francia; due ne impiccano; si apparecchiano allo assalto del Castelletto; il quale reso a patti dal Trivulzio, ruinano; liberano lo Stato. Gavi si arrende, Novi no, ma poi hanno anco questa. Prudenza dei Genovesi di non mettere le città in mano ad amici potenti. Si attende a recuperare Savona; confronto di quanto operarono i Genovesi nel 1528 con quello che fecero i Piemontesi nel 1849; resa di Savona; atterransi le mura e si colma il porto. — Principii del governo di Genova. Consoli. Come abbia origine la disuguaglianza civile. Potestà e Nobili. Il governo oligarchico torna ad essere popolesco. Governi scomposti che succedono; Guelfi e Ghibellini; tirannide dei Doria e degli Spinola. Capitani ed Abati del popolo. Nuovi rivolgimenti che inducono a chiamare l'imperatore Enrico di Lucemburgo paciere; morto lui i Genovesi si danno al re di Napoli e ai duchi di Milano. Il popolo, eletto Simone Boccanegra doge, reprime la insolenza dei nobili, che spogliati di ogni prerogativa, la vanno vie via recuperando, eccetto il dogado, donde rimangono esclusi per decreto solenne. Nobili principali; tetti appesi. Famiglie Adorna e Fregosa nimicate per arte dei nobili, che nel torbido usurpano Stati. I Riformatori ordinati da Ottaviano Fregoso non fanno frutto, e perchè. Riforma del 1528 quale. Dicono che lo imperatore Ottone qualche cosa di simile instituisse, e non è vero. Questa riforma lodavano tutti a quei tempi. Corre voce lo Imperatore stimolasse il Doria a farsi signore di Genova, e non è vero; il popolo lo vorrebbe doge a vita, ed ei rifiuta: ricompense pubbliche; statua; censore a vita; festa della Unione instituita che dura fino al 1796. Andrea giudicato dallo Ariosto. Alcuni negano si devano mostrare le azioni umane quali veramente sono, e pretendono si abbiano ad accettare quali compaiono: vanità loro, ufficio dello storico. Se Andrea provvedesse alla concordia solo o meglio di altrui. Se i partiti giovino alle repubbliche, e come. Popolo escluso dal governo; quali diritti gli conservano. Confogo che fosse. Odio del popolo contro il Doria, che più tardi ne atterra le statue. Nobilume quanto vile. — I nobili vecchi nè anco tutti contenti della riforma. Superbia di nobili vecchi. Il Doria ordinatore della riforma la disprezza. Alberi delle famiglie. Spartizione degli ufficii, che si aveva a smettere, non si smette. — Nobili nuovi male soddisfatti della riforma, e perchè. — Altri errori della riforma descritti. — Merito del Doria nel liberare Genova dai Francesi. — Il Doria rende Genova serva degli Spagnuoli, e se ne adducono prove. — Pensa di pigliare con sue arti gli Spagnuoli, ed è preso. — Misero stato di Genova. — Giudizio dell'Oratore veneto su Genova. — Turpe gara degli oratori genovesi co' ferraresi e sanesi alla incoronazione di Carlo V. — Andrea locandiere, e soprassagliente dei reali di Spagna: lega ai posteri la servitù col suo testamento. — Turpi lodi del Bonfadio. — Andrea non si poteva ad un tratto farsi tiranno della Patria, e perchè. — La tirannide mostra i denti con Giannettino figliuolo adottivo di lui. — Caso di Uberto Foglietta. — Parallelo tra Ottaviano Fregoso e Andrea Doria. — Giudizio sul Doria di scrittori moderni. — Elogi, scritture da abborrirsi. — Andrea nemico della libertà di Firenze e di Siena. — Ammazzato Alessandro manda soldati a tener fermo lo Stato. — Difese del Doria non reggono. — Che poteva egli fare per Genova; — che cosa per la Italia e nol fece. — Doria grande capitano, non grande cittadino — pag. 169 CAPITOLO VI. Pericolo di Andrea di essere preso dai Francesi e come ne scampa. Va a Barcellona a pigliare lo Imperatore; liete accoglienze e sospetti. Carlo a Genova. — Benefizii fatti dallo Imperatore al Doria, e se è vero che questi donasse il principato di Melfi al marchese del Carretto. — Disfatta e morte del Portondo. — Impresa di Andrea alle Baleari. — Guerra turca; sua origine e suo incremento. — Solimano sotto Vienna; di un tratto si parte, e perchè. — Il Doria in Grecia. — Venezia ricusa