NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—Alle pagine 441-442 l'intestazione di sezione XLVIII risulta mancante nell'originale. Tale anomalia è stata mantenuta.
—La copertina è stata creata dal trascrittore e posta in pubblico dominio.
CANTI E PROSE
DI
G. REGALDI
VOL. II.
TORINO
TIPOGRAFIA SCOLASTICA DI SEBASTIANO FRANCO E FIGLI
1861
ALLA MEMORIA
DI
TERESA GEORGE CIBRARIO[i]
Anima bella, che dal buio uscita
Della mortal vallea, drizzasti il volo
Agli splendor della seconda vita;
O Teresa gentil, vedovo e solo
Quaggiù l'Eletto che ti fu consorte,
Si lagna a te per insanabil duolo.
Ed io compunto dell'acerba sorte,
Fa cor, gli dissi, e contra i mille strali
Della fortuna opponi anima forte.
Tu che del tempo l'ira invitto assali,
Erodoto novel, ne' dotti studi
Ti riconforta de' sofferti mali.
[292]A te conviensi disfidar de' crudi
Eventi le procelle, a te fia gloria
Sdegnar del mondo i miseri tripudi.
Tu che dell'egra patria alla memoria
Porgesti, quasi farmaco sicuro,
L'augusto onor della sabauda istoria,
Torna a svegliar de' secoli che furo
I magnanimi gesti, e nuova lena
N'avrà d'Italia il fato alfin maturo.
Vieni meco a spirar l'aura serena
Fra i pioppi della Dora, e fanne aperti
I patrii fasti onde la mente hai piena;
E i campi, dove più sembran deserti,
Di tua scïenza popolati al lume,
Mi narreran del secol prisco i merti;
Sì che levato oltre il volgar costume
Ad ardua meta, di te degno io sia,
Mentre a te vo sacrando il mio volume.
«Dolce amico, ei sclamò, l'opera pia
Del tuo volume, deh! sacrar ti piaccia
Alla memoria della donna mia.
Ella che fida alla paterna traccia,
Amò gli eroi Sabaudi, e disdegnosa
Fremea dello straniero alla minaccia,
[293]Ed ora innanzi a Dio canta festosa
Questo bel regno ausonico nel verso
Che a noi pingeva ogni diletta cosa;
Ella di nostre lagrime cosperso
Avrà in grado il tuo libro, ed io n'avrei
Per te conforto, io che fra cure immerso,
Sempre ho l'imagin sua negli occhi miei».
E sì dicendo per la man mi prese,
E mi addusse alla stanza, ove tu sei
Effigïata sì che fai palese[ii]
La nobil'alma nel gentil sembiante,
In che l'amico mio tanto s'accese.
A te, come a risorta, io trassi innante
Preso di meraviglia, e dai coralli
Del tuo labbro attendea parole sante.
Le rose e i gigli delle nostre valli
Ti fiorivano in volto, e fuor ti usciva
Dagli occhi il lampo de' siderei balli.
Irradïato di tua luce diva,
Vid'io converso in mistica Sionne
Il sacro ostello che d'intorno oliva.
O benedetta fra le itale donne,
Prendean vita per te le pinte mura,
I cherubi arpeggianti e le madonne[iii];
[294]E parlavan del Ben che sempre dura,
E delle rose ch'ei lassuso eterna
Per chi si leva dalla terra impura
All'empireo giardin che mai non verna:
E tu nell'ineffabile sorriso
Significasti la tua pace interna.
Ahi! m'afflisse il mirar nel tuo bel viso,
Quando alla dolce illusïon fui tolto
Da lagrimosi guai che m'han conquiso.
Era lo sposo tuo che ruppe il molto
Dolorar ne' singulti a me d'accanto,
E presso al caro effigïato volto
Mostrando sovra eburnea croce il santo
Martire del Calvario, ah! ne' sospiri,
Amore e morte, dir parea col pianto.
Cittadina del ciel, tu che i martìri
Puoi consolargli col benigno raggio
Che accende l'aurea sfera in cui t'aggiri,
Deh! tu l'aiuta sì che possa il saggio
Colla virtù della civil parola
Far nuovo al Sire ed all'Italia omaggio.
O grazïoso spirto, a lui deh! vola
Nel mormorio de' zeffiri söavi
Onde il Chiuson le afflitte alme consola;
[295]E di un sorriso rallegrando i gravi
Lutti nell'odorifera pineta,
Torna al poggio ospital che tanto amavi[iv].
Se incontrerai me pellegrin pöeta
Col tuo fedele che mi fu sì pio,
Deh! mi piovi nell'anima inquïeta
Il bello e il ver che tu vagheggi in Dio,
Mentre t'invoco ne' miei versi, e come
Dettami patrio amor, ti sacro il mio
Libro, che fausto ha dalla Dora il nome.
NOTE
[i] | Teresa George, consorte di S. E. il ministro Conte Luigi Cibrario; nata a Stradella il 15 di marzo 1815, morta a Torino il 6 di novembre 1860. |
[ii] | Effigïata sì che fai palese Ritratto in tela della rimpianta donna: egregio lavoro del cav. Angelo
Capisani. |
[iii] | I cherubi arpeggianti e le madonne; Nella stanza ove si ammira l'accennata effigie sono accolte opere d'arte
molto pregevoli, fra le quali un Crocifisso d'avorio del Lacroix, due
Angeli sonanti l'arpa, dipinti su tavole da Gaudenzio Ferrari, e una
Madonna del Murillo. |
[iv] | . . . . . al poggio ospital che tanto amavi. Villa dei pini di S. E. il ministro Cibrario, su d'un colle presso
Pinerolo. |
DAL MONGINEVRA A SUSA
Le Sorgenti della Dora e della Duranza
In Palestina, alle pendici dell'Antilibano (18 maggio 1850) riposai da lungo cammino presso una sorgente del Giordano, le cui limpide e copiose acque mormoravano fra l'erbe e gli oleandri di Panias. Nella Maina, sceso dal selvoso Taigeto (6 settembre 1852) in Cefalofrissi, mi assisi fra gli antichi platani, che cerchiano la sorgente dell'Eurota, del caro fiumicello, che irriga la valle di Sparta, assiepato di ogni sorta di piante e ricco di poetiche ricordanze.
Volli visitare le sorgenti dei due fiumi, che in Oriente mi simboleggiavano Terrasanta e Grecia, la Bibbia e l'Iliade, quasi che a quelle sorgenti dovessi attingere le prime ragioni informatrici dei due massimi libri, che tengono il dominio dell'intelletto e del cuore. In simil guisa dopo tre lustri di pellegrinazioni, tornato alle terre natali, volli alle sue sorgenti fra le balze del Monginevra salutare la Dora, il diletto fiume che mi simboleggia la patria, e fra le immagini e gli studi della Bibbia e dell'Iliade mi temprò la vita ad onesti propositi ed a carmi animosi.
La Dora, dalla sorgente sino al lido dove mette nel Po, colla leggenda e coll'istoria, colla vista de' suoi gioghi e de' suoi piani, e con le memorie e le virtù de' nostri popoli scalda l'animo di ogni italiano, imperocchè bagna la Macedonia d'Italia, la reggia dei magnanimi principi, che educano e guidano i popoli[298] alle guerre della indipendenza nazionale, il quartiere dei forti eserciti, l'asilo degli esuli generosi, il santuario della libertà e della civile sapienza italiana. I fiumi dell'antica Grecia furono venerati dai sacerdoti, celebrati dai poeti, ed io amo celebrare il fiume sacro del Piemonte, il fiume della mia giovinezza e delle mie prime canzoni.
Il Monginevra o monte Ginevra, come lo appella lo storico Botta, giganteggia nella cerchia delle Alpi Cozie, all'altezza di due mila cinquanta metri sovra il livello del mare. Colà un tempo quali tutelari divinità furono onorati Apolline ed Ercole e le Dee matrone, invocate specialmente a tutela della salute. Ora per l'altipiano del monte si distende un umile villaggio, con una chiesa eretta su le rovine d'un tempio pagano: vi sorge un obelisco di pietra in onore di Napoleone I con iscrizioni nelle lingue latina, italiana, francese e spagnuola. Ma il monumento più grato a chi stanco vi giunga, è l'ospizio fondato nel 1343 da Umberto Delfino II e ristaurato da Napoleone I, le cui battaglie son dipinte su le pareti d'una stanza, dove in un quadro si conserva una foglia del salice, che nell'isola di Sant'Elena gli ombreggiava il sepolcro, ed un pezzetto di piombo della funebre cassa: reliquie che un uffiziale di gendarmeria si procacciò in quell'isola.
Poco importano fronde e piombi che toccarono la polvere inanimata di quell'uomo là, dove sento e veggo il suo spirito creatore nell'ampio cammino aperto fra le viscere delle Alpi!
Napoleone affidava la cura dell'ospizio ai Trappisti; ora v'ha soltanto un sacerdote con titolo di direttore, l'abbate Augel, che in dono vi recò dipinti di molto pregio, e quando, singolarmente nel verno, gli manca la compagnia dei vivi, conversa coi morti fra molti libri di materie ecclesiastiche, coi quali egli passa i suoi dì, beato di dottrina e di solitudine.
Quel sacerdote mi è stato assai cortese ponendo a mia disposizione il suo servo e il suo cavallo, cui si aggiunse una guardia[299] forestale favoritami dall'ispettore Guglielminetti, perchè potessi con agio visitare nelle loro sorgenti la Dora e la Duranza, due sorelle, genii del bene e del male usciti da un medesimo principio.
Presso l'ultimo picco bicornuto del Monginevra, intorno al giogo di Soreau, sulla costa volta ad occidente, nella valle del Gondran scaturisce la malefica Duranza, le cui temute acque s'incanalano per le scheggiose forre di orride montagne, mentre nell'opposita costa ad oriente s'odono mormorare fra i larici le prime fonti della Dora, sul cui margine vidi tremolare le erbette e i fiori al sorriso di più benigna natura.
Direbbesi quasi che nella Duranza si agiti una furia, la quale dalle Alpi scendendo minacciosa, porti colle gonfie acque la desolazione nei seminati campi della Francia. Non così della Dora, fecondatrice benefica delle nostre campagne subalpine. Nelle sue sorgenti ella sospira con innocente grazia pastorale, e discesa al piano, diviene regina, diletta ed onorata da tutte le genti italiane.
Gli spiriti di Caino e di Abele s'incontrano su le più alte cime del Monginevra. Quello di Caino mira all'occaso, e seguitando nella loro corrente le acque della Duranza, rinnova la sua antica disperazione; e lo spirito di Abele guardando ad oriente, benedice le acque della Dora e le accompagna coi canti dell'amore e dei santi olocausti.
Per tal modo la Dora e la Duranza seguono il contrario loro destino, come suona la stessa loro denominazione; imperocchè vuolsi che la Dora così venisse appellata, o perchè gli antichi opinavano ch'ella menasse arene d'oro, o perchè colle sue acque fecondatrici portava l'abbondanza, la ricchezza, l'oro nelle terre da essa irrigate; e all'incontro la Duranza deriverebbe da dure acque, dure onde, come spiegano i commentatori del Petrarca alla Sestina VII:
Sovra dure onde al lume della luna.
La Dora nel dividersi dalla sorella Duranza, da lei si accommiata[300] con un addio, che udii ripetuto su quelle balze, ed io pur lo ripeto, prima di seguire le correnti del patrio fiume:
Adieu donc, ma sœur la Durance,
Nous nous séparons sur ces monts,
Toi, tu vas ravager la France,
Moi, je vais féconder le Piémont.
Povera di acque e con umile mormorio scende la Dora fra le roccie di Gimonte a destra e quelle del Chiabertone a sinistra, montagne che ricordano il passaggio di Annibale, e così vicine l'una all'altra, che nei loro tortuosi laberinti par vogliano stringercisi addosso e soffogarci.
Quale spettacolo di spavento in primavera quando le valanghe spiccatesi dall'alto e attraversata la via, si accavallano su la Dora, formando un varco, sotto cui mormora il fiumicello, mentre sovra massi di ghiaccio e di neve si tragitta con bestie e carri non altrimenti che su d'un ponte artifiziale!
Uscendo da anguste gole, si spira aria più libera, e più estesa vi si apre la veduta de' monti e delle valli, toccando il ponte della Comba, sotto il quale scorre la Dora, che accogliendo il tributo di molti rivoletti, ora a cielo aperto mostra le chiare acque, ora modestamente le nasconde sotto le ombre dei pini e dei salici; e qua arginata o libera, colà in ampio letto spaziando, mormora e spumeggia, e, discesa in Cesana, al norte del paese presso un picco selvoso del Chiabertone si disposa al grosso torrente Ripa, da cui piglia l'aggiunto di Riparia.
Il Pastore di Bousson
Scendendo dal Monginevra con una guida ben pratica dei[301] luoghi, attratto dalla varietà delle vedute silvestri, lasciai la via de' carri e volsi a destra della Dora internandomi per intricati meandri di balze e valli; e dopo un'ora di cammino, mi giunse all'orecchio un suono di zampogne ed un belar di armenti, e discoprivo capanne di pastori in estesi prati e tra foreste di larici e di abeti.
Lontano dal rumore e dal fasto delle città, io mi sentiva beato fra le dimore pastorali, che a Torquato Tasso aprirono tanta vena di verginale poesia, ch'egli, non contento di averle già maestrevolmente descritte nell'Aminta, tornò a celebrarle nel settimo canto della Gerusalemme, dove travagliato dal pensiero delle infide corti, forse ritraeva l'ideale di sè stesso, quale avrebbe voluto essere, nel vecchio pastore di Palestina.
A questo io meditava quando sulle cime del Chiabertone levossi una negra nuvola, che a poco a poco stendendosi, andò a congiungersi con altre; sicchè il cielo delle Alpi, poco prima così limpido e sereno da cambiarsi coi cieli dell'Asia e dell'Africa, si fece ad un tratto grave di tenebre e minaccioso. Si direbbe che l'Ariosto fosse colà andato ad inspirarsi quando dettò la maravigliosa ottava:
Stendon le nubi un tenebroso velo
Che nè sole apparir lascia nè stelle.
La folgore serpeggiava fra le nubi e romoreggiavano i tuoni, e non andò guari che piovve a diluvio. Affrettai il passo dietro la guida, che ai fini di Bousson mi condusse a ripararmi nella capanna d'un vecchio pastore suo amico.
Le pastorali capanne di Bousson sorgono da un muricciuolo cementato di calce, conteste di tavole di abete e di larice, ed hanno tutte una capace stalla in due scompartimenti, l'uno per il bestiame, l'altro per il pastore e la sua famiglia.
Quella dove io entrai era delle meglio agiate; imperocchè, in una cameretta separata dalla stalla, sedeva innanzi al focolare il buon vecchio, vestito di panno bigio, con in testa un berretto bianco rincalzato da un cappello di feltro a larghe tese.
Era affisso alla parete un tavolato, dove splendevano nitidi gli utensili della cucina e della pastorizia. A capo del pagliariccio ardeva una lampa innanzi ad un'immagine di Maria, e vi pendeva un rosario che finiva in piccola croce. Accanto all'immagine della Vergine vedevasi una rozza effigie di Napoleone I, ed a questa di riscontro una vecchia sciabola.
—Evviva Giacomo!—sclamò la guida entrando.—Abbiamo un tempaccio del diavolo, ed io vengo da voi con questo viaggiatore per ripararci dall'acqua.
—Siate i ben venuti—rispose il buon vecchio.—Qua; sedete meco al camino, ed asciugatevi. Lucia! porta delle legna.
Ed ecco entrar frettolosa Lucia, la giovine e bella figlia di Giacomo, che, deposta la rocca da cui traeva la lana, con manipoli di secche frondi rese più viva la fiamma del focolare. Poscia riprese la rocca, e, filando, andò a sedere allato al padre.
In quell'ora procellosa Lucia era veramente l'angelo, la stella della consolazione.
Vestiva un giupponcello di panno bigio, una corta gonnella, egualmente di panno di tinta oscura, con un grembiale di tela turchina. La parte superiore del giupponcello terminava a fior di spalle in una listina di mussola, che in gran parte copriva gli avorii del seno. Il volto di Lucia sarebbe stato all'Urbinate un prezioso tipo per le sue madonne. Gli occhi azzurri ed i coralli del breve labbro sfavillavano fra i gigli e le rose del verginale sembiante; ed il cuffiottino di trapunto bianco con due fettucce raccomandato al mento, faceva viemmeglio spiccare quell'angelico viso, sul quale scorrevano a guisa di fila d'oro le ciocche de' biondi capegli.
Giacomo e Lucia sotto la capanna di Bousson mi rappresentavano la vecchiaia e la giovinezza adorne di riverenza e di amore.
Il buon Giacomo mi dimandò della mia patria e del mio nome, e donde venissi e dove andassi; ed io, soddisfatto che l'ebbi in[303] ogni sua domanda, entrai alla mia volta ad interrogarlo della sua vita e della sua famiglia.
—Un po' di bene e un po' di male, qui come in tutto il mondo,—mi rispose egli traendo un sospiro. Indi soggiunse:
—Grande è l'emigrazione da questi monti e da Cesana istessa, poichè son finiti i lavori campestri. A me, padre di cinque figli, resta la compagnia di quest'una, che nel verno viene meco col gregge nei piani di Torino, e nella nuova stagione meco risale queste alte montagne.
Dei maschi, uno insegna a leggere e scrivere in un villaggio della Savoia, un altro è quell'arrotino che bene spesso fa udir la sua voce per le vie di Susa; il terzo campa la vita e raggranella qualche soldo con due suoi compagni, mostrando la lanterna magica per città e ville al suono della ghironda e delle nacchere. Il più giovine lavorava con molto utile nelle officine di Marsiglia; ma nel quarantotto, saputo di Carlo Alberto che avea intimato guerra al Croato: sono italiano anch'io! sclamò con tutto l'ardore dei suoi diciott'anni; e, lasciata Francia, corse a raggiungere i fratelli d'Italia sui campi lombardi, combattendo da soldato valoroso nella buona fortuna e nella cattiva.
—Ed ora?
—Ora è di sua sorte più che tutti contento nelle file del nostro esercito, con sul petto la medaglia al valore militare, non senza speranza di cambiare tra poco i galloni del sergente con gli spallini dell'uffiziale.
—Ma, ditemi: vostro figlio, prima di farsi soldato d'Italia, non venne a vedervi?
—Venne.
—E gli deste il paterno consenso?
—Padre! vado a combattere per la patria, per l'Italia!—mi disse.—Mi ricordai che avevo militato anch'io, e per una causa men santa; alzai la mano e lo benedissi.
—Oh degno padre di un degno figlio! Ma, ditemi ancora: dove e quando avete voi militato?
—Sotto il primo Napoleone (e ne additò il ritratto), nel cento[304] undecimo reggimento, siccome lo attestano quella vecchia sciabola e questi bottoni qui del giubbetto, staccati dall'uniforme ch'io indossava nell'ultima rassegna del maresciallo Davoust dopo la fatal campagna di Russia.
Fra questi parlari la folgore serpeggiava innanzi al finestrino della capanna, ed i tuoni romoreggiavano sempre più, quasi che volessero schiantar la capanna dalle fondamenta.
Fremono i tuoni e pioggia accolta in gelo
Si versa e i paschi abbatte e inonda i campi,
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
Non pur le querce, ma le rôcche e i colli.
(Tasso).
Io mormorava cotesti versi, ed il buon vecchio levatosi da sedere volse gli occhi alla immagine di Maria; e stesa la callosa destra prese il rosario, e, baciatolo, mormorò una preghiera e versò qualche lagrima.
Lucia, vedendomi intento a quell'atto religioso, mi disse:
—Il padre stringe il rosario, che la cara madre avea fra le mani, quando morì in questa capanna, pregando per noi. Quell'immagine e quel rosario sono il nostro scampo nelle disgrazie. Ah! vedete come già cessa lo scrosciar dei tuoni e il diluviar della pioggia?
Veramente il cielo si abboniva; ond'io ringraziai l'uno e l'altra delle amorevoli accoglienze, uscii colla guida per affrettarmi a Cesana, dove giungemmo in capo ad un'ora sotto luminoso arcobaleno, che, coronando la capanna del pio pastore, dalle falde del Chiabertone alle acque della Ripa mirabilmente si distendeva.
Cesana
Reliquia dell'antico Scingomago, Cesana è un paesello fra la Ripa e la Dora, con tettoie di abeti e di larici, con castelli[305] in rovina, e dominato dall'antico campanile della Chiesa parrocchiale. Nel secolo decimosettimo contava sei mila abitanti, ora appena sei cento: piccolo popolo industre e procacciante.
Pochi in Cesana che non sappiano leggere e scrivere, e non siano laboriosi. Chiesi un barbiere, e mi fu mandato un Adrien, maestro di scuole elementari in Francia, poscia colono e barbiere in patria, ed usciere della Giudicatura.
In Cesana l'aria è salubre. Vittorio Alfieri la trovò ai suoi studi tanto benigna, che due o tre anni della stagione estiva quivi abitò la casa Ailliaud, dove scrisse parecchie tragedie. Se la vivida aria delle Alpi, il murmure della Dora e della Ripa, le selve e le valli del Chiabertone potevano nell'Astigiano svegliare la potenza degli estri, forsechè le memorie storiche del paese, un dì martoriato dall'idra feudale, gli hanno suggerito animosi versi contro le perversità della tirannide.
In capo al paese, sulla via che mette in Francia, salii il poggio abitato un tempo dai Marchesi di Cesana. Pochi avanzi del loro castello, in un piano seminato d'orzo, giacciono fra i larici che incoronano il dirupo, dove uno dei cortesi che mi accompagnavano tolse a narrarmi la fine toccata al signore del paese, al marchese Tolosano Desorus ed alla sua famiglia.
Quest'uomo era in odio al popolo perchè di balzelli e di mal governo lo angariava, e, quel che è peggio, oltraggiava alla onestà delle donne.
Avvenne che la giovane sposa d'un pastore, bella non meno che pudica, doveva, come già parecchie altre, soddisfare alla rea libidine del marchese. Lo sposo mosso da amore e gelosia, pensò, non indarno, allo scampo ed alla vendetta.
La sposa dovea la notte entrare nel castello a piacere del marchese, il quale, in sull'ora convenuta, al sommo d'una scala aspettava con ansia la pastorella, e non appena all'abito, all'andare ed all'acconciatura credette di ravvisarla entrata nell'atrio, che di subito scendendo le scale le corse incontro ad abbracciarla, ed in ricambio dell'amplesso s'ebbe al cuore un colpo di pugnale che lo stese morto.
Era il marito, che nelle spoglie della sua donna salvò il proprio onore e vendicò le scellerate onte imposte a' suoi conterranei.
Estinto il marchese Tolosano, rimanevano di lui il figlio erede e due figlie.
Il popolo voleva ad ogni costo disperso il mal seme de' tiranni, e riuscì nei suoi ardimenti.
Era il dì del Corpus Domini. Squillavano le campane, echeggiavano di musiche le vie; cherici e laici, uomini e donne di ogni classe accompagnando Cristo in sacramento celebravano quel dì solenne della Chiesa nostra. Cesana era in moto, ed il giovine marchese, per meglio godere in tutta la sua pompa la vista di quella sagra, cedendo all'invito degli scaltri consiglieri, salì la torre delle campane. E mentre di là vedea ondeggiare per le vie ilare il popolo a lui sottoposto, ed i canti della cristiana carità si ergevano fra le croci, le fiaccole e le schiere de' sacerdoti, il giovane marchese fu da quell'altezza precipitato giù e lasciato morto, e così terminò la signoria dei Tolosano, dalla quale non si aspettavano le genti governo giusto ed amico.
Inorridirono le due orfane sorelle, e, mutate le gemme del domestico fasto nel velo de' claustri, lasciarono Cesana per chiudersi in un monistero di Oulx, dove pregando perchè cessassero le maledizioni su le ceneri dei parenti, largheggiando di limosine, uscirono da questa miserevole vita, compiante, ed in pace con Dio e cogli uomini.
Di tale leggenda non ho trovato nessun riscontro nelle istorie. Certo non si può riferire al secolo passato, come si voleva farmi credere, ma conviene cercarne l'origine nel XII o XIII secolo; difatti trassi da un libro francese[1] che un'iscrizione gotica dietro all'altar maggiore della chiesa de' Francescani di Brianzone, diceva che Antonio Tholosano, dottore in legge e fondatore di quel convento, viveva nel 1390, ultimo della famiglia e degli antichi Marchesi di Cesana.
Del resto, avvenimenti o leggende di tal fatta odonsi raccontare fra le rovine di altri castelli, improntati della barbarie feudale: o sia che gli uomini si accordino talvolta nel modo di disfarsi dei loro oppressori, o che la posterità ami alle leggende popolari annestare simili racconti per insegnare che il potere malamente usato non di rado si converte in supplizio, e forse anche la terribile dottrina, che negli estremi ogni spediente è lecito solchè valga a frangere la tirannide e vendicarsi in libertà.
Queste memorie io volgeva nell'animo guardando al Chiabertone che, cinto di selvaggia orridezza, si estende fra tramontana e ponente, solcato l'ignudo capo dalle folgori, e grave le spalle di folte selve di larici e di pini, e bagna il piè nelle acque della Ripa. Il color cupo del pino ed il chiaro del larice tingono di misteriosa malinconia quel dorso di monte frequente di camosci e tanto vegliato dalle guardie forestali. Le sue selve cogli annosi tronchi preservano il paese dagli scoscendimenti della neve; per la qual cosa è divietato dalla legge il diradicarne ed anche sfrondarne le piante. Gioverebbe tuttavia il taglio degli alberi troppo vecchi, perchè in tal modo il terreno si renderebbe assai più acconcio a germinare piante novelle.
Il Chiabertone non è dunque soltanto magnifico a vedere, ma utile eziandio al paese che gli sta alle falde, mentre la Dora anima i congegni di un molino e di una pubblica sega da legnami, e dona al pescatore ottime trote.
Accennare le trote di Cesana e non l'artifizio della loro pesca, non mi si perdonerebbe da nessuno di quegli alpigiani.
Si accolgono dunque cinque pescatori. Due portano legni resinosi spiccati dalle prossime foreste, un altro tiene una padella foracchiata nel fondo, il quarto una rete triangolare, contesta[308] a guisa di un berretto da notte, sospesa ad un bastone spaccato alle estremità, ed il quinto brandisce una sciabola. Si mettono legna accese entro la padella, la quale da uno dei cinque viene pel manico sospesa in su l'acque, e l'uomo armato di sciabola che gli sta ai fianchi, colla mano sinistra riparandosi gli occhi da quella luce, aspetta le trote, che, quasi affatturate dal bagliore della fiamma, si approssimano: allora egli dà un colpo sul dorso alle improvvide, che, non appena tocche, salgono a fior di acqua boccheggianti e dalla correntìa sono spinte nella rete che le fa prigioniere.
Con tali arti si hanno pescagioni abbondanti, e meglio uno spettacolo che a Gherardo delle Notti avrebbe facilmente inspirato uno di que' singolari dipinti che gli diedero il nome.
Prendendo commiato dalla modesta locanda, La Croce bianca, lessi nella cameretta da me abitata, in un quadro ben lavorato a ricamo di seta: La vertu, la candeur et l'amitié des parens sont le vrai bonheur.
Queste parole, affetto e lavoro delle due leggiadre figlie della casa, mi lasciarono nell'animo una fragranza di caste immagini, come le rose di Damasco quando io mi allontanava da quella popolosa città della Siria.
La Dora uscita da Cesana accoglie le acque del torrente Mornetto, bagna le falde alle Creste nere, montagne secondarie che continuano il Chiabertone, e per acconci canali porta vita ai campi circostanti e moto ai molini, fra scene di paesaggio quando liete quando severe, ma sempre variate e belle. Qui s'incontra il villaggio Fenils, in cui torreggia lo svelto campanile con guglia di forma esagona. Là su pel dirupato risaltano tre paeselli, Solomiac, Colombières ed Autagne; e più in là, alla mia sinistra sul vertice d'un monte, innanzi ad un picco del Chiabertone, si mostra Desertes, patria della Maddalena Rumiana, le cui tristi avventure avranno un lamento in queste mie pagine. Ma fra Cesana ed Oulx il luogo più ameno è la fontana detta del Pellegrino,[309] tra una foresta da un lato ed estese praterie dall'altro, e con dirupi orridi a fronte, sui quali siede il villaggio Subras, che in quel dialetto suona superstiti, forse, come è tradizione, perchè lo abitarono dapprima i rimasti da una peste ferale che travagliò quei dintorni.
Oulx.
—Peccato che il commendatore Des Ambrois sia già tornato alla metropoli, mi disse in lingua francese l'ostessa, presso la quale in Oulx io avevo preso stanza. Egli sì che saprebbe informarla per filo e per segno delle condizioni antiche e moderne del nostro paese.
Mi dolsi con la mala mia stella d'esser capitato troppo tardi, e feci di procacciarmi da me le notizie che mi abbisognavano.
Oulx, capo-luogo di mandamento con 1400 circa abitanti, sede d'illustri famiglie, decorato dai re di Francia del titolo di città, Oulx ha un'antica torre merlata, una chiesa a Maria, dove è tradizione sorgesse un tempio a Minerva; e, fuori dell'abitato, la deserta Pieve di San Lorenzo con vasta amena pianura, a cui giunsi per un ridente viale di frassini, e fra musiche di zeffiri e di acque correnti.
I monti circostanti racchiudono nel loro seno ricchezze metalliche, mentre al di fuori sono ricchi di vegetazione, e la Dora a breve distanza dal paese, verso tramontana, passa sotto il ponte dell'Angelo Custode e viene ingrossata dal Bardonecchia e da altri minori torrenti, che scorrono fra giardini e verzieri.
Oulx ebbe pur già un tempio a Marte, erettovi dai Romani, che a quello Iddio attribuivano la loro fortuna nel valico delle Alpi e nel soggiogarne gli abitatori.
L'Ad Martis fanum, poscia Villa Martis, vogliono alcuni che abbia dato origine alla denominazione di Plebs Martyrum, con cui era distinta la Pieve di San Lorenzo. Secondo altri, e par[310] meglio, tale denominazione si ha a trarre dal martirio soffertovi da S. Giusto e da altri romiti fra le scelleratezze dei Saraceni, che nel decimo secolo misero a ferro e fuoco ogni più santa cosa in queste regioni.
La Pieve dei Martiri, venerata in ispecial modo per la memoria di S. Giusto, acquistò viemaggior fama presso i credenti, quando un soldato francese per nome Stefano narrò a Landolfo, vescovo di Torino, che, in visione, gli era stato mostrato il luogo dove giacevano le sante ossa del martire; onde i divoti inchinarono subito S. Giusto nel corpo trovato da Stefano nella Pieve, avvegnachè altri non senza buoni argomenti il contrastasse; e crebbe poi il loro fervore in Susa, allorchè le sante reliquie vennero deposte nella basilica a tal uopo edificatavi dal marchese Manfredi, e dotata di un dovizioso monistero.
Nella Pieve dei Martiri un sacerdote per nome Gerardo instituì una regolare congregazione di canonici agostiniani e ne fu egli il primo preposito. Questa congregazione, mantenendo viva la fede in S. Giusto, crebbe in ricchezze e privilegi, che, siccome suole avvenire, partorirono ambizioni, discordie e scandali senza fine. Basti dire che il clero dell'Abbazia Susina di S. Giusto, insofferente dei canonici agostiniani di Oulx, corse colà con molti armigeri pieni di fanatismo, e costrinse il preposito alla fuga.
Ma lasciamo al Cartario ulciese[2] e al dizionario del Casalis queste luttuose memorie di ecclesiastiche gare, che la cresciuta tolleranza e civiltà de' tempi condanna.
Ricordiamo piuttosto coll'illustre Cibrario come sin dall'800, ai tempi di Carlo Magno, già in Oulx esistessero le Giura, le Gilde[3], o compagnie, fraternità d'uomini vincolati a mutua[311] difesa con giuramento, dalle quali due o tre secoli appresso scaturir doveva coi Comuni quella forma di popolar governo che, rinnovando la faccia del mondo, preparò i trionfi ad una nuova civiltà.
Ricordiamo come in Oulx, nella stagione delle speranze e dell'amore, il 31 maggio del 1750, il figlio di Carlo Emanuele, Vittorio Amedeo, duca di Savoia, si disposasse con Maria Antonietta Ferdinanda, Infante di Spagna; ed il regale imeneo, celebrato per procura in Madrid fra le pubbliche feste, si confermasse benedetto dal cardinale delle Lancie, nella Prepositura Ulciese, e, secondo si crede, sotto gli ombrosi rami del tiglio secolare, che adorna tuttavia il piazzale della deserta Pieve di S. Lorenzo, di costa alla pietrosa croce, sotto cui la tradizione popolare crede sepolte le ossa dei martiri. Un'iscrizione al sommo di una porta di Oulx ricorda questo fausto avvenimento, del quale è pur memore la chiesa parrocchiale, che fa mostra anche al dì d'oggi dei ricchi paramenti donati dagli augusti sposi e che avevano servito alla pia cerimonia.
Anche Susa conserva un prezioso documento di queste nozze regali nella bella iscrizione latina dell'abate prof. Regis, scolpita nella lapide che stava al sommo di una porta della città, e che ora adorna l'atrio superiore del palazzo municipale.
Un cenno storico di que' tempi aiuterà a sanamente interpretare questa importante epigrafe.
In sul mezzo del passato secolo, il trattato di Aquisgrana rappacificava l'Europa tant'anni travagliata dalla guerra per la successione al trono di Spagna.
«I popoli respiravano, ma tutti dicevano che non portava il pregio che si spandesse tanto danaro, si spargesse tanto sangue, si accumulassero tanti dolori per lasciare poi le cose ad un dipresso com'erano prima. Ma i popoli non avvertivano (avverte[312] il Botta[4], da cui togliamo queste giudiziose parole), che quando s'infiammano gli sdegni guerreschi, e' non si calmano se non dopo le solite evacuazioni.»
Checchè sia di ciò, certa cosa è, come nota acconciamente il Denina[5], che la vittoria riportata dai Piemontesi sui Francesi al colle dell'Assietta, e la risoluzione di Carlo Emanuele di ricevere in isposa di Vittorio Amedeo Duca di Savoia la primogenita delle infanti di Spagna, conferirono molto al riassetto delle condizioni d'Europa.
Ed ecco in quali contingenze e sotto quali auspici l'abate Regis dettò questa epigrafe:
HAC IN PROVINCIA
BELLUM VICTORIA PEREGIT
PACEM HYMENÆUS PERENNEM
AUSPICATUR
ANNO MDCCL.
Nelle quali brevi parole sono maestrevolmente toccati i quattro importanti avvenimenti che alla posterità volevano essere ricordati.
Bellum Victoria peregit.—La gloriosa giornata dell'Assietta che fe' cessar le armi.
Pacem hymenæus perennem.—L'imparentarsi delle corti di Spagna e di Piemonte che suggellò la pace d'Europa.
Se non che l'abate Regis, se fu buono epigrafista, fu però cattivo profeta.
Strana coincidenza! Nel vestibolo del già ricordato civico palazzo di Susa, di riscontro appunto alla lapide del Regis, se ne conserva un'altra, nella quale la città di Susa, memore forse di[313] essere stata la sede del Re Cozio e della Contessa Adelaide, così si esprime a nome di tutto il Piemonte:
LA NAZION PIEMONTESE
DEBITRICE DELLA SUA LIBERTA'
ALLA REPUBBLICA FRANCESE
LE GIURA
SUA ETERNA RICONOSCENZA
LI 16 FRIM. AN. VII. REP. I DELLA LIB. PIEM.
Tanto è! Si sperò che il trattato di Aquisgrana e l'augusto imeneo festeggiato nella Pieve d'Oulx sarebbero stati auspici di una pace perpetua, pacem perennem!
A mostrare quanto siano corti gli intendimenti umani, ecco sopravvenire in meno di mezzo secolo la rivoluzione francese, che abbattendo troni, lacerando trattati e creando repubbliche, non lascia sussistere di tanti vaticinii che la fallace epigrafe ed il ramoso tiglio al cui rezzo io meditai e scrissi.
O vecchi Ulciesi! venite a riposare le stanche membra all'ombra del caro tiglio.
O giovanetti e giovanette Ulciesi! venite ad intrecciar caròle intorno al mio tiglio, e inaffiatene il ceppo e coronatene i rami colle vostre mani: imperciocchè il tiglio secolare della deserta Pieve di S. Lorenzo, ben più che una pianta, è un volume di storia patria.
Exilles.
Fuori di Oulx, varcata sul ponte ventoso la nostra Dora, passai nel villaggio di Salbertrand innanzi ad antica chiesa, sulla cui facciata in forma colossale è dipinto S. Cristoforo, e ben tosto giunsi al pittoresco torrente Galandra che, sui gioghi di S. Colombano,[314] fra noci, castagni e vigneti, presso un piccolo forte, chiave della fortezza principale d'Exilles, in belle cascate schiuma e biancheggia, e, traversata la via, per forre e voragini va a versarsi nella Dora, giù nel fondo a Valle-Fredda.
Eccoci ad Exilles, dove in forma di nave da guerra ci si presenta irta di artiglierie la fortezza poderosa, che mutando signoria, fu più volte distrutta e ristaurata, contesa fra potenti vicini con prove ostinate di virtù militare. Questa fortezza, e i luoghi circostanti fino al Monginevra, appartenevano nel secolo XI ai Conti di Torino, chiamati nelle cronache Marchesi di Susa; indi furono occupati dai Conti d'Albon, che chiamaronsi più tardi Delfini, finchè nel 1713 il trattato di Utrecht fece ragione alla Casa di Savoia, e le assicurò quell'antico retaggio de' suoi maggiori.
Provai gioia nazionale aggirandomi fra soldatesche e suoni di tamburi e di trombe sovra i ponti levatoi, sotto gli archi e pei quartieri di quel castello, che nel mezzo della valle veglia sentinella gagliarda delle Alpi!