partecipare alla guerra. — Espugnazione di Corone. — Lamba Doria. — Geronimo Tuttavilla. — Todare Trigidito e sua morte. — Severità di Andrea per mantenere la disciplina. — Prende i Dardanelli di Morea e di Romelia. — Descrizione del palazzo di Fassuolo. — Andrea vi accoglie Carlo V. — Vasellami di argento gettati in mare. — Il Turco va a ripigliare Corone. — Ardimento di Geronimo Pallavicino e di Cristoforo Doria. — Battaglia sotto Corone. — Valore del capitano Ermosilla e di Antonio Doria. — I Turchi disfatti fuggono. — I Francesi mettono sossopra il mondo per vendicarsi di Carlo V. — Morte del papa Clemente VII. — Querimonie della Cristianità per la lega di Francia col Turco. — I corsali Barbarossa acquistano il reame di Algeri e come. — Ariadeno chiamato da Solimano in Costantinopoli. — Rivolgimenti a Tunisi. — Andrea persuade a Carlo V la impresa di Tunisi; la favorisce il Papa che dona al Doria stocco, cappello e cingolo benedetti. — Grandi apparecchi. — Provvidenze contro le cortigiane. — Costumi portoghesi e spagnuoli. — Morte del conte di Sangro. — Presa della Goletta. — L'ebreo Synam. — Ordine del Barbarossa di ammazzare settemila cristiani. Pietosissimo caso del figliuolo del giudeo Synam. — Battaglia di Tunisi. — Chi la ingaggiasse primo. — Prodezza di Ferdinando Gonzaga. — Tunisi preso, e patti col re Muleasse. — Nuova guerra tra il Re di Francia e lo Imperatore; il quale lo provoca a duello. — Consulta di Carlo in Asti, e consigli che gli dà Andrea. — Guerra in Provenza. — Venerazione di Carlo V per le forche. — Assalto improvviso dei Francesi contro Genova; che è ributtato. — Capitani d'Italia combattonsi pro e contra, e tutti ai danni della patria. — Strage di Alessandro duca di Firenze, e sollecitudine di Andrea a danno della libertà. — In grazia sua la servitù in Firenze si conferma — pag. 255 CAPITOLO VII. Solimano, prevalendosi della discordia tra lo Imperatore ed il Re di Francia, piglia Castro e minaccia la Italia intera. — Il Papa si ricorda essere padre dei fedeli. — Congresso di Nizza. — Eremita che intende accordare Dio e il Diavolo, novella narrata dal medico Turini a papa Paolo III. — Tregua di Nizza. — Francesco e Carlo si vedono alle Acque morte. — Parole risentite scambiate fra Andrea Doria ed il re di Francia. Inverosimiglianza della proposta del Doria di trasportare il re di Francia a tradimento in Ispagna intanto ch'egli si tratteneva su la galea. — Anco da questa conferenza non riesce utile alcuno. — Osservazione del Bonfadio, e perpetua stupidità del popolo. — Andrea muove contro il Barbarossa; propone lega ai Veneziani a danno del Turco; non viene accettata, e perchè. — Piccole cose di Andrea e sperticati encomii del Bonfadio. — Lodi di Cesare Fregoso per la sua carità verso la patria. — Scontro alle Melere con poca gloria di Andrea. — Veneziani bisognosi di aiuto ne ricercano il Doria che ostinato lo nega. — Sue insidie per mettere i Veneziani in discordia con Solimano. — Lega del Papa, i Veneziani e l'Imperatore contro il Turco; i Veneziani abbandonati dal Doria rammentano l'antica virtù. — Comune pericolo riunisce i collegati. — Pier Luigi Farnese patrizio veneziano e marchese di Novara. — Assalto della Prevesa. — Andrea vuole rinforzare il presidio delle galee veneziane con fanti spagnuoli, si ringrazia, e non si accettano; donde nuove gozzaie. — In questa guerra tutti fanno il proprio dovere, tranne Andrea, che ne ritrae danno ed infamia. — Tenta Durazzo. — Piglia Castelnuovo. — I Veneziani disgustati dal Doria si accomodano con Solimano. — I Turchi ripigliano Castelnuovo; morte del Sarmiento. — Chi fosse il corsale Dragut; Giannettino lo piglia e lo mette al remo; trova grazia presso Peretta moglie di Andrea, che, per 5000 ducati con molto biasimo suo e danno della cristianità, lo libera. — Imprese del Dragut liberato. — Gand ribellasi allo Imperatore, che per reprimerla si affida passare per la Francia; lusinghe e pericoli; diamante lasciato cadere nel bacile che gli offeriva Diana di Poitiers. — Impresa di Algeri dissuasa dal Doria è statuita; cause che la persuasero a Carlo V. — Apparecchi e primi disastri. — Riunione delle armate ad Algeri. — Sbarco differito e perchè. — Resa intimata e reietta; si fa lo sbarco; scaramuccie durante il giorno e la notte. — Orribile uracano. — I Turchi finiscono i corpi avanzati degli Italiani; minacciano lo sterminio del campo italiano ch'è soccorso da Giannettino Doria; pericolando egli stesso lo sovviene lo Imperatore. — I Turchi sono respinti e perseguitati fin sotto le mura; sortita di Osfan-Agà: strage dei nostri; valore dei cavalieri di Rodi; sgomento dello Imperatore, che tenta le supreme prove per salvare l'esercito e gli riescono. — Rinforza l'uracano; ruina dell'armata imperiale; superstizione di Carlo V; casi pietosi. — Virtù e costanza del Doria singolarissime; egli manda a dire a Carlo se parte, lo andrebbe ad aspettare a capo Matafus. — Generosità di Ferdinando Cortez, e sua perdita di smeraldi, o come altri dice di una perla. — Consulta se lo esercito deva ritirarsi; Carlo n'esclude il Cortez, e perchè. — Ritirata travagliosa; torrente grosso di acque la impedisce; Giannettino e i Genovesi costruiscono un ponte per traversarlo. — Parole di Carlo al Doria, promette ristorarlo dei danni, e lo fa, ma sottilmente. — Partenza da Matafus, ed eccidio miserabile di cavalli. — Nuova procella e rovina di navi; casi fortunosi della gente sbatacchiata dalla bufera. — Carlo torna in Ispagna a far penitenza, Andrea in Genova a riordinare l'armata. — Ghiottoneria dello Imperatore. — Mutue offese tra Carlo e Francesco. — Insidie a monsignore di Granvela. — Strage del Rincone e del Fregoso. — Nuova guerra tra lo Imperatore e Francesco rotta da tre parti. — Si parla di quella di Perpignano. — Consigli del Davalos a Cesare e superbe risposte di lui. — Provvidenze del Doria. — Solimano in lega col re di Francia manda il Barbarossa nel Mediterraneo; devastazioni sue quando viene. — Carlo per l'ultima volta albergato dal Doria. — Invitato di conferire a Bologna col Papa, Cesare rifiuta; pure consente parlargli a Busseto; il Papa attende a tirarvi l'acqua al suo molino, e non riesce. — Cesare bisognoso di denaro ne trova da Cosimo duca di Firenze. — Guerra d'Italia: assedio di Nizza per parte dei Francesi e dei Turchi. — Arti francesi con Genova non approdano. — Assedio di Nizza. — La Segurana e il Conte di Cavour. — Il Simeoni difende il Castello; Turchi e Francesi danno indietro. — Male parole e peggio fatti tra il Barbarossa e il Polino. — Il marchese del Vasto soccorre Nizza. — Fortuna di mare e perdita di galee del Doria a Villafranca. — Guerra del Piemonte. — Andrea dissuade il Davalos a soccorrere Carignano; ragioni per le quali il Davalos si reputa obbligato a sovvenirlo. — Battaglia della Ceresola. — Curiosi particolari di quella. — Stupenda alacrità di Andrea e dei partigiani dello Imperatore a rifare lo esercito. — Pietro Strozzi alla Mirandola; in Lombardia; rotto alla Scrivia; raduna nuove squadre; va a Montobbio; penetra nel Piemonte e piglia Alba. — Il Barbarossa va via; danni da lui recati all'Italia quando parte; con Genova propone accordi; pure le ruba una nave; immanità sua contro le ossa di Bartolomeo da Talamone: è ributtato da Ortebello; saccheggi e ruine per le terre del regno; se ne torna per ultimo a Costantinopoli. — Si rinfocola la guerra tra il Re di Francia e lo Imperatore, a cui si aggiunge Enrico VIII d'Inghilterra: mentre si aspetta il finimondo segue la pace. — Cause di questa. — Chi fosse il Furstembergo e casi suoi. — Reputazione delle bande italiane per gli assalti delle terre. — Milizie tedesche bestialissime sempre, ed in abbominazione agli stessi propri capitani. — Pace di Crepy, e patti della medesima — pag. 345 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (ancore/áncore e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Vita di Andrea Doria, Volume I, by Francesco Domenico Guerrazzi *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 46100 ***