Il paese che si distende a' piè della fortezza, travagliato dalle guerre, più volte fu segno agl'incendi ed ai saccheggi. Ora la gente vive pacifica all'ombra del Sabaudo Statuto, intorno alla sua chiesa parrocchiale, ornata con bella facciata di stile gotico. Presso la quale, visto passarmi d'innanzi un sacerdote, mi feci a richiederlo se mai fosse in quella alcun che da ammirare.
—Certo, rispose; questa è la chiesa che fu occasione all'insigne miracolo dell'ostia eucaristica, il 6 giugno del 1453.
Mi strinsi volentieri in conoscenza con quel sacerdote per raccorre notizie religiose da aggiungere alle guerresche d'Exilles. Era egli il buon curato del paese, e mi diede a leggere in un opuscolo quanto segue[6]:
«Correva l'anno 1453, e Renato, duca d'Angiò, disegnava calare in Italia con tre mila e cinquecento cavalli, quando Ludovico, duca di Savoia, gli contrastò il passo ne' suoi Stati. Per questa opposizione e per certi altri dissapori, tra Ludovico ed il Delfino di Francia, i paesi limitrofi dovettero andar soggetti a frequenti trambusti. Messi furono a sacco alcuni villaggi sul confine degli Stati savoiardi verso il Delfinato, fra' quali Exilles, o Issilie, ultima terra della provincia di Susa. Avvenne ora, che ritornando cert'uni da quella guerra, passarono per Torino il sei di giugno, circa l'ora ventesima dei giorno, conducendo seco sur un mulo le spoglie del saccheggiato Exilles, fra le quali si celava la sacra pisside ed ostensorio tolto alla chiesa parrocchiale di quel paese. Giunti di rimpetto alla chiesa allora dedicata a San Silvestro, ad un tratto il mulo si ferma, stramazza al suolo, nè punto valgono a smuoverlo le minaccie e le percosse. Si apre di per sè stessa la salma, fuori ne svola l'ostensorio contenente l'ostia santa, ed in alto poggiando, d'insolita luce risplende.»
Lascio il miracolo sotto le arcate della chiesa parrocchiale, perchè la mia operetta non si vada a pungere fra i pruni delle controversie religiose e le requisitorie del fisco, come toccò al Guerrazzi; e ringrazio il buon curato d'avermi nella sua chiesa condotto alla cappella di San Rocco, ove è tradizione venisse rapita la sacra pisside: e quivi mi additò sull'altare un quadro ch'esso miracolo rappresenta.
Uscito di chiesa, in compagnia di un libro di storia patria, mia assidua lettura, trassi ai prossimi colli, che colle antiche selve e colle acque mormoranti mi ricordavano le balze pastorali d'Arcadia.
Era un giorno splendidamente sereno, e un'aria tepida e soave, carezzando erbe ed acque, m'induceva nell'animo affaticato così dolce quiete, che mi assisi appiè di ombroso faggio, e, fattomi guanciale del libro, mi addormentai.
L'ASSIETTA.
Sognai ... i sogni dei poeti sogliono essere frequenti di visioni, e fu tale il mio nell'Arcadia d'Exilles.
Mi sentii trasportato a quattr'ore di cammino fra Exilles e Fenestrelle, su d'un colle fremente di guerra. Io mi sentiva levato sul colle dell'Assietta, cerchiato di povere trincee senza fossi e palizzate e senza artiglierie; ma lo fortificava più che mai la bravura dei soldati piemontesi, che, dal conte di Bricherasco capitanati, difendevano il varco delle Alpi contro la cupidigia dei vicini stranieri.
Io vedeva quaranta battaglioni francesi divisi in tre colonne, sotto il comando dell'audace cavaliere Bellisle, avventarsi con indicibile ardimento su per quei dirupi al sommo giogo: ed ecco la colonna di mezzo con ventidue compagnie di artiglieria slanciarsi alla pericolosa meta, abbattere le trincee e farne rovina: ma i dieci battaglioni piemontesi bastano a respingere i ripetuti assalti d'uno de' meglio agguerriti eserciti di Francia; e invano le altre due colonne nemiche, a destra ed a manca, tentano l'ardua salita; imperocchè i soldati piemontesi non piegano nè al valore nè al numero de' nemici.
Oh quale spettacolo d'orrore mi si presentava! Io udiva il rullar dei tamburi, lo squillar delle trombe e il continuo fischiare de' piombi fulminei, ed il rimbombo dei cannoni, e le grida dei combattenti ed il gemito dei moribondi, e vedeva giù dalle balze cader a fiaccacollo moltitudine di fanti e di cavalli, e scorrere a torrenti il sangue, ed a poco a poco una densa nuvola di fumo avvolgere nella sua oscurità l'un campo e l'altro, e con essi gl'Italiani ed i Francesi che si contendevano la vittoria.
Ma il vento delle Alpi rischiara ben tosto l'aria ottenebrata. Ed ecco il generale Bellisle, che, con tutto l'ardore della bollente gioventù, toglie di mano ad un suo uffiziale una bandiera, e corre a piantarla esso medesimo sull'orlo dei nemici trinceramenti.
Vano eroismo! Il Dio degli eserciti, o meglio la Giustizia eterna, tutelava nella Croce di Savoia, nella guardiana dell'Alpi, il dritto delle nazioni; ond'ecco l'ardimentoso Bellisle ferito di baionetta in un braccio nell'atto istesso che piantava la bandiera, e poi di due archibusate l'una nel petto e l'altra nella testa cader morto sul campo, mentre, a tale spettacolo, perduti d'animo i suoi soldati, dànnosi precipitosamente alla fuga.
Allora sonarono gli evviva alla Croce di Savoia, al conte di Bricherasco ed al valor piemontese, vera gloria italiana, che sul colle dell'Assietta, come indi a un secolo sulle rive della Cernaia, splendidamente trionfava.
Successe un profondo silenzio, e la mia visione si andava dissolvendo, se non che tornò a mostrarmisi quel colle fumante di sangue consacrato dalle nostre vittorie; e fra i tocchi funebri di tamburi coverti a nero, vidi un manipolo di soldati che su povera bara portavano a seppellire il cavaliere Bellisle morto, diremo con Cesare Balbo, da bravissimo soldato, egli che non aveva saputo comandare da buon capitano[7].
Al furore delle armi segui la pietà per gli estinti: i tamburi invitavano alle esequie, non più alla strage.
Io faccio per appressarmi alla bara del Bellisle; in quella mi desto, e ... e mi ritrovo all'ombra del faggio con sotto al capo quel libro del Botta[8], in cui la giornata dell'Assietta è mirabilmente descritta, come nel 1784 la ritrasse e la intagliò il pittore fiammingo La Pegna[9]:
E il pensamento in sogno trasmutai.
Dante, Purg. c. 18.
Il Piemonte registrò fra i memorabili suoi fasti la battaglia del colle dell'Assietta; e Giuseppe Bartoli, veneziano, allora professore di lettere italiane nell'Ateneo torinese, la celebrò con cento trentotto stanze, ma non toccò l'altezza dell'argomento.
Meglio ai dì nostri il Cavaliere Agostino Lostia, uffiziale dell'esercito piemontese, la celebrò con un poemetto in versi sciolti, ch'ebbe una buona versione in lingua francese[10]. Il nostro soldato e poeta degnamente si accese alla vista del memorabile colle, ond'egli dice:
ed io la vidi,
E brama di vederla ivi mi spinse
Quell'itala Termopile.
Vincenzo Monti con forti immagini ricordò quell'avvenimento nella sua Basvilliana, dove parlando di Francia prorompe:
La sovrana dell'Alpi in sull'entrata
Ponsi d'Italia e ferma tiensi e salda,
E alla nemica la fatal giornata
Di Guastalla e d'Assietta ella rammenta,
E l'ombra di Bellisle invendicata
Che rabbiosa s'aggira e si lamenta
In val di Susa[11].
Lo ricordò pure Giulia Colombini, la Debora subalpina, nella fatidica canzone a Torino, esclamando:
Biancheggia ancor d'Assietta
L'insuperata vetta
D'ossa francesi, e s'ode ancor distinto
Suonar per quella riva
Lo straniero lamento e il nostro evviva.
Su tale argomento non va dimenticata la canzone che suona tuttavia fra gli alpigiani di Val di Susa, perchè in essa io veggo l'indole guerresca di questo popolo, e ne sento le schiette melodie.
Questa canzone, composta da un cieco del Sauze d'Oulx, per nome Michelin, pigliando argomento dal titolo Assietta, che nel dialetto piemontese suona piatto, splende di così vivaci immagini e di tanto arguta ironia da non recare stupore che sia stata causa di frequenti risse fra Piemontesi e Francesi. Eccone due strofe:
Où a-t-on jamais vu
Un tour si agréable!
[320]Les Français résolus
Avec leur nez pointu,
Partant de leur pays
En foule et à grande presse
Pour venir prendre l'Assiette
Que nous avons devant!
Bellisle impertinent!
. . . . . . . . .
. . . . . . . . .
Cinq mille fantassins
Y ont perdu la vie
Voulant tremper le doigt
A l'Assiette des Vaudois;
D'abord en arrivant
De poivre et de moutarde
Leur ont brulé la barbe,
Disant: n'avancez pas
Votre nez dans le plat![12]
Chi si faccia alla valle d'Oulx v'udrà spesso ripetuta la canzone del Michelin; e saprà come la salma del cavaliere Bellisle, pria di esser conceduta in Brianzone alla pietà dei Francesi, sia stata sepolta nel villaggio di Sauze d'Oulx colla seguente iscrizione latina, che, secondo il vezzo di quei tempi, ritrae bizzarramente i nomi del paese e dell'estinto:
HIC INTER SILICES INSULA PULCHRA IACET.
Il traforo di Touilles.
Dal forte d'Exilles, fra castagni, noci e vigneti, traversata la Dora sul Ponte-rotto, si scende ad una ferriera animata da copiose[321] acque, che in pittoresche cascate biancheggiano sul fianco delle vicine montagne.
Quivi un nerboruto bracciante tutto affumicato, che stava seduto sulla porta della fucina a ristorarsi dalla fatica, mi additò nella prossima montagna di Cels l'arida roccia de' quattro denti, così denominata dalla singolare sua configurazione di quattro acuti picchi, e mi mostrò la montagna di Touilles, nella quale al secolo XVI fu operato l'arduo traforo per derivare le acque dalle ghiacciaie savoine e convertirle in beneficio degli abitanti e delle campagne di Ramas e di Cels, che grandemente ne difettavano.
L'immane lavoro fu allogato a un tal francese, Colombano Rameau di Gilles, scarpellino di molto grido, il quale, come si trae da pubblico instromento del 20 ottobre del 1526, si obbligò di condurlo, a condizione che non gli si prefiggesse tempo a terminare l'impresa, ed oltre a cinque fiorini per ogni tesa di scavo gli fosse assicurata conveniente provvigione di vitto e di quanto altro gli abbisognasse.
Durò sette anni nella faticosa opera, in capo ai quali, disperando del successo, l'abbandonò. Pregato, la riprese ed indi a due anni la recò a fine.
La malizia umana spesso s'intromette nelle opere virtuose e le corrompe del suo veleno.
Era corsa voce che gli alpigiani rimeritassero d'ingratitudine l'operoso Colombano Rameau e lo uccidessero. Falso; poichè da documenti si trae, che, compiuto il traforo, gli abitanti di Cels e di Ramas ne furono sì lieti, che per quattro mesi con frequenti banchetti fecero ospitali accoglienze al bravo scarpellino, che tornato in patria morì d'idropisia cagionatagli dall'umidità dei sotterranei, e dai vini generosi di Chiomonte.
Qualche anno ancora, e, quasi pigmeo di costa a un gigante, il traforo di Touilles si troverà a confronto col traforo impropriamente detto del Cenisio, che a breve distanza da Oulx, internandosi nelle viscere delle Alpi fra Bardonecchia e Modane, sarà vero miracolo dell'arte moderna, nuovo monumento dell'audace[322] ingegno italiano, e uno de' più bei vanti della costituzionale monarchia Sabauda.
Lo scarpello del Rameau e la macchina di Sommeiller, Grandis e Grattoni daranno la misura de' mirabili progressi che in poco più di tre secoli ha fatto l'industria umana!
Fatte da Exilles due miglia di piacevole cammino, giunsi all'allegro Chiomonte (caput montis), bel paese di due mila abitanti, sulla riva destra della Dora, coronato di eccellenti vigneti, che, in ispezie quelli della collina meridionale, danno vini squisiti.
S'incontrano ad ogni passo i tralci delle viti, che serpeggiano su per le pareti delle case, e vi si avviticchiano intorno alle mura; qua densi pergolati ne ombreggiano la via, colà a modo di tappezzerie pendono pampinose ghirlande dai tetti e dalle finestre. Insomma Chiomonte è la festa delle vendemmie, dove Redi e Meli, questi due poeti dei baccanali di Toscana e di Sicilia, avrebbero facilmente trovato da aggiungere qualche nuova pagina ai loro celebrati ditirambi.
Sui gioghi vicini sorgono noci e castagni di smisurata grandezza, e sulle più alte cime veggonsi folte selve di abeti e larici, nido ai camosci, desiderio ai cacciatori. Presso l'Assietta vi hanno due laghi; e diversi torrenti mettono foce nella Dora.
Uscito di Chiomonte per avviarti alla vicina Susa, ti si fanno innanzi a destra due picchi di montagna, dalle cui vette si vede la valle di Fenestrelle, e a sinistra Giaglione, cogli annosi castagni. Indi si passa pel villaggio Gravere, e quivi alpestri spelonche mettono nell'animo sublime orrore; ed il torrente Gelassa romoreggiando ricorda i danni che cagionò co' suoi straripamenti, ed ora arginato da robuste muraglie scorre sino a Susa e va a mescolarsi con le acque della nostra Dora.
Seguendo sul territorio di Gravere il corso del torrente Gelassa (memorabile per lo scontro avvenutovi il dì dell'Ascensione del 1800 fra le milizie austro-sarde e i soldati di Bonaparte, che sotto il comando del generale Taureau calavano dall'alto Delfinato, mentre il grosso esercito valicava il San-Bernardo), fatte dal Monginevra sedici miglia, rientrai lieto e ricco di memorie nella regale città di Cozio, e tosto corsi a salutare l'arguto poeta delle Alpi, il caro Norberto Rosa, forte con lui rammaricandomi, che una valle così illustre per guerre e per paci gloriose, così poetica per tremende e pietose istorie, una valle così simpatica per la maestà de' suoi monti e delle foreste, per la varietà de' colli, la vivace e cortese indole degli abitanti, come questa dell'alta Dora, sia corsa e visitata così poco da chi cerca acque fresche, aure soavi, ameni luoghi e salubri nelle estive pellegrinazioni. Colpa forse del non trovarvisi, neppure nei villaggi più frequenti di commercio, in bene acconce locande e altri luoghi di tal fatta, quei conforti, che oggimai sono diventati necessità della vita.
La quale cosa io ho voluto toccare con quel singolare affetto che il pellegrino porta ai luoghi che visita, acciocchè provvedano per avventura al difetto coloro che al proprio interesse e a quel della patria intendono.
Addio, intanto, o amenissima valle! Addio, o gioghi del Monginevra e del Chiabertone! castelli di Cesana e di Exilles, e voi, memorande secolari piante di Oulx, e voi ridenti vigneti di Chiomonte e di Gravere, abbiatevi il mio affettuoso addio qui in Susa, dalle sponde della Dora, che fra noi nasce e discorre portando vita perenne, e che io accompagnerò con religioso amore fin là dove si disposa al regale Eridano.
SUSA E SUOI DINTORNI
La Strada Ferrata
Le campane della vecchia cattedrale di S. Giusto squillavano a festa (22 maggio 1854), e Monsignor Vescovo in abito pontificale usciva di chiesa, circondato dai canonici del Capitolo e con lungo seguito di cherici e divoti.
Suonava a distesa la campana del Comune, e dal palazzo civico movevano il sindaco e i consiglieri, preceduti dal mazziere e seguiti dal banditore con dietro le spalle a tracolla lo stemma gentilizio di Susa, rappresentante due torri con attorno le famose parole in flammis probatus amor, che ricordano gli incendi del Barbarossa e la concordia dei Susini nel riedificare la smantellata loro patria.
Rullavano i tamburi della guardia nazionale, e indi a poco i militi cittadini si mostravano schierati in bella ordinanza, preceduti dalle musiche, che spandevano liete armonie per le strade e per le piazze frequenti di popolo non pur della città e dei dintorni, ma delle più rimote parti della provincia.
Susa da gran tempo non avea tanto tripudiato nè per sì bella e nobil cagione, imperocchè in quel giorno ella celebrava il solenne aprimento della strada ferrata, che da Torino mette alle falde del[325] Cenisio, e che in appresso, penetrando entro le viscere delle Alpi, si distenderà fra le galliche genti, e cogli alternati benefizi del rapido commercio, stringerà in bel consorzio popoli diversi di stirpe e di favella.
La immensa folla, pregustando così fausto avvenire, trae allo scalo, dove si vede da lontano il fumo delle caldaie e s'ode il rumore delle ruote, ripetuto dall'eco delle valli; e già il sibilo della macchina a vapore annunzia l'arrivo delle locomotive.
Gli spettatori stanno intenti con religioso silenzio, e, all'apparire del primo carro, prorompono ad una voce:—Evviva il Re! Evviva Vittorio Emanuele! Questo unanime grido suona iterato al mostrarsi del Re, che innanzi ad un altare, fra le benedizioni de' sacerdoti e l'esultanza del popolo, veniva appie' delle Alpi ad iniziare i nuovi trionfi del nostro commercio e dell'industria, ed a provare come fra noi intorno al trono della stirpe sabauda fioriscano ad un tempo le arti della guerra e quelle della pace.
—Non si comincia bene se non dal Cielo—sclamò monsignor Vescovo, e intonò preci e benedizioni; e il Re colla destra su l'elsa della spada, vigile custode delle Alpi, aveva allora a' suoi fianchi la rimpianta regina Maria Adelaide, purissimo angelo, che pregava per la reggia e pel popolo.
Quei due augusti, prostrati innanzi ad un altare, alle falde del Cenisio, ci ricordavano la contessa Adelaide e Oddone di Savoia, che otto secoli addietro inauguravano lungo la Dora un nuovo ordine d'imperio e di prosperità.
Ma ecco le ampie arcate dei magazzini dello scalo trasformate in eleganti sale, ornate di arazzi, di verzure e di bandiere tricolori; ecco imbandito uno splendido simposio, a cui siedono i ministri, le autorità e le persone più ragguardevoli del paese e della provincia, deputati e senatori, e gli scrittori de' giornali torinesi; e i fratelli Carlo e Giorgio Henfrey, che impresero a[326] disegnare e condurre con solerzia ed amore la via ferrata, ed ora, colà, quasi in propria casa ospitalmente la festeggiano; e perchè al convito non manchi il sorriso delle grazie, vi ammiri le colte e leggiadre consorti degli ospiti gentili, rose pellegrine d'Albione, rimbellite sotto il cielo d'Italia.
Fra squisite vivande e vini generosi il signor Carlo Henfrey dice brevi ed acconce parole: indi sorge a parlare l'egregio intendente barone Tholosano, e in nome dei cittadini ringrazia l'eletta comitiva accorsa ad onorare nella via ferrata un'era novella di prosperità alla provincia di Susa.
L'arco di Cesare Ottaviano—la disfatta Brunetta—e la strada ferrata, sono i tre monumenti di cui prende a discorrere e nota con savio accorgimento:
«Se il primo di questi monumenti ci ricorda le glorie della conquista romana, il secondo ci fa amaramente risovvenire della gallica riscossa nel passato secolo; e comechè siano gloriosi i nomi di Ottaviano Augusto e di Napoleone I, non potranno col rimbombo della loro fama far tacere i lamenti e le imprecazioni dei popoli percossi e delle desolate provincie: inevitabili conseguenze di ogni guerresca impresa, che non conduca a vera libertà.
«Il terzo monumento ricorderà pure un nome augusto; ma questo sonerà benedetto fra le genti per mantenute franchigie, per agevolate comunicazioni e prosperati commerci.
«Ruderi e rovine ci rimangono delle passate conquiste: arditi porti, appianate vette e traforati monti testimonieranno ai posteri come dirittamente venisse acclamato padre civile delle sue genti Colui, sotto i cui augusti auspìzi, con liberali instituzioni compievansi opere così utili e stupende».
E chiude il suo discorso intonando un brindisi a re Vittorio Emanuele II, brindisi che per le allegre mense viene iterato vivamente, ed allo scrittore di queste pagine inspira versi improvvisi. A sè trasse l'attenzione l'arguto poeta delle Alpi Cozie, Norberto Rosa, il quale, con quella ironia, che gli era familiare, come scandolezzandosi dei diabolici trovati del secolo, e pigliando argomento dal bue, che infitto negli spiedi a sollazzo e ristoro[327] del popolo cuocevasi su la piazza delle armi, così chiudeva le sue bernesche rime:
Oh Re Vittorio!
Rifà il cammino,
I baffi tàgliati,
Metti il codino;
Rimanda all'Erebo
Donde è venuto
Il terzo incomodo
Dello Statuto!
Sì, Re Vittorio,
T'affida a me,
In mezzo secolo
Io farò, che
Fra noi ritornino
Quelle età sante,
Allor che il popolo
Schiavo e ignorante,
Di questo bufalo
Che cuoce arrosto
Messo un eretico
Avrebbe al posto!
I convitati si levano dalle mense e si accolgono qua e là in capannelli, formando o rinnovando amicizie; e tutti in gioviale compagnia muovono per la città, visitando ed ammirando le reliquie notevoli della sua antichità e le nuove bellezze.
Lasciato a sinistra dello scalo il capace ospedale, vegliato dalle Suore di carità, l'illustre drappello volge a destra uno sguardo alla deserta Brunetta senza troppo rammaricarsi della sua caduta, conciossiachè ella fosse ben più baluardo d'Austria che non di Piemonte.
Si ferma meravigliando innanzi all'Arco famoso, che, su l'antica via conducente alle Gallie, Marco Giulio Cozio e i popoli da lui governati eressero a Cesare Augusto Ottaviano, quand'egli otto anni prima dell'era cristiana valicava trionfalmente le Alpi.
Fatti pochi passi incontra sul pendio d'un poggio le reliquie del palazzo, che fu sede del re Cozio, poi della contessa Adelaide, in ultimo del tribunale della Santa Inquisizione, ed ove ora, nobile palestra della gioventù studiosa, fiorisce il Reale Collegio.
Scesa pel verde poggio si avvia la illustre schiera alla cattedrale di S. Giusto, consacrata nel 1028; ove spesso guardai con piacere al quadrangolare bizzarro campanile, alto diciotto trabucchi (51 metri), diviso in sette piani con finestruole ed archi a tutto sesto, retti con capitelli di stile romano. Per una balaustrata di mattoni cotti si gira intorno al settimo piano, che ha trafori e stemmi guasti dal tempo, ed una torricciuola ottangolare in ciascuno de' quattro angoli, con ottangolare corona e guglia corrispondente, sormontata da una croce; e dal mezzo del piano superiore si alza una maggiore guglia coverta di lamine luccicanti colla croce in cima, e dai quattro angoli della balaustrata sporgono quattro teste di strani animali. Quel campanile di forma bizzarra è opera dell'undecimo secolo, ristaurata in tempi a noi vicini.
Lasciamo il campanile per entrare nel tempio colla nobile compagnia; ed ecco i canonici che ci additano il battistero e un altare, colla scritta: Petrus Lugdunensis me fecit, opere in marmo assai pregiate, e scoprono una preziosa croce d'argento con cesellature storiate, asserendola dono di Carlo Magno. Avvegnachè il Cibrario, il cui giudizio in queste cose è certamente autorevole, la creda posteriore a quell'età, io come poeta accoglierei più volentieri la tradizione de' canonici, considerando che Carlo Magno non poteva alle falde del Cenisio lasciare del suo passaggio più acconcio ricordo di una croce. Il simbolo[329] supremo dell'amore e del martirio egli avrebbe deposto ai piedi del Cristo delle nazioni, di questa Italia locata nel centro di Europa per diffondere su tutti i popoli l'amore nel riso del suo cielo e nella gloria dei suoi monumenti, e per essere rimeritata colla coppa di fiele e la corona di spine.
Nella cappella di Sant'Anna ci fanno osservare bellamente dipinta una Sacra Famiglia di scuola raffaellesca, ed in altra cappella, entro una nicchia ci additano inverniciata a colore di bronzo una statua in legno di noce, ammirata per gl'intagli e più ancora perchè in essa si crede rappresentata genuflessa in atto di preghiera, colle palme stese alla croce, Adelaide, comunemente chiamata Contessa di Susa, che inanellata ad Oddone di Savoia, aggiunse a lui ed a' suoi eredi il marchesato di Susa, e preparò un regno che dovea essere tanto glorioso e desiderato fra le genti italiane. Al sommo della nicchia si legge:
Questa è Adelaide, cui l'istessa Roma
Cole, e primo d'Ausonia onor la noma.
Le quali parole fanno ricordare il grande ossequio che Adelaide portò a papa Gregorio VII, corrucciata con lo suocero, l'imperadore Arrigo IV; nè ben saprebbesi se più la movessero gli oltraggi fatti da lui alla infelice consorte Berta o le ingiurie da lui inferite alla combattuta Chiesa.
Usciti dalla cattedrale si aggirarono per le vie, e chi si fermò ne' portici ad ammirare un bell'affresco della Sacra Sindone, chi considerò la strana vicenda delle umane cose innanzi alla casa con finestroni di gotico stile, già abitata dal cardinale delle Lancie, ed ora da Norberto Rosa, fiancheggiata da una torre antica su cui sorge la campana del Comune. Parecchi chiedevano dell'antica chiesa a Santa Maria, che per aver sul campanile un bidente, diede credito alla favola che un tempo fosse[330] delubro a Nettuno; nè si passò senza pietosi ricordi innanzi alla cadente chiesa ed all'abbandonato chiostro di S. Francesco, che rammentano il passaggio del Santo di Assisi, e Beatrice, consorte del conte Tommaso, che edificava quel pio ospizio per compiacere al piissimo uomo. Il chiostro fu soppresso nel 1800: la chiesa rimase deserta di frati e di preci, e neanco fu conservato all'attiguo giardino il memorabile cipresso che nel 1214, secondo la tradizione, vi piantava di sua mano il Beato di Assisi.
A poco a poco si andò diradando la eletta comitiva, perocchè molti per l'inaugurata via tornavano alle domestiche pareti.
Io rimasi coi Susini, e lungo le rive della Dora, a capo d'un ponte, vidi il sole tramontare dietro i gioghi del Cenisio; e mentre la campana d'una vicina chiesetta sonava l'Avemaria, la mia mente saliva fantasticando alle antiche generazioni di Susa, fra lagrime e rovine.
Le tenebre della notte mi parevano rotte dalle furie, che agitando le fiaccole infernali per le balze del Cenisio e del Roccamelone illuminavano scene di sterminio e di orrore. Io vedeva giù dalle Alpi calare Annibale, che sfiorava il giardino d'Italia col giuramento d'un odio ostinato, e le sue orde, che se risparmiavano Segusio, non la perdonavano ai Taurini. Non così Fabio Valente, che con quarantamila uomini piomba sovra Susa, abbandonandola al ferro ed alle fiamme. Invano la prostrata città risorge rivestita di nuova gloria; imperocchè Costantino, sdegnato che ella parteggiasse per Massenzio, avventa fuoco alle porte, accosta scale ai torrioni, la percuote, l'arde, e lascia un miserando ammasso di rovine ai Segusini, che non facilmente col resto della cristianità consentiranno al vincitore il titolo di pio e di santo. Costanti nelle avversità, i superstiti riedificano la patria, non sapendo gl'infelici d'apparecchiare nuove vittime ai Goti, ai Franchi ed agli Alemanni, che non piegano a pietà.
Oh! vista atroce! All'urto delle macchine belliche scrollano le torri e le mura: sorgono improvviso, fra 'l cozzo delle armi, fiamme voraci, e come lave d'indomito vulcano, coprono l'intera città: le acque della Dora, chiare per solito e luccicanti come argento, vanno tinte e fumanti di sangue: e fra tanto orrore levasi gigante e con barbara gioia un terribile uomo, che nella smodata ambizione potè credersi signore del mondo.
È Federico Barbarossa, che, al par di Nerone alle fiamme di Roma che arde, esulta, e con selvaggia fierezza si vendica della magnanima Susa, che, sentendosi italiana non meno delle federate città lombarde, lo aveva costretto a liberare gli statichi che seco traeva d'Italia, e aveva osato contendergli il passo, quand'egli incalzato dai fulmini di Legnano e della Chiesa, fuggiva e ripassava disperatamente le Alpi.
O desolata Susa! io piango su le tue memorie. Fosti illustre e misera, perchè di rado la gloria va scompagnata dalla sventura. Vera fenice delle Alpi, più volte morta e risorta, predata ed arsa dagli avidi stranieri, che da' tuoi gioghi colle armi si apersero la via fra noi, fosti giustamente appellata Chiave d'Italia, Porta della guerra.
Poche ma eloquenti reliquie ci rimangono dell'antico tuo stato: le lapidi inscritte, che il dotto canonico Sacchetti raccolse nell'atrio del tuo seminario vescovile: le urne sepolcrali in casa dell'onorevole deputato Chiapusso, ed illustrate dal chiarissimo cav. Ponsero: e i due marmorei torsi loricati, memorie di Agrippa e Donno, che furono tanto ammirati dal Canova, e ora sono insigne decoro all'atrio dell'ateneo torinese. Rimane pure la cospicua mole alzata ad Augusto, il marmoreo arco, il quale colle superbe colonne scannellate ai quattro angoli, e i leggiadri capitelli adorni di foglie d'acanto, e la iscrizione latina e la scoltura ritraente un sacrifizio, simbolo di alleanza fra i re delle[332] Alpi e gli imperatori del Campidoglio, mirabilmente ci testimonia l'onore in che le arti erano tenute presso gli antichi Segusini, e fa argomento di quanta eccellenza dovevano essere le terme diocleziane e gli altri monumenti, dispersi non tanto dalla forza del tempo quanto dalla barbarie degli uomini.
Stanco di tante visioni andai aggirandomi per le vie e sotto i portici, e una soave musica venne a quietarmi l'animo contristato. Quei suoni uscivano dal palazzo civico, dove il Municipio, per ben finire il giorno sacro al solenne aprimento della strada ferrata, avea con ogni eleganza preparate le sue sale ad una festa da ballo, alla quale col fiore dei cittadini convennero molte ragguardevoli persone dei circostanti paesi. Nelle sale del Municipio alla giocondità della festa associavansi i ricordi della patria come si moveva lo sguardo alle dipinte volte, e intorno alle pareti che rappresentano effigiati i torsi loricati, gli archi e gli uomini insignì, che nelle armi, nelle scienze e nelle arti illustrarono la storia segusina. E se taluno avesse desiderato salutare l'imagine di Susa nel secolo decimosettimo, poteva ammirare la copia d'una pianta, tratta dall'insigne descrizione degli Stati del Duca di Savoia, opera di rara magnificenza, stampata in Amsterdamo nel 1682.
Ma in quell'ora più del passato brillava l'età nostra nelle avvenenti donne e negli animosi giovani, che alternavano balli e colloquii soavi; e alle visioni delle furie e delle stragi succedettero nel mio spirito le visioni delle grazie e dell'amore, con cui si chiuse quel giorno memorando in val di Susa, ond'io a ragione dovetti sclamare:
Questo giorno non è gravoso incarco,
Che tributarie le provincie renda,
Che emunga il sangue delle oppresse genti
[333]Per ergere a' superbi i monumenti.
Giorno di pace, memorabil giorno
Per fermo è questo che di carmi onoro;
A quanti vanno, a quanti fan ritorno
Lungo la Cozia via, pane e lavoro
Abbondevol promette, e d'ogn'intorno
Di novelle dovizie apre tesoro;
E dell'industria i prosperi destini
A voi dà per trïonfo, o Subalpini.
Il Cenisio.
Giorno per me gratissimo fu pur quello in cui salii la prima volta il Moncenisio.
Norberto Rosa (14 agosto 1854) in una carrozzetta a tre cavalli cortesemente mi accompagnò alle vette dell'ardua montagna, mentre i primi albori indoravano le rovine della Brunetta e scintillavano nelle acque del torrente Cenisia, che a destra romoreggiava per le valli di Venaus e della Novalesa.
Quanto più guadagnavamo della salita, più vivamente ci percoteva l'aria delle Alpi, e un vento del nord fischiando fra le selve dei castagni e dei pini, e sollevando la polvere, scemava la dolcezza che si suole provare nel salire gli alti monti nella stagione estiva. Fra i buffi del vento toccammo diversi villaggi; Giaglione che ricorda scene di fattucchiere, Molaretto che ha ne' suoi macigni una galleria per ricoverare il viaggiatore nelle traversìe del verno, e quello di Bar attergato ad una balza folta di pini silvestri e lieta di due pittoresche cascate di acque.
Lungo la via e su per le rupi si vedono in gran numero pilastri di legno e di pietra posti lì ad impedire disastri; e casette di ricovero distinte da numeri, date gratuitamente dal Governo ai cantonieri, con obbligo di dimorarvi con provvigioni, e vegliare alla sicurezza del cammino.
Noi sostammo presso quella del nº 6 a contemplare il piano di S. Niccolò, in fondo al quale si scernevano gli spaziosi andirivieni del passo detto la Scala, che fra le rocce solcate dal lavoro delle mine mette alla sommità del monte; inoltre sei ordini di allineati pilastri, uno a cavaliere dell'altro per assicurare la via alle carrozze; ed abbondanti acque, che spumeggiando in allegre cascate, per acconce petrose docce giù scendono, imprimendo nell'aria una dolce festività.
Quelle acque con dolce mormorio qua e là si perdevano entro bacini di grotticelle, e, dove altri meno immaginava, con vividi getti riuscivano luccicanti fra 'l musco e le piante, quasi lavorii di argento in filigrana fra lo splendore degli smeraldi; ed accolte insieme andavano ad ingrossare la Cenisia, che, precipitando anch'essa in sonante cascata a sinistra della Scala, scorre alle falde dell'orrida montagna detta il Palazzo Madama, e varcato il piano di S. Niccolò, abbandona la nostra via per nascondersi nella valle della Ferriera, e alfine irrigati i campi della Novalesa, di sotto alla Brunetta, lasciato il proprio nome, va a mescolarsi nelle acque della Dora.
Il Botta dice che le acque della Cenisia sono di colore cinereo; a me invece ed all'amico Norberto parvero così limpide, che ci fecero col Petrarca esclamare:
Chiare, fresche e dolci acque!
Bella è la vista del piano di S. Niccolò nell'agosto; ma è pur sublime spettacolo nel verno, quando, fattasi muta la gaiezza delle acque scorrenti, le docce si cristallizzano, e le erbe e le piante sembrano morte sotto il peso del gelo.
Que' luoghi, verdi ed allegri nell'estate, divengono immense[335] ghiacciaie nel verno; e se avviene che talvolta scenda a consolarle un raggio di sole, le docce lagrimando qualche stilla di acqua accennano un senso di vita, mentre un moto si espande ne' commossi geli, talchè lo diresti il lamento della natura inferma.
Salimmo la Scala, e, dopo quattro ore di cammino da Susa, ci trovammo sull'altipiano del Cenisio, che nell'ingresso ha, quasi due sentinelle, i picchi di Michele e di Bart, ed è campo di riposo al pellegrino, che viene ivi benignamente accolto nell'ospizio eretto da Napoleone I, in riva d'un laghetto, che ad occidente ha un giro di due miglia, placido per solito, agitato e spumeggiante il dì ch'io lo vidi.
Visitammo l'ampio ospizio, dove ci vennero mostrate le stanze che per tre giorni abitò prigioniero il papa Pio VII, e che ricordano eziandio il soggiorno dell'imperatore Bonaparte.
Gli alpigiani furono consolati di quell'ospizio, e maravigliarono dell'amplissima via che ai cenni di Bonaparte videro aperta sui loro gioghi; e siccome da prima la credevano impresa non che ardua, impossibile, solevano poscia esclamare con iperboli proprie alla loro indole, che il grand'uomo, il quale avea saputo domare le Alpi, avrebbe un dì cacciato via anche il verno!
Alte giogaie cerchiano il lago e l'ospizio, distinte ciascuna da nome che ne indica la natura o alcuna particolarità.
Il tenente Majneri, operoso lombardo colà mandato dal nostro Governo per lavori trigonometrici, m'indicava quei nomi, e stando noi presso l'ospizio:
—Guardate, mi diceva, a mezzodì quella giogaia grave di lucide ghiacciaie; è la punta di Bart; di là piegando fra meriggio e ponente, s'incontra il Lago bianco, così detto dalla chiarezza delle acque. Quell'altro picco è la punta di Malamet, e nella[336] parte occidentale, nuda dì alberi ed arida, ci si presenta la Rocca bianca, alle cui falde si estende il piano del piccolo Moncenisio, e al nord-ovest vedete la roccia di Clery così abbondante di camosci, che vi corre il proverbio:
Quand sur le Clery il n'y aura plus de chamois,
Notre Roi n'aura plus de soldats.
Dalla parte nordica i gioghi della Tarantasia ci segnano la via che mette a Lansleborgo, primo paese di Savoia, che s'incontra scendendo la Ramassa pel versante del Cenisio opposto a quello che salimmo, e piegando al nord-ovest ci si mostrano le rocce de Ronche, che vanno ad unirsi alla Rocca-Michele, coronata dalle eterne ghiacciaie di Lamet.—
Fui ben grato al cortese Majneri, mentre in mezzo a quell'orrido anfiteatro di picchi e di geli ci sorridevano liete ore nell'ultimo piano del Cenisio, a 2100 metri sopra il livello del mare; e Norberto Rosa usciva a celebrare le trote del lago con questo bizzarro sonetto:
Chi vuol saper quanto può fare il caso
Nell'accoppiar due disparate teste,
Qui del Cenisio sulle algenti creste
Venga, e ben tosto ne sarà persuaso.
Vedrà il cantore dalle note meste
Che il Sinaï e il Taborre ebbe a Parnaso;
E il segusin che ritentò le peste
Di quel d'Arezzo che cantò del naso.
Vedrà il primier, in suo pensiero assorto,
Tener sul lago le pupille immote:
Immote sì da disgradarne un morto!
L'altro, in cerca di grilli e di carote,
Correr di qua di là per suo diporto,
E più che il lago contemplar le trote!....
Le dolenti visioni di Susa tornarono ad assalirmi, e turbavano la gaiezza di quella compagnia; ond'io sapendo di trovarmi fra due buoni italiani, stretta ad ambidue la destra, non mi tenni dallo sclamare:—O cari fratelli, qui più che altrove ci si rappresenta la comune patria, contristata dagli avidi conquistatori. Oh quante volte da queste Alpi, potenti stranieri con seguito formidabile di armati si affacciarono al giardino d'Italia, e sempre ardenti della libidine di signoria, scesero a disertare le nostre belle contrade!
Scendeva Annibale rinnovando il giuramento del padre contro i Romani, ed al valore de' suoi soldati in premio promettendo il sacco delle nostre città. Scendeva Carlo Magno, e benedetto dal pontefice di Roma cacciava d'Italia il Longobardo; cacciava uno straniero per assicurare fra noi il suo dominio: straniero egli più dei Longobardi, che ormai, per lunga dimora, eransi, nella dolcezza del nostro cielo, addomesticati alle nostre usanze. Scendevano nello scorcio del secolo passato eserciti francesi, lusingando i creduli nostri popoli col nome di Repubblica, e promettenti invano alla Italia vivere libero e grandezza nazionale. Nè soltanto di fuori ci vengono i nemici, chè ne abbiamo, e molti, anco fra i nati sotto il nostro cielo. Se togliamo il Piemonte, chi potrebbe anche oggidì rimproverare al Viandante del poeta, se
«Ai bei soli, ai bei vigneti
Contristati dalle lagrime
Che i tiranni fan versar,
Ei preferse i tetri abeti,
Le sue nebbie ed i perpetui
Aquiloni del suo mar?».[13]
Tempriamo queste memorie di sangue e d'inganni con due ricordanze che tornano dolci ad ogni buon Piemontese, come di domestiche liete venture; una festa regia ed una popolare.
Il dì 9 novembre, giorno di domenica del 1619, si celebrarono con pubbliche dimostrazioni le nozze di Cristina figlia di Enrico IV re di Francia col principe Vittorio Amedeo di Savoia. Il serenissimo duca Carlo Emanuele, padre di lui, volle che venendo di Francia gli sposi avessero sul Cenisio splendide accoglienze, e perciò vi fu edificato un delizioso palazzo con nove stanze, con portico retto da due colonne e acconce iscrizioni latine.
Venuti gli sposi, fu loro dato lo spettacolo di una giostra di cavalieri armati, su le rive del lago, colla quale, raffigurando la resa di Rodi, si volle rappresentare una nobile impresa, da cui trae nominanza la Reale Casa di Savoia. Valeriano Castiglione, istorico dei Reali di Savoia, nella vita del duca Vittorio Amedeo ricorda quella festa nel modo seguente[14]:
«A capo del lago un'isoletta formata dalla natura e modellata dall'arte rappresentò quella di Rodi. Questa assalita da finte squadre turchesche in atto di guerra navale, venne difesa da altre di cavalieri pur fintamente condotti dal conte Amedeo di Savoia il Grande. Dopo tal conflitto uscirono alcune truppe di cavalieri a correr la lancia, ed a combattere con lo stocco nel campo d'una vicina pianura. Tutto il buono e tutto il bello d'una regia splendidezza e del fasto umano fu compendiato in quel giorno.
«Accompagnò la festa una quiete insolita d'aria con serenità di cielo, in modo che parve cangiata quella regione, sempre orrida, in un abitato soave, sospeso l'impeto de' venti e fatte esuli le procelle per servire alla felicità del passaggio della principessa sposa.»
Oltre a quanto ci riferisce il Castiglione, le feste che accompagnarono Madama Reale e il Serenissimo Principe, fra le grida di viva Savoia e Francia, vennero descritte da Carlo Emanuele Roffredo con ingenuo racconto, dirò con P. A. Paravia, ch'ebbe cura di far ristampare la Memoria delle cose d'allegrezza che sono state fatte in quella occorrenza.
Non meno grata fra gli alpigiani è la memoria della festa celebrata sul Cenisio il dì 13 agosto del 1837. Era la sagra di Santa Cecilia, patrona della musica, donde presero occasione le provincie di Susa e di Savoia a preparare un fratellevole ritrovo con musiche e banchetti. E furono veduti i due popoli di Susa e Lansleborgo, divisi di favella e costumi ma uniti in una speranza, che doveva avverarsi più tardi, confondersi in dimostrazioni di amore presso il lago, sulle vette del Cenisio. Alla quale festa cittadina Norberto Rosa aggiunse quella sempre piacevole delle sue rime.
Le feste della monarchia e del popolo ricordavamo percorrendo i molti ordini di stanze e i corridoi dell'Ospizio, quando il Padre superiore, che ci è stato largo di cortesie, ci apri un libro, sul quale i viaggiatori sogliono segnare i loro nomi.
Nella pagina 14ª, colla data del 2 agosto 1854, si legge:
Umberto di Savoia, principe di Savoia.
Amedeo di Savoia, duca d'Aosta.
Quindi succedono i nomi di due principesse di Savoia e delle persone che accompagnavano i reali principi.
Umberto ed Amedeo, questi giovani in cui sono locate le speranze della R. Casa di Savoia e dell'Italia, con patrio senno educati, non ignorano che nella lingua sta molta parte del concetto nazionale, che la gloria avvenire della loro stirpe sta nella grandezza della nostra penisola; e sul Cenisio, dove si parla il francese, scrissero in italiano i loro nomi, lasciando a parecchi del loro seguito l'antica favella di corte.
Ci accommiatammo dal Padre superiore dell'Ospizio, dal lombardo Mayneri e dal piemontese Pacchiotti, colto giovane colà andato a rinvigorire la malferma salute; e risaliti in carrozza, per le chine e fra i pilastri della scala, risalutammo il piano di S. Niccolò, verde ed armonioso, la bella valle della Novalesa, e selve di pini e di frassini, e frutteti in grande abbondanza, fra i quali aprivasi allo sguardo in tutta la sua pompa la valle inferiore di Susa, che fra due ordini di alti monti, irrigata dalla Dora si prolunga maestosa, mostrandoci a sinistra i gioghi di Frassinere e a destra la Sagra di S. Michele, locata sul vertice del Pirchiriano, a perenne benedizione delle alpi Cozie; e nell'estremo orizzonte il colle e la Basilica di Soperga: stupenda veduta!
Che mai direbbe, risorto fra noi qualche alpigiano de' secoli scorsi? Egli lasciò il natale Cenisio con intricati e difficili cammini, pieno di pericoli e di paure, ed ora lo rivedrebbe festoso ed agevole ai varchi per l'ampia comoda via, che, iniziata e condotta innanzi dalla mente di Bonaparte, venne compiuta con ogni sollecitudine dal nostro Governo. Senzachè si vanno apprestando altri mezzi acconci ad agevolarne e sempre più accelerarne il passo.
Fu chi voleva giovarsi delle acque del lago del Cenisio, e per congegni e forze idrauliche trarre i carri su rotaie dentate con grande celerità, e di questo meccanismo vidi uno schema e un felice sperimento in casa del signor Carlo Henfrey, alla presenza del commendatore Paleocapa, ministro dei lavori pubblici. Altri voleva attenersi a mezzi meno arditi e più sicuri, facendo munire la via di rotaie di ferro per cui più agevolmente scorrerebbero i carri; ma prevalse l'ardito concetto di operare un ampio traforo[341] fra Modane e Bardonecchia; e si va eseguendo con grande solerzia.
L'alpigiano che non avesse fede nei prodìgi dell'industria, attribuirebbe gli ardimenti dell'intelletto umano a sataniche malìe, che un tempo furono tanto in voce fra i popoli delle Alpi, ed in singolar modo nei dintorni di Giaglione, fra le folte selve dei castagni, i più vantati della provincia.
Il sole tramontava, le ombre delle foreste si distendevano sui villaggi, ed i pini del Bosco-nero dall'opposta montagna davano una cupa malinconia, e noi passavamo innanzi a Giaglione, l'antica dimora della Maddalena Rumiana, dove l'amico Norberto, lasciata l'ilarità di che soleva vestire i suoi racconti, prese a narrarmi i casi della miseranda donna.
«Nasceva la Maddalena Rumiana nella valle di Oulx intorno alla metà del secolo decimosesto, e condottasi a Giaglione, non si conosce in qual anno, si maritò ad un tale Rumiano, che, morto, non le lasciò altro retaggio che il nome.
Inoltrata negli anni, vedova e povera, traeva la misera vita senza trovare chi la confortasse, perchè in Giaglione era tenuta straniera, ondechè il rozzo popolo la fece segno a scherni ed accuse, e dichiaratala strega, a provarla tale non tardò ad inventare argomenti di ogni sorta.
Perlaqualcosa non è maraviglia se le sciagure che travagliavano il villaggio, sia per influenza di atmosfera, sia per altra causa qualunque, fossero tosto attribuite alle sue malìe.
Nembi, folgori, gragnuole, carestie, disastri di pastori, mortalità di armenti, i mali della natura e dell'umanità, si dicevano spesso opera de' suoi tremendi scongiuri. Guai se una casa già mezzo scassinata dagli anni cadeva in rovina! tosto se ne accagionava[342] la Maddalena, che alcuni mesi addietro erasi ricoverata sotto la tettoia. E se mai una sposa sconciavasi, si diceva che la infelice, una domenica entrando in chiesa, s'era imbattuta nella maliarda, che l'aveva sinistramente affatturata.
Crebbero le calunnie a dismisura, ed i maligni, di cui non è mai penuria, sobillando ed infiammando la moltitudine, trasserla a denunciare Maddalena Rumiana innanzi al Santo Ufficio, siccome tenutta per strega et mascha dalla pubblica voce et fama.
«I padri dell'Inquisizione colsero quest'opportunità per ostentare il loro zelo a gloria della cattolica fede, e tosto ai loro cenni la strega della valle d'Oulx, tolta dall'innocente tugurio, venne imprigionata a Susa, indi tratta innanzi ai padri inquisitori.
Dove oggi in Susa è il Collegio degli studi, nel principio del secolo decimosettimo sorgeva il carcere ed il tribunale della santa Inquisizione.
Colà fu interrogata la nostra Maddalena, che, innocente come era, negò, e della sua onesta vita richiese a testimonio il proprio parroco, il quale, con coraggio non comune a quei tempi, dichiarò per iscritto come l'accusata fosse donna dabbene e divota, dandone frequenti prove coll'accostarsi ai sacramenti della Penitenza e dell'Eucaristia.
Testimonianze che a nulla valsero; imperocchè gli esaminatori, che volevano ad ogni costo strapparle di bocca ciò che essi chiamavano la verità, le ingiunsero di non perfidiare più oltre sub pœna funis. E accoppiando l'ipocrisia colla ferocia, sotto colore di umanità promisero di usar misericordia verso di lei, quando avesse confessato ogni cosa.
«Confessarsi rea o soffrire la tortura—a così diabolico dilemma[343] piegavano non di rado uomini vigorosi; pensate dunque se poteva reggere la Maddalena sfinita dagli anni, dalla miseria e dai patimenti della prigione.
La tortura era per lei il più terribile de' mali; all'incontro la parola misericordia sul labbro de' sacerdoti di Cristo era il più dolce dei beni. E fidente in quella evangelica parola, compiacque la innocente alla barbarie degl'inquisitori, e si disse rea dei malefizi tutti di che l'accusavano; però non senza contraddirsi, nell'assegnare il tempo, le persone ed i luoghi: il che ad intemerati giudici sarebbe bastato a dare indizio che le risposte di lei non erano tanto effetto della reità, quanto della violenza che le facevano.
Nè soltanto disse vere le accuse, ma dimandata se di altri delitti si sentisse colpevole, la infelice narrò come spesso in compagnia di altre streghe, che tutte nominò, si recasse di notte tempo al Rigoletto, ossia al concilio dei diavoli, in una selva del Minareto, o Mollaretto.
Narrò che al Rigoletto si andava per aria a cavalcioni di un bastoncino unto di un misterioso unguento, e che il bastoncino e l'unguento erano a loro dati dal diavolo.
Narrò che calpestato il crocifisso, fu quivi costretta a rinnegare il battesimo e la fede cristiana, la prima volta che andò al Rigoletto; e descrisse i balli, i giuochi e le oscene tresche a cui streghe e diavoli si abbandonavano, intantochè un di costoro, seduto sur un tronco d'albero, batteva un tamburo, facendo to, to, to....
Insomma ripetè le tante storielle di fattucchierie udite sui monti sino dall'infanzia, e se ne dichiarò rea: e a così assurde e fanciullesche confessioni mostravano di aggiustar fede uomini che dicevansi luce del mondo, ministri della giustizia e sostenitori della religione.
Indi ad un mese la Maddalena Rumiana veniva condannata al carcere perpetuo.
Questa fu la misericordia dei padri inquisitori!»
Rimasi sbalordito a tale racconto, comechè la storia dell'Inquisizione sia ricca di simili e peggiori, ed io ne abbia uditi assai in Sicilia.
Chiesi a Norberto Rosa donde avesse tratte le notizie del suo racconto, ed egli mi rispose, possedere l'originale processo, che, incominciato nel principio del milleseicento, durò due anni.
Tornati a Susa, volli vedere questo curioso processo, e Norberto Rosa mi presentò uno scartafaccio roso dalle tarme, ingiallito dal tempo, scritto in caratteri semigotici, in un gergo curialesco, tra il latino e l'italiano.
—Eccolo, mi disse con incisiva ironia, il glorioso monumento della civiltà degli avi!...—
La Novalesa.
Abbastanza toccammo dei tristi casi della Maddalena Rumiana. Andiamo a confortarci l'animo a tre miglia dalla città, in una amena frugifera valle, chiusa fra le Alpi Cozzie e le Graie, colle falde del Rocciamelone al nord-est, e le acque della Cenisia, che in cascate pittoresche biancheggiano su gli erbosi Banchi delle circostanti rupi, e vanno a crescere gli argentei tesori della nostra Dora.
Siamo nella valle della Novalesa, dove ridono tre villaggi: Venaus, dal latino venatio, perchè nei tempi romani era luogo di caccia; la Ferriera, i cui gagliardi abitanti un tempo su lettighe trasportavano i viaggiatori dall'altra parte del Moncenisio con istraordinaria forza e coraggio: e la Novalesa, con poco più di mille abitanti, che dà il nome alla valle, e che anticamente fu chiamata Novalicium, cioè nova lex, nova lux, perchè santi[345] uomini sino dai primi tempi del cristianesimo diffusero la nuova luce del Vangelo, vivendo fra le rupi nella solitudine e nella preghiera.
Diede pure il nome all'antico monastero della regola di S. Benedetto, fondato a breve distanza dal paese in cima d'un poggio nel 726, da Abbone, ricco patrizio di Francia, al quale obbedivano le città di Moriana e di Susa.
Il Monastero di Novalesa e l'ubertosa valle e i gioghi che le fanno corona, abbondano di antiche leggende, raccolte dalla celebre Cronaca novaliciense, scritta in barbaro latino, ma piena di peregrine notizie, pubblicata dal Duchesme e dal Muratori, e in Torino dalla R. Deputazione di storia patria, e volgarizzata ed illustrata in alcuni capitoli da Cesare Balbo.
Del cronografo s'ignora il nome e la patria: si rileva però dalla cronaca istessa e dalle osservazioni del cav. Fabrizio Malaspina, ch'egli dimorasse nel Monastero di S. Pietro di Breme.
Amo le antiche leggende dei monasteri, imperocchè sotto il rozzo loro involucro io sento le virtù di operosi romiti, la semplicità d'un popolo credente, e l'ingenuo animo del cronografo cenobita.
Chi ama le leggende si faccia meco sul Rocciamelone, sul più alto fra i picchi circostanti, a 3492 metri dal livello del mare.
«A destra del Monastero (così narra un frammento della Cronaca novaliciense, tradotto dal Balbo) sta il monte Romuleo, eccelso sopra gli altri monti aderenti. Nel quale dicesi dimorasse già durante l'estate, tratto dalla frescura ed amenità del luogo o del lago Romulo, un certo re sterminatamente grande. Da questo re adunque prende nome il monte, a' piè di cui passa la via a Borgogna. Narra il volgo esserci sopra alcuni generi di fiere che sono pure sul Moncenisio, orsi, ibici, capre ed altre, buone a cacciarsi. Nascevi e scendene per un petroso profondo burrone un torrente, in mezzo a cui, dicesi, che[346] sorga come misto un fonte salato, onde le ibici e le capre e le agnelle domestiche vi corrono per amor del sale, dove mette al piano, e molte vi son prese. Dicesi poi che quando nel detto monte dimorava il detto Romulo, vi adunasse un enorme tesoro; ma nullo che ci abbia voluto salire vi potè mai riuscire.
«Ora il vecchio che tante cose di questi luoghi mi narrò già, facevami intendere che egli stesso con un suo compagno chiamato Clemente, essendosi un mattino alzato molto per tempo, e per un cielo serenissimo, presero a salire quanto più presto il monte. Ma sendo già vicini, incominciò il cacume a coprirsi di nubi ed ottenebrarsi; e a poco a poco a crescere l'oscurità e giungere ad essi, ed essi a brancolare colle mani, ed a scamparne a mala pena. Parve loro, dicevano, come se di sopra si buttassero loro pietre; imperciocchè ad altri pure, dicesi, che succedesse il medesimo. Sulla sommità poi, da una parte non trovasi altro che saliunca; dall'altra, dicesi sia un lago di maravigliosa grandezza, con un prato. Il medesimo vecchio poi solea narrare d'un certo cupidissimo marchese nomato Arduino, il quale avendo sovente udito dai villani narrar tali cose, cioè del tesoro ragunato sul monte, e accesone di desiderio, subito comandò ai chierici che seco ne venissero a salire, i quali, tolta la croce e l'acqua benedetta, e cantando Vexilla Regis e le litanie, misersi in via; ma prima d'arrivar all'apice del monte, non diversamente dagli altri, con ignominia se ne tornarono.» Fin qui la cronaca al libro XI, cap. V.
Il Rocciamelone non solo scuote la immaginativa colle fantastiche leggende, ma tocca il cuore coi sentimenti religiosi, festeggiando addì 5 agosto di ciascun anno la Madonna della Neve.
Un antico simulacro di bronzo fatto a modo di tritico con in mezzo la Madonna, custodito nella cattedrale di Susa, in quel giorno viene portato a dosso d'un uomo sulle cime del Rocciamelone,[347] in una cappella di legno, surrogata all'antica cappella scavata nel vivo sasso ed ora coverta di ghiacci.
Concorrono in gran popolo i divoti, anco da lontani paesi, ed è spettacolo commovente il vedere quelli della Savoia che con uncini ai piedi e bastoni ferrati attraversano vaste ghiacciaie, stretti a drappelli di quindici o venti, legati gli uni agli altri, con una lunga fune a guisa di catena intorno ai lombi, talchè se ad alcuno di essi avvenisse mai di precipitare, tosto gli altri lo ponno sorreggere. Per tal modo quei pellegrini si assicurano di non cader sommersi ne' crepacci delle ghiacciaie, che, coverte di leggieri strati di gelo, talvolta la state scoppiano con grave pericolo di chi le traversa.
La festa del cinque agosto ricorda Bonifacio Roero d'Asti, che nel 1358, presso la vetta del Rocciamelone, faceva nel vivo sasso scavare una cappella, collocandovi il simulacro in bronzo della Vergine, e costruiva un ricovero pei pellegrini, anco ai dì nostri appellato la Casa d'Asti.
Con tale pia opera il Roero adempieva il voto fatto, nella schiavitù de' Turchi, alla Madonna, d'innalzarle cioè una cappella sul monte più alto d'Italia, fra quelli di possibile salita, quando mai tornasse a libertà.
Nel 1419 Amedeo VIII fece ristaurare la casa di ricovero: Carlo Emanuele II col fiore della sua corte salì quell'altezza per venerare la Santa Vergine il 5 agosto del 1659; e il pio esempio venne imitato dai magnanimi figli del re Carlo Alberto, come attesta una lapide quivi locata.
Queste pie memorie io raccoglieva nell'autunno del 1854, allorchè la prima volta per un viale di salici, fra 'l mormorio delle acque cadenti e 'l canto de' pastori e dei coloni, saliva il poggio del Monastero della Novalesa.
Le cronache lo ricordano coronato di splendore sotto i Carolingi, fra i monasteri che dovevano provvedere dona et militiam. Carlo[348] Magno, quando venne a prostrare il regno de' Longobardi, vi dimorò parecchi giorni con dimostrazioni di particolare affetto. Suo figlio Ugone si fe' monaco e fu assunto alla dignità di Abate del Monastero; nel quale crebbero a dismisura le ricchezze e i titoli di giurisdizione, e fiorirono uomini segnalati per dottrina e santità.
Il monastero toccò la maggiore sua prosperità al sorgere del secolo nono. Ricco e potente, talvolta peccò di cupidigie mondane, e nel 906, predato e distrutto dai Saraceni di Frassineto, giacque miserabile rovina.
Risorto sullo scorcio del secolo X, si mantenne in umile condizione sino al 1601, quando nella persona di Antonio Provana rivestì l'antica dignità abbaziale.
Pochi monaci io trovai nel chiostro della Novalesa. Mi strinsi col padre Ilario, pel quale aveva una commendatizia.
Padre Ilario era un vecchio monaco di antica stampa: avea abbandonato gli agi dell'opulenta sua casa per associarsi ai solitari delle Alpi, e fedele alla regola di S. Benedetto, vivea nella preghiera e nel lavoro.
Il suo nome era in benedizione nella valle. Se ne' paesi vi erano dissidii da quietare, sventure da confortare, il padre Ilario sollecito colle parole del Vangelo andava a portare la concordia, la pace e la speranza; e consolava i poveri di elemosine, e riconciliava i moribondi con Dio, e quando non era chiamato ad opere di cristiana pietà, pregava e lavorava nei campi del monastero.
Robusto di membra come di volontà, ora a forza di braccia e di mine mandava in aria un ostinato masso che sporgeva in mezzo ad un campo, ora dissodava una sterile landa: e qui raddrizzava i tralci d'un vigneto, là piantava un mandorlo; qui segnava i solchi alle zolle, là coltivava i rosai e i gelsomini per adornarne gli altari del cenobio.
Presentata la commendatizia a padre Ilario, lo inchinai riverente, come ne' tempi antichi il pellegrino andava ad inchinare i monaci di Subiaco e di Montecassino, e lo pregai di mostrarmi le cose più degne di attenzione.
—Ben volentieri, mi rispose egli cortesemente, ma ben poco troverete da ammirare. Le guerre e le rapine, inseparabili compagne, han guasta ogni cosa.
Usciti per un giardino, e salita una china erbosa, visitammo la grotta, dove è tradizione Santo Eldrado, abate del monistero, si raccogliesse ad orare.
Entrati nella chiesa del cenobio, ristorata nel 1712 da re Vittorio Amedeo II, ammirammo, fra diversi quadri di poco pregio, la Natività del Signore del Lemoine, e Cristo deposto nel sepolcro del Blondel; indi passammo nella sagrestia, dove osservammo il bel pastorale con manico di avorio, intagliato di rabeschi, nel secolo duodecimo adoperato da San Pietro primo abate di Tamié, come spiega una pergamena, nella quale io lessi: Ce bâton est bien véritablement le bâton pastoral de Saint-Pierre, premier abbé de Tamié l'an. 1132.
Tornati in chiesa, visitammo le reliquie di santo Eldrado. Stanno esse religiosamente conservate in una cassa di legno[15], coverta nei quattro lati da lamine d'argento cesellate, opera d'arte del secolo duodecimo.
I lavori a cesello in varii compartimenti rappresentano angeli ed apostoli, Maria Vergine e Cristo benedicente; e ai due capi della cassa sorgono due figure più alte e in maggior rilievo, i santi Pietro ed Eldrado.
Le ossa dell'antico abate della Novalesa dormono in pace, protette dalle figure più sublimi del cristianesimo, alle quali, guardando io attentamente, esclamai:
—O padre Ilario, conosco anch'io i prodigi di questo santo, che ho letto in diversi libri, e spezialmente in quello del Rochex: La gloire de l'Abbaye de la Novalèse.—
E padre Ilario, levando il capo, rispose:
—Il secolo indifferente non cura gran fatto questi prodigi, ma ogni onest'uomo dovrà venerare le virtù cristiane, che onorarono la vita del nostro abate Eldrado. Io sempre le venerai, desiderando di finire i miei giorni accanto alle sue ceneri presso la grotta dove soleva pregare, su questo poggio profumato dalle sue memorie. Ma una legge di soppressione, che io rispetterò perchè proposta da legittime autorità, ci minaccia, e ben tosto mi allontanerà da questo chiostro: Fiat voluntas Dei.—
Così confortandosi nell'aiuto della Provvidenza, mi condusse sul farsi del meriggio dietro le già accennate antiche cappelle, su d'un terrazzo ombreggiato da annose querce, e di lassù godetti incantevole veduta.
Io vedeva la valle irrigata della Cenisia, e verso il sud le montagne di Gravere e di Chiomonte folte di selve, e il monte di Giaglione più al basso, e alle sue falde il campanile di Venaus, e udiva il continuo fracasso del fiumicello giù nelle forre delle voragini petrose, e il gemito carezzevole delle cascatelle d'acqua, che, coi nomi particolari di Claretta, Torrente, Roggido e Rivo malo, scorrono come argento fra il verde del Rocciamelone, e ricordano le cascate dell'Aniene sui gioghi tiburtini; e un olezzo dì erbe aromatiche e un'armonia perenne, il bello della natura misto di orrori e di delizie: questa vista m'inebbriava i sensi, e più dolorosa rendeva al vecchio monaco la minacciata dipartenza.
Le umane instituzioni invecchiano e si dissolvono, anco le più solenni, quando il concetto divino vien soverchiato dal mondano. Allora a risuscitarle non basta forza d'uomo: solo il potrebbe un miracolo.
Ci rimangono talvolta alcuni stupendi esempli del loro stato primitivo per testimoniare alle genti il divino concetto che le creò, ben diverso dal mondano che le corruppe.
Padre Ilario era uno di tali esempli, uno di que' monaci che sarebbe stato amatissimo da S. Benedetto. Egli piegò il capo alla legge di soppressione del 29 maggio 1855; e per diversi mesi ancora fu veduto errare per la valle della Novalesa, e piangere e pregare nella grotta dove pianse e pregò santo Eldrado.
La Brunetta.
Dalle reliquie d'un antico monastero trasportiamoci alle recenti rovine d'una celebrata fortezza, della Brunetta, che nel secolo scorso, fra la Cenisia e la Dora, propugnacolo del Piemonte e d'Italia contro i nemici d'oltralpi, su d'un'acconcia giogaia distesa al nord-ovest di Susa, faceva innalzare l'accorto re Carlo Emanuele, commettendone l'incarico al Bertola, uomo espertissimo nell'arte militare.
Chi nel descriverla uguaglierà mai lo storico Botta, che giovanetto la vide, maravigliando, in tutta la pompa de' suoi baluardi? Io leggendo la descrizione ch'egli ne fa, innanzi ai frantumi ancora giganteschi di quella fortezza, mi sentii preso d'un sacro entusiasmo, siccome quando in Tivoli presso la villa di Mecenate io leggeva le odi di Orazio, in Siracusa dalle eminenze dell'Epipoli le Verrine di Cicerone, e qualche pagina della Gerusalemme del Tasso sulle sponde del Giordano.
«Opera affatto romana fu, esclama il Botta; i forestieri la visitavano come maraviglia, e maraviglia era veramente per la grandezza del concetto, per la pazienza degli uomini in farla, per la maestrìa dell'arte, per la fortezza delle opere. Brunetta la chiamarono, e cinta era di otto bastoni. Venne scavata nel vivo sasso: di vivo sasso erano i bastioni e le cortine, di vivo sasso la unica strada, per cui vi si saliva, con cannoniere e feritoie da ogni lato. Vi si scorgevano le ruvide, aspre, scabre e sporgenti schegge del macigno rotto con l'artifizio delle mine. Non so, ma a chi dentro e d'intorno vi si aggirava, qualche cosa d'infernale e di tremendo appariva. Tra quegli spezzati, e quasi direi lacerati macigni, tra le fauci cupe delle vicine valli, tra quelle ombre scure, e quasi direi fatidiche, che di verso occidente, declinando il sole all'occaso, dalle montagne calano, e le sottoposte fondure ingombrano ed abbuiano, tra il romore della veloce Dora e della velocissima Cenisia, tra quell'immenso sipario dell'Alpi, che alla poderosa Francia accenna, tra quell'altezza della Rocciamelone, che quivi vicina a foggia d'altissima torre i monti signoreggia, e porta in cima una cappella dedicata all'umile Vergine, madre di Dio, l'anima s'innalzava, e da questo mondo si separava, piena di spavento, di religione e d'orrore»[16].
Quali guerre sostenne la Brunetta? Quali vittorie ci apportò? Come finalmente ancora giovine e bella cadde in frantumi?
Senza un fatto d'armi che la illustrasse, vergine di sangue umano, dopo soli sessanta anni di vita, nel 1796 cadde al cenno di Napoleone I, che sceso in Italia per altre vie, nella febbre de' suoi trionfi la volle smantellata; e la Sabauda Guardiana delle Alpi dovette piegare all'arbitrio del più forte.
Nella piazza d'armi (31 agosto 1855), lasciato a destra il convento[353] dei PP. Cappuccini, e lo scalo della strada ferrata, per un viale di platani trassi alla giogaia su cui giacciono le reliquie della Brunetta. S'incontrano i frantumi del ridotto di Catinat, propugnacolo di poco conto già esistente prima che si costruisse quello della Brunetta: e non del tutto cadute le mura del forte di Santa Maria: e della Brunetta si veggono i solchi delle mine per i tre ordini di bastioni operati nel vivo sasso verso Francia, e prostrate le caserme e i baluardi e l'ospedale di cui rimangono solo in piedi due archi; e del palazzo del governatore una parete in cui è dipinta una meridiana, colla data del 1726. Visitai que' luoghi con dolore; e quando mi trovai fra le macerie della chiesa, anch'essa atterrata, tutto mi vinse il sacro orrore di quelle vaste rovine, reso ancora più solenne dalla cupa vista del selvoso Mompantero, dietro cui giganteggia il Rocciamelone.
Il Rana, ingegnere susino, cui venne affidato l'incarico di smantellare quella fortezza, compiè il doloroso uffizio sull'incruenta meraviglia dell'arte militare, e pianse: e Pietro Contrucci, quando ancora le ceneri di Napoleone I dormivano sotto il salice di Sant'Elena, colla seguente patetica epigrafe fece parlare la rovinata Brunetta:
IL VIGILE GVARDIANO DELLE ALPI
POSE ME TORREGGIANTE SV QVESTO MASSO.
EBBI VITA BREVE E IMMACOLATA DAL SANGVE.
NAPOLEONE
A VILIPENDIO MAGGIORE DEI CONQVISTATI
ME VOLLE DIVELTA
PER I NIPOTI DEI MIEI AVTORI.
AMBI SIAM NVDE MEMORIE CON DIVERSA FAMA.
VN SALICE APPENA ADDITA
LA TOMBA DEL GVERRIERO.
AMPIE ROVINE
IL LOCO OVE IO SORSI SVPERBA
Le Gorgie.
Lasciando le rovine della Brunetta, scesi nella via che mette al Cenisio, e presso il ponte di S. Rocco, torcendo a destra per un breve declivio, entrai nelle Gorgie, amenissimo luogo di campagna, giustamente vantato dai Susini.
Lungo la riva sinistra della Dora si distende un pergolato, nel cui fondo vidi una peschiera in erboso piano ombreggiato da un castagno, e grotticelle incavate nel masso, e salici curvati sulla Dora che sbocca dalle vicine rupi, e le acque del Chiauri che, derivate dagli alti monti di Giaglione, con bella cascata giù scendono dal fianco della montagna adiacente, spandendo una cara armonia intorno alla casa del cav. Galassi, reliquia della grande armata; il quale, accogliendomi in una stanza di quel suo eden dedicata alla memoria del re Carlo Alberto, mi additò in dodici quadri rappresentate le vicende del magnanimo ed infelice nostro monarca. La temperatura è così mite in quel luogo riparato dai venti aquilonari, che insieme col frassino e col castagno cresce rigoglioso l'ulivo; e quasi direbbesi che nel verno colà vada a rifuggirsi la primavera.
Chi ne' giorni sereni sul farsi del meriggio andrà a visitare le Gorgie, vedrà la luce del sole, riflessa nelle cadenti acque del Chiauri, dispiegarsi in leggiadra iride e colorare l'eden del Galassi. Quivi l'animo stanco di piangere sulle rovine dei monasteri e dei castelli, e sulle traversie dei popoli, vede sfavillante in quell'iride una speranza, la quale annunziando una gloria superna che non perisce mai, scende a consolare le umane sciagure.
DA SUSA AL PIRCHIRIANO
Foresto.
O leggiadre mie leggitrici, che passate per Val di Susa, se vi piace che il nome d'un vostro diletto vi risuoni amorosamente all'orecchio, venite con meco alla villa Balma fra i pampini, i pioppi e gli ippocàstani della Brumera, e quivi l'eco fedele vi ripeterà non una, ma dodici volte, la sospirata cara parola.
Salve, o Dora, salve, o Balma, io sclamai più volte, e l'impietrita ninfa, la mal corrisposta amante di Narciso ripeteva i miei saluti al patrio fiume e all'ospite gentile, mentre io mi avviava al marmoreo villaggio di Foresto, che alle falde orientali del Rocciamelone spunta sulla sinistra riva della Dora a due miglia da Susa.
Lo svelto e bianco campanile del paesello contrasta mirabilmente colle propinque ignude rocce di color cupo rossastro, che tagliate a picco perpendicolarmente, d'un'altezza non minore di 500 metri, succedonsi le une alle altre con molti segni delle ripetute rivoluzioni della natura, con ripidi solchi di viottoli e di torrentelli, e tentate qua e là dalla mano solerte del colono alpigiano, che raggranella un po' di terra su l'arido masso per fargli abbracciare la vite e la spiga.
Da qualche noce soltanto è temperata quella selvaggia orridezza presso il torrente che sbocca da una profonda caverna piena di spavento, denominata perciò l'Orrido di Foresto.
Penetrai in quell'Orrido, che a guisa di labirinto si prolunga entro le viscere del monte, e mi pareva di entrare in uno di quegli spechi, d'onde il corsaro guata la ricca preda che solca il mare.
Dalle ghiacciaie del Rocciamelone scendono abbondevoli acque con gran fracasso entro la caverna, e raccoltesi in diversi bacini incavati dalla natura e dal tempo, si riversano sopra lisce pietre marmoree, e all'ingresso dell'Orrido scorrono spumeggiando fra le ruote d'un molino presso una povera casetta, di là dal ponte che traversa il torrente. Così il letto di queste acque fosse men basso, chè potrebbero fecondare i vicini campi!
Uscendo dall'Orrido levai gli occhi ad ammirare le pittoresche rocce che spaccate in cima lasciano intravvedere un po' di cielo, e in quella vidi un'aquila che aveva in becco un serpentello. Rimasi attonito, e una vecchierella che filava presso la casa del molino:
—Non abbia paura, mi sclamò, chè San Basilio protegge questi luoghi dai serpenti. Guardi quel masso a pan di zucchero che è di contro a noi, e vedrà una striscia bianca. È quello il segno rimasto d'un terribile serpente che infestava le circostanti borgate.
A queste parole della vecchia, Norberto Rosa, che avevo al fianco, crollava il capo ghignando.
Io guardai e vidi veramente quella striscia bianca, che appellasi comunemente il serpente di San Basilio. È una venatura del sasso, la quale somigliando ad un lungo rettile, ha dato occasione alla leggenda riferitami dalla credula vecchierella di Foresto.
Presso a Foresto veggonsi cave di marmi bianchi e verdi, che servono all'arte: e in quel paese come a Carrara, di frammenti di marmo splendono anco le più umili case.
Andammo alla villa dell'avvocato Luciano Genin sindaco del paese: ella ride fra le reliquie d'un tempio sacro alle Dee matrone, secondo si ritrae dalle iscrizioni di parecchie lapidi scoperte ivi in un giardino. Trovai già memorie di queste divinità salutari sulle cime del Monginevra; ma in Foresto direbbesi che duri tuttavia il loro culto, e il risorto loro santuario sia la villa Genin.
In sull'imbrunire, stando noi per accommiatarci, i nostri gentili ospiti, in compagnia del gioviale parroco del paese, ci condussero fino a notte fra i meandri de' boschetti e le aiuole del giardino, e quindi, come per caso, ci fecero riuscire in un pergolato sotto la cupola fronzuta d'un verde pinacolo, che rischiarato da molte faci, offerse la vista d'una lauta cena, quasi per virtù d'incanto imbanditaci e presieduta dall'amabile consorte del sindaco, vera dea matrona del luogo.
Sedemmo a mensa, e venuti a discorrere d'agricoltura, il sindaco mi comunicò un suo molto bene studiato progetto per assicurare al paese l'abbondanza dell'acque anche ne' tempi di più ostinata siccità. Egli vorrebbe derivare dal Rocciamelone per un traforo di non oltre a 180 metri, ne' gioghi adiacenti al villaggio, parte delle acque de' ghiacciai, le quali servirebbero così a meglio irrigare non solo i campi di Foresto e di Mompantero ai tempi asciutti, ma ad accrescere il volume delle acque della Dora, talvolta scarsa anch'essa ai bisogni dell'agricoltura; il che tornerebbe a grande benefizio delle lontane campagne, principalmente del territorio di Torino, e gioverebbe eziandio e precipuamente alle macchine degli opificii e all'igiene della capitale.
Stupii che la spesa di questa altrettanto utile quanto desiderata opera non verrebbe ad eccedere i sessantamila franchi; di che l'utilità grande accoppiata all'economia dovrebbe raccomandare l'impresa agli amministratori della cosa pubblica.
Mentre il sindaco ragionava dei vantaggi dell'acqua, noi sperimentavamo quelli del vino. I vini generosi di Sant'Eusebio, spesso cantati dal mio Norberto, e quelli di Foresto, che pur dovrebbe cantare, diffondevano l'ilarità nel convito, talchè i severi quesiti[358] di pubblica economia diedero luogo alle ingenue arguzie del parroco, allegro servo del Signore, che coll'assiduo suo intercalare quel che è, è, troncava ogni controversia, e ci invitava a toccare i bicchieri.
—Come ti piace questo parroco? mi domandò Norberto.
—Mi pare, rispos'io, che il versetto servite Domino in laetitia, e l'altro jugum suave est, siano scritti per lui.
—Hai ragione, mi replicò egli. Se tutti i preti gli somigliassero, il cielo non ci perderebbe nulla, e la terra ci guadagnerebbe moltissimo.—
Bussoleno e Chianocco.
Spesso in poveri alberghi e in picciol tetti,
Nelle calamitadi e nei disagi,
Meglio s'aggiungon d'amicizia i petti,
Che fra ricchezze invidïose ed agi
Delle piene d'insidie e di sospetti
Corti regali e splendidi palagi,
Ove la caritade è in tutto estinta,
Nè si vede amicizia se non finta.
Questa ottava dell'Ariosto un bel mattino mi suonò più che bella e soave in Bussoleno, paesello diviso dalla Dora, con vecchie mura merlate e case di stile gotico. Ad una balza vicina, cinto di quattro torri, gli si atterga pittorescamente il Castel Borello, abitato beatamente da un caro ex-arciprete.
Un cortese dottore di medicina, che mi accompagnava e trametteva le sue notizie al continuo mormorar della Dora, mi additava a mezzogiorno i monti della Balmetta, e alle loro falde le cave di San Basilio, cave di serizzo, specie di granito, e verso tramontana l'alpe di Balmafol colla miniera di calcopirite ramifera, somigliante a quella delle cave svedesi, e la Faucimagna, gola di esteso monte che vantasi della Fuggiera, cava di marmo[359] verde serpentino, quello che più si approssima al verde antico. Ivi giganteggia l'arido picco de' Tre denti, così chiamato da tre punte che si dispiccano al vertice della Faucimagna. Visitammo la chiesa parrocchiale, sormontata da un antico campanile, e nel ritornare ci abbattemmo in una allegra compagnia di villani e villanelle, che, adorna di rosse nappe alle cuffie ed ai cappelli, e con mazzolini di fiori al petto ed in mano, iva alternando canti e danze al suono d'un violino.
—Che cosa è questo tripudio? io chiesi al mio cicerone.
—È una pastorella dei monti di Cesana, che va a sposarsi con un giovane qui delle vicine borgate di Mattie.
Intanto che il mio cicerone mi dava questa notizia, la sposa spiccatasi dalla comitiva, e lesta come una camozza delle sue montagne, era venuta ad attaccarmi un roseo fiocco sul petto.
—Che fate, mia bella sposa! gridai io alla vista di quella strana decorazione.
—Che? Non conosce più la Lucia di Bousson?
—La Lucia di Bousson! La figlia del pastore Giacomo, che con tanta cortesia mi accolse ospitalmente nella sua capanna, quand'io, malconcio da pioggia dirotta, scendeva dal Monginevra? Oh! sì, sì che ti riconosco agli occhi cilestri ed al labbro di corallo, ed alle trecce d'oro che oggi, siccome quel giorno, si diffondono fra i gigli e le rose del vivace sembiante.
Dietro alla sposa era pur venuto, non senza sospetto, lo sposo; se non che appena seppe che io conosceva il padre di Lucia, fece vive istanze perchè andassi a prender parte al convito nuziale.
Lo ringraziai del cortese invito, perchè la gita era troppo lunga, e io desiderava visitare il villaggio di Chianocco, per dove c'incamminammo, lasciando che gli sposi, coll'allegra comitiva, si godessero tutto quanto il più bel giorno della vita, come lo chiama lo Scribe.
—Ha fatto male, mi disse l'accorto mio cicerone, a non[360] accettare l'invito degli sposi. Si sarebbe spassato davvero. Le prime accoglienze che la suocera suol fare alla nuora son tali da piacer anche ad un poeta.
—Dice davvero?
—Certamente. Ecco come si fanno le cose. Quando la brigata giunge alla casa dello sposo, trova chiusa la porta; la nuora picchia tre volte; al terzo picchio si apre, e in sulla soglia si affaccia la suocera, burbera nel volto, colla mestola appesa alla cintura, e comincia questo dialogo con la nuora:
—Che cosa volete?
—Entrare in vostra casa, e obbedirvi in quanto vi piaccia di comandarmi.
—Eh! Voi altre ragazze leggiere e capricciose ben altro avete in capo che l'assetto della casa.
—Lasciatemi provare e vedrete.
—Ma qui si tratta di pascolare e mugnere gli armenti.
—Ed io pascolerò e mugnerò gli armenti.
—Di tagliare il fieno e lavorare i campi.
—Ed io taglierò il fieno e lavorerò i campi.
—Di alzarsi la prima e coricarsi l'ultima, perchè la vecchia suocera possa alzarsi l'ultima e coricarsi la prima.
—Ed io farò anche questo.
—Ma voi verrete meno a tante fatiche.
—Iddio e vostro figlio mi aiuteranno.
A queste affettuose parole la suocera smette l'aria sua burbera, e stringendosi amorevolmente fra le braccia la nuora:
—Vieni, figlia mia, le dice, vieni, e possa tu non mai scordarti delle fatte promesse.
Poi, levandosi la mestola dalla cintura, la consegna alla sposa, che da quell'istante fa gli onori della casa, e invita tutta la compagnia a prender posto al banchetto di nozze; nel quale v'ha ciò di curioso che, mentre ciascun convitato ha la sua posata, lo sposo e la sposa, seduti l'uno accanto all'altro, mangiano entrambi nello stesso piatto, e bevono allo stesso bicchiere, quasi a significare che da quell'ora in poi vi è tra loro perfetta[361] comunanza di vita. Insomma le ripeto, conchiudeva il dottore, che a queste nozze di villaggio ella avrebbe passato un bel giorno, e ha fatto male a non accettar l'invito.
—E a me pare, al contrario, di aver fatto molto bene.
—E perchè?
—Perchè vossignoria mi apprese in pochi minuti quanto io non avrei facilmente saputo nel villaggio di Mattie in tutto il giorno.
Questo racconto sente del ritratto che il libro dei Proverbi fa della donna massaia, la quale, traendo alla rocca la chioma, vigila al buon governo della famiglia; e mi ricorda altresì certe costumanze di feste nuziali, che trovai in un villaggio delle Calabrie, dove il popolo conserva l'idioma, i riti religiosi e i costumi de' suoi padri albanesi.
Quivi la suocera all'entrata della casa avvolge un lungo nastro color di rosa dietro alle spalle degli sposi, e congiungendone i capi innanzi al petto, trae seco la desiderata coppia, rappresentando così uno stretto vincolo d'amore. Poscia i parenti e gli amici insieme cogli sposi stendono le mani intrecciandole a modo di corona nello spianato innanzi alla porta della casa e a suono di musiche cominciano una ridda lietissima, cantando ad un tempo in lor favella consigli e ammonimenti alla sposa, che somigliano in parte a quelli della nostra suocera delle Alpi Cozzie.
La moderna civiltà bandisce, siccome fole, dalle superbe città queste simboliche cerimonie, e riduce le feste nuziali ad un atto notarile, ed al calcolo di alcune cifre: ed io amo ancora cercarne la poesia rifuggita fra il buon popolo dei monti, ove col suo canto e le sue corone rifiorisce il patto più solenne della vita.
Fra questi pensieri giugnemmo alle pendici dell'opposta montagna meridionale al villaggio di Chianocco; e qui, a costo di[362] essere tacciato di monotono scrittore, non voglio passare sotto silenzio l'Orrido di Prabecco, detto anche di Chianocco, dal nome del villaggio, orrido non meno pittoresco di quello di Foresto.
La montagna calcarea spaccata o dal lungo lavoro del torrente che vi passa, o da qualche geologico rivolgimento, offre uno spettacolo tanto sublime, che mi sentii l'animo trasportato ora alla spelonca di Collepardo nello Stato Romano, presso la Certosa di Trisulti, ed ora al deserto del Battista nella vicinanze di Betlemme. Una voragine tenebrosa si volge a modo d'immane serpente nelle viscere della montagna, ed io, aggirandomi più volte fra lo svolazzare dei corvi, varcai il torrente che mi contendeva il passo fra le gigantesche erte rocce che, inarcandosi in sul vertice, si approssimano, quasi una forza misteriosa le portasse a congiungersi.
Colà nulla mi sorrideva, se ne levi qualche raggio di sole, che, penetrando dalle fenditure, si rifletteva nell'argentea schiuma dell'acque e ne' marmi di vario colore, i quali, luccicando, formavano una specie di mosaico nel letto del torrente. Dopo essermi di molto inoltrato, tornando sulle mie orme, all'orlo della caverna mi si affacciò un alto picco detto la Roccaforte, così appellato dall'apparenza che ha d'una grossa muraglia di castello.
Uscito dalla tenebría della spelonca, andai, per serenarmi lo spirito, nella casa del prevosto Cibrario, venerando vecchio, pastore di Chianocco. Ed egli, accoltomi con atti di squisita cortesia, mi parlò del torrente che sbocca dall'Orrido di Prabecco, e della costernazione del suo gregge, quando, nel mattino del 18 ottobre 1846, l'acque grosse devastarono lì presso il molino, ponti e case, e per una porta, or fatta da lui murare, irruppero nel santuario seco trascinando alberi e macerie d'ogni maniera, e, condottomi nella chiesa:
—Qui, sclamava con voce affannosa, qui, nella chiesa l'acqua si era levata all'altezza di un metro e mezzo, e sovr'essa galleggiavano travi e ruote del molino colle croci, e i candelabri, e gli arredi della casa del Signore.—
Così dicendo il buon pastore dai bianchi capegli, sembrava afflitto[363] come se ancora lo ferissero i lamenti del suo gregge, e l'onda sacrilega si agitasse intorno agli altari.
Domandai al prevosto se erasi preso alcun provvedimento o riparo contro alle nuove inondazioni e ai danni del torrente.
—Nulla, mi rispose reciso: quattro inondazioni sopravvennero di poi con danno gravissimo.
—Che si avrebbe a fare?
—Rompere la Roccaforte che chiude l'imboccatura del torrente, e basterebbe.—
Mi accommiatai dallo zelante prevosto augurando che il suo desiderio si adempiesse o che altro rimedio si trovasse alla salute del villaggio.
Il sole era tramontato dietro i gioghi del Cenisio, e la notte stendeva le tenebre sulle capanne di Chianocco. Lo splendore delle stelle, il lume delle lucerne dei casolari riflesso nelle invetriate, e le lampane appese nella via a divote imagini, rischiarando que' luoghi alpestri, insegnavano il cammino al mio cicerone, il dottore, che andava visitando alcuni infermi. Accompagnandolo al salutare ufficio entrammo in una casa rischiarata da insolita luce, e quivi ci si offerse una scena quale in vita mia non vidi mai.
Un gatto nero dagli occhi scintillanti miagolava fra gli arnesi della cucina, in mezzo alla quale ardeva gran fiamma sotto un paiuolo pieno d'acqua. Uomini e donne, armati di bastone, vi si affaccendavano intorno e attizzavano il fuoco. La più attempata di quelle donne, mormorando parole misteriose, gettò nel paiuolo a determinati intervalli sette piccoli chiodi, sette ramoscelli di rosmarino, sette foglie di malva con altre erbe. Mentre il paiuolo bolliva, tutta quella gente con piglio sdegnoso faceva intorno una sorta di ridda, battendo sul paiuolo con ripetuti colpi di bastone.
Il gorgoglìo dell'acqua tinta di strana mistura, le mistiche parole piene d'ira, e quel continuo aggirarsi a tondo di gente convulsa, mi ricordarono i due versi del tragico inglese nel suo Macbeth, che[364] si riferiscono alla tregenda delle streghe, e che nel ritmo originale sono maravigliosi pel suono delle voci rispondente al subbietto:
Double, double toil and trouble;
Fire, burn, and, couldron, buble.
Raddoppiate, raddoppiate fatiche e cure;
Abbrucia, o fuoco, e tu, caldaia, gorgoglia.
Mentre io abbacava per iscoprire la ragione di quel ballo infernale, il medico tornava dalla vicina cameretta, annunziando che l'ammalato era in via di guarigione. Allora i parenti ed amici dell'infermo rinnovarono i loro balli con grida di gioia ripercotendo il fumante paiuolo.
Uscito di là, chiesi al dottore che mai significasse quello strano spettacolo, che ricordava le nordiche scene delle streghe.
—Ella ha colto nel segno, mi rispose il medico: quella rustica gente attribuisce l'infermità del vecchio suo congiunto ed amico al sinistro incontro d'una povera vecchia sdentata, che si regge a stento sulle gruccie, ed è in voce di maliarda; e crede inoltre che i perniciosi effetti della malìa possano essere cacciati colle ridde, cogli scongiuri e colle battute de' bastoni, che vanno a ripercuotersi su la strega istessa. Onde quando io dissi loro che presto risanerebbe, n'esultò riferendolo non tanto alla scienza del medico, quanto alla sua arte di cacciar le malìe.
—Durano dunque tuttavia le superstizioni che tormentarono la Maddalena Rumiana? io interruppi.
—Non ne faccia tanto le maraviglie, proseguì il dottore: qui si ha pur troppo ancor fede negli incantesimi e nelle arti diaboliche; alle quali spesso il volgo attribuisce i malanni della vita. Non è gran tempo che tumultuarono questi villici, tenendo per fermo che i diavoli su queste rocce rompessero battaglia fra loro, perchè si era veduto levarsi un gran polverìo a intenebrare l'aria. Era un cedimento di monte che nello sprofondare aveva levato quel polverìo straordinario, creduto effetto di battaglia infernale. È tale fra questa gente la credenza nelle malìe, che[365] si hanno in gran conto i libri di negromanzia, coi quali pretendesi di evocare il malo spirito, interrogarlo, richiederlo di consigli e d'aiuti, ed ottenerne risposte acconce al bisogno, in ispezie per iscoprire tesori, e per mezzo di strane parole e strane erbe fra le quali è molto in credito la fuggia (in francese fougère), la felce, pianticella medicinale con foglie oblunghe, sottili e frastagliate, che s'alza a un metro e mezzo, e che dal negromante deve essere calcata a mezzanotte, al chiarore d'una lanterna, con formule determinate nei libri di magia. Oh! quante volte qui tocca al medico d'incontrarsi colle credute maliarde presso gli infermi, ai quali alcuna fiata, a dir vero, prestano rimedi salutari, accompagnandoli però sempre con istrani scongiuri. Ecco, per esempio, quali parole la maliarda del contado brontola su la risipola applicando il suo impiastro:
Se è rossa—che se strozza,
Se è bianca—che se scianca,
Se è griza—che se sfriza,
Se è neira—che se speila!
Raccapricciai che qui sulle rive della Dora, dove è accolto il fiore degli ingegni italiani, e all'ombra del vessillo tricolore cresce una nuova civiltà, possano tuttavia allignare superstizioni di tal fatta, nè si cerchi modo a diradicarle.
—In ciò molto potrebbero i preti, mi rispose il medico.
—E i medici non potrebbero nulla?
Il medico tacque.
Ed eccovi, miei cortesi lettori, un bel mattino e una trista sera. In Bussoleno fui lieto di apprendere imitabili costumanze che abbelliscono le feste nuziali delle campagne, e meglio dei profumati nostri epitalamii insegnano il governo della famiglia;[366] e in Chianocco dolorai vedendo il villaggio in balìa d'un torrente, e il popolo in balìa della superstizione, torrente ben peggiore dell'altro.
San-Giorio.
Ad un miglio da Bussoleno, sulla riva destra del nostro fiume, s'incontra San-Giorio, paese che da mezzogiorno a ponente si distende a piè d'una giogaia da cui sorgono malinconiche le solitarie rovine d'un castello feudale. L'edera si va abbarbicando fra le fenditure delle grosse muraglie cadenti e per le vuote pareti della quadrangolare chiesuola, e intorno alla rotonda torre merlata che sovrasta gigantesca. Dal mezzo della torre guardava a tramontana una loggia, come accenna attiguo ad una porta il lungo trave sporgente. Da quell'alta loggia, lo attesta costante tradizione, venivano precipitati giù per l'erta scogliera perpendicolare, nuova rupe tarpea, i dannati all'ultimo supplicio, e percotendo nei sottoposti ignudi scogli, tingevano del loro sangue le chiare acque della Dora, che bagna le falde alla orrida rupe del castello.
Confortiamo lo sguardo nella distesa dei monti che a tramontana, sul lido sinistro del fiume, a modo di anfiteatro, s'inarcano dal bianco campanile di Foresto alla bruna torre di San Didero (Desiderio).
Nella stagione primaverile la vaga famiglia degli augelli, e la rosa e il gelsomino, e i candidi fiorellini del mandorlo e del pero, i purpurei del persico e i bianco-rossi del melo e le infinite qualità di erbe aromatiche fra il verde del castagno, del rovere, del salice e del pioppo, e fra le ghirlande de' pampini spandono ineffabile gaiezza intorno alle capanne dì Chianocco e sul turrito castello di Bruzzolo, memorabile pel trattato quivi sottoscritto nel 1610 da Enrico IV di Francia con Carlo Emanuele di Savoia; e fra i molti casolari, che sparsi in ogni parte della cerchia alpestre,[367] coronati di verzura, sembrano appesi ai ciglioni della montagna, e in mezzo a tanta esultanza della commossa natura, le Alpi Cozzie nel canto dei pastori e dei coloni intonano a Cristo l'inno della risurrezione e dell'amore universo.
Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena
E i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e pianger Filomena,
E primavera candida e vermiglia.
Con questi soavissimi versi del Petrarca salutiamo il 23 aprile, giorno festivo a San Giorgio, da cui con voce corrotta si appella forse il paese; comechè altri ne voglia trarre la denominazione da un Giorio, martire della legione Tebea.
Squillano le campane della chiesa parrocchiale e suonano le musiche nelle vie stipate di popolo. Le quattordici borgate di San-Giorio oggi riposano dai lavori campestri, e i loro abitanti dalle balze meridionali sono discesi in gran folla a far baldoria con quei di Bussoleno, di Villarfocchiardo e di altri circostanti paesi, mentre su le spalle di quattro divoti, fra i canti e le fiaccole dei sacerdoti viene portata in processione una statua di legno, che rappresenta San Giorgio a cavallo, il santo patrono della cavalleria, splendido la testa di piumato cimiero e il petto di aurea corazza, col brando nella destra. Ma quello che attira la moltitudine de' curiosi non è tanto la processione di San Giorgio, quanto lo spettacolo degli spadeggiatori, che, chiuso il capo in un elmo adorno di piume e di nastri, la accompagnano, brandendo enormi spadoni e indossando una strana assisa, con cui pare vogliano imitare le fogge guerresche usate nelle età di mezzo. Io non li saprei descrivere meglio di quello che facesse Norberto Rosa nel 1843[17].
«Gli spadeggiatori non camminano mai passo passo, ma a[368] salti a salti l'un dopo l'altro, o a due a due: fatti due salti in avanti, il primo spadeggiatore si volge indietro, batte la lama della sua lunga spada contro quella del compagno che gli vien dietro, e poi torna a far due passi, e poi torna a toccar la spada, e via via. Quando la brigata e la processione si ferma, gli spadeggiatori si fermano anch'essi, ma in una posizione guerriera, cioè colla mano sinistra sul fianco, colla destra orizzontalmente distesa, tenendo impugnato il manico dello spadone, la cui punta va ad appoggiarsi in terra. Le figure poi, i giuochi, i salti, le parate, le contorsioni, le smorfie somme che questi strani visacci fanno, sono infinite. Ora si abbassano tutti due, o tutti quattro, o tutti otto quasi a terra, tenendo i rispettivi spadoni a due mani, quasi che vogliano forbirne la lama nel suolo. Ora gettano gli spadoni in aria capovolti e li riprendono con assai maestria pel manico. Ora si cambiano in aria i rispettivi spadoni, gittandoseli l'un l'altro a non poca distanza».
In tali guise armeggiando e danzando bizzarramente gli spadeggiatori accompagnano la processione. Il più bello della bizzarra mostra segue sul prato Paravì. Quivi fra il popolo accorrente rappresentano una scena di rivolta contro il loro duce. Egli si difende dai nemici colla destrezza del suo brando, ma solo non può resistere a lungo contro i molti, nei quali pari alla forza è l'ira. Gli è necessità fuggire. Inutile fuga! I ribelli lo inseguono, lo assalgono, e, prostratolo a colpi di spada e con spari di pistola, lo finiscono.
Vittoriosi si guardano l'un l'altro, quasi interrogandosi: cauti s'accostano, origliando, al vinto duca, e fatti certi che più non respira, copertolo di erba sel portano via.
Quindi acclamano un altro signore; e il nuovo duce adorno di purpuree seriche insegne, con lungo cappello guernito di penne nere di struzzo, è onorato da' suoi guerrieri e presentato di fiori[369] da tre avvenenti donne. Gli viene pure offerta la tazza delle feste, che spumeggia di vino, ed egli beve esultante, e getta la tazza che ad altri più non deve servire. Eccolo portato su le spalle dei suoi prodi, colla mano sinistra alla cintola, e due alabarde incrociate strette nella destra, percorre trionfante il paese fra le musiche e le acclamazioni del popolo.
Sono grotteschi, a dir vero, questi simulacri di antiche lotte.
Un tempo gli spadeggiatori di Val di Susa uscivano nei giorni solenni da diversi paesi ad accompagnare le feste religiose e civili; ma da qualche anno que' di Giaglione, di Venaus e di Chiomonte hanno deposto l'elmo e la serica sopravvesta, e gettato lo spadone fra i vani arnesi delle loro terre. Ultimi e soli rimasero gli spadeggiatori di San-Giorio; e ben era loro debito tener vivo un tal costume nelle Alpi Cozzie, per onorare il santo patrono della cavalleria; imperocchè vogliono alcuni che la loro origine si abbia a cercare tra i gladiatori romani, o tra gli ordini dell'antica cavalleria; altri ne cercano l'origine tra i martiri della legione tebea, ed altri, assegnando loro un'origine meno gloriosa, li credono reliquie de' tanti mimi e buffoni che trastullavano i tirannelli.
In tanta discrepanza di opinioni interrogai il degno prevosto di San-Giorio, G. B. Pettignani, che mai significasse la strana scena testè rappresentata nel prato Paravì; e presso la torre quadrangolare che fiancheggia la sua casa, innanzi alla gemebonda fontana che gl'irriga il pensile giardino, egli gentilmente così mi rispose:
—Probabilmente è una di quelle tante scene del medio evo, in cui, come a Cesana e ad Ivrea, il popolo si sbarazza del suo oppressore.
—Appunto così e non altrimenti, sclamò l'egregio avv. Gianone di Bussoleno, che mi era compagno. Appunto così, e non altrimenti si ha da interpretare, come nella festa del Barro, da[370] due anni, con dispiacere di molti, cessata nel mio paese. Colà nel pomeriggio del giorno di Pasqua, nella sala del Comune, convenivano i membri del Consiglio, a ciascuno dei quali era consegnato un grosso fuso, nelle due estremità munito di punte di ferro. Quindi fra le musiche, e con gran seguito di popolo, si andava nel prato del Barro, dove, sorteggiati que' consiglieri, partivansi in due campi, e, fissato il segno del bersaglio, giocavano a chi meglio vi colpiva, e i vinti pagavano le spese del convito alla festante brigata.
La festa dei fusi ricorda una magnanima nostra popolana, che, tentata da lascivo feudatario, vuolsi che in petto gli abbia confitto il fuso ad arte ferrato, e tolta così di pericolo la sua onestà, e liberata da un tiranno la nostra patria. E il nome Barro ricorda un benemerito Bussolenese, che per testamento legava al Comune la proprietà d'un suo prato, a condizione che ogni anno vi si facesse il giuoco dei fusi, che in segno di riconoscenza verso il gentil donatore, assunse il nome di giuoco del Barro. Bell'esempio di giustizia e di virtù cittadina!
Le strade ferrate e il telegrafo confondono a poco a poco in una famiglia le stirpi diverse, e quella multiforme poesia che nasceva dalla varietà dei caratteri, delle leggi, degli usi e dei costumi, si va grado grado armonizzando nel duplice canto dell'uguaglianza e dell'industria. Noi salutiamo gli acquisti della civiltà; però vorremmo eziandio conservati certi usi e certe feste, così religiose come civili, che, ricordando le virtù degli avi, stimolano i nipoti ad emularle. Ci piacciono pertanto gli spadoni di San Giorio e i fusi del Barro (come in Bussoleno l'avvocato Rivetti con molta cortesia me li mostrò nella sala del Comune), perchè attestano che il popolo delle Alpi Cozzie fu in ogni tempo belligero ed amico a libertà, e che seppe mai sempre meritarsi il titolo di guardiano delle porte d'Italia.
Il Sasso d'Orlando e la Grotta di San Valeriano.
Dagli spadeggiatori di San-Giorio ai cavalieri erranti di messer Lodovico Ariosto è facile il passo.
Alla destra della Dora, fra Villarfocchiardo e Borgone, a pochi passi dall'antica strada reale, mi venne mostrato un sasso che, secondo una falsa tradizione, sarebbe quello che il disperato Orlando spaccò colla sua famosa Durindana, quando vi lesse incisi i nomi di Angelica e di Medoro e le parole che facean fede dei loro beati amori.
Dico, secondo una falsa tradizione; imperocchè al di là delle Alpi è il teatro immaginato dall'Ariosto, in cui vien descritta la grotta,
Dove Medoro insculse l'epigramma,
(Ariosto)
che trasse il geloso nipote di Carlomagno ad atti inauditi di disperazione; senzachè i dintorni di Villarfocchiardo, sebben lieti di acque e di selve, non corrispondono agli incantevoli luoghi, ritratti con poetici colori dall'Ariosto.
Il sasso mostratomi presso il ponte della Giaconera sorge a fior di terra, è lungo circa tre metri, ma non vi si vede fenditura di sorta, sibbene un'incanalatura condotta a colpi di scarpello. Certo è però che la cascina, innanzi alla quale è il sasso, si chiama anche oggidì la cascina Rolando, che suona a un dipresso Rutlando, il vero nome del Duca d'Anglante, mutato dagl'Italiani in quello di Orlando per maggior dolcezza di suono.
Un altro particolare diè vigore alla falsa tradizione. Nella cascina Rolando, antico rustico edifizio con due finestre di stile gotico e con merli anneriti dal tempo, a cavaliere della porta[372] d'ingresso, era dipinta sulla facciata una Madonna, e in diverse parti lo stemma gentilizio della famiglia Carroccio Fiocchetto, che teneva il feudo di Villarfocchiardo. Inoltre si vedeva figurato un guerriero a cavallo con elmo piumato in testa, ed armato la destra di lunga spada. Forse in quel guerriero si è voluto rappresentare San Giorgio o San Martino, ma il volgo credette ravvisarvi il furioso Orlando. Il tempo e le piogge hanno pressochè cancellato l'affresco della Madonna, e soltanto rispettarono qualche testa, qualche zampa dei leoni dello stemma gentilizio; e del sognato Orlando sono rimaste solo le piume del cimiero e la punta di Durindana.
Checchè ne sia, il sasso d'Orlando in Val di Susa venne ricordato eziandio da scrittori stranieri. Ne parla il Valéry nell'opera Curiosités et anecdotes italiennes, e porta a testimonianza il Lalande, che «raconte avoir ouï dire qu'à trois lieues de Suse on voyait une figure de Roland, et que l'on y montrait une pierre énorme fendue par lui d'un coup de son épée, suivant la tradition du pays».
Io, guardando la parete merlata del podere, mi assisi nello spianato erboso, innanzi l'antico edifizio, sullo spaccato sasso di Orlando. Un contadino, che mi ci scorse, additommi su la rustica muraglia lo sbiadito guerriero:
—Quello è Orlando, mi disse.
E accennando dove io sedeva:
—Questo è il sasso spaccato da Orlando Furioso.
Alle parole del colono, meglio che alla lezione d'un retore, io mi sentii spirare d'intorno un'aria piena di romanzesca poesia; imperocchè dalla leggenda del villano traluceva una cara pagina dell'Ariosto, trasportata sulle rive della nostra Dora e vivificata negli affetti del buon popolo alpigiano, che intorno a quel sasso e innanzi alle reliquie di quel dipinto ricorda le corse vittoriose fatte in Val di Susa da Carlomagno e da' suoi paladini.
Al mormorìo delle limpide acque della Dora, e in cospetto alle folte selve che colà ammantano i circostanti piani e le pendici, io immaginava una spelonca presso il sasso famoso, e deliziandomi[373] in tali immagini, ripeteva con l'Ariosto le soavi parole di Medoro[18]:
Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
Spelonca opaca e di fredde ombre grata,
. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
Io povero Medor ricompensarvi
D'altro non posso, che d'ogni or lodarvi;
E di pregare ogni signore amante,
E cavalieri e damigelle, e ognuna
Persona, o paesana e vïandante,
Che qui sua volontà meni o fortuna;
Ch'all'erbe, all'ombra, all'antro, al rio, alle piante
Dica: Benigno abbiate e sole e luna,
E de le Ninfe il coro, che provveggia
Che non conduca a voi pastor mai greggia.
Mentre io m'inebbriava negli estri d'Ariosto, e mi vedeva innanzi Orlando investito dalle furie della gelosia, ecco all'improvviso avanzarsi a cavallo, e con grande celerità, un giovane animoso, scintillante negli occhi neri. Era il dottore Rumiano, mio conoscente, che in atto amichevole veniva a stendermi la destra, e, sapendo i miei desiderii, profferivasi di guidarmi sulla riva sinistra del fiume ad una grotta memorabile, un tempo abitata da un santo, onde si è diffusa nel popolo una pia tradizione.
Accettai di buon grado l'invito. Salutammo Villarfocchiardo, i suoi annosi castagni e le reliquie dì due antichi monasteri benedettini; e quindi varcammo la Dora sul ponte della Giaconera, bellissimo ponte in pietra a tre archi, che illustra il regno di Carlo Alberto, e costò poco meno d'un milione di franchi e l'opera di sei[374] anni. Al di là del ponte toccammo Borgone, dove a piè d'ignudo poggio coronato da solitaria torre mi fu additata l'allegra villa di Enrico Montabone, ricco uomo, la cui più preziosa gemma è la bella e colta sua consorte.
Traversato il paese, lieto di vigneti, costeggiammo a levante la montagna di Frassinere, passammo presso il ponte della strada ferrata, gettato in linea diagonale sulla Dora, e torcendo a sinistra, giungemmo a San-Valeriano, piccola borgata, frazione del paese di Borgone, addossata alle rocce cavernose di Pietraculera. Quivi entrammo nella chiesuola di San Valeriano, da cui si denomina il divoto villaggio, e penetrammo a sinistra in un disadorno antico oratorio, al cui fianco apresi nella montagna la grotta ove si ricoverò e morì San Valeriano.
Attigua allo speco v'ha una piccola finestra d'onde i divoti possono sporgere il capo ed osservarlo. In quel dì una povera donna del villaggio, non ha guari campata da una grave infermità per le assidue cure del Dottor Rumiano, inginocchiata, dalla finestruola sporgeva le congiunte mani, intrecciate fra le deche di un rosario, e mormorava preghiere.
Il dottor Rumiano, al vederla:
—Eccovi, mi disse, chi meglio di me potrà narrare i prodigi di San Valeriano, e come riparasse in questa grotta.
—Oh! ben volentieri, signor dottore, rispose la pia donna: poichè, come più volte le ho detto, io deggio al patrocinio di questo Santo le tante sue cure nella mia infermità, e il poter sostenere insieme colla povertà i continui disastri della vita.—
Ed entrata nell'oratorio, andò a prostrarsi innanzi alla grotta, e baciato con riverenza il sasso, così riprese:
—Io narrerò del Santo quello che nelle lunghe serate d'inverno, presso al focolare, sino dall'infanzia udii spesso ripetere dalla mia vecchia nonna.
Valeriano, Tiburzio, Ignazio, Pancrazio, Maurizio, Giorio e Giacomo erano sette fratelli addetti alla legione Tebea, ed avevano una sorella per nome Cecilia, fatta cristiana prima di loro. Valeriano, persuaso dalle buone opere e dai consigli della sorella,[375] si convertì anch'egli alla fede cristiana, e pertanto fu, dappertutto ove andasse, perseguitato dagl'infedeli. Si ricoverò fra Giaveno e Pinerolo ne' monti di Cumiana, ma anche là fu dai nemici investito; ond'egli spiccato un salto da un masso, potè sfuggire ai suoi persecutori e trovar rifugio sicuro qui lungo la Dora, e propriamente in questa grotta dove santamente morì.
A Cumiana un sasso tuttavia serba l'impronta d'un ginocchio del nostro Santo, la chiesa di Villarfocchiardo ne possiede il cadavere, e fra noi si ha una sua reliquia, donataci dal Vescovo di Susa, cara memoria che abbiamo sempre nel cuore e nelle preghiere, che festeggiamo ogni anno il dì 14 aprile.—
Così parlava e così credeva la pia donna, e le sue parole e la sua fede mi toccavano il cuore.
Eccovi, miei lettori, a sei miglia da Susa, su le due rive della Dora, due leggende, cavalleresca l'una, religiosa l'altra, frutto ambedue della storia di que' popoli. Imperocchè le leggende sono un elemento storico ampliato, e talvolta travisato dalla immaginazione delle moltitudini.
I dominatori stranieri che in diverse età irruppero dalle Alpi colle barbare armi, facendo violenza alle porte d'Italia, e singolarmente Carlomagno col seguito lungo de' suoi paladini, il feudalismo, che di torri e di merli cerchiò le cime de' monti, e i martiri della legione Tebea, e i ricchi monisteri, e i potenti abati, e ferocie di guerra e carità di religione lasciarono forti ricordanze nelle menti dì questi popoli, per cui ne sorse in Val di Susa gran numero di leggende cavalleresche e religiose, che porgerebbero abbondante materia di studio all'erudito filosofo.
Tale non è il mio assunto: io sono umile espositore dì memorie che traggo ora dalla storia ed ora dalla tradizione, e spesso dallo spettacolo della natura e dalla imitazione che ne fa l'arte; e appoggiato all'adunco bastone che mi donò un arcade pastore fra le[376] rovine di Messene, seguito il mio cammino, come il cielo m'inspira, meditando e scrivendo.
Sant'Antonino.
Da San Valeriano per ampia via carrozzabile, ombreggiata da piramidali pioppi, e su d'un ponte di legno varcata la Dora, fui guidato al paese di Sant'Antonino, e quivi domandai se nulla vi fosse di nuovo.
—Di veramente nuovo, mi fu risposto, abbiamo il prevosto Agostino Belmondo, accolto ora con feste popolari. Annessa alla prepositura v'ha la pingue rendita di cinque mila franchi, che il neo-prevosto saprà usare piamente, perchè evangelico pastore lo annunziano la fama e i versi del bravo sacerdote D. Picco.
Visitai il paese benedetto dal nuovo prevosto. Una volta l'aria vi era insalubre, e le pallide febbri vi avevano stanza perenne. Ora non più, perchè il municipio, non perdonando a spesa, costrusse canali per dar libero corso alle acque stagnanti, e ridusse a coltura campi paludosi, provvide il paese di buone acque, derivandole dai monti adiacenti, ed aperse vie comode, che mettono alle campagne ed ai vicini villaggi.
Da questi provvedimenti emerse una vita novella; crebbero il lavoro e il guadagno, sorsero abitazioni di ornata architettura, e il popolo si mostra gagliardo e fiorente di salute, e il farmacista Casasco, che spesso richiesto era di rimedi a domare le ostinate febbri, ora trova tempo a coltivare e distillare la menta piperita, molto pregiata nella valle e fuori.
Condove.
Come Sant'Antonino divenne allegro ed agiato provvedendo alla[377] pubblica salute, così il vicino paese di Condove, a sinistra della Dora, crebbe in prosperità col suo mercato del mercoledì, il più frequente di commercio in Val dì Susa.
Una volta i montanari dalle ville circostanti, colle loro patate, i latticini, la segale, le castagne e frutta e derrate di ogni specie, scendevano la sera del mercoledì in Condove per avviarsi nel giorno seguente di buon mattino al florido mercato di Avigliana. La sera, ragionando quivi delle loro faccende, iniziavano e talvolta terminavano i loro negozi, onde a poco a poco si conobbe che il mercato aviglianese del giovedì si faceva per buona parte nella sera antecedente in Condove. Pertanto venne quivi sancito il mercato di mercoledì, al quale aggiunse eziandio importanza la via nuova che dalla strada provinciale mette al paese.
Un sereno mercoledì d'autunno mi aggirai sotto i portici e per le vie liete di commercio e stipate di popolo che danno manifesto indizio della nuova vita di Condove. Passai fra panieri di patate e di castagne, e sacchi di segale addossati l'uno all'altro, fra alte pertiche uncinate, da cui pendevano nastri di ogni colore, fra tavolati carichi di tele e di sete sotto tende sorrette da pali, e in mezzo all'affaccendarsi di chi va e di chi viene, di chi vende e di chi compera, incontrai, presso una fontana, su d'un carro, un nuovo Dulcamara, un uomo di strane sembianze, che, schiamazzando con rauca voce, traea intorno a sè la moltitudine e raccomandava i suoi cerotti, i suoi rimedi per tutti i malanni del mondo; e frattanto sul vicino prato, a pochi passi dalla chiesetta del cimitero, un povero cieco cantava i miracoli d'una Madonna e vendeva pie canzoncine. Così ciascuno spacciava la sua merce nel mercato di Condove, ed io scriveva la mia pagina.
Stanco di urti e di schiamazzi, a tramontana del paese salii il poggio di Molaretto (che non va confuso con quello del Moncenisio) e quivi dalla casa del capitano Perodo, che mi è stato assai cortese, ho goduto d'incantevole vista. Fertili e vasti piani, e monti verdeggianti di vigneti e di selve mi stavano d'intorno, e a ponente le giogaie delle Alpi nell'estremo orizzonte biancheggiavano di nevi. Il monte che attirava maggiormente il mio sguardo era a[378] sud-est, il Pirchiriano. Su la cima v'ha la Sagra di San Michele, alle falde le Chiuse de' Longobardi. Quante memorie di religione e di guerra si accolgono intorno a quel monte, aspro a chi lo guarda, sublime a chi lo medita!
Le Chiuse.
Nella storia delle armi trovansi registrati luoghi che divennero famosi, perchè ivi si decisero le sorti di molte e lunghe generazioni. Fra questi è segnalato il villaggio di Chiusa alle falde occidentali del Pirchiriano, sorto dalle Clusæ Longobardorum, fra gl'Italiani non men famoso di Corfinio e di Canne, di Marengo e di Novara. L'avvenimento associato al nome del villaggio è il più grande che illustri Val di Susa, e basterebbe ad illustrare qualunque provincia.
Non mi facciano il broncio i Susini additandomi il loro arco ad Augusto; conciossiachè quel monumento non ricordi che l'accorgimento d'un prefetto, il quale per guadagnarsi l'amicizia del padrone, gli innalzò la marmorea mole col danaro delle città a lui soggette: et civitates, quæ sub eo Præfecto fuere. Laddove l'umile villaggio di Chiusa è l'arena in cui si contesero il dominio d'Italia due superbi conquistatori, che, sebbene l'uno più dell'altro infesti al bel nome latino, diedero vita a solenni ordinamenti, dopo un millennio non del tutto estinti.
I Longobardi, questi barbari dalle lunghe barbe e dalle lunghe labarde, condotti dal feroce Alboino, insignoritisi di molta parte d'Italia, ebbero a lottare colla potenza de' papi e per essa caddero. Ariani dapprima, furono ostili ai papi. Divenuti cattolici nel florido regno di Teodolinda e di Agilulfo, dopo qualche tempo di pace, tornarono ad aperte ostilità contro i papi, che invocarono[379] l'aiuto de' Franchi, i quali due volte capitanati da Pipino valicarono il Moncenisio, superarono le Chiuse, e vittoriosi in Pavia imposero tributi ai Longobardi e l'obbligo di restituire le conquiste fatte sopra la Chiesa. Accettarono i vinti le condizioni della pace; ma Desiderio, ultimo dei re longobardi, associatosi al regno il figlio Adelchi o Adelgiso, non le attenne; anzi corse coll'armi le città papali. Carlomagno, il figlio di Pipino, invocato da Roma, con poderoso esercito per le note vie del Cenisio e della Novalesa si fece alle Chiuse, che afforzate di torri e di muraglie dal Pirchiriano al Caprasio, serravano lo sbocco della valle. Caduto di animo, già stava per rivalicare le Alpi, quando, secondo strane leggende, un giullare lombardo, e secondo il racconto della Cronaca Novaliciense, confermatoci da prezioso documento conservato in Cremona[19], un tal Martino, diacono di Ravenna, per reconditi cammini giunto al campo della Novalesa, insegnò a Carlomagno la via ch'egli tenne; per la quale una schiera di Franchi potè sorprendere i Longobardi alle spalle, in tanto che il grosso dell'esercito fra lo scompiglio e la paura li vinceva facilmente alle Chiuse. Importante vittoria, che diede ai Franchi le chiavi d'Italia, e una ingerenza, non cessata per anco, nelle faccende dei pontefici romani, coll'assicurarne le conquiste ed accrescerne l'autorità.
Questa luttuosa catastrofe suggerì ad Alessandro Manzoni due lavori, tesori di patria letteratura, la tragedia l'Adelchi, e il discorso (Della storia longobardica in Italia) che l'accompagna; tale, diremo volentieri con Tommaseo, che di per sè basta alla fama d'un nome.
Visitando le Chiuse e i dintorni, ne ammirai la fedele dipintura nelle pagine del Manzoni, non altrimenti che in Grecia, consultando l'Odissea di Omero, io riscontrava l'antico porto d'Itaca, dove al suo ritorno in patria approdava Ulisse, e la misteriosa grotta dalle due porte, nella quale egli deponeva i ricchi doni avuti nella reggia dei Feaci.
Il Manzoni, ponderate le particolarità della cronaca Novaliciense, e studiati i documenti e le opinioni che di quel fatto scrittori diversi ci tramandarono, erudito e filosofo del pari, si mostrò conoscitore peritissimo de' tempi e de' luoghi, quasi che si fosse egli trovato al di là delle Alpi e nella Novalesa ai consigli dei re Franchi, ed a quelli del Longobardo nella reggia di Pavia, o che il suo fatidico spirito aleggiasse nelle pianure lombarde e sui monti cozzii allo scontro dei due tremendi nemici.
I gioghi e i valloni, i torrenti e le ghiacciaie, e le leggende del Rocciamelone, alle cui falde sorgevano le tende dei Franchi, tutto è con vivi colori espresso dal nostro poeta nelle parole del diacono Martino a Carlomagno, quando nella Novalesa gli narra come egli giunto presso le Chiuse abbia saputo schivare i vigili[381] Longobardi, e torcendo a settentrione per ardui e reconditi cammini, condursi al suo campo. Uditelo. Nella nostra Italia dove si odono sempre con piacere ripetere le melodie del Rossini e del Bellini, con pari diletto ed ammirazione si udrà alle Chiuse ripetuta una delle più stupende pagine della poesia Manzoniana. Il monaco Martino interrogato da re Carlo come a lui fosse nota la via, e come al nemico ascosa, risponde:
Dio gli acciecò, Dio mi guidò. Dal campo
Inosservato uscii; l'orme ripresi
Poco innanzi calcate; indi alla destra
Piegai verso Aquilone, e abbandonando
I battuti sentieri, in un'angusta
Oscura valle m'internai: ma quanto
Più il passo procedea, tanto allo sguardo
Più spazïosa ella si fea. Qui scorsi
Greggie erranti e tuguri: era codesta
L'ultima stanza de' mortali: entrai
Presso un pastor, chiesi l'ospizio, e sovra
Lanose pelli riposai la notte.
Sorto all'aurora, al buon pastor la via
Addimandai di Francia.—Oltre quei monti
Sono altri monti, ei disse, ed altri ancora,
E lontano lontan Francia; ma via
Non avvi: e mille son quei monti, e tutti
Erti, nudi, tremendi, inabitati
Se non da spirti, ed uom mortai giammai
Non li varcò.—Le vie di Dio son molte,
Più assai di quelle del mortal, risposi;
E Dio mi manda.—E Dio ti scorga, ei disse:
Indi tra i pani che teneva in serbo
Tanti pigliò di quanti un pellegrino
Puote andar carco: e in rude sacco avvolti
Ne gravò le mie spalle: il guiderdone
Io gli pregai dal Cielo; e in via mi posi.
Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,
E in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla
Traccia d'uomo apparia; solo foreste
D'intatti abeti, ignoti fiumi, e valli
[382]Senza sentier: tutto tacea; null'altro
Che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora
Lo scrosciar dei torrenti, o l'improvviso
Strider del falco, o l'aquila dall'erto
Nido spiccata in sul mattin, rombando
Passar sovra il mio capo, o sul meriggio,
Tocchi dal sole, crepitar del pino
Silvestre i coni. Andai così tre giorni;
E sotto l'alte piante, o nei burroni
Posai tre notti. Era mia guida il sole;
Io sorgeva con esso e il suo viaggio
Seguìa, rivolto al suo tramonto. Incerto
Pur del cammino io gia, di valle in valle
Trapassando mai sempre; o se talvolta
D'accessibil pendìo sorgermi innanzi
Vedeva un giogo, e n'attingea la cima,
Altre più eccelse cime, innanzi, intorno
Sovrastavanmi ancora; altre di neve
Da sommo ad imo biancheggianti, e quasi
Ripidi, acuti padiglioni al suolo
Confitti; altre ferrigne, erette a guisa
Di mura insuperabili.—Cadeva
Il terzo sol quando un gran monte io scersi,
Che sovra gli altri ergea la fronte; ed era
Tutto una verde china; e la sua vetta
Coronata di piante. A quella parte
Tosto il passo io rivolsi.—Era la costa
Orïentale di quel monte istesso,
A cui di contro al sol cadente, il tuo
Campo s'appoggia, o sire.—In su le falde
Mi colsero le tenebre: le secche
Lubriche spoglie degli abeti, ond'era
Il suol gremito, mi fur letto, e sponda
Gli antichissimi tronchi. Una ridente
Speranza, all'alba, risvegliommi, e pieno
Di novello vigor la costa ascesi.
Appena il sommo ne toccai, l'orecchio
Mi percosse un ronzìo che di lontano
Parea venir, cupo, incessante: io stetti,
Ed immoto ascoltai. Non eran l'acque
Rotte fra i sassi in giù; non era il vento
[383]Che investìa le foreste, e sibilando,
D'una in altra scorrea; ma veramente
Un rumor di viventi, un indistinto
Suon di favelle e d'opre e di pedate
Brulicanti da lungi, un agitarsi
D'uomini immenso. Il cor balzommi: e il passo
Accelerai. Su questa, o re, che a noi
Sembra di qui lunga ed acuta cima
Fendere il ciel, quasi affilata scure,
Giace un'ampia pianura, e d'erbe è folta
Non mai calcate in pria. Presi di quella
Il più breve tragitto: ad ogni istante
Si fea il rumor più presso: divorai
L'estrema via; giunsi sull'orlo, il guardo
Lanciai giù nella valle, e vidi... oh! vidi
Le tende d'Israëllo, i sospirati
Padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,
Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.
Tutto qui è evidenza, tutto verità, se ne levi la corona di piante che il poeta nella foga delle immagini diede alle brulle cime del Rocciamelone, dove è muta ogni vegetazione, nè può tronco d'albero, nè filo d'erba germinare.
Carlomagno seguiva i consigli del diacono Martino, per la via da lui calcata mandando un manipolo de' suoi prodi, e secondo Cesare Balbo[20] metteva una schiera per le gole laterali e non guardate di Giaveno (cioè nella parte più meridionale della valle) intorno al Pirchiriano, e così prendeva alle spalle i Longobardi.
Non mi sembra però probabile che i Franchi tenendo la via del diacono, potessero fare il cammino segnato dal Balbo; imperocchè le gole laterali di Giaveno erano le note vie de' Franchi, calcate due volte da Pipino, in ogni dove dai Longobardi affortificate e vigilate; oltrechè Martino, movendo di là per recarsi alla Novalesa,[384] avrebbe facilmente incontrato i Franchi, e avuta certa notizia dei regali attendamenti senza travagliarsi per diversi giorni in dubbi e difficili cammini.
Manzoni mi è sembrato più accorto del Balbo segnando il viaggio del diacono Ravennate, nelle balze settentrionali per le valli di Lemmie e di Usseglio, ignote ai Franchi, non abbastanza vegliate dai Longobardi. La valle di Usseglio guida al colle della Croce di Ferro, pel quale con tragitto non lungo a pie' del giogo nevoso del Rocciamelone si giunge alla Novalesa. Di colà scesa una parte dei guerrieri di Carlo Magno, mentre l'altra superava le Chiuse, potè andare ad accamparsi in Giaveno contro i guerrieri del fuggente Desiderio.
Ciò non pertanto il Manzoni con singolare modestia, dubitando della verace via tenuta dai Franchi, nel suo discorso avverte argutamente:
«Forse una visita ai luoghi potrebbe condurre ad una scoperta più concludente. Sarebbe da desiderarsi che alcuno di coloro che si divertono a tribolar il prossimo, e dei quali il mondo non ha mai avuto difetto, pigliasse a cuore questa scoperta; e lasciando per essa le sue solite occupazioni, si portasse sul luogo, ed indugiasse ivi molto tempo in una tale ricerca».
Io non ho mai posto fra miei divertimenti quello di tribolare il prossimo; tuttavia mi compiacqui di visitare le Chiuse e i dintorni col fido Norberto Rosa e col suo degno amico Giambattista Rocci, notaio e poeta, il Tommaso Grossi di Val di Susa, saggio ed operoso cittadino. Nato Rocci nel villaggio di Chiusa, era l'uomo più atto ad accompagnarmi in que' luoghi e giovarmi di consiglio.
Nota il Manzoni che ai tempi del cronografo della Novalesa sussistevano ancora i fondamenti delle Chiuse:
. . . . . . . Dell'arduo muro
Che Val di Susa chiude e dalla Franca
La Longobarda signoria divide.
Ed io aggiungerò che anche oggidì sussistono, e che li ho percorsi dal Pirchiriano al Caprasio. Furono discoperti parte nel costruirsi la strada ferrata e parte dai contadini nel dissodare la terra. Soltanto non appariscono tracce ai pie' del Caprasio, forse nascoste da materiali sovrapposti nell'innalzamento che a più riprese si fece di quel suolo divallato. A pochi passi dal villaggio di Chiusa, il comune addossò alla montagna una grossa muraglia sopra quella de' Longobardi, per far argine agli straripamenti del torrente detto il Rio; e lo spazio d'un miglio circa di lunghezza, che separa i due opposti monti Pirchiriano e Caprasio, dai naturali del luogo viene per antonomasia appellato Le Mura, certo per ricordanza dell'arduo muro longobardo. Così mi affermarono abitanti del Pirchiriano di ciò richiesti, e per ultimo su la riva sinistra della Dora interrogai un contadino; ed egli pure rilevando il capo fra le pannocchie del suo campicello, e colla destra callosa accennando al dosso rossiccio del monte Caprasio ed alle tracce poco distanti delle antiche Chiuse:
—Questi luoghi si chiamano le Mura, mi rispose.
Ed io esultante al pari di Châteaubriand, quando lunghesso l'Eurota spronava il suo cavallo fra i discoperti ruderi di Sparta, guardava le macerie dell'arduo muro non per anco avvertite dai moderni itinerarii, razza oziosa di libri che ripete e non aggiunge; e varcando la Dora su d'un ponte di legno, tra il fracasso delle acque scorrenti, mi parve col Manzoni di udire il vincente Carlomagno che tonasse:
. . . . . . .Terra d'Italia, io pianto
Nel tuo sen questa lancia, e ti conquisto.
A breve distanza dal Monte Caprasio, presso Chiavrie, si vedono le rovine del quadrangolare castello del Conte Verde. Seduto innanzi alle sue merlate mura meditai nelle pagine del Manzoni il ferale avvenimento delle Chiuse e le contrarie sentenze[386] degli scrittori. Alcuni, fra i quali il Giannone, opinarono essere stata una calamità per l'Italia la sconfitta de' Longobardi, i quali a noi mescolati per consuetudine di vita, e ingentiliti nei costumi nostri, sbarazzatisi de' Greci, avrebbero alla fin fine ricomposte le disgregate parti della penisola in una potente nazione. Altri, per contro, danno lode a papa Adriano I, che richiamò i Franchi, perchè,
....Quando il dente longobardo morse
La santa Chiesa, sotto alle sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse[21],
e inoltre perchè colla venuta de' Franchi, come asserisce il Manzoni, i Romani ottennero per mezzo de' papi uno stato che li guarentiva dalle invasioni barbariche, e fu un insigne benefizio.
Esaminando le contrarie opinioni, io vedeva nel Discorso del Manzoni, direi quasi, connaturate le anime del Muratori e del Vico, dei quali egli ci dà il più stupendo ritratto che desiderar si possa: e nella tragedia, come ravvisiamo lo stesso cantore dell'Eneide nel pius Æneas, così nel personaggio dell'Adelchi io riveriva la pia e generosa anima dell'autore, che si riconosce in tutte le sue opere, e la riscontrai nella venerata sua persona, allorchè in compagnia del mio dolce amico ed illustre latinista G. Gando andai la prima volta a inchinarlo su le rive del Verbano, e lo trovai dolorante innanzi al recente sepolcro del filosofo ed amico suo Rosmini.
Di pensiero in pensiero fra l'erudito e il filosofo io andava cercando il poeta nazionale, e lo trovava in due cori, potenti voli della lirica italiana.
Ermengarda, la figlia di Desiderio, moglie di Carlomagno, che
Con l'ignominia d'un ripudio in fronte
torna alla paterna reggia, e ricoveratasi in Brescia nel monistero di San Salvadore, cessa di soffrire cessando di vivere, è tale episodio che trasse dal cuore del poeta un canto che tutti sanno come sia improntato di santo dolore e di carità cristiana.
Sparsa le trecce morbide
Su l'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Guardo cercando il ciel.
L'altro coro è nell'atto terzo, e vi senti lo stato angoscioso d'Italia.
D'un volgo disperso che nome non ha.
Nel dramma è rappresentato lo spettacolo di due forze straniere che vengono a cozzare sulla nostra terra, e forse non basta al compiuto trionfo del teatro, perchè fra quella barbara lotta non udiamo il lamento d'Italia, di questa novella Ifigenia, sagrificata all'ambizione di due superbi stranieri, se ne levi il coro
Dagli atrii muscosi, dai fôri cadenti, ecc.
Il poeta nazionale, nel cui pensiero, come ben avverte il Tommaseo, nè la tirannide longobarda era sacra, nè la conquista di Carlo era santa[22], in quel coro si leva gigante coronato di tutta la sua luce. Egli non è franco, non longobardo, non papista; egli si è innalzato al di sopra delle controversie dell'erudizione e della filosofia, e sfolgora nella sfera della giustizia suprema, donde guardando quaggiù alle superbie della polvere umana[388] sente con Balbo, che signori stranieri, civili o barbari, si rassomigliano; e nelle ultime strofe del coro dirette agli Italiani raccoglie la sintesi di tutto il dramma, il concetto vero e sublime del poeta che maledice, nella lotta delle Chiuse, vinti e vincitori, esclamando:
E il premio sperato, promesso a quei forti
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col nuovo signore rimane l'antico,
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti,
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
DAL PIRCHIRIANO A TORINO
Sant'Ambrogio.
—Sì signori, se la Sagra di San Michele si murò sul monte Pirchiriano lo dobbiamo ad un miracolo.
—Ed ove invece doveva murarsi?
—In cima a quest'altro monte che gli sta a riscontro, e che chiamiamo il Picco di Celle.
—Oh! narrate, di grazia, come avvenne il miracolo.
—Ecco. La Sagra, come dissi, aveva ad innalzarsi nel Caprasio, sul Picco di Celle; ma i maestri muratori avendo quasi lavorato tutto il primo giorno per piantare le prime fondamenta, tornati il dì dopo per proseguire l'opera, più non trovarono traccia dei lavori del giorno innanzi. Pietre, mattoni, sabbia, calce, attrezzi, tutto era sparito!
—Oh!
—Allora l'architetto fece ricominciare il muramento con nuovi materiali e nuovi strumenti, e venuta la notte, ordinò che gli operai dormissero tutti quanti sul lavoro. E così fu fatto. I maestri muratori colla cazzuola e il martello in mano, si coricarono quali sur un mucchio di sabbia e quali sui muri stessi; e i falegnami si sdraiarono lunghi e distesi, chi sulle travi e chi sui loro banchi, impugnando una sega, una pialla, e via dicendo.
—E la mattina seguente?
—Destati alla dimane, invece di trovarsi sul Picco di Celle, si trovarono sul monte Pirchiriano in quella medesima positura, in cui si erano addormentati la sera.
—Possibile!....
—Qual cosa è impossibile a Dio?
—Avete ragione.
—Io vi ho narrato il miracolo così alla grossa, ma saliti alla Sagra, troverete nella chiesa, nel coro antico dei PP. Benedettini, una pittura che vi spiegherà tutto ciò per minuto.—
Questo dialogo io raccoglieva nel borgo di Sant'Ambrogio, un mattino di settembre del 1854, mentre stavo aspettando una cavalcatura per salire alla Sagra; e fui ben lieto di cominciare con sì buoni auspici la pia pellegrinazione.
Ogni angolo del mondo ha qualche cosa meritevole di ammirazione. Ne ha pure il modesto borgo di S. Ambrogio, che è cinto di mura diroccate, conta 1400 abitanti, sparsi in tre quartieri, divisi un tempo da tre archi, ora caduti. Ebbe tre torri, e ne rimangono due; e la sua chiesa parrocchiale serba in onore le ceneri del santo patrono, Giovanni Vincenzo di Ravenna, ed arcivescovo della città natale, stando alle notizie dei due antichi breviari in pergamena, con miniature, conservati gelosamente nell'archivio parrocchiale. I due breviari precedono il secolo decimoquarto, non però il mille duecento e sessanta, quando Papa Urbano IV stabiliva l'officiatura e la festa del Corpus Domini, indicata in que' codici che cominciano così: In nomine Domini, amen.—Incipit breviarium secundum consuetudinem monasterii Sancti Michaelis de Clusa.
Queste cose mi diede a vedere con molta cortesia Giambattista Morelli, dal 1832 prevosto di quella parrocchia, de' più autorevoli ed eloquenti sacerdoti in Val di Susa.
La Sagra di S. Michele.
A dieci miglia da Torino, nella Valle della Dora, a guisa di promontôri irti e scabri, sorgono due monti, Pirchiriano e Caprasio, che separati dalle acque del fiume si guardano davvicino[391] fra mezzodì e tramontana, come se da potenza misteriosa dovessero venir congiunti per impedire all'avido straniero l'entrata in Italia. I due monti abbondano di leggende, e specialmente il Pirchiriano per la famosa Badìa che gl'incorona il capo, già abitata da monaci Benedettini, ed ora da preti Rosminiani, uno de' quali mi è stato benevola guida al salire.
Quel Rosminiano, Clemente di nome, avea in cervello tutte quante le cronache e tradizioni del Pirchiriano e de' luoghi circostanti, e mi aperse i tesori della sua erudizione.
—Sino dal secolo nono dell'êra cristiana, egli mi diceva, le nostre giogaie furono abitate da penitenti cenobiti, che sulle cime di questo monte costruirono un oratorio all'Arcangelo S. Michele. Invitato sullo scorcio del decimo secolo a consacrare l'oratorio, venne Amisone vescovo di Torino. Si narra, che nella notte precedente alla consacrazione, a lui ed ai molti del suo seguito dormenti in Avigliana apparisse vivida luce sull'Oratorio e per le rupi del monte; e che pieno la mente di tal visione il vescovo, giunto all'Oratorio, incontrasse schiere luminose di angeli con insegne pontificali, e una colomba, che scesa dal cielo volava intorno all'alpestre tempietto. Entrato nella chiesuola vide i candelabri per prodigio accesi, e il pavimento sparso di cenere, e su le pareti le croci stillanti di olio, e l'altare eretto dagli angeli tutto fragrante di balsamo e d'incenso e radioso di luce sovrumana. Allora il buon vescovo si chiarì che il tempietto di S. Michele era stato già dagli angeli consacrato, ond'egli ne rese grazie a Dio, offerendogli il santo sacrificio della messa su l'altare taumaturgico.
—Voi davvero mi narrate mirabili cose, io lo interruppi: ma da qual fonte mai traeste codeste memorie?
—Non v'ha alcun dubbio intorno alla consacrazione degli angeli, ripigliò il prete Clemente: ne parlano con fede la Cronaca Clusina e la Malleacense, e l'Ughelli ed Agostino della Chiesa e il Terraneo ed altri gravi scrittori la confermano; ed anzi vi aggiungerò che i devoti della Valle qui concorrono ogni anno a celebrare il 29 maggio, giorno del miracolo.
Ma se desiderate udire altro di questi luoghi, vi narrerò cose non meno mirabili, che vi tempreranno le noie dell'aspra salita.
—Sì sì, proseguite, ve ne prego, io gli risposi.
—Ebbene udite. Fra i cenobiti che assistettero alla costruzione dell'Oratorio di S. Michele vuolsi ricordare il santo romito di Ravenna, Giovanni Vincenzo. Il bravo prevosto di S. Ambrogio vi avrà fatto leggere nei codici membranacei dell'archivio parrocchiale, che Giovanni, essendo arcivescovo di Ravenna, nel conferire la cresima dimenticò il fanciullo di una povera vedova, il quale morì senza il sacramento della confermazione. L'arcivescovo ne fu addolorato, e colla preghiera ottenne da Dio la risurrezione del fanciullo, onde lo potè rendere, subito cresimato, alla madre. Salito in fama di santo per così segnalato miracolo, a fuggire le tentazioni della vanità, lasciò il seggio episcopale e si chiuse nella solitudine delle Alpi. Visse penitente sul Caprasio e poi tramutossi al Pirchiriano fra i cenobiti di S. Michele. Vien tuttavia ricordato sul Caprasio da una cappella alla B. Vergine, ch'egli eresse, e lo ricordano le sue spoglie mortali venerate nella chiesa di Sant'Ambrogio. Ma la più splendida memoria di lui è la Badìa, di cui lassù appariscono le rovine, che fu edificata col suo consiglio e patrocinio.
A que' tempi fu veduto salire per questi greppi un francese di grande autorità, Ugone di Montboissier, gentiluomo dell'Alvernia, detto lo Scucito. Avea seco la sposa Isengarda e sèguito numeroso; e veniva da Roma, dove erasi prostrato innanzi alla tomba degli Apostoli ad invocare dalla Chiesa perdono di gravi peccati. La Chiesa gli perdonò, ingiungendogli a penitenza, o di vivere sette anni esule dalla patria, o di edificare sulle Alpi un monistero.
—Edificherò un monistero—egli disse; e secondando la voce del cielo, ed animato da angeli apparsigli in sogno, venne fra queste Alpi, e andò sul Pirchiriano a richiedere di consiglio il romito Giovanni. Lascio nella loro integrità le pie tradizioni del luogo, per cui vi dirò che il signore d'Alvernia, giunto a questi dirupi, franto dai disagi delle salite e bisognevole di[393] ristoro per sè e i suoi, aveva soltanto un'ampollina di vino, che però benedetta dal romito Giovanni si converti in vena inesauribile da dissetare la stanca compagnia.
Ugone d'Alvernia a tale prodigio sempre più si accese nella deliberazione di erigere il promesso monistero presso il miracoloso Oratorio, spendendo in tale impresa i molti suoi tesori, coll'assistenza del romito Giovanni, e coll'assenso di Arduino marchese d'Ivrea, dipoi re d'Italia, sedente allora nel castello d'Avigliana.
Sorse infatti sul finire del decimo secolo, o nei primi anni dell'undecimo il magnifico monistero, che Abbazia della Stella fu nominato, ed Abbazia di S. Michele della Chiusa dallo storico paesello alle falde occidentali del monte, e più comunemente per antonomasia la Sagra di S. Michele.
Papa Silvestro II, compiacendo al vescovo Amisone, fu largo di privilegi alla Badìa di S. Michele che, per le donazioni de' fedeli cresciuta di ricchezze, colla preghiera e coll'opera de' suoi trecento monaci Benedettini si segnalò per santità e dottrina fra le quattro prime badìe d'Italia, emula delle più cospicue nella cristianità.—
Mentre queste e simili altre cose mi andava raccontando il prete Rosminiano, io non soddisfatto della cavalcatura salivo a piedi, soffermandomi di tanto in tanto a guardare i pittoreschi dintorni, e pensavo che gli scrittori di que' luoghi farebbero meglio a distinguere la schietta storia dalle vane leggende, che ad accozzare un indigesto ammasso d'incondita erudizione, come fece l'Avogadro nella sua Storia dell'Abbazia di S. Michele[23], per cui si direbbe ch'egli fosse un cronista de' tempi barbari, anzi che uno storico nella piena luce del secolo XIX.
Dopo un'ora e mezzo di aspro cammino fra selve di castagni[394] giungemmo alle cime del monte; e quivi su d'uno spianato vidi gli avanzi di un piccolo edifizio ottangolare, antico sepolcro de' monaci, di maniera moresca nelle nicchie e finestruole. Passando oltre, avrei immaginato di appressarmi alla fantastica dimora delle fate, se già non avessi saputo di trovarmi in cospetto alle gigantesche mura della Badìa, in parte risparmiate dal tempo a testimoniare l'ardire dei primi edificatori di tanta mole, monumento bizzarro e massiccio, monastico e feudale, su gli acuti vertici del Pirchiriano.
Trasportiamoci col pensiero sulle Alpi, quando incerti e male agevoli erano i passi chiusi da foltissime selve, e temuti castelli facevano paura ai minacciati viandanti. Il popolo facile per l'indole sua a dar fede al maraviglioso, vedendo sul Pirchiriano sorgere l'edificio di colossale struttura, con ponti levatoi, torri e bastite, dedicato all'Arcangelo Michele, nella sua ingenua ignoranza reputandolo superiore all'industria umana, lo avrà facilmente creduto lavoro de' celesti, origine alle leggende e alle frequenti visioni.
Entrato per una porta coperta di ferro e salendo per tortuosa via fra acacie e ginepri virginiani e per diversi ordini di scale, giunsi ad altra porta che mette nel cenobio.
Le reliquie di antichi dipinti, le grigie pietre quadrangolari bene commesse, e i due pilastri su cui poggia l'arco della porta a tutto sesto, i bizzarri loro capitelli con leoni nei tre lati rozzamente scolpiti, gli uni addossati agli altri e avviticchiati nelle code, imprimono nell'alta facciata del monistero una cupa severità, sì che nell'ingresso del chiostro ci si presenta l'immagine veneranda e temuta del vecchio abate con pastorale e spada. Ma nel prossimo terrazzo l'anima del pellegrino viene rallegrata dalla varia ed amena vista di gioghi e valli, torri, paesi ed acque. Due volte in quel terrazzo vidi sorgere il sole dal Musinè e irradiare il vicino monte Pelato, così detto dalle[395] cime spoglie di alberi, e il Caprasio santificato dalle benedizioni del Romito di Ravenna, e la Valle Rubiana fra il Caprasio e il Pelato. E più lunge io vedeva illuminarsi i ridenti ed impomati colli che, altieri della funerale basilica di Soperga, ad oriente incoronano la vetusta metropoli dei Subalpini; e nella sottoposta valle fra il Pirchiriano e il Caprasio, solcata dalla strada di ferro, fra tanta varietà di luoghi io salutava tutta sfavillante di luce la Dora Riparia che a vasti piani è dispensiera di vita, avvegnachè talvolta soverchiante d'acque rompa gli argini, e impetuosa divori le gioconde speranze dell'agricoltore.
—Oh! quanto diverso sarà stato l'aspetto di questa valle della Dora, quando il sistema feudale copriva i gioghi circostanti di castella, e multiformi signorie opprimevano le genti! (io esclamai la prima volta che il Rosminiano mi condusse al terrazzo, sul limitare della Badìa).
—Ben vi apponete, egli mi rispondeva: gagliardi baroni se ne dividevano il dominio, e l'abate della Sagra di S. Michele era de' più autorevoli, cinto dal potente clero e dagli armigeri, sicuro nelle vigili mura della colossale Badìa, e tenendo in soggezione i molti vassalli eziandio col castello a cavaliere di S. Ambrogio, del quale vedeste non ha guari i cadenti merli. A lui obbedivano cento e quaranta fra badìe e chiese, ed egli, vestendo corazza e stola, benediceva la potestà laicale, beata nella virtù del sacerdozio.—
In seguito il prete Clemente mi diede altre singolari notizie, per le quali la società del medio evo mi si presentò non beata, come parve al Rosminiano, ma afflitta da contendenti signorie, che non di rado tinsero d'umano sangue le acque della Dora.
Gettandomi colla mente nel labirinto delle giurisdizioni feudali, ricordai i principali signori di quei dintorni, ed ora noto i nomi di parecchi, che appresi dal conte Cibrario, tanto benevolo all'autore di queste pagine.
I Provana con titolo comitale ebbero in signoria Almese ed Alpignano, e il contado di Caselette fu dei Cauda, poi dei Cays, e quello di Chianocco appartenne ai Grossi ed ai Carignani, e dei Tomatis fu il castello di Chiusa. Chiavrie era dei Somis, che diedero alle lettere italiane un conte, dottissimo filologo, ed Exilles fu dato ai Bertola, de' quali primo conte fu il celebre Antonio, ingegnere, che costrusse le difese di Torino nel 1706. Gli Agnes furono conti di Fénil, di Rosta i Carron, i Niger lo erano di Oulx, di Foresto i Vivalda, e di Val della Torre i Caselette. Di Rubiana erano conti i Chiavarina, di S. Antonino i Pullini, che ebbero un abate, economo generale, ricordato per un bel museo da lui raccolto, ed ebbero un cardinale i Bottiglia conti di Savoulx. Marchesi di Frassinere furono i Bonaudi, e di Giaglione i Ripa, e i Groppello conti di Borgone vantarono un celebre uomo di Stato, cui son dovute le principali riforme economiche di Vittorio Amedeo II. Il feudo di Trana fu dei Gastaldi, Orsini e Gromis. Villarsamarco era feudo dei Mistrotti, e quello di Villarbasso fu degli Ambrosii, d'Angennes, Mistrotti; Pianezza appartenne al conte Martinengo nel secolo XVI; dipoi fu marchesato di donna Matilda di Savoia e de' discendenti da lei; e Reano era contado dei principi del Pozzo della Cisterna, dai quali riconosce la costruzione della gotica chiesa parrocchiale, adorna di bei dipinti. Giaveno fu della Badia di S. Michele, poi feudo di Brichanteau; e i Bertrand di Monmegliano, potenti e prepotenti baroni, cagione di molti travagli agli abati di S. Michele, furono conti del memorabile castello di Brusolo, ove nel 1610 seguì tra il Piemonte e la Francia il trattato, pel quale Enrico IV prometteva a Carlo Emanuele I la Lombardia, alto disegno rotto in allora dal pugnale di Ravagliacco, ma ricomposto e adempiuto ai dì nostri col trionfo del sangue latino. Baratonia fin dal mille fu capo di un viscontado, ed Avigliana ebbe a signori i Carron marchesi di Santommaso, famiglia che vantò nei secoli XVII e XVIII tre generazioni di ministri, e da ultimo il marchese Felice, storico di nobile ingegno e d'indole preclara.
A questi nomi dovremmo aggiungere altri molti di vescovi ed abati, onde organavasi in Val di Susa il consorzio feudale, frastagliato di tante e sì diverse giurisdizioni, che inceppavano il commercio e le industrie ed impedivano lo svolgimento del vivere libero e civile.
Che strano e disonesto brulichìo di baroni contendenti e contristati vassalli! Il medio evo fu il barbaro trionfo dell'ignoranza armata. Il disordine di que' tempi vien significato dall'istessa irregolare costruzione dell'edifizio, foggiata negl'irregolari picchi del monte; ed io lo vedeva espresso eziandio nelle strane figure intorno ai capitelli ed alle basi così delle ritte che delle ritorte colonne, miscuglio di arte romana e gotica, fatto più bizzarro dai ristauri di età posteriori. Visitiamo la Badìa a parte a parte. Facciamoci intorno all'enorme pilastro che ricorda quelli d'Egitto, e regge le vôlte principali dell'edifizio; saliamo e scendiamo nei tortuosi angusti andirivieni del monistero, per le alte scale intagliate nella roccia, sotto gli archi della chiesa, de' corridoi e delle grotte, qui fra lapidi impresse di gotici segni e di stemmi gentilizii, là fra teschi accatastati e fra cadaveri ritti entro nicchie, semicoperti da cenci, ed abbracciati alla croce, mummificati dal vento del Moncenisio, che perpetuo percuote quelle vette; e fra tanto sacro orrore sentiremo nell'animo il peso dei tempi feudali.
Che dirò d'una sera che, rischiarato da fiaccole per l'ampia scalinata, fra sepolcri e scheletri tornai ad affacciarmi alla mirabile porta del vestibolo, per cui si sale al tempio? Colonnette di marmo a diversi colori, attortigliate, cilindriche, ottangolari con base e capitello di varia foggia reggono quella singolar porta a tutto sesto, adorna di fregi e meandri in basso rilievo intagliati con ogni sorta di vezzi e fiori intrecciati, e coi dodici segni del zodiaco ne' pilastri. Ai quattro angoli d'una base di colonna sono scolpiti quattro grifoni, e ai quattro angoli[398] d'un'altra base quattro leoni, di cui l'uno morde la coda all'altro. In un capitello sono raffigurate aquile, che afferrano un cerchio, in altri veggonsi uomini furibondi che si accapigliano, e serpenti che si avviticchiano ai martoriati, lor dando di morso, come i serpenti punitori dei ladri nell'inferno dantesco. Che più? Uno de' capitelli rappresenta Caino in atto di uccidere Abele, e in un altro si vede Sansone scrollante le colonne del tempio. Io riguardava pieno di stupore. La luce delle fiaccole balenava nelle mummie, nelle lapidi e nelle simboliche figure delle colonne; ed io andava fantasticando che mai significare potesse quella gran porta abaziale. Qual fosse il concetto dell'artista del medio evo non saprei dire; ma io poeta nelle sculture della porta immaginai rappresentate le discordie e le prepotenze della barbarie; e vidi il Caino del feudalismo che prostrava il misero popolo, l'Abele della borgata; e nel Sansone caduto fra le rovine del tempio de' Filistei io vedeva il feudalismo sfasciarsi fra i combattuti castelli e le ire dei vassalli.
In mezzo ai terrori del medio evo non di rado i monisteri furono asilo di pace e di santità, e sede nobilissima della scienza. Tale fu quello di S. Michele della Chiusa. Basti ricordare i preclari uomini che lo fondarono, governarono e protessero, e tosto all'ingresso del cenobio voi vedrete svolgersi ricca di splendori la storia di dieci secoli, da Arduino il generoso e sventurato re d'Italia, lontana imagine di Carlo Alberto, al monarca Vittorio Emanuele II, che l'uno e l'altro vendicando, alla trionfante nostra Penisola restituì più splendida e sicura la regal corona dei marchesi d'Ivrea.
Sedendo su gli scaglioni della roccia presso la porta simbolica del medio evo, nell'ora vespertina, io vidi aprirmisi lo storico volume di un millennio. Risorti nella mia mente agitata dalla maestà del luogo e dall'ora conveniente alle meditazioni[399] salivano per que' scaglioni, e per la porta misteriosa entravano nel tempio uomini di grande autorità.
Saliva il magnanimo marchese Arduino, accompagnato dal fondatore e dal primo abate del monistero, Ugone e Adverto; e li seguivano il beato Giovanni di Ravenna, ed Amisone, vescovo di Torino. Salivano gli abati Benedetto il Seniore e il Giuniore, e con essi l'Ildebrando, il restitutore della libertà alla Chiesa e combattitore delle superbie e simonie imperiali del tedesco Enrico IV. Santo Anselmo, l'arcivescovo di Cantorbery, congiunto di sangue coi principi di Savoia, e il venerabile cardinale Pier Damiani salivano ragionando insieme della fede, della ragione, della scolastica e del ristauramento della ecclesiastica disciplina. Il beato Umberto III saliva accompagnato dal suo diletto monaco Antoniano Giovanni Gerson, che gli andava recitando alcuni versetti del suo libro De imitatione Christi. In seguito nella chiesa odorosa d'incenso e sonante di cantici io vedeva affollarsi lunghe schiere di monaci venerati, e famosi principi, fra i quali Eugenio di Savoia, abate commendatario della Sagra, prima di essere il vindice capitano delle milizie subalpine, e l'immortale Giacinto Gerdil, precettore di Carlo Emanuele IV, l'ultimo abate, quando allo scorcio del secolo passato la Rivoluzione francese abbatteva il vecchio edifizio sociale per ringiovanirlo.
La mia mente non riposava, ed ultimo vedeva salire il glorioso martire dell'indipendenza italiana, re Carlo Alberto, che tornò in onore la deserta Abazia, e fece rivivere quello stupendo monumento di antichità cristiana. Egli mi apparve accompagnato dal sommo filosofo Rosmini-Serbati, al cui sodalizio della Carità affidò la cura della risorta Abazia, divenuta, come Superga ed Altacomba, sepoltura dei principi della R. Casa di Savoia.
Il monastero, tanto ammirevole e fantastico nella porta poco anzi descritta, non è del pari nell'interno della chiesa: la quale[400] ristaurata più volte, è disforme dalla bellezza delle porte d'ingresso. Ha tre navate, di stile gotico le laterali, di stile romano quella di mezzo, sorrette da grandi colonne ricche di fregi, fra i quali leggonsi lettere Carlovingiche. Sono da osservare alcuni buoni dipinti e l'altare maggiore; un monumento romano con pie sculture dedicato da Servio Clemente alla memoria de' suoi genitori e della moglie, e il bellissimo mausoleo d'un abate, probabilmente Guglielmo d'Acaia, effigiato in pietra, e steso sotto un baldacchino fra quattro colonne.
Per una piccola porta dalla chiesa si discende nell'angusto vestibolo dell'ipogeo, già umile dimora al romito Giovanni di Ravenna. Le spoglie mortali dei Principi di Savoia, tumulate nella Metropolitana torinese, furono nell'anno 1836 da Re Carlo Alberto fatte trasportare alla Sagra di S. Michele e deporre nella chiesa ai lati dell'altar maggiore; e nell'anno 1856 per ordine di Re Vittorio Emanuele II vennero composte con ogni onoranza in distinti avelli nella sotterranea cella di San Giovanni, illustrati dal conte Luigi Cibrario con latine epigrafi, che sono la concisa ed elegante storia dei sepolti e del trasferimento delle loro ossa. Gl'Italiani salutano riverenti le ceneri de' Principi Sabaudi, e sulle loro tombe suona continua la preghiera dei sacerdoti Rosminiani.
I Rosminiani.
Il sodalizio della Carità fondato dal Rosmini, ed approvato dalla Chiesa l'anno 1839, sarebbe de' più possenti nella cristianità, qualora simili instituti fossero ancor piante da rifiorire ai dì nostri.
I Rosminiani non sono nè monaci nè frati, ma sacerdoti regolari che possono dedicarsi alla vita contemplativa, e, chiamati, applicarsi alle missioni ed agli spedali, all'aiuto de' parrochi, all'educazione del popolo, insomma al più ampio esercizio della[401] carità. E perchè nessuna legge circa i beni ecclesiastici potesse pregiudicarli, accortamente il Rosmini ordinava che il sodalizio della Carità fosse congregazione di privati sacerdoti, ciascheduno dei quali vive del proprio. Finchè vien tutelata la proprietà dei cittadini, sarà pure inviolata quella dei sacerdoti Rosminiani, i quali sono poi tra loro vincolati a dare ciascuno le loro rendite all'istituto e vivere insieme.
—E quando alcuno di voi cessi di vivere, a chi spetteranno i suoi beni? domandai ad un Rosminiano.
—Egli avrà testato in favore d'un altro Rosminiano.
—E se l'erede si scioglie dai patti rosminiani ed abbandona la casa della Carità?
—Lo potrà fare, ma pensi alla sua coscienza.
Niccolò Tommaseo nel settimo anniversario dalla morte di Antonio Rosmini così parlò dello Spirito della sua istituzione. «Una delle prove del noviziato era l'assistenza agli infermi per lo spazio d'un mese almeno. E il Rosmini intendeva fondare un collegio di medici, per rendere filosofica insieme e religiosa la scienza, da tanti fatta men che mestiere. Il suo Istituto ammette coadiutori nelle arti meccaniche; così come ingiunge le missioni lontane: ed egli, stendendo alla grande regione dell'India il suo pensiero, desiderava trovare uomini che s'addentrassero nella filosofia de' Bramani per guadagnarli alla verità con l'aiuto della civiltà loro propria, intanto che altri per vigore di carità solleverebbero dalla natìa depressione i poveri Paria. Voleva imparassersi le lingue de' vari paesi; e in ogni cosa e luogo trattassesi principalmente con coloro da cui si possa imparare. Richiedeva l'esercizio del dire improvviso, non solamente per predicare, ma e pe' colloquii e per le scuole: le quali apriva e festive e notturne a uso dei poveri; e a' maestri degli elementi dava per protettore il Calasanzio; e diceva che dovess'egli accettare una cattedra, la pedagogia presceglierebbe alla stessa filosofia. Scelta insieme e umile e sapiente».
Il sodalizio della Carità, più che fra noi, è diffuso in Inghilterra e vien rispettato da quanti ne conoscono i seguaci. Io[402] ne conobbi parecchi, che nobilmente operano e pregano su le rive del Verbano presso il sepolcro del loro celebre fondatore, e sul Pirchiriano intorno ai sepolcri dei Principi Sabaudi.
Quelli della Sagra di S. Michele insegnano gli elementi delle lettere ai poveri fanciulli del villaggio di S. Pietro, provvedendoli di libri e di pane, ed aiutano i parrochi dei paesi circostanti nell'evangelico ministero. Accompagnandomi intorno alla Badìa mi ricordavano gli antichi monaci dissodatori d'incolti terreni. Anche i Rosminiani convertirono ermi luoghi in ameni pensili giardini, ricreati da frequenti zampilli di acque ed allietati da rose, mirti ed allori, da platani, cedri e quercie, e da vigneti, che sospendono i loro grappoli fra l'edera di negre roccie, ed attestano il vigore della vita innanzi a caverne, crani e croci.
La Bell'Alda.
Il prete Clemente dai ridenti giardini riconducendomi ai malinconici corridoi della Badìa, mi trasse al vecchio coro dei monaci benedettini, ora squallido e muto, e su d'una parete mi additò rozzamente dipinta la fondazione del monastero secondo la leggenda popolare. Dipoi, passando per l'andito, dove entro una cappella ammirasi Maria bellamente dipinta su tavola del Macrino d'Alba, mi condusse alle rovine dell'antica grandiosa dimora dei trecento monaci. Alla splendidezza dell'opulenta Badìa succedette lo squallore e il silenzio della morte tra frantumi di colonne, d'archi acuti e di capitelli. Accresce orridezza alle confuse macerie verso tramontana un profondo precipizio, innanzi a cui il prete Clemente mi disse:
—Qui si racconta una storia di lagrime. Leggiadra e desiderata fanciulla, detta Bell'Alda, per sottrarsi alle insidie d'un seduttore che la inseguiva, invocò l'aiuto di Maria, e leggiera come piuma di colomba spiccando un salto da questo vertice, illesa toccò il fondo dell'irto precipizio; ma Alda invanitasi di[403] prova così felice, ne fece un secondo con diversa fortuna: restò morta giù negli spaventosi dirupi!
Due Salti.
Due salti di donna sono famosi nelle tradizioni e nei canti di Grecia e d'Italia. Ricordato dai Greci è tuttodì il salto di Saffo, e gl'italiani lamentano il salto di Alda.
Visitai sul promontorio di Leucade le rovine del tempio di Apolline, dove la tradita poetessa di Lesbo mise l'ultimo lamento contro l'ingrato Faone, prima di gettarsi disperatamente nelle acque dell'Ionio. A pochi passi di là, nel deserto monastero di Santo Nicola, presso piccolo giardino, una chiesuola e i rozzi sepolcri di due vescovi, mi fu aperta la cella in cui visse austeramente la pia Susanna, che morta venne sepolta col capo appoggiato al tronco dell'arancio, che la romita piantò di sua mano all'ingresso di quell'umile asilo.
Colà il vecchio monaco Cipriano, che contava cento e più anni di vita, m'imbandiva frugal mensa, benedicendola colla tremebonda sua destra. Dipoi, tornato al muto delubro di Apolline, colsi fra le rovine una viola che, sebbene arida, è per me tuttavia piena di vita; e la serbo nelle pagine di Grecia a ricordanza dell'isola ospitale che m'ebbe tre mesi infermo per grave frattura toccatami al piede sinistro, nel saltare da una barca sul lido prossimo al promontorio, infausto ai poeti dell'uno e dell'altro sesso. La serbo a ricordo della infelice donna miseramente tradita in amore, ed a memoria del Leucadio Aristotile Valaoriti, ch'empie de' suoi mirabili versi l'isola materna e tutta Grecia.
Presso il luogo del salto di Alda, come presso quello del salto di Saffo trovai grotte di antichi romiti e l'ospitalità di uomini solitari. Incontrai inoltre una bionda giovane Britanna, che insieme colla sua famiglia era andata nel vicino villaggio di[404] Ranverso a piangere un amato fratello nella casa ove era morto. La desolata sorella, salita alle balze di Alda, si assise sotto un albero secolare, e mentre fissava i molti fiori da lei raccolti per quelle rupi, io vidi ad un tratto serenarsi il turbato volto della donzella, che sorridendo mi disse:
—Poeta, anche questi fiori appassiranno fra breve, ma nella primavera risorgeranno.—E sì dicendo guardò amorosamente il cielo, come se lassù nell'eterna primavera vedesse risorto il fiore degli affetti suoi, il perduto fratello.
Uno dei fiori caduti di mano alla donzella fu raccolto nelle pagine della Dora, e mi ricorda il lutto della Britanna, il salto di Alda e l'amorevole ospitalità dei Rosminiani, che spesso con filiale riverenza mi parlavano del sapiente loro institutore.
Il promontorio di Leucade e il Pirchiriano hanno in sè tante e sì diverse memorie di Grecia e d'Italia, che non saprebbesi ben dire se appartengano più al cielo o alla terra.
Chi desidera udire i casi di Salto, ricordati ai dì nostri con sublime dolore, li cerchi nei canti di Leopardi e Lamartine e nelle musiche del Pacini. Nelle loro pietose armonie troverà significata con verità di estri la poetessa di Mitilene.
E chi volesse conoscere vivamente descritte le venture di Alda, si piaccia di cercarle nelle opere di Massimo d'Azeglio e Cesare Balbo. Ed io volli indagare, come dalla tradizione alpigiana pigliassero argomento alle loro pagine que' due Piemontesi, gloria della letteratura e politica italiana.
Cesare Balbo e Massimo D'Azeglio.
Cesare Balbo in una delle sue novelle narrate da un maestro di scuola racconta il caso della Bella Alda, innestando qualche[405] cosa di suo alla leggenda[24]. Suppone accaduto il tristo caso verso il 1200 o 1300, al tempo d'una delle discese de' Francesi per la Comba di Susa; e imagina che soldati di Francia tentino la onestà di Alda e la costringano a precipitarsi giù per i dirupi del Pirchiriano.
Per tal guisa lo scrittore prende occasione a rimproverare la baldanza de' Francesi, e lamenta l'oltraggio che spesso a noi fanno i temerari stranieri.
Massimo d'Azeglio, poeta e pittore[25], inventa i casi del monaco Arnaldo, e splendidamente narrando e ritraendo le tradizioni e le pittoresche veduto della Badìa, mette in bocca al monaco il racconto, e gli fa dire che il caso di Alda sia avvenuto ai tempi di Federico Barbarossa, quando gli Imperiali scorrazzavano audacemente in quella valle, ponendo a sacco e distruggendo Susa, Avigliana e tutte le circostanti castella, indignati di Umberto III, Conte di Savoia, che di animo guelfo teneva per il Papa. Le quali cose egli narrando ne accende di sdegno contro i nemici, che ci vengono da Lamagna.
In quanto all'essersi Alda insuperbita del miracolo e l'aver fatto un secondo salto onde morì, il D'Azeglio scusa la stranezza del racconto dicendo: «Ha sete sempre l'animo nostro di maraviglie, nè trovandole vicine, le cerca nel remoto passato e nel tenebroso avvenire».
Il Balbo invece osserva: «Non approvati mai dalla Chiesa, ma esercitati sovente anche coll'autorità di alcuni ecclesiastici, erano appunto quelli che si chiamavano Giudizi, ma furono vere tentazioni di Dio. Quindi è che si potrebbe dire, che domandando giustizia e riparazione l'Abate e negandola i Francesi, e il principal argomento del primo essendo l'asserire il miracolo e dei secondi il negarlo, venissero poi gli uni e[406] gli altri al compromesso di volerlo far rifare, e la fanciulla, inclinata alquanto a vanità, vi si lasciasse persuadere».
Due Laghi.
Un altro subalpino, lodato scrittore di storie, Domenico Carutti, in un libro di racconti[26] celebrò la Sagra di San Michele e i suoi dintorni, ed io li ricordai scendendo, verso la parte meridionale della Badìa, ai due laghi di Avigliana da lui descritti con brio ed eleganza.
Breve istmo selvoso separa i due laghi; quello chiamato della Madonna ha sessanta mila metri quadrati di superficie, e ne ha trentadue mila e cinquecento l'altro denominato da San Bartolomeo. Il lago della Madonna per un canale versa le sue acque nell'altro.
Sulle rive s'incontrano casolari pescherecci, e quelle acque bagnano le falde a verdi ridenti colli, dietro ai quali biancheggiano di neve le alte giogaie delle Alpi.
Giunto alle rive del maggiore dei laghi, pregai un pescatore che nella sua barca mi traghettasse alla riva opposta, appiè del convento dei PP. Cappuccini. Quel pescatore pallido e gramo, benchè giovane, mi accolse volentieri nel suo navicello e mi fece sedere presso la rete, che gli aveva procacciato abbondante pescagione, ed agitando i due remi si pose a vogare, traendo affannosamente frequenti sospiri.
—Mi sembrate di cattivo umore, gli dissi; eppure dovreste sorridere al lago della Madonna, che vi dà gran copia di anguille, di tinche e di trote.
—Oh! Vossignoria non conosce bene questi luoghi, mi rispose: qui nato, qui vivo di crucci; e mi costa molte pene questa pesca.[407] Qui si scontano i peccati dei nostri padri: dove ora veggonsi i laghi sorgeva l'antica Avigliana.
Si narra che gli abitanti fossero di mala vita, e che rifiutassero gli atti della carità cristiana verso il prossimo, anzi facessero villanie ai poveri: Dio stesso ne fece l'esperimento. In una fredda e nevosa giornata d'inverno, qui sul far della sera capitò un vecchio pellegrino, stanco dal viaggio e dal digiuno. Andò di porta in porta ad invocare per una notte ricovero e ristoro. Ebbe ripulsa da tutti, fuorchè da una vecchierella, che gli usò carità nel breve tratto di terra fra i due laghi, dove abitava.
Il pellegrino era nostro Signore: il dì appresso risparmiò la casa ed il giardino della pietosa vecchierella, e punì amaramente il resto degli abitanti, tutto subbissando in queste acque, per cui udrà spesso ripetere ironicamente: Viana villana per la sua bontà l'è sprofondà.
—Ma ora, io ripresi, vi dovreste confortare nella pesca abbondante e nel vivido sorriso di questi luoghi salubri.
—Salubri! esclamò il pescatore tutto tremante per i brividi della febbre che lo assaliva. Ella sogna davvero. M'accorgo sempre più che per la prima volta ella visita questi luoghi. Qui l'aria è ancora infetta dei peccati della sprofondata Avigliana: Iddio non cessò di castigarla di qualche orrendo misfatto. In questo umido cielo, e nei dintorni paludosi dominano le febbri, ed io ne sono spesso travagliato. I frati pregano e benedicono le acque, ma invano; parecchi di essi sono al pari di me travagliati dalla febbre terzana.—
Cercai di consolarlo, augurandogli abbondanza di pesci e serenità di salute, e gratificatolo del pronto tragitto, toccai il lido innanzi al Convento.
Quel convento dei PP. Cappuccini, sormontato da una cupola, sorge su d'un poggio verde di cipressi, salici ed olmi; e un'alta croce di legno gli sta d'innanzi guardiana della preghiera e della[408] penitenza. Entro una nicchia difesa da cancello di ferro mormora perenne fontana, le cui acque si accolgono in petroso bacino. I villici assetati vi trovano ristoro usando della tazza assicurata al cancello e pendente da una catenella. Così come i Dervissi d'Oriente, i buoni frati d'Occidente accanto al romito ospizio offrono agli stanchi pellegrini il beneficio di acque desiderate.
Io ne bevetti con soddisfazione; e le trovai fresche e grate come quelle che nell'Epiro attinsi alle fonti del Pindo, al di là del lago di Giannina. Ma le acque di Avigliana non hanno, come quelle del Pindo, la virtù vivificatrice de' carmi; perchè entrato nel Convento per una cancellata di legno, sulle pareti del vestibolo lessi a grandi caratteri quattro sonetti, dai quali ci è lecito argomentare che quivi i frati dalle loro acque non attingano la poetica inspirazione.
Torcendo lo sguardo da quei quattro peccati di poesia, nel mio quaderno presi a notare la bella veduta di quei siti pittoreschi e le cose pregevoli del convento. Ma i frati mal sospettarono di me.
In Manfredonia, nell'antica chiesa Sipontina, mentre si facevano scavi dispendiosi per trovare un sognato tesoro, ed io notando raccoglieva le notizie del luogo, fui preso dal volgo per un mago francese, esperto di nascosti tesori, e fui investito da sì indiscrete e minacciose interrogazioni, che a liberarmi dovettero intromettersi uffiziali di polizia, e una cospicua famiglia mi tutelò ospitalmente. Nel convento di Avigliana i frati nel 1854 non mi credettero un mago, ma un Delegato del Governo, andato a registrare le riposte loro ricchezze, sicchè il Padre Vicario con modi bruschi non cessava di ripetermi:
—Nulla v'ha qui che meriti di essere notato, nulla, nulla.
—Ma pure, o molto reverendo, io gli diceva, merita di essere visitata la chiesa del convento. È prezioso su l'altar maggiore il tabernacolo coperto di tartaruga, preziosa la tavola in cui sono effigiati Maria e i santi Rocco e Sebastiano. Mi permetta, ottimo Vicario, ch'io qui rimanga ancora qualche istante[409] ad ammirare il Cristo in croce del Caravaggio e gli altri due dipinti, che voglionsi di Lionello Spada.
I frati si avvidero dell'errore e tosto lo emendarono, illuminandomi con due ceri l'altar maggiore, ond'io potei davvicino guardare la Madonna, alla quale in ogni secolo si aggiunge una corona d'argento con pompa solenne. Ne ha tre la Madonna; l'ultima le fu tributata con festa di otto giorni nel 22 agosto del 1852.
Avigliana.
A pochi passi dal convento si entra in Avigliana, che fu turrita città piena di popolo e di commercio, seggio del marchese Arduino e dei Conti di Savoia, culla di Umberto II e di Amedeo VII detto il Conte Rosso. Ora è borgo di tre mila abitanti, che si distende da oriente a tramontana per le estreme pendici del monte, su cui veggonsi le rovine del suo celebrato castello.
Nell'erbosa piazza v'ha un antico pozzo circolare a cui sogliono attinger acqua gli Aviglianesi, e per le ripide e tortuose vie s'incontrano torri, chiese vetuste, portici e vestigia di gotiche costruzioni, che attestano le glorie passate collo scudo e la croce di Savoia scolpiti in più luoghi tra i fregi de' capitelli.
Addì tre dicembre del 1851 un eletto giovane, caldo di poesia e fior di gentilezza, Camillo Verdi, in sul meriggio mi accompagnava fra i deserti ruderi del vecchio castello, già segno a gravi sciagure.
Invadevano il castello le armi di Lamagna ai tempi del conte Umberto III di Savoia, parteggiante per la Chiesa, nemico a Federico Barbarossa; e nel 1636, comechè difesa dal presidio spagnuolo, la rôcca di Avigliana fu assalita dai Francesi che[410] nell'orrendo eccidio risparmiarono una donzella piemontese, disarmati dalla rara sua bellezza. Risorta la rôcca di Avigliana, fu nel 29 maggio del 1691 nuovamente percossa dai Francesi capitanati dal Catinat, al quale, si racconta, una vecchierella indicasse la Pietra-piana, l'eminenza donde il Generale potè con truce fortuna investire il castello, e farne informe ammasso di rovine, per muovere dipoi al campale combattimento della Marsaglia, ov'ebbe il bastone di maresciallo.
Rimangono del castello vôlte sotterranee e una massiccia muraglia con tre finestre. I gufi e le nottole fanno lor nido e stridono ove un tempo fra gli scudieri e i falconieri ferveano le virtù cavalleresche ne' tornei, nelle caccie e negli amori dei corazzati principi e guerrieri, e ne' canti de' trovadori, ed ove si agitavano le politiche imprese, che per lungo ordine di vicende prepararono il concetto rinnovatore della presente Italia.
Per una scala salii al sommo di que' ruderi, mentre d'intorno rideva tranquillamente la natura. Il verde e l'azzurro e il color di porpora splendevano nell'acque e ne' monti, e per la serena vôlta dei cieli un venticello del Moncenisio spingeva bianche nuvolette in Lombardia.
Da quelle vette solitarie ad oriente io vedeva il prossimo ospizio di S. Antonio di Ranverso, e più in là il castello di Rivoli, la torre di Buttigliera e la cupola di Superga; e una grigia nebbia vivida di luce mi segnava il corso del Po lambente le falde ai colli di Torino. Verso la parte meridionale parevano sfavillare di perle e smeraldi i colli di Giaveno e i due laghi, come dalla parte nordica i gioghi del Rubbione e del Musinè e le acque della Dora; e ad occidente rividi la Sagra di S. Michele e il Pirchiriano che mi nascondeva il varco delle Chiuse, dilatando le sue ombre sulla Dora, e di là salutava le torri di Susa e le nevi del Moncenisio.
Il mio compagno vedeva il brio della sua gioventù riflesso[411] nelle cose circostanti, per cui le stesse pannocchie di grano turco nelle case del borgo ci parevano tappeti d'oro pendenti dalle tettoie e dai ballatoi giù per le brune pareti. Insomma quel giorno festivo pareva un giorno di primavera venuto a rallegrarmi fra i geli del dicembre sul monte di Avigliana. Oh quanta vita intorno allo squallido castello, scheletro roso dal tempo e non più curato dagli uomini!
Camillo Verdi meco ricordava il Conte Amedeo VII che, degno figlio del Conte Verde, nacque in quel castello addì 24 febbraio 1360; e acceso di nobile ardore declamava la ballata di Giovanni Prati, intitolata Il Conte Rosso, che forse il poeta immaginò, attingendo dalla vista di que' luoghi le felici sue inspirazioni. Scendendo dal monte volentieri io ripeteva col Verdi:
«O voi, che languite scorati e pensosi,
Poeti d'Italia, dai lunghi riposi
Sorgete una volta, sorgete a cantar.
Tendete concordi l'orecchio devoto,
Chè un'eco possente del tempo remoto
Susurra sull'Alpi, passeggia sul mar».
Ripetendo i versi del Prati, c'imbattemmo in quattro popolane dal volto giocondo e rosato, che cantavano sedute sul dorso d'un poggio presso il cimitero della parrocchia di Santa Maria Maggiore, la cui squilla annunziava l'ora meridiana.
Quelle gaie donne erano l'espressione della gioventù che, inconscia delle miserie umane, folleggia fra le macerie della morte.
Tornato altre volte in Avigliana, visitai la Chiesa parrocchiale di Santa Maria, su cui rosseggia l'acuto antico campanile. Un buon vecchio, sagrestano da trent'anni, mi additò in una cappella la Madonna effigiata in tavola da Macrino d'Alba, e facendomi osservare i due biondi angioletti appiè della Vergine irradiati di celestiale bellezza, dicevami che un Inglese avea profferto dieci mila lire per quel quadro.
Forse qualcuno de' nostri filantropi ed economisti avrebbe detto a quel sagrestano, custode amoroso della patria arte cristiana: Perchè non permettere che il quadro del Macrino viaggiasse per Inghilterra, ed accettare in cambio le dieci mila lire? Con quella pecunia il Curato avrebbe potuto degnamente onorare il cimitero della parrocchia, che, povero di croci e di lapidi, pare un cimitero di scettici, e mal difeso da basso e rustico muricciuolo, sta a cavaliere della parte del paese detta il Borgo vecchio.
A dir vero, per poco che il monte franasse, o qualche valanga di nevi giù rotolasse, nelle lunghe serate d'inverno, mentre le famiglie de' villici intorno ai loro focolari novellano di streghe e spettri, non istupirei di udire un dì o l'altro, che i morti di Avigliana per i fumaiuoli e le finestre fossero entrati nelle case impaurite dei vivi.
I creatori di leggende aspettano per la fortuna de' loro versi qualche simile accidente dal cimitero aviglianese.
Visitai pure la bella chiesa parrocchiale di S. Giovanni ristaurata nel 1846, nella cui facciata di stile gotico è figurato un gigantesco San Cristoforo. Colonnette di mattoni rossi, con simboli de' vangelisti e la croce di Savoia scolpiti nei due bizzarri capitelli reggono l'arco a sesto acuto della porta d'ingresso. Nel vano dell'arco è dipinta Maria col divin Figlio e angioletti con musicali strumenti. Nell'atrio veggonsi antichi affreschi: entro la chiesa un pulpito di legno di noce bene intagliato, e la mirabile tela in cui Gaudenzio Ferrari ritrasse la Sacra Famiglia fra i martiri Crispino e Crispiniano, cogli arnesi dell'arte del calzolaio, e segnando appiè del dipinto l'anno MDXXXV. Una tela attribuita a Guido Reni e una Vergine del Moncalvo si ammirano nella cappella, ove sono in onore le spoglie mortali del beato Cherubino Testa di Avigliana. Domandai notizie del santo quivi sepolto, e il curato della chiesa mi rispose:
—Cherubino Testa fu monaco Agostiniano, esempio di carità.[413] Un dì gli si convertirono in rose i pani che distribuiva ai poverelli. Il cadavere di lui fu trovato con un giglio che gli usciva dal cuore.
Di molto pregio eziandio è la chiesa di S. Pietro, alla quale accompagnandomi un sacerdote, mi fece passare innanzi alla casa un tempo del Montabone, e all'angolo di essa mi accennò le finestre della stanza in cui ospitò Papa Pio VII, quando prigioniero era condotto in Francia. Interrogai il sacerdote se in Avigliana era rimasta sacra la ricordanza del passaggio del Papa.
—Oh! certamente, rispose un buon vecchio che veniva in compagnia del prete. Si racconta che allora i nostri laghi per solito non davano trote; ma nel dì che ospite avemmo Pio VII, il lago di Santa Maria ne diede trenta libbre, che furono presentate alla mensa del Prigioniero Apostolico dal nostro Carlo Montabone allora sindaco di Avigliana.
All'estremità del paese prossima ai laghi fui guidato per erbosa gradinata alla chiesa di S. Pietro sormontata da tre torricelle commesse di mattoni, e col S. Cristoforo dipinto sulla facciata, del quale rimane soltanto parte della testa. Nel tempio v'ha l'effigie del merlato castello di Avigliana con quattro torri e pregevoli affreschi, in parte nascosti da intonaco di gesso, e un pertugio che vogliono abbia servito agli oracoli del Gentilesimo, quando quella Chiesa era delubro della dea Feronia, la Dea dei boschi ricordata da Virgilio
Viridi gaudens Feronia luco.
Avigliana la ricorda in un suo quartiere denominato tuttavia regione Feronia, e Vincenzo Monti la celebrò splendidamente nella sua Feroniade.
La Festa della Pentecoste.
Il sacerdote, mio cortese Cicerone, avvertendo ch'io notava molte cose vedute od udite, mi disse:
—Fareste assai bene di registrare fra le vostre memorie la nostra festa della Pentecoste, la più grata di Avigliana.
—Ben volentieri lo farò, se voi avrete la bontà di narrarmene i particolari, gli risposi.
Allora il sacerdote mi condusse dirimpetto alla chiesa di S. Pietro nel vasto cortile degli Allais, sotto la tettoia affumicata, in cui tremolavano rami di edera, e v'erano carri e manipoli di fieno ed altre masserizie.
—Tutto questo ingombro vien tolto la vigilia della Pentecoste, esclamò il sacerdote. Questo luogo, abbarrato pel buon ordine, vien conceduto ai preparativi della festa. Entro i buchi della muraglia affiggonsi pali, cui si appendono, assicurate con uncini a ferree collane ad uso de' bestiami, trenta lucide caldaie piene d'acqua, di fagiuoli e ceci.
—Ma, io interruppi impaziente, chi dà tutta codesta roba?
—È elemosina del popolo, ripigliò il prete. Quattro confratelli della parrocchia di S. Giovanni, tre volle all'anno, girano per le case a questuare grano, meliga, legna e danaro; e tutto viene convertito nella compera de' prescritti legumi per il convito della Pentecoste. E perchè quanti ne mangeranno abbiano la salute dell'anima e del corpo, il parroco di S. Giovanni in rocchetto e stola e con seguito di altri preti viene a benedire la pia imbandigione.
Compiuto il rito della benedizione, si appicca il fuoco alle legna accatastate sotto le trenta caldaie fra la pubblica allegrezza. Dei confratelli della parrocchia destinati a preparare il convito,[415] chi pensa al lardo ed ai polli, chi attende ai ceci ed ai fagiuoli, altri alle legna ed al fuoco, e tutti sono affaccendati intorno alle caldaie che ardono sino a mezzanotte. Nel mattino della festa il popolo accorre impaziente con vasi di legno e di creta per avere ciascuno la desiderata porzione. Non vi parlerò delle scodelle e marmitte che cadono o si spezzano in quella pressa di gente, nè di qualche povera vecchierella che a stento si fa innanzi e aspetta ansiosa il momento propizio per alzare con mano tremante il suo recipiente ed avere la sua porzione. Finiscono coll'averne tutti, e ai signori principali del paese i confratelli hanno cura di portare in casa la loro parte; e così in quel giorno solenne il popolo nostro gode fraternamente del medesimo pasto.
Antica usanza è questa che prova, come all'ombra dell'altare cristiano sia sempre stato protetto il diritto di congregarsi. Gerusalemme ogni anno con banchetti celebrava l'anniversario della dedicazione del tempio: così Avigliana col banchetto della Pentecoste celebra annualmente la fratellanza umana.—
Registrai la festa descrittami dal sacerdote, perchè amo le religiose costumanze che giovano a ravvivare la concordia delle genti. Ed ora l'agape della Pentecoste mi fa ricordare l'agape dell'amicizia, che nel 15 ottobre 1861 mi diede l'ultima volta il nostro rimpianto Norberto Rosa nel suo amenissimo podere della natale Avigliana, da lui denominato il Cantamerlo.
Norberto Rosa e il Cantamerlo.
Quel podere sostenuto dai baluardi dell'antico castello è una bella casa con fregi e porte di stile gotico, e con una torre ottangolare coronata da otto merli biforcati, dipinti in rosso. Intorno[416] alla casa su le rupi del monte ridono campi fertili e fiorite aiuole; e gelsi, pampini ed allori verdeggiano fra i rosai.
«Il Cantamerlo è un piccolo podere
Fra campo e vigna e un po' di bosco in fondo
Con una casa colorata in biondo
E nel mezzo una torre o belvedere,
Donde si può d'una vista godere,
Che la più bella non si gode al mondo,
La Dora, i laghi, cento ville a tondo,
E la Sagra e Superga infra le sfere».
Così giovialmente lo descriveva il caro Norberto; e nella vôlta della torre, in lieta cameretta, mi additava figurato su di un ramoscello di edera il merlo, da cui piglia nome il fantastico suo podere; e frattanto ci allietava il soave mormorio delle acque della Dora, che scorrono in verdissimi prati tra filari di pioppi e salici.
Norberto Rosa, dirò col suo biografo, il Borella, è stato uno di quegli uomini che non si ricordano mai abbastanza, siccome modello di virtù pubbliche e private. Visse onoratamente nell'esercizio del fôro; e, facile all'ironia, la usò molte fiate con rara felicità in verso e in prosa. Dall'anno 1840 cominciò a scrivere nel Messaggiere Torinese, e continuò quando in questo e quando in quello de' diari più popolari d'Italia la sua vita di brioso scrittore.
Il primo plebiscito del regno d'Italia fu il felice concetto di Norberto, cioè la soscrizione dei cento cannoni per la fortezza di Alessandria, che promossa pure dalla Gazzetta del Popolo, fu preparazione ai trionfi dell'unità italiana.
Consorte e padre de' più amorevoli fu il nostro Norberto, ed amico sincero. Io lo provai, che, eccitato da' suoi incoraggiamenti, presi a descrivere la valle della Dora, da lui onorata. Egli mi aveva accompagnato col consiglio e talvolta di persona dalla sorgente del patrio fiumicello sino alla Sagra di S. Michele.
Nel giugno del 1862 egli mi aspettava nel suo Cantamerlo e[417] preparava preziose notizie a fecondare il mio lavoro. Ahimè! mi giunse in Torino la notizia della sua morte, e la penna con cui descriveva le regioni della Dora mi cadde di mano sulle pagine bagnate di pianto, nè più seppi ripigliarla, se non quando le recenti calamità toccate al Piemonte mi consigliarono a dire qualche parola di conforto a questa magnanima terra subalpina, gravemente offesa.
Ben meritò il lagrimato amico che di lui scrivesse Giuseppe Revere:
Schietto il cor, mesto il labbro, e il ratto ingegno
Ricco di argute fantasie gioconde
Ebbe questi che morte ora n'asconde,
Non ancor giunto al suo maturo segno.
Amò l'Italia, . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Amò l'alpe natìa donde s'affretta
La Cozia Dora a disposarsi all'acque
Del fiume che il suo mare alto richiede.
Amò quell'arte che pungendo alletta,
Nè giammai per paure il vero tacque
Cui sacrava l'intrepida sua fede.
L'ottimo Norberto Rosa mi parlava spesso dei miglioramenti introdotti nell'amministrazione della provincia di Susa, e si doleva che dalla sorgente della Dora sino a Torino non ancora fosse instituito un Asilo infantile, che, abbattendo volgari pregiudizi e diffondendo i germi di una saggia educazione, preparasse ai figli del popolo un avvenire degno dell'uomo.
Egli si era più volte adoperato a dotare di un Asilo le rive della Dora; ma egli è morto, senza che i suoi voti fossero esauditi.
Un dì mi disse: "Va a confortarti di tale mancanza in Giaveno, ove vedrai un Asilo infantile fondato nell'agosto del 1859."
Giaveno.
Lasciando per qualche ora le acque della Dora, nell'autunno del 1857 mi condussi lontano tre miglia al sud-est da Avigliana; e giunto alle rive del Sangone mi annunziarono Giaveno le mura cadenti de' tempi feudali e tre torri merlate, e il torrente Alasio che, scorrendo per le vie del paese, ricrea col murmure e colla lucidezza delle acque i sette mila abitanti, come un tempo la Dora Riparia per l'ampie arginate vie di Torino.
Visitai il seminario, poi collegio vescovile, di ventiquattro alunni, e vidi nel refettorio i ritratti dei cardinali Ferrero e Gerdil, e una lodata tela in cui è raffigurato Cristo che lava i piedi a S. Pietro; e quivi ricordai monsignor Lorenzo Renaldi, vescovo di Pinerolo, che proponeva nel 1854 di convertire quel seminario in sede della Missione italiana per i cristiani d'Oriente. Concetto altamente religioso e civile fu quello del Renaldi, e, quando l'Italia e la Chiesa torneranno in pieno accordo, dovunque esso metta radice, sarà sempre potentissimo mezzo perchè la nostra nazione eserciti la sua civiltà in Oriente col protettorato dei Cristiani, degnamente emula della Francia.
Due scritte trassero la mia attenzione in Giaveno. L'una sulla chiesa parrocchiale intorno al quadrangolare campanile che dice: Jam venit specula Pœnus, con le quali parole Giaveno dà l'etimologia del suo nome, asserendo colà Annibale essersi fermato non appena ebbe superato il passo delle Alpi.
Lascio agli archeologi le indagini intorno a tale asserto, e lascio di buon grado a Gaudenzio Claretta[27], zelante illustratore di quei luoghi, il provare che la leggenda Jam venit non è sancita[419] dalla critica. Con affetto io mi volgo all'altra scritta, Asilo infantile, che spicca sulla facciata di un bel fabbricato con verone di ferro.
Quell'Asilo fu aperto colla rendita di circa tre mila lire, che si traggono da legati ed azioni di soscrittori. Il teologo prevosto Arduino donò a tale scopo quarantaquattro mila franchi, e il Cav. G. B. Franco concesse per alcuni anni gratuitamente l'uso d'una sua casa al pio instituto.
Il teologo Morelli, additandomi quella scritta, ben altrimenti che col Jam venit della cattedrale, mi prediceva la futura vita intellettuale di quattrocento fanciulli di ambo i sessi, che si sarebbero accolti nell'Asilo, diretto da tre monache dell'instituto Cottolengo.
Per tal modo le manifatture di ferro, le concie di pelli, le filature di seta e le cartiere, mantenute dalla forza motrice del Sangone, industria e ricchezza di Giaveno, saranno frequentate da operai onesti e intelligenti.
Queste osservazioni io faceva nella principale cartiera del Cav. G. B. Franco, fra cento operai, presso la bellissima macchina ivi posta fin dal 1839; e perchè l'esempio di Giaveno trovasse imitatori, queste cose io ripeteva tornando dal Sangone alla Dora per visitare un antico Asilo di carità cristiana.
S. Antonio di Ranverso.
Tra Avigliana e Rivoli, vicino a Rosta, è un luogo che fu chiamato Rivo Inverso, e che oggidì, per le alterazioni che il volgo e il tempo vengono portando ai nomi propri, è detto Ranverso. Quivi nel 1181 due fratelli di santa vita, monaci spedalieri, Giovanni e Pietro, ponevano mano alla costruzione d'una chiesa e di uno spedale per la cura di quegli infelici ch'erano tocchi dall'erpete orribile, denominata fuoco sacro, che in breve consumava le membra che n'erano tocche.
Quel morbo crudele spesso infieriva nei secoli undecimo e duodecimo, e a Sant'Antonio della Tebaide, come a sperimentato protettore, s'indirizzavano preghiere e voti per esserne liberati: e perciò da quel santo s'intitolarono i monaci spedalieri, istituiti nel 1095 da Gastone, uomo di grande autorità, in Vienna del Delfinato, dove fu trasferito ed avuto in grande onoranza il corpo del santo Abate del deserto. Essi vestivano abito nero, e portavano alla parte sinistra del petto il Tau, segno mistico della potenza, che era una croce senza capo, di panno ceruleo, raccomandato ad un nastro sovra la cappa.
Questi monaci dal loro patrono presero nome di Antoniani, ed il beato Umberto III di Savoia da loro invocato si porse benigno a soccorrerli. Il 27 giugno pertanto del 1181 quel munifico principe concedette ai monaci di Ranverso una grande distesa di terreni, franchigie di pedaggi e dazi, e proprietà di molini e giurisdizione sugli uomini che abitassero ne' possedimenti degli Antoniani; il che venivali a costituire in grado di baroni. E tali cose donò e concedette a richiesta ed istanza del suo diletto e caro Giovanni, e di Pietro fratello del medesimo.
E chi era questo diletto del beato Umberto? Non poteva essere per certo un uomo volgare, che egli non avrebbe posto l'affetto suo in un dappoco. Conveniva pertanto che quel Giovanni fosse segnalato o per dottrina o per pietà: e vedremo che fu tale per l'un titolo e l'altro.
Le memorie di Ranverso e di quel Giovanni, che n'ebbe il governo, la veduta dell'antica chiesa di severo stile, del monistero a due piani murato a ridosso di verde ed amena collinetta volta a tramontana, e dell'edificio che già fu spedale di pellegrini, mi porsero invito a visitare que' luoghi in un bel mattino d'agosto (1865); e mi fermai in sulla piazzetta fra lo spedale e la chiesa pensando al sentimento religioso che ne consigliò l'erezione.
Gli Antoniani cessarono d'esistere, e S. Antonio di Ranverso ora è commenda che appartiene all'ordine dei Cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro. Il monistero annesso alla chiesa è abitato solamente dai cappellano e dall'economo che presiede agl'interessi della Commenda.
Lo spedale non conserva d'antico se non la bella gotica porta che mette al giardino, ed il luogo è quasi deserto. Incontrai alcune guardie forestali dell'Ordine Mauriziano, e nell'ospizio, ove un tempo si vedevano raccolti viandanti stanchi ed infermi, trovai una pia fittaiuola di Avigliana, che vincendo di ospitalità il brusco economo, mi accolse con atti cortesi nella povera ed unica sua stanza fra due bimbi e cani e gatti e polli. Quella madre dei due bimbi stese una bianca tovagliuola sulla rustica tavola, e mi porse una tazza di caffè e latte, col pan bigio di campagna.
Ed io ne fui lieto come a lauto desinare.
Il cappellano di Ranverso, Luigi Quartino, era andato al paesello Rosta, e non appena tornato mi riconobbe festivamente per il poeta di cui aveva udito i versi improvvisi nel verno del 1837, alunno nel seminario di Nizza.
Quel bravo sacerdote volle essermi guida su per l'ampia scala, e ne' corridoi del grandioso monistero, ed introdottomi nelle sue stanze mi aperse libri e notizie manoscritte da lui raccolte, importanti alla storia del luogo; e mostrommi la lista araldica di cinquanta stemmi di maestri ed abati dell'Ordine Antoniano, ch'egli fece trarre dalle pareti del chiostro e colorire con molta diligenza.
Io ne segnai gli appunti in un quaderno di memorie, e già sulla soglia della piccola sua biblioteca io stava per uscire col cappellano e visitare la chiesa, quando m'imbattei a faccia a faccia con un prete francese, che già aveva conosciuto a Lione dal 1838 al 39, fra i più venerati e dotti amici dell'Ozanam,[422] cui andiamo debitori di rare opere di letteratura storica e religiosa.
Deggio tacerne il nome per obbedire alla soverchia sua umiltà e modestia.
—Oh Regaldi! sclamò il prete francese cingendomi il collo delle sue braccia.
—Oh! signor abate, risposi io facendo altrettanto. E stemmo alcun tempo guardandoci l'un l'altro con sorriso di gioia.
Alla fine l'abate prese la parola e mi disse:
—Mio caro, il proverbio non falla: i monti stan fermi e gli uomini s'incontrano.
—Oh! senza dubbio, risposi, con lui rientrando nella biblioteca al dolce invito del cappellano, e ci sedemmo l'un presso l'altro in vecchi seggioloni a bracciuoli.
—Gli uomini, seguitai a dire, si muovono e s'incontrano. Io incontrai l'ultima volta il nostro rimpianto Ozanam nel 1841 in Sicilia, innanzi alle storiate porte di bronzo della basilica normanna di Monreale, e in certe antiche parole di quella porta salutammo insieme gli esordi della lingua che divenne tanto armonica e divina nel poema dell'Allighieri, di cui egli fu sublime interprete filosofando cristianamente. Ed ora incontro voi (e ne ringrazio il cielo), suo degno amico, pure innanzi a cristiano monumento, in luoghi ricchi di memorie religiose e guerresche.
Dacchè ci siamo conosciuti volsero molti anni, ne' quali ho corso l'Oriente studiando la storia del Cristianesimo e i fasti della cavalleria latina.
—Ed io, ripigliava egli, ho corso ormai tutta Europa, rovistando gli archivi polverosi, per suscitare nomi e storie d'insigni francesi che portarono fra gli uomini la fede, la scienza e la civiltà.
Spesso mi chiudo e vivo nella solitudine de' chiostri, e non[423] cercando i rumori della fama, colla pubblicazione di memorie anonime mi compiaccio di rivendicare a' miei antichi ciò che loro è dovuto: e qui, poco discosto dalle Chiuse, qui dove suonano gl'imperituri nomi di Pipino, di Carlomagno e di Rolando, non può a meno che non si rinvengano le notizie di qualche nostra gloria, di cui siansi giovate a vicenda la Religione e la Civiltà.—
Ciò diceva con quel fare enfatico, proprio de' Francesi, che cercano la loro patria in ogni terra, e fiso aspettando da me una risposta.
—Oh! ripigliai sorridendo, qui nel chiostro di Ranverso non credo che i vostri Franchi abbian lasciato veruna memoria. Il convento e la chiesa sono del secolo duodecimo, e debbonsi ad un Umberto di Savoia ed a Giovanni Gerso.
Il Libro De Imitatione Christi.
—Come, come! interruppe con enfasi l'abate, rizzandosi in piedi: Giovanni Gerson, avete detto?
—Per l'appunto. Gerso o Gerson vale lo stesso.
—L'autore forse de' quattro libri Dell'imitazione di Cristo?
—Senza dubbio.
—Ma allora questo monistero si deve ad uno dei nostri.
—Scusatemi, ottimo abate, se vi contraddico. Il Gerso o il Gerson della Imitazione di Cristo venne qui da Cavaglià dove nacque, e Cavaglià è un luogo di 2400 abitanti, nel circondario di Biella, sulla via maestra fra Ivrea e Vercelli.
—E il Monfalcon?
—Il Monfalcon nell'edizione poliglotta di Lione, per soverchio amor di patria, attribuì il famoso libro al cancelliere Giovanni Charlier, nato nel villaggio di Gerson, diocesi di Reims, e morto a Lione nel convento dei Celestini.
—Precisamente!
—Or bene, il vostro cancelliere, mio caro abate, era un Charlier, e il nostro monaco un Gerson, l'uno e l'altro dotto e pio, l'uno e l'altro rispettabile e benemerito della religione e delle lettere.
—E chi vi dice, ripigliava l'abate con un po' di bizza, che l'autore di quell'aureo libro non sia piuttosto il nostro Charlier che il vostro Gerso? Quanti uomini insigni non presero nome dal luogo natale, specialmente ne' tempi lontani!
—Voi dite bene, gli risposi; ma in controversie, come questa, mi concederete che le date e i codici debbano dissipare ogni dubbio e far risplendere la verità.
—Per l'appunto.
—Allora con calma cristiana uditemi. La storia del libro Dell'imitazione di Cristo e del vero suo autore, scritta dal cavaliere Degregori, e il codice De Advocatis da lui trovato nel 1830 in Parigi, nella libreria Techener, e donato all'archivio capitolare di Vercelli, sono gravi argomenti contro coloro che ne facevano autore il Kempis e il cancelliere parigino Gerson. Valenti bibliofili e paleografi giudicarono essere il codice De Advocatis del secolo XIII, quando ancora non erano nati nè l'uno nè l'altro dei supposti autori.
Ernesto Rénan, acuto indagatore, se non pio cattolico, quale voi siete, o Abate, è pure d'avviso[28] che nessuno di quei due sia l'autore d'esso libro; e il dotto vostro amico, conte di Montalambert, nella sua Storia di Santa Elisabetta d'Ungheria, celebrando il libro Dell'imitazione: cet ouvrage que tous les siècles ont reconnu sans rival, lo attribuisce pure al Monaco vercellese.
Io per rinvigorire il mio assunto non imiterò il Paravia nel suo elegante ed erudito discorso intorno al vero autore Dell'imitazione di Cristo, che primamente ai 2 di aprile 1846 recitava nell'ateneo di Treviso, nè seguirò il Rénan nel suo capitolo: L'auteur de l'imitation de Jésus-Christ, col citare a documento[425] il Diarium della casa Avogadro, nel quale fu detto essere registrata una nota, da cui risulterebbe che nel 1349 il prezioso codice Della imitazione era già da gran tempo posseduto dagli Avogadro, come tesoro ereditario.
Nessuno affermò di aver veduto quel Diario. Nol vide monsignor Giovanni Pietro Losana, vescovo di Biella[29], che testimoniò di aver veduta la nota famosa; ma a dir vero, sulla fede soltanto di un fac-simile, presentatogli dall'abate Gustavo Avogadro, fattosi innanzi ai dì nostri qual possessore del prezioso Diarium, uomo per altro dì molto credito tra i famigliari del cardinale Morozzo, vescovo di Novara. Non lo potè vedere dopo ripetute istanze il Degregori; nè il conte Filiberto di Colobiano lo trovò nella libreria dell'estinto Gustavo Avogadro, acquistata in nome della Regina vedova Maria Cristina. Monsignor Malou dichiarò il Diarium, chiffon de vieux papiers qui n'a aucun caractère authentique ou extrinsèque d'authenticité. Fu del Diario degli Avogadro probabilmente come della pergamena del cremonese monsignor Dragoni[30], con cui si provava ad evidenza che Martino, diacono di Ravenna, insegnò a Carlomagno la via delle Alpi. La pergamena tenuta come autentica dal Troya e dall'Odorici, venne giudicata falsa dal Vustenfeld, e dimostrata tale con inconcussi argomenti dall'esimio Francesco Robolotti.
Non vi parlo insomma di merce spuria o sospetta, ma di documenti irrefragabili che il conte Luigi Cibrario, primo segretario di S. M. per il gran Magistero dell'Ordine de' Ss. Maurizio e Lazzaro, scoperse nell'archivio di quell'Ordine, e che di buon grado vi mostrerà, come fece a me, con gentilezza pari alla nota sua dottrina.
Anzi, egli ne pubblicò una erudita e coscienziata relazione, e la trovate in questa libreria del Cappellano, nel volume delle Operette varie del Cibrario.
—Oh il Cibrario! interruppe l'Abate: l'autore della Economia Politica del Medio Evo, è scrittore grandemente stimato anche dai nostri Francesi, i quali non sogliono tener conto che delle vere celebrità.
—Non istento a crederlo.
—Ebbene, vediamo che dice il Cibrario.
Pregai il Cappellano ad aprirmi la libreria, ch'io aveva mezz'ora prima esaminata, e tratto da uno scaffale un volume del Cibrario stampalo dai Botta a Torino nel 1860, l'apersi alla pagina 425 e vi leggemmo: «Sovrabbondano poi argomenti e prove materiali per dimostrare che ad uno scrittore del secolo XII e XIII, non ad altri d'età posteriore, si debba attribuire il libro Dell'imitazione di Cristo. Prima di tutto, lo stile dove si vedono di quando in quando reminiscenze di quelle cadenze rimate colle quali s'intendeva ad abbellire la metà ed il fine dei versi ed anche le prose dei letterati dei secoli XI e XII—Parvus est dictu, sed plenus sensu et uberi fructu—Si posset a me fideliter custodiri, non deberet in me turbatio oriri».
—Oh! sì, sì, codesto è modo antico, esclamò l'Abate.
—Proseguiamo a leggere: «Poi la dolcezza, la semplicità dello stile, la scarsità delle citazioni convengono ai tempi in cui fiorì il fondatore di Sant'Antonio di Ranverso, e spiegano come il libro De imitatione abbia potuto attribuirsi da molti a S. Bernardo, che di alquanti anni lo precedette. Ed all'opposto dimostra il poco avvedimento di coloro che a Giovanni Gerson, cancelliere parigino, e peggio ancora, a Tommaso da Kempis, scrittori dei secoli XIV e XV, e di genio disparatissimo, lo attribuirono».
—Queste gravi ragioni del Cibrario mi entrano nell'animo, sclamò l'Abate francese.
—Ma procediamo innanzi, ripigliai io, vediamo che dice il Cibrario intorno ai codici del famoso libro controverso. Egli ne[427] cita sei: quello della Cava che dalla forma dei caratteri, e specialmente delle maiuscolette, riconosce evidentemente non potersi riferire fuorchè alla prima metà del secolo XIII; quelli di Polirone e di Vercelli, che appartengono al medesimo secolo; quello di Robbio in carta bambagina, ed altrettanto antico; quello di Arona, conservato nella biblioteca della R. Università di Torino; alfine è l'Allaziano, che il Baluzio, il Ducange ed altri autorevoli paleografi, giudicarono del secolo XIV. Ora, signor Abate, sapreste dirmi quando nascesse e quando sia morto il vostro Giovanni cancelliere?
—Credo nascesse nel 1360 o in quel torno, e morisse presso a poco sul 1430.
—Si fa presto, soggiunsi, a saperne precisamente le date. Ecco qua il Dizionario Universale del cav. Angelo Fava. Ecco l'articolo Gerson.... Vediamo: «Giovanni Charlier nacque a Gerson nel 1363 e morì a Lione nel 1429». Ora se il codice della Cava del libro De imitatione, nel quale è miniata l'effigie di un monaco Antoniano, fu scritto prima del 1260, non poteva l'opera essere dettata da chi venne al mondo un buon secolo dopo. Non parliamo del Kempis che nacque nel 1380, e morì decrepito nel 1471.
—Intorno al Kempis, m'interruppe l'Abate, io non avrei questionato mai. Tommaso da Kempis, di cui ho letto attentamente la vita, nacque in Prussia a Kempen, e si chiamava Hamerken, cioè Malleolus, ed essendo poverissimo, si fece monaco a Monte Sant'Agnese di Deventer, e da principio si guadagnava la vita copiando libri corali. Valente calligrafo, trascrisse poscia e ripetè Bibbie e raccolte diverse, e specialmente i quattro libri De imitatione Christi, cui scriveva in fondo finitus et completus per manus fratris Thomae a Kempis; e li mandava pro praetio a vari monasteri della Germania. Da ciò si vede che era un amanuense, un copista, ma non un autore, come indarno tentò dimostrare l'illustre prelato Malou.
—Ebbene, io replicai, v'invito a leggere per intiero questa erudita memoria del Cibrario, da cui si apprende eziandio che[428] il Gerso di Cavaglià era monaco Antoniano e non Benedettino, come si era creduto per lo innanzi, e che probabilmente s'iniziò alla vita monastica nella casa dei frati Spedalieri in Vercelli; dipoi qui venuto a fondare il chiostro di Ranverso, fu assunto alle più alte dignità del suo ordine religioso.
Non vi prenda maraviglia, ottimo Abate, ch'io m'intrattenga con tanto zelo a ragionarvi dell'autore del libro Dell'imitazione di Cristo: incontrerete altri e non pochi in Italia, che ve ne parleranno col medesimo affetto.
Presso Padova, nel cospicuo monistero di Praglia, il monaco benedettino Buzzone per molti anni volse l'animo a raccogliere in gran copia le edizioni a stampa di questo santissimo libro; e Murano, l'isoletta che fu prigione a Silvio Pellico, ne ha una raccolta più abbondante nell'antico ospizio di S. Michele. Inoltre un viaggiatore inglese narra nel Galignani (giugno 1859), che in Vercelli, mentre ardeva la mischia fra Italiani ed Austriaci sulle prossime rive della Sesia, un canonico nell'archivio capitolare gli mostrava il codice De Advocatis, e si riscaldava a provargli che l'autore di quel libro era il Gerson vercellese; e tutto ciò faceva il buon canonico con animo sereno, come se allora la guerra non tonasse alle porte della città.
Questi particolari dimostrano la riverenza profonda degl'Italiani al libro Dell'Imitazione, fatta più viva dalla maggior frequenza di lettori, allettati dall'elegante versione italiana dell'abate Cesari.
Caro Abate, non vi maraviglierete dunque che anch'io, come il monaco di Padova e il canonico di Vercelli, porti singolare affetto al Gerson che fu il fondatore di questo chiostro, e che forse meditò il celebre libro nella prossima chiesa che andremo a visitare.
—Ammiro, sclamò l'Abate, l'ossequio degl'Italiani al pio libro su cui tanto si è disputato. Benchè un nostro romanziere lo pigliasse a gabbo in questa età di scettici, pure le anime credenti, nelle tribolazioni, cercano conforto in quel libro, che il nostro Lamennais traduceva e splendidamente commentava nei giorni migliori della sua fede, e che il vostro Gioberti baciava morendo.
Così parlando mi strinse fortemente la destra e poi riprese:
—Sì, sì, il libro Dell'Imitazione è santissimo libro. Oh! come si sarebbe deliziato in questi discorsi il nostro lagrimato Ozanam, che tanto amò Francia e Italia, immedesimandole nel sentimento del bello e del vero. Egli, abborrente dagli spiriti di parte, e con intendimento tutto umano, avrebbe con noi conchiuso, che il libro Dell'Imitazione, sia dettato da un Francese, da un Italiano o da un Alemanno, è opera che onora tutta la cristianità.
—È vero, è vero, disse il Cappellano, ch'era stato sempre intento ad ascoltare il nostro dialogo, e soggiunse: Ora venite meco a visitare la bella chiesa fondata da Giovanni Gerson.
Usciti dalla stanza della libreria, e discesi per l'ampia scala in compagnia del Cappellano, andammo a visitare la chiesa; la quale, se non avesse che l'impronta della sua primitiva erezione, sarebbe un pellegrino monumento di cristiana antichità, ma le scemano importanza i ristauri e le posteriori costruzioni.
La sua facciata guarda a ponente, come tutte le antichissime del cristianesimo, sicchè il sacerdote che sale pel sacrificio all'altar maggiore, tiene il viso rivolto alle regioni di Terrasanta. La maggior porta, a sesto acuto, come ai lati le due minori, hanno cornici massiccie di mattoni finissimamente lavorati ad arabeschi. La porta principale non è a piombo col sovrapposto finestrone, ma esce dall'asse verticale notabilmente verso destra. Questo difetto di simmetria nelle finestre e nelle porte di molti antichi edifizi, non saprebbesi bene a che attribuirlo, se ad inscienza architettonica, o ad una certa noncuranza allora in uso. E chi vorrebbe tacciar d'inesperto il famoso Giotto, l'architettore di quel campanile di Santa Reparata in Firenze, che Carlo V giudicava degno di una custodia di cristallo? Eppure la famosa torre di Giotto ha la porta d'ingresso fuori del centro, nè questo arbitrio le toglie vaghezza.
Ma ritornando alla vetusta chiesa di Ranverso, nell'atrio a mano destra entrando, era un tempo effigiato nella parete S. Antonio benedicente, e lo stemma della R. Casa di Savoia, sul quale un'iscrizione latina riferivasi alla fondazione del chiostro. Tuttociò fu coperto da improvvida imbiancatura. Furono però risparmiati sopra la porta la Madonna con alcuni santi, e i bizzarri capitelli con fregi, fra cui sono scolpiti stemmi, animali d'ogni sorta, e teste di monaci incappucciati, colle braccia conserte al petto.
Levai lo sguardo allo svelto campanile, di quella foggia ardimentosa che fu detta gotica, e non è; perocchè i Goti più che erigere, distrussero, e se innalzarono edifici, non furono dedicati al culto cristiano ed a' suoi santi. La torre di Ranverso ha una sola campana di gran mole e di buon getto: è di forma quadrangolare con pittoreschi trafori e quattro piccole aguglie agli angoli, fra le quali spicca la quinta più alta, coll'anagramma antoniano. Piega alquanto al sud, facendo ricordare le torri pendenti di Pisa e Bologna. Nel lato sinistro della chiesa sulla piazza parla all'intelletto e al cuore un ottangolare piliere di grigia pietra, infisso nella roccia; il quale nella sommità finisce in dado su cui posa un pezzo di marmo bianco, scolpito da un lato colla figura del pellicano, da un altro con quella della colomba, simboli eloquenti della carità e della semplicità, virtù che, secondo la mente dell'institutore, dovevano splendere soprammodo nei benemeriti cenobiti Antoniani.
Entrammo nella chiesa, la quale ha tre navate; a sesto acuto quella di mezzo e la laterale a destra, ed ha la terza sformata da recenti costruzioni.
Alto cancello di ferro separa dalla chiesa il vasto presbiterio, dove su piedistallo sorge una statua in legno che tiene un libro nella mano sinistra, e la destra appoggiata ad un bastone, da cui pende un campanello. Rappresenta il patrono del luogo l'abate S. Antonio coll'anagramma T sull'abito nero.
Innanzi a quella statua, guardando all'Abate francese ed al Cappellano, domandai qual fosse il significato del T, tanto ripetuto nelle immagini degli Antoniani.
Il Cappellano prontamente rispose:
—Il Tau è segno di salute, come si legge in Ezechiello al capo IX: Omnem autem, saper quem videbitis Thau, ne occidatis; e la Chiesa, nella bolla di fondazione dando all'ordine Antoniano quel segno taumaturgico, lo appella signum potentiae.
—Dice molto bene l'erudito Cappellano, esclamò l'Abate francese; ma io opino il T significasse la specie di gruccia o bastone, di cui il santo anacoreta faceva uso, come lo vedete in questa statua, e il campanello che vi era raccomandato doveva forse servirgli per chiamare i suoi discepoli. Aggiungerei anco che i cenobiti Antoniani, tenendo appeso il campanello alla gruccia del lungo bastone, forse avvertivano li ammorbati di fuoco sacro, come i monaci del S. Bernardo i viandanti smarriti fra le grosse nevi di quell'alpestre passaggio.—
Si aderisca all'opinione del Cappellano o a quella dell'Abate francese, poco importa. Certo si è che il T è segno caratteristico degli Antoniani, per cui nel monumento di Ranverso sulle guglie intorno al frontone della chiesa, e su quelle dello spedale e del campanile sorge il simbolico anagramma in ferro; è scolpito sui quattro lati nel dado del piliere in piazza, ed è dipinto nella facciata della chiesa, e su gli stemmi lungo i vasti corridoi del monistero. Tutto colà ricorda i pietosi spedalieri coll'anagramma T proprio di quell'ordine benefattore.—
Ci appressammo ad ammirare l'icona dell'altar maggiore, monumento della pittura italiana in Piemonte. L'icona è formata da vari quadri dipinti sul legno col fondo in oro, e tramezzati da ricche scolture in legno dorate; il quadro di mezzo rappresenta la Natività di nostro Signore con a destra i santi Antonio[432] e Sebastiano, e a sinistra S. Rocco e S. Bernardino da Siena, che predicò in quella chiesa l'anno 1443. Nella base vi sono quindici piccoli quadri che ritraggono fatti relativi alla vita di S. Antonio.
Il prete francese, compreso d'ammirazione, mi chiese del nome dell'autore di quella mirabile icona.
—Alcuni la vogliono lavoro del Macrino d'Alba, altri del Gaudenzio Ferrari: io risposi, come aveva letto in qualche memoria.
—No, no, interruppe il Cappellano: non è opera di nessuno dei due. È lavoro invece di Defendente De Ferraris da Chivasso, al quale ne affidava l'esecuzione la città di Moncalieri il 21 aprile del 1530, come si ritrae da documenti trovati nell'archivio di quel municipio, e con atto del 16 gennaio 1531 gliene pagava il prezzo pattuito di fiorini ottocento e grossi dieci[31]. Il nome di Defendente De Ferraris deve entrare nella storia delle arti italiane: di lui sono probabilmente molti bei quadri che si trovano segnati D. D.—
Ci suonò gradita questa notizia in fatto d'arte, e domandammo al Cappellano, se si sapesse il perchè la città di Moncalieri tanto si adoperasse ad ornare la chiesa di Ranverso. Al che rispose il Cappellano:
—La pia città di Moncalieri, nell'epidemia, onde fu travagliata nel 1400, votavasi a S. Antonio di Ranverso, per cui facevasi eziandio erigere l'altar maggiore da cui sorge l'ammirata icona; ed ogni anno, siccome vien riferito dalla cronaca inedita di Moncalieri, nel dì della festa del Santo il sindaco di quella città, consiglieri, segretario ed usciere del Comune qui vengono nella messa solenne ad offrire all'altare antoniano un cero e danaro.—
Il Sepolcro di Giovanni Gerson.
Ciò detto, il Cappellano dopo di averci additato pregevoli affreschi nelle pareti della sagrestia ci ricondusse nel presbiterio innanzi all'antico sepolcro dei monaci Antoniani, e sclamò:
—Qui, come appresi da antiche carte, qui fu sepolto Giovanni Gerson, il fondatore del chiostro.—
L'Abate francese e il Cappellano chinando il capo sul sepolcro alternarono insieme una preghiera; e poi, mentre stavamo per uscire dal tempio, l'Abate dando un ultimo sguardo alla tomba del Gerson ripetè le memorande parole: Vanitas vanitatum et omnia vanitas.
—Oh rispettabile Abate, gli osservai: un altro grande italiano, Giacomo Leopardi, come Giovanni Gerson pianse le miserie della vita
«E l'infinita vanità del tutto».
Ma il Gerson si confortava delle umane calamità in Dio e nell'avvenire dello spirito immortale; all'opposto l'infelice Leopardi nella vanità del tutto rimaneva agghiacciato dallo scetticismo.
—Oh beato l'uomo che serba la fede, questo tesoro preziosissimo dell'anima! proruppe il Cappellano riconducendoci nella piazzetta presso al simbolico piliere.—
Un colono di Alpignano, inteso ai lavori campestri della Commenda, trovandosi accanto al piliere, nell'udire il Cappellano far cenno di un tesoro, voltosi a noi disse:
—Se vanno in cerca di tesori nascosti, vadano al mio paese; ve n'ha uno sepolto sotto il castello, che non si è potuto scoprire.—
Il colono di Alpignano ci mosse a riso. Mi accommiatai con affetto dal Francese, che recavasi al luogo delle Chiuse ed alla[434] Badìa di San Michele: ed io, ringraziato il buon Cappellano, volsi i pensieri e la persona al castello del tesoro.
Il Musinè.
Prima di parlare di Alpignano aggiriamoci sulle balze del Musinè, ossia Monte Asinaro, che più alto del Pirchiriano, sulla riva sinistra della Dora, sorge dal livello del mare all'altezza di 1168 metri.
Volli vedere l'idrofana[32], pietra che fu chiamata pomposamente occhio del mondo. Non pochi luoghi in Europa posseggono l'idrofana, fra i quali le isole d'Iheroè, la Sassonia, l'Ungheria e la Francia; ma forse più che altrove, se ne rinviene in codesto monte del Musinè, e trovasi sparsa nelle vene di calcedonio e di serpentina dura, che da ogni lato e in ogni direzione attraversano quell'altura tutta serpentinosa.
Io mi aggirava dunque tra le quercie e le viuzze del Musinè, quando m'avvenni in un bastracone di montanaro, che rovistava con lungo uncino tutte le pozzanghere fra quelle macchie, e domandatolo che facesse, mi rispose con sussiego:
—Cerco l'occhio del mondo.
E cercava l'idrofana, intorbidando le acque.
Andando oltre, e veduto veramente l'idrofana, udii il picchio di un martello sovr'un corpo di dura pietra; e traendo a quella parte, vidi uno scarpellino che tagliava un masso serpentinoso e ne formava una macina da grano.
—Oh! diss'io a quell'uomo attivo che sudava: Voi logorate le forze per averne una macina da molino di niun conto.
Ed egli, con sorriso di compassione:
—Tiro di martello questa macina, che riducendo in farina le mille sacca di frumento darà più guadagno di tutte le gemme del mondo.
—Ma pure colà giù presso al rio, quel pescatore dell'idrofana, con poca o nulla fatica raccatta tesori.
—Oh! mi rispose lo scalpellino molinaro, vossignoria prende un granchio, perchè quel cercatore quando ha raccolte le pietruzze colla scoria così informi le vende per poche lire, e lascia il guadagno agli speculatori di Torino, di Genova e di oltremare; mentr'io lavoro le mie macine, e tutto l'utile è mio. Oltre di che, preferirei sempre a una pietruzza, che poco produce, una mola da grano, che reca frutto al mugnaio e prepara il pane al paese.
—Ed io fo meglio di tutti; lavoro per la salute degli uomini: sclamò un terzo che aveva udito i nostri discorsi lì presso, come un risorto dal sepolcro, tutto coperto di polvere gialliccia, balzando fuori da un antro profondo di argilla, splendente del color dell'oro.
Chi era quello strano montanaro, basso di statura, col capo schiacciato come un cretino?
Un tal Pantalone di que' dintorni, che parla sovente di serpi e d'incantesimi, ed è trastullo de' monelli. Era affaccendato a trarre la magnesia da una cava scoperta, or fa cinque anni, con utilità del comune di Caselette, che ne concedette l'uso per la somma annuale di mille franchi.
—Evviva Pantalone! esclamò lo scalpellino. Come procedono i tuoi lavori?
—Benone, gli fu risposto: S. Abaco protegge il padrone che qui mi manda a lavorare in questa polvere raggrumata[436] dall'umido. Qui si scava in abbondanza la magnesia che il mio padrone vende a buon prezzo ai farmacisti di Torino.
—Buon Pantalone, io gli dissi, voi non lavorate soltanto per cacciare i malanni dal corpo umano, ma eziandio per rendere più bella la luce che ci vivifica, perchè vi ha un nuovo trovato, il filo di magnesio, tratto da questa polvere prodigiosa, il quale dà uno splendore pari alla luce elettrica che vedeste in Torino nelle feste dello Statuto.
Andai a pochi passi dalla cava di magnesia in Caselette, paesello di ottocento abitanti, che si distende sulle prime pendici del Musinè, ed ha al sommo un gotico castello, fiancheggiato da svelta torre cinta di merli. Quel castello, volto a mezzogiorno coll'amena vista della verdeggiante valle irrigata dalla Dora, appartenne ai principi di Acaia, di poi a nobili famiglie, fra le quali, ai Canale conti di Cumiana, ai Valperga del Canavese ed ai Cauda; ed ultimi a possederlo furono i conti Cays, antica famiglia nizzarda che n'ha tuttora la proprietà.
Per via fiorita salii al castello, e non appena feci annunziare il mio nome al sig. Carlo Cays conte di Caselette, che tosto egli mi accolse festosamente nel suo castello, come i più splendidi baroni del medio evo usarono coi trovadori, che andavano di terra in terra a celebrare col canto le imprese e gli amori della cavalleria feudale. In compagnia di lui e del caro ed unico suo figliuolo visitai le adorne stanze, che furono degne di essere abitate dalla madre e dalla consorte del nostro Re, nell'estate dell'anno 1854, ultimo della vita di quelle pietose e lagrimate Regine. Vidi un bel quadro fiammingo, L'adorazione dei Magi, di Francesco Franz, e l'oratorio domestico che finisce in dipinta cupoletta col nome di Maria nei vetri colorati. Mi fu mostrata la tribuna in cui solevano insieme orare le due pie Regine, come in Torino mirabilmente le scolpiva il Vela nella chiesa della Consolata. Mi fu pur mostrata una pianeta in tela[437] d'argento, ricca di bei ricami, cominciati dalla Regina Maria Teresa e compiuti dalla duchessa di Genova, cogli stemmi della loro stirpe aggiunti alla Croce di Savoia.
Uscito all'aperto, osservai appiè del castello l'erta via, per cui si sale al santuario di S. Abaco, persiano di origine, morto martire in Roma nel terzo secolo dell'êra cristiana.
Quella scabra salita fu agevolata dal conte Cays e da altri divoti, e decorata di quindici cappellette, che in tela rappresentano le stazioni della Via Crucis. Due delle cappelle furono fatte costruire dalle nostre Regine, ricordate nel Musinè per atti di evangelica pietà. Raccogliendo queste notizie, erravo nei pensili giardini del castello fra cedri ed ulivi, e per viali di cipressi; e presso un salice carezzato dal murmure soave di acque cadenti, salutavo ver occidente il regale castello di Rivoli e ad oriente gli ubertosi piani di Torino chiusi dal colle di Superga.
Mi accommiatai dal conte ospitale, e nel suo cocchio traversata la valle, giunsi nuovamente alle acque della Dora.
Alpignano.
Case modeste vidi lungo le due sponde del fiume, e per erbosi clivi in gran copia acque spumanti che mormorano e biancheggiano fra le ruote di un molino ed entro grotticelle coperte di musco e di edera, e una fucina di ferro che mi assordava coi ripetuti colpi del maglio, e un antico ponte a tre archi, rifatto nel 1740, onde si varca la Dora, e presso al ponte un grosso masso di roccia, il quale, al dir del volgo, nella notte dell'Epifania fa tre giri intorno a sè ben sensibili a chi ardisse in quella notte stare sopra quel masso dove apparvero i tre Re magi.[438] Queste sono le vedute e queste le leggende che trovai in Alpignano appiè del verde poggio, in cui fra gli olmi, i frassini e i platani, e fra ogni sorta di fiori si aderge il maestoso castello, sotto cui anco uomini savi credettero sepolto un ricchissimo tesoro.
Quel villaggio è sede di ozi beati, per cui la elessero a riposo delle cure politiche due vivaci intelletti, Pier Carlo Boggio e Felice Govean, allettati dall'amenità del sito e dalle storiche memorie.
Vuolsi che Alpignano prendesse il nome da un Alpino, romano, possessore di quel luogo. Si dice pure che vi stanziasse una colonia romana, la quale operò il taglio di una rupe per dare corso alle acque della Dora impaludate ne' luoghi adiacenti. Certo si è che diverse famiglie illustri ebbervi signoria. L'ebbero i principi d'Acaia, che nel secolo XIV ne investirono Guglielmo di Mombello, signore di Frossasco; e l'ebbero in feudo i conti di Provana, edificatori del vasto castello, che ammirasi riabbellito e ricco di ogni guisa di arredi ed ornamenti.
Morto senza prole l'ultimo feudatario nel 1797, il Governo rimase padrone di diritto.
Alpignano obbediva un tempo a quattro padroni, perchè parte di esso era dello Stato, altra porzione apparteneva alla Famiglia reale, la terza ai monaci e la quarta al feudatario.
Nel Governo si raccoglievano tutti i poteri, quando nel 1804 il Demanio francese vendeva il castello all'avv. Modesto Paroletti, che fu sul punto di demolirlo per cercarvi nelle fondamenta il desiderato tesoro; ma poi si persuase di lasciarlo incolume e venderlo ai fratelli Revelli, l'avvocato e il pittore, che vi portarono gli splendori dell'arte.
Dalla famiglia Revelli nel 1840 lo comperò il conte Michelangelo Robbio di Varigliè, e da questo nel 1863 lo acquistava l'avvocato Riberi, ornato giovane, che in mezzo a tanta amenità[439] di paese e in compagnia di colti amici mostrasi tutto applicato a nobilissimi studi, onde potrà illustrare sè e la patria, aiutato dal pingue retaggio lasciatogli dallo zio paterno, il celebre professore di medicina.
L'avvocato Paroletti, uomo di molta erudizione, intese forse d'imitare i cittadini di Oderzo, che nei contratti di vendita usavano la clausola salvo iure putei, salvo il diritto del pozzo, in cui furono nascoste le dovizie della città assalita da Attila. Egli pure nell'istrumento di vendita si riserbò il diritto del tesoro, quando mai si trovasse.
Non sembri tanto strana in Alpignano la diceria del tesoro, che acquistò credito dall'essersene trovato uno davvero nelle vicine terre di Pianezza, come mi osservava il conte Robbio, allorchè nel settembre del 1854 mi conduceva cortesemente a visitare il castello da lui posseduto.
Il pittore Vincenzo Revelli.
Il piemontese Vincenzo Revelli portò a! castello di Alpignano un vero tesoro coll'opera del suo ingegno. Architetto, scultore e specialmente pittore a' suoi tempi salì in molta fama.
Ai servigi dell'imperatore Napoleone I, si mantenne fedele nella prospera e nell'avversa fortuna, sicchè lo accompagnò esule nell'isola d'Elba, ove gli decorò e dipinse palazzo e teatro. Venne creato suo primo pittore al ritorno da quell'isola; ma, caduto nuovamente l'imperiale mecenate, il fido artista reduce in Piemonte fu consigliato di allontanarsi, perchè al Governo d'allora mal gradivano gli amici del Prigioniero di Sant'Elena.
Il Revelli andò a Londra, sicuro asilo ai profughi politici d'Europa, e colà eseguendo molti lavori per commissione, si[440] arricchì grandemente. Ma il nobile artista, preso dall'amore della patria, più che dal desiderio di nuove ricchezze, fra le nebbie del Norte invocava il sole d'Italia, e potè ritornare alla Dora, e chiamando la filosofia al consorzio delle belle arti, si ritirò nel sospirato suo castello di Alpignano.
Egli ne fece sede ben degna d'ogni più splendido signore. Nelle stanze del piano terreno avea raccolto un museo di storia naturale, e nel piano superiore, la parte più cospicua del castello, ornò sale, vestiboli e gallerie di stucchi ed affreschi, di statue e tele dipinte. Tutti lavori del suo ingegno, nei quali si ammira l'artista filosofo, che a principali soggetti elegge le scienze e la morale.
Le scuole diranno che il Revelli fu mediocre disegnatore, più felice nel trovare i concetti che nell'eseguirli; diranno ch'egli traeva grande effetto dal contrasto dei colori, de' quali però abusò, non osservando la gradazione e l'armonia volute dall'arte. Tuttavia, se pongasi mente ai tempi in che visse ed operò fra noi il Revelli, dobbiam pur dire che le sue immaginose invenzioni furono spesso con maestria eseguite.
Chi vuol giudicare dell'indole di questo facile pennello può vedere in S. Domenico di Torino La visione della Battaglia di Lepanto di S. Pio V; tavola, alla quale nuoce pur troppo la vicinanza della Madonna del Rosario del Guercino.
I luoghi più notevoli del castello sono quelli chiamati—Il Tempio della Filosofia,—Il Paradiso della Sapienza,—e La Grotta dei Leoni.
Alla Filosofia il Revelli consacrò la sala più vasta, nella quale effigiò varie figure allegoriche ed immagini di filosofi; e in quattro medaglioni ritrasse l'età dell'oro e quella del ferro, Belisario cieco e la Storia illuminata dal Tempo.
L'artista vagheggiò idealmente l'età dell'oro, sogno de' pensatori, e con amorosa cura la dipinse nel suo miglior quadro.[441] Egli vi ritrasse bella e maestosa donna che tiene colla mano sinistra la bilancia sospesa, e brandisce colla destra la spada innanzi ad eminente seggio in cui sta il libro della legge. Il caduceo, il fascio romano e il cornucopia vi sono dipinti a rappresentare il commercio, la concordia e l'abbondanza, frutti dell'età giusta e forte.
Si narra che quel quadro, in una esposizione artistica del R. Castello del Valentino dopo il 1815, fosse levato via per ordine superiore. Si sospettò che l'artista volesse accennare a reggimento repubblicano, imperocchè sul trono dell'età dell'oro non collocò il Re, ma la legge soltanto. L'artista imperiale era forse divenuto repubblicano?
Fosforescenti sipari da teatro mi parvero i dipinti, ne' quali con alto concetto il Revelli rappresentò lo stato selvaggio dell'uomo, ed i suoi progressi coll'aiuto delle scienze e delle arti, e l'ultimo fine nel trionfo della mente nel paradiso, dove Genii librati fra le nubi rendono omaggio all'Ente supremo, fonte perenne dell'amore e della sapienza universa.
La stanza intitolata la Grotta de' Leoni è dipinta come grotta, animata da un getto d'acqua assai elevato, che ricade in ampia vasca, cui stanno ai lati due leoni colossali, fra cui signoreggia la statua di Mercurio Trismegisto, inventore dei caratteri.
Sull'orlo della vasca stanno diversi augelli palustri imbalsamati, che imitano il vero e rendono più vera e gaia l'apparenza della grotta fantastica.
Presso un vestibolo dipinto a notte, dove sono le statuette d'Amore e Psiche, il pittore filosofo volle pure consacrare una camera a Lodovico Ariosto; e convertì l'antica prigione del castello nella grotta e nel sepolcro del mago Merlino, secondo la[442] descrizione che quegli ne fece nel canto terzo del suo svariato inimitabile poema.
Vi ha la maga Melissa con uno spettro appiè della tomba, donde un organo spande musiche misteriose. La grotta acquista solennità eziandio da notturni augelli, dal busto del re Arturo e dal ritratto dell'Ariosto, a cui sulla parete l'artista consacrò versi di grande ammirazione.
Se il gran Lodovico, fra i centomila volumi della preziosa biblioteca ferrarese, sorgesse per poco dal suo marmoreo sepolcro e si trasportasse nelle nostre valli subalpine, piene delle memorie di Carlo e dei paladini da lui cantati, cred'io che si piacerebbe di trovare nel fantastico castello di Alpignano rappresentate sì al vivo le facili ed insuperabili sue ottave!
Pianezza.
Il geologo Michele Lessona, che sulle sponde del Nilo mi accompagnò alle celebrate Piramidi, se da Alpignano per amena passeggiata sulla riva sinistra della Dora mi avesse accompagnato a Pianezza, certamente l'amico delle Piramidi mi avrebbe tosto condotto in mezzo al paese al Rocco, alla pietraccia sterminata da lui non ha guari descritta in un'appendice di giornale[33]; mi avrebbe guidato alla cappelletta di S. Michele che vi sta sopra, ragionando di storia naturale in cui è versatissimo, e svolgendomi le applaudite opinioni del professore Bartolomeo Gastaldi intorno a certi massi enormi nella valle della Dora, mi avrebbe dato una faconda e piacevole lezione intitolata: I massi erratici.
Io non ebbi sì lieta e desiderata ventura. Mi accompagnò invece all'arduo Rocco il conte Mariano X, non professore di scienze naturali come il Lessona, ma che poteva esserlo di sperimentata galanteria nel bel mondo.
Il conte Mariano fu mio collega nell'Ateneo torinese; e, laureatosi in legge, giunse grado a grado ai più alti uffici della magistratura, mentre io andava errante in lontane regioni; ed ora stanco delle faccende di Stato, lasciò le cariche luminose per ritirarsi a vivere pacificamente in amena villa nei giardini di Pianezza, come fanno non pochi provetti personaggi di Torino. Il conte Mariano, uomo di nobile aspetto e di brio, d'ingegno e d'erudizione, fu cercato nei circoli più cospicui dell'aristocrazia, ch'egli frequentò studiando la vita intima delle case patrizie.
Il conte dunque mi accompagnò in cima alla pietraccia sterminata; e, presso il S. Michele mal dipinto nella cappella, invitandomi a guardare intorno a quel masso tanto studiato dai geologi le case dei mille e quattrocento abitanti di Pianezza, così prese a favellarmi:
—Poeta, ti ho condotto per difficile erta a questa altura, perchè qui è dove meglio tu possa accenderti a nuovi estri, godendo dell'ampia veduta del paese.
Guarda ad oriente quella casa colorata in giallo e sormontata da una torricella: è la villa del barone Boggio, notevole per abbondanza e varietà di fiori, che gli rallegrano il giardino. Volgiti verso mezzogiorno se vuoi salutare la villa ospitale del cav. Bartolomeo Geymet, che fu de' migliori nostri consoli in Oriente, architettatagli dal caro e valoroso suo figliuolo uffiziale nel Corpo del Genio. Nella parte opposta v'ha la bella casa del cav. Borbonese; e vedi uno stupendo edificio con porticato, presso cui verdeggiano due cipressi e risalta la torre ottangolare accarezzata dai rami del salice piangente, che ora tremano al soffio di leggiero venticello. È del Blanchetti quel palagio su cui si alza la cupola di foggia chinese, che contrasta col prossimo campanile della chiesa del Nome di Maria. Nella medesima direzione a tramontana sui verdi campi biancheggia[444] l'antico santuario di S. Pancrazio, distante un miglio. Ma tu, illustratore di castelli diroccati, sei tratto ad ammirare qui presso la casa del barone Massara di Previde, la quale ha torre rosseggiante ed è dipinta con apparenza di recente rovina.
Potrei accennarti altri eleganti edifici, ma nessuno più sontuoso della villa Lascaris, la quale a ponente del paese ora andremo a visitare accosto alla chiesa parrocchiale, il cui campanile è l'antica torre del Comune che ti si presenta cerchiata da folte selve.—
Ringraziai l'amico Mariano della descrizione e dell'aiuto datomi nello scendere per la rupe discoscesa, mentre ci deliziava armonica voce di donna che nella vicina abitazione disposava note soavissime al suono del pianoforte.
La magnifica villa edificata sui baluardi del rovinato storico castello di Pianezza fu dei marchesi Lascaris di Ventimiglia, sangue degli imperadori d'Oriente.
Agostino, l'ultimo marchese, la decorò di arredi, giardini e dipinture. Dal Morgari, valente artista subalpino, fece in essa ritrarre a chiaroscuro fatti militari della R. Casa di Savoia, e uomini illustri d'Italia; e nel 1835 legava la sontuosa villa a monsignor Fransoni arcivescovo di Torino ed a' successori suoi nel seggio episcopale. Ora, da alcuni anni, la villa è in custodia del R. Economato ecclesiastico; epperciò al sommo della porta che mette negli appartamenti, sotto il busto del donatore, si legge in lettere incise e dorate nel marmo:
AL LIBERALISSIMO DONATORE
MARCHESE AGOSTINO LASCARIS DI VENTIMIGLIA
L'ABATE VACCHETTA ECONOMO GENERALE
NEL MDCCCLXIII POSE.
Il conte Mariano mi condusse a visitare le cose più belle della villa, e nella sala da bigliardo mi additò effigiati Carlo[445] Emanuele III, i liguri Cristoforo Colombo e Andrea Doria, e il torinese Bogino, insigne uomo di Stato, che servì la patria nella guerra del 1742 contro la Francia. Mi additò il ritratto del Lagrange che ha in mano un volume, su cui si legge: Meccanica analitica, e Vittorio Alfieri che ha in mano un libro, ove si legge: Saul. Poi mi additò il Micca dipinto in atto di mettere il fuoco alla fatal mina, morte a lui e vita alla patria; e con pennello e tavolozza ritratto il Galliari, il quale condusse molto innanzi la pittura scenica in Italia, e decorò con istupenda maestria il teatro di Berlino.
Giustamente avvertiva il conte Mariano, che Micca e il Galliari, essendo ambidue nati in Andorno, paesello del Biellese, rappresentano il Piemonte, nobilissimo santuario dell'armi e dell'arti alleate.
Adele Cavour-Lascaris.
Attigua alla sala da bigliardo, stanza di letizia e di amabili adunanze, vi ha la domestica chiesuola ove dormono sotto marmi inscritti le ceneri di parecchi della famiglia Lascaris.
Quivi m'introdusse il conte Mariano, e additommi nel mezzo del presbiterio la tomba del marchese Agostino, ed alla destra l'avello dell'unica sua figlia Adele, inanellata al marchese Gustavo Cavour, morta di parto in Torino, in età di ventisei anni.
Il conte, riguardando con dolore alla lapide della marchesa Adele, si mostrò vivamente commosso, e proruppe nelle seguenti parole:
—Poeta, se tu avessi conosciuto la marchesa Adele, ne' tuoi canti l'avresti salutata angelo di bellezza e di virtù. Tu avresti detto, che le grazie delle più vezzose ed onorate donne di Grecia e d'Italia si fossero accolte ad ornare l'ultimo germoglio della Casa Lascaris. Io la conobbi. L'oro del crine, la luce degli occhi[446] azzurri, il nobile portamento e gli atti e gli accenti pieni di soavità, spandevano dovunque una gioia di cielo.
Non di rado era assalita da misteriosa malinconia, e fra le pompe del secolo tratta da pensieri religiosi a ragionare colle amiche della vanità delle cose terrestri e dell'avvenire dell'uomo. Nell'aprile della vita ne presentì la sua fine, sicchè prima del parto, onde venne alla luce il figlio Eynardo, andò ad accommiatarsi dalle sue più dilette amiche; ed io la incontrai, tre giorni prima ch'ella morisse, in casa della mia sorella Cristina, a cui dando un amplesso affettuoso disse: amica, ti do il bacio dell'addio, perchè sto per imprendere un lungo viaggio.
—Ma, caro Mariano, io lo interruppi, perchè mai questo angelo di bellezza e di virtù non fu sepolto a Sàntena nelle tombe della famiglia Cavour?
—Così volevano il desolato consorte e lo suocero marchese Cavour, ripigliò il conte Mariano. Con amorosa istanza il padre marchese Agostino richiese la salma di Adele, e la ottenne, per aversela sempre vicina, con promessa che non rimarrebbe in questa tomba oltre la vita di lui.
Di poi, per dissapori nati fra le due case, il marchese Lascaris, dimenticando, o troppo rammentando la promessa, trovò un modo singolare per assicurarsi la sepoltura presso l'amatissima figliuola. Legò il castello di Pianezza colle sue adiacenze e gli arredi alla Mensa arcivescovile di Torino, con l'espressa condizione di non permettere che da Pianezza fosse levata la spoglia della marchesa Adele.—
Usciti dal palazzo, passeggiammo nel parco, veramente grandioso, fra il canto degli augelli e il mormorio della Dora. Scendendo ad ostro, giungemmo alla galleria sotterranea del castello, nella quale, fra oggetti d'archeologia, si conserva la bella marmorea tomba del poeta cav. Filippo Vagnoni. Quel sarcofago, caduto in potere dei frati di Vinovo, fu convertito in vasca da[447] lavare, e poi servì ai villici per abbeverare gli armenti. Il marchese Agostino Lascaris, conosciutone il pregio, contentò i villici con un abbeveratoio di legno, ond'egli potè far trasportare nei sotterranei del castello il sarcofago, fra i pipistrelli che svolazzano sopra le ammirate sculture di argomento mitologico.
Maria Bricca
L'edera si abbarbica nell'arco della porta che mette al sotterraneo, e nel piccolo piano che vi sta innanzi, un antico albero di noce, ed acacie e cipressi sorgono intorno alla colonna, in cui si legge: A Maria Bricca.
L'avvocato cagliaritano, Giuseppe Orano, giovane di fervido ingegno e di molto zelo negli studi, che si aggirava a diporto in que' dintorni, erasi aggiunto alla nostra compagnia nei viali del parco, e con noi entrato nei sotterranei; ond'io innanzi alla colonna memoranda, voltomi al conte, dissi:
—Caro Mariano, tu che, qui dimorando, sai meglio di me il fatto glorioso di Maria Bricca, narrane, ti prego, i particolari a questo giovane sardo, il quale, nell'udire da te le imprese dell'eroina di Pianezza, ricorderà volentieri quelle della eroina di Sardegna, Eleonora di Arborèa.
—Ben volentieri, rispose il conte Mariano, mentre il giovane sardo gli faceva atti di ringraziamento.
Sedemmo dunque sul poggio erboso dirimpetto all'ingresso del sotterraneo, e il conte guardando alla colonna, così parlò:
—Il castello di Pianezza non solo rammenta alle donne italiane un raro modello di beltà, di grazia e di virtù nella marchesa Adele Lascaris-Cavour, ma eziandio un patrio esempio di magnanimo ardire in Maria Bricca.
Nel settembre del 1706, i Francesi stringevano d'assedio Torino. Pietro Micca col suo sacrificio aveva dato un crollo alla gallica baldanza, mentre Vittorio Amedeo e il principe Eugenio[448] apparecchiavano il pieno trionfo de' Subalpini. Tuttavia i Francesi imbaldanzivano presso la città, e una loro squadra di cavalleria, occupando questo castello, sollazzavasi in banchetti e danze.
I soldati piemontesi, vigili sulla riva opposta della Dora, per cacciare i nemici da Pianezza si affidarono agli accorgimenti di Maria Bricca, vecchia contadina del luogo, devota a Casa Savoia, pratica delle vie occulte del castello, e pronta ai rischi della guerra.
La sera del 5 settembre era gonfio il fiume, onde gli ufficiali francesi, non sospettando che i soldati piemontesi ardissero valicarlo, sicuri d'ogni pericolo, facevano insolita baldoria. Maria Bricca vide essere quello appunto il momento propizio all'impresa, e, datone avviso al campo degli Italiani, tosto, protetti dal silenzio della notte, furono a lei cinquantacinque de' nostri granatieri armati.
Maria, con in mano una scure, chetamente li condusse nei sotterranei, innanzi cui ci troviamo a ragionare di lei. Quindi, accese alcune fiaccole, per riposti anditi e scale segrete li guidò alla chiusa porta del loggiato superiore che metteva alla gran sala da ballo. A colpi di scure la scassinò, e bentosto fu dentro coi granatieri, gridando: Viva Savoia! I danzanti sbalorditi alla prima credettero che fosse una scena da teatro; ma al ripetuto grido di Viva Savoia! si avvidero di essere in cospetto di una nuova Giuditta, e indarno tentarono resistere ai gagliardi assalitori. Maria Bricca e i bravi nostri granatieri furono addosso ai Francesi e li costrinsero ad arrendersi. Furono fatti prigionieri sonatori e ballerini, due generali, ottocento uomini fra sotto-ufficiali e soldati; bandiere, artiglierie e vettovaglie del nemico caddero in potere de' nostri. Dopo tre giorni, la gran battaglia di Torino mise il colmo al nostro trionfo, al quale contribuì grandemente l'animosa Maria Bricca coi cinquantacinque granatieri piemontesi.—
Il giovane sardo, lieto di questo racconto, a me indirizzandosi, sclamò:
—Signor professore, questa Maria Bricca è dunque famosa[449] come la Eleonora d'Arborèa, in onor della quale ella promosse l'Accademia letteraria nell'università di Cagliari?
—Non tanto, gli risposi. Maria Bricca di Pianezza deve essere annoverata colla Segurana di Nizza, colla Cinzica di Pisa, con Beatrice di Luserna e la Stamura di Ancona, e con altre valorose che giovarono alla salute della patria. Ma Eleonora, la celebre giudicessa di Arborèa, legislatrice e condottiera di eserciti, ed esempio magnanimo di carità cittadina, è la donna più gloriosa che splenda nelle Storie d'Italia.
Ogni madre dovrebbe tenere l'effige di Eleonora nel luogo più cospicuo della casa, e proporla ad insegnamento della famiglia. Quando gl'Italiani, facendo atto di bella fratellanza alla Sardegna, concorreranno con offerte ad erigere sulle rive del Tirso in Oristano il monumento alla celebre eroina, io proporrò che nella marmorea base si abbiano a ritrarre in basso rilievo, quasi in ossequio ad Eleonora, parecchie altre illustri donne d'Italia che cogli accorgimenti politici e militari onorarono la nazione; e prime fra queste la regina Teodolinda, la contessa Matilde, la Segurana, la Cinzica, la Stamura, Beatrice di Luserna e Maria Bricca, che snidò gli stranieri dal castello di Pianezza.—
Il giovane sardo si mostrò contento alla mia proposta, e il conte Mariano mi strinse la destra con segni di approvazione.
Collegno.
Accostandosi a Torino, s'incontra Collegno, villaggio di 1700 abitanti.
I luoghi antichi nei dintorni delle città spesse volte prendevano nome dalle distanze. Presso Cagliari vi ha Quarto, Sesto e Settimo; presso Bologna vi ha Quarto e Sesto, e Sesto pure è ne' dintorni di Firenze; Settimo a sette miglia da Torino, e ad Quintum, a cinque. Quest'ultimo luogo ora è detto Collegno (latinamente Collegium), e sorge a maestrale ed a tre miglia[450] piemontesi dall'augusta città della Dora, perocchè la misura subalpina sta all'antica romana come tre a cinque.
Collegno siede nel piano sulla riva destra del fiume, la quale essendo più elevata della sinistra, offre verso ponente e borea una veduta assai estesa, e vanta salubrità di clima. La Dora vi scorre in alveo profondo sotto il castello e il paese fra sponde artificiali di grosse pietre saldissime, e si dirama in quattro gore, appellate canali e bealere, che fecondano l'aprico territorio dell'intiero Comune, lieto di prati, gelsi e pometi.
Tre pensieri mi rimangono di Collegno, il castello, il molino anglo-americano ed il manicomio.
Il castello di Collegno è assai antico. Tutta Italia fu munita sui monti di tali fortezze, o per difesa di un feudatario contro un altro, per frenare l'impeto degli stranieri che spesso irruppero su le nostre belle contrade, contenti di trovarle discordi e miseramente divise.
Codesto castello seguì le vicende del paese, passando di padrone in padrone, di rovina in rovina. I Francesi che nel secolo decimosesto cerchiarono Torino di fortificazioni, da essi poi smantellate ai tempi napoleonici, atterrarono molta parte di questo castello prima della loro sconfitta a S. Quintino. Una parte sta ancora in piedi ad attestare la fortezza del tutto, atto e disposto a resistere al morso dei secoli, non che alla rabbia degli invasori.
Quell'ampio palazzo, che vedesi là a maestrale verso la Dora, appartiene ai Provana di Collegno, e fu innalzato su gli avanzi del combattuto castello. La sua torre, che domina il bastione Verde a guisa di cittadella, n'è pure avanzo. Ora non serve che a bellezza pittorica.
Nel 1854 mi feci alle porte di quel palazzo cinto da giardini, e il nipote degli antichi feudatari mi permise che, accompagnato da un suo servo, io vedessi su vasta tela l'effigie di un illustre suo antenato, vestito alla spagnuola, e che fra massicci muraglioni e per iscala di legno salissi la vecchia torre.
Sorgente da folte selve, quella bruna torre veduta da lontano pareva che al sommo portasse un vaso enorme di fiori e frutti. In cima del torrione ai quattro angoli trovai quattro aceri cresciuti a maraviglia: tre erano imbozzacchiti come molti alberi delle schiatte feudali; uno reggeva agli anni.
Il sole mi dardeggiava, e l'acero vivo avviticchiato dai tralci di vite vergine mi proteggeva della sua ombra, mentre io guardandomi intorno, pensava a certe reliquie di reggimento feudale rimaste a Collegno, nei quaranta franchi che il Comune pagava alle guardie, e negli ottocento franchi di canone al conte del castello.
Forse ogni resto di feudalismo cessò ora che eziandio la vecchia torre spogliata degli aceri perdette il bruno aspetto del medio evo e si volle ringiovanirla coll'imbiancarla.
«Il secolo si rinnova, e si deggiono operare grandi riforme», andavasi ripetendo sul Bosforo ai tempi del sultano Mahmud: e il sultano, volendo provare di essersi posto a capo delle civili riforme, cominciò dal far imbiancare le moschee e spogliarle de' vecchi arredi, anche preziosi, per sostituirvi i nuovi, talvolta di poco valore.
Così fra noi, «Il secolo si rinnova», si va gridando, e s'imbiancano gli atrii storiati de' santuari, s'imbiancano le brune torri del medio evo, e nella mia Novara si è atterrata la vetusta cattedrale di arte cristiana, per erigervi invece una chiesa di arte profana.
Non coll'imbiancare o col rovinare antichi monumenti si rinnova efficacemente il secolo, sì bene col far prosperare le arti, le industrie ed i commerci.
Dove sono acque, ponno fiorire industrie speciali; infatti Collegno si avvantaggia di ferriere, conce di pelli e filatoi da seta, lavoro e vita a centinaia di operai. Fra le fucine animate dalla Dora è degno di singolare ammirazione il molino per la[452] macinatura delle farine col sistema anglo-americano, discosto, verso ponente, un mezzo miglio dal paese.
Colà era noto il piccolo antico molino della Barca, così detto dal navicello onde si varca tuttavia la Dora. Nel 1852 il piccolo molino fu convertito nel grandioso opificio che ora si ammira, costrutto col disegno del commendatore Grattoni, uno dei tre ingegneri che conducono e dirigono gli arditi lavori pel traforo del Cenisio.
Iniziatore dell'opificio anglo-americano fu il conte Camillo Cavour, il quale in tutto tendeva al grande, così nell'industria come nella politica. Egli probabilmente nel piccolo molino della Barca, alzato ai sommi gradi dell'industria, avrà ravvisato il piccolo paese appiè dell'Alpi, che negli accorgimenti politici saliva sì alto da diventare il mezzo più efficace del rinnovamento italiano.
Due cortesi uomini esercitati ne' commerci e nell'industria mi vi accompagnarono, Luigi Brun, mio nipote, valente spinettaio, che meritò diverse medaglie nelle nostre esposizioni nazionali d'industria e commercio, e Venanzio Marchese, energico direttore dell'opificio.
Appena entralo nello stabilimento, mi sentii assordare dal continuo frastuono delle acque e delle macchine, linguaggio della natura e dell'arte che sono in moto per aiutare l'industria umana e soccorrere ai bisogni della vita.
L'edificio sormontato da torre quadrangolare è un quadrato a cinque piani che a modo di penisola è cinto dalle acque della Dora, qui chiuse e quiete in canali, là irrompenti e schiumanti per cateratte, fra pioppi, acacie ed avellani.
Mi piacque visitare i magazzini e gli ordegni del pian terreno e de' cinque superiori. Un magazzino costrutto a galleria, con le pareti e i pilastri asfaltati per assicurarlo dai topi e dall'umidità, può contenere quattordici mila quintali di grano. Vi si versano tuttodì in grande quantità frumenti del Piemonte e di altre province italiane, e grani provenienti dal Mar Nero, dal Mar d'Azoff e dalle rive del Danubio. Gittando lo sguardo[453] sotto le sei arcate di quella galleria piena di frumento, tosto mi si presentò lo spettacolo di gaie collinette che si succedono le une alle altre. Frattanto il signor Marchese gettavasi agilmente qua e là sulle brune collinette che cedevano sotto i suoi passi, e distingueva le diverse qualità dei grani dal loro peso e colore, come l'orefice distingue le qualità delle pietre preziose.
Vidi ventiquattro paia di macine di pietra francese, detta di Laferté, e i tubi conduttori delle acque, dei grani e delle farine, e i crivelli pulitori e i frulloni, e le ruote dentate, che dànno il moto per mille meandri alle mole stritolatrici.
Io mi sentii raddoppiare la vita allo spettacolo di tanto moto, e tra la faccenda continua dei robusti operai sparsi di farina gli abiti, le guance e le scomposte chiome. Colà ogni pensiero s'agita nel frumento. Mi fu aperta una vasta camera piena di candida farina, che mi parve un colle di neve recente. Mi si mostravano sacchi di grano che salivano e scendevano assicurati ad uncini; e in vaste gallerie mi si additavano a cento a cento schierati e suggellati quelli di farina che dovevano spedirsi in Italia e fuori, anche in Egitto.
Domandai se quell'opificio appartenesse ad una società di azionisti.
—Per l'appunto, mi fu risposto.
Domandai se altri opifici di simil genere siano in Italia, e il nipote Brun mi rispose:
—Ve ne hanno altri: presso Alba ed in Settimo nel Piemonte, e a Pontedecimo nella Liguria, ma di minore importanza. Ve n'ha uno a Trieste, un altro a Livorno, ma a vapore; non vasti come questo di Collegno, ove le macchine hanno ciascheduna la forza di 120 cavalli, e si macinano ogni giorno seicento quintali di grano.
—Dunque, io esclamai allegramente fra i due cortesi che mi accompagnavano: dunque il Piemonte oggigiorno è sempre il più solerte operaio nella realtà della vita. Il Piemonte vanta le armi, l'industria e il miglior molino per la macinatura delle farine, come la Toscana vanta le arti, la poesia e l'Accademia della Crusca.
Da un opificio, creazione di menti sane ed operose, passo al più bello ed elevato luogo di Collegno, ad un pietoso ospizio ove sono curati i mentecatti.
Il palazzo di Bernardino Data, tesoriere ducale, fu comperato nel secolo xvii dalla Duchessa Cristina per dar ricetto ai Certosini di Avigliana, cacciati dal lor nido. Nel 1649 i cenobiti entrarono nel sontuoso palazzo, a cui tolsero l'aspetto profano per dargli l'impronta religiosa cogli splendori dell'arte secondo il gusto del tempo.
Nello scorcio del secolo passato, insieme con altri ordini religiosi, fu soppressa la Certosa di Collegno, e fu riaperta ai frati di S. Brunone dopo il 1815; e nel 1852 venne convertita in succursale del Regio Manicomio di Torino.
Diciotto cenobiti nel dì della loro soppressione abitavano quell'ampio edifizio, con eleganti portici, col giardino dell'area di trenta giornate e con un vasto e fertilissimo campo. Ora vi sono ricoverati più di 400 matti, gente operaia e campagnuola in gran parte. Entrai per la bella porta della Certosa d'ordine ionico, fra colonne, statue e cartocci, e fui condotto negli ampi chiostri e sotto gli spaziosi porticati, a visitare il luogo assegnato agli uomini, e quello per le donne, e la stanza delle epilettiche. Nessuno trovai legato: molti degli uomini lavorano nei campi vicini e se n'avvantaggiano di salute e di danaro, e molte donne filano, assistite dalle Suore di Carità.
In quel manicomio, come altrove, si è riconosciuto che l'orgoglio e la superstizione religiosa negli uomini, e la passione dell'amore nelle donne sono le cause principali delle infermità mentali. V'hanno pazzie intermittenti come accade delle febbri; onde talvolta credete di ragionare con un uomo di mente sana, ma poi a un tratto v'accorgete che sta per riassalirlo l'infermità.
In mezzo dell'ampio cortile sorge un poggio allegrato di alberi. Colà trovai un uomo di bell'aspetto e d'alta statura, vestito di prolisso soprabito bruno, dignitoso del portamento e dello sguardo,
«Lunga la barba e di pel bianco mista»,
lunghi pure i capelli. Egli mi si fece innanzi, e, dopo avermi invitato ad intrattenermi con lui, prese a dirmi:
—In cotesto luogo vengono a diporto ogni giorno i matti pacifici, de' quali tutti potrei narrarle per filo e per segno la vita.—
E mi accennava man mano diversi di que' mentecatti, e dicevami:
—Colui ch'ella vede presso quel tiglio appoggiato a lungo bastone, si crede di essere Cristoforo Colombo, ritto in piedi presso l'albero maestro e con un remo in mano: l'altro, seduto accosto a quella fontana, che sta in atto di scrivere, dice di essere il Petrarca al fonte di Sorga intento a dettare la canzone—Chiare, fresche e dolci acque;—e quel terzo più in là, rannicchiato su quel mucchio di mattoni, gonfia le gote e soffia, e pretende di essere il Dio Eolo.—Lo vede?
—Lo veggo.
—Andando nel recinto delle donne, si guardi dalla vecchiaccia che accarezza una tegola e se la stringe al seno e la culla come un bambolino. Ebbene! Colei vorrebbe essere la nutrice di Napoleone I. La poverella è vedova d'un uffiziale Còrso, che militò sotto il primo Impero, ed ha la smania di nutrire gli eroi. Io non posso andare nel recinto delle donne, ma ne ho tutte le notizie. Ella avrà pur veduta fra loro la regina del Borgo del Pallone, che passeggiava un giorno per Torino, vestita di cenci di seta, con piume in capo e un parasole color di rosa,[456] quando fioccava la neve e infuriava la gragnuola. Essa stringe pur oggi lo scettro, che è un vecchio scudiscio, fasciato di nastro bianco e rosso, e ornato in cima di fiorellini. La meschinella si è qui ridotta, o a meglio dire, è stata qui chiusa, perchè i monelli di Torino dandole la baia e facendone strazio l'avevan resa furiosa.
—Infelice!
—Oh sì, infelice!—Oh veda, veda que' due, che vengono in qua a passi gravi e lenti, brontolando e guardando gli altri con atteggiamento di protezione.
—Li vedo.
—Costoro sono i più cari matti del mondo. L'uno di loro pretende di essere Pio IX, e l'altro Vittorio Emanuele II.
—Oh!
—Ma non sono.
—Lo vedo.
—E vorrebbero darla ad intendere a me, anche a me! (e alzava la voce) a me! (e si faceva rosso in viso) a me che sono il Padre Eterno, e dovrò definire le loro controversie!—
In così dire sbarrò gli occhi, rizzossi in punta de' piedi, squassò la testa, e fece stranamente ondeggiare la barba ed il crine.
Io mi strinsi, allontanandomi dal verde poggio, presso il dottore Filippa, che gentilmente mi accompagnava, e lasciai nel suo Eden il Padre Eterno.
Nell'allontanarmi, domandai al dottore Filippa se in quel manicomio fosse qualche uomo di lettere; ed egli rispondendo affermativamente, mi condusse in una stanza, ove mi sentii stringere il cuore da grave angoscia.
Colà, appoggiato ad un guanciale, vidi un professore pallido, e stravolto gli occhi. Egli è giovane, sposo e padre. Infelice! Ha perduto la mente! Egli mi conobbe e mi chiamò per nome.[457] È il professore Bongiovanni di Possano, che insegnava lettere italiane nel Collegio militare di Asti.
Era tranquillo il Bongiovanni, e mi disse che presto sarebbe uscito di colà per tornare all'insegnamento, non della letteratura italiana, ma della musica; ed entrò in certi discorsi intorno all'arte de' suoni, che accennavano a nobili studi turbati da infermità mentale.
Lamentiamo il Bongiovanni e lamentiamo noi medesimi. Chi può dirsi del tutto sano di mente?
«Ciascuno è matto nella sua maniera», lessi in tre luoghi a grandi caratteri sulle mura del Castello d'Alpignano.
Sì: dal più al meno siamo assaliti da pazzie intermittenti noi tutti figli dell'uomo, che ci logoriamo il cervello e il cuore per ambizioni ed amori su questo atomo di polvere, che si chiama terra, in questo minuto secondo del tempo, che si chiama vita umana.
«Ciascuno è matto nella sua maniera».
E forse non lo sono io pure, che in riva alla Dora torno le due e le tre volte a visitare gli stessi luoghi, le chiese, i castelli, i conventi, per iscrivere qualche pagina e nulla più? Non è questa una nuova pazzia? A che servirà il continuo travaglio del mio pensiero?
Qualche amico mi conforta dicendo: Servirà a dar una viva illustrazione di paesi che amate e che vi ricorderanno con affetto.
Pazzia è l'illudersi in tale speranza!
«Ciascuno è matto nella sua maniera».
Ripeterò anch'io la terza volta col Castello d'Alpignano.
La mia illustrazione non è Storia esatta del Piemonte, come un bel libro del Cibrario o del Ricotti; non è una descrizione particolareggiata e statistica de' luoghi, come il Dizionario degli Stati Sardi del Casalis, e nemmeno uno splendido complesso di letteratura e politica, come I miei tempi del Brofferio. Il mio[458] scritto è un lavoro capriccioso, non altro: e il secolo, annoiato de' capricci, vuole cose serie.
Dunque io sono un matto. Mi si prepari una stanza nel Manicomio presso il prof. Bongiovanni, mentre io pazzamente pubblico un libro inutile. Nessuno ne farà ricerca; e i giornalisti cui lo manderò in dono perchè ne facciano cenno fra gli annunzi delle decozioni di salsapariglia e delle molte case disabitate da appigionare, se ne serviranno per accendere lo zigaro; o, a trarne miglior pro, come taluno già fece de' miei libri, lo venderanno per carta inutile.
Lasciamo le celie ora che ci traggono memorie severe alle foci della Dora. Voglio in pria far cenno dell'ultima volta che, da Susa per la strada ferrata tornando a Torino, m'incontrai col vecchio Giacomo, col bellicoso pastore di Bousson, che conoscemmo presso alle sorgenti del patrio fiumicello.
Lo rividi una bella sera di maggio del 1858. Trovandoci nel medesimo vagone, il buon vecchio, richiesto, mi parlò della figliuola Lucia, divenuta madre d'una pargoletta, e del genero Maurizio fattosi soldato nell'esercito italiano; e passando di discorso in discorso, egli mi espresse la soddisfazione che provava nella tarda età, potendo agevolmente dai monti di Susa con frequenti e rapide gite tornare agli allegri piani di Torino.
—Oh! mi diceva, se Vossignoria avesse conosciuto questi luoghi com'io li vidi fanciullo! Allora erano poche e recenti le strade carrozzabili. Ne' paesi alpestri si andava a stento per vie lunghe, tortuose, aspre e non sicure. Erano lente le comunicazioni, ed intricato il commercio. Quei telegrafi di legno, i cui pali salivano e scendevano nelle cime de' monti, che cosa erano mai, messi a riscontro coi fili elettrici, che attraversano valli, gioghi e mari, portando la parola colla rapidità del desiderio nelle più lontane regioni?
Ma chi diede la scossa più vigorosa al mondo addormentato fra i[459] castelli feudali? Fu un potente italiano, l'imperatore Napoleone I, a cui nelle famose battaglie consacrai volentieri la mia spada. Sì, ricordo con orgoglio di essere stato uno de' suoi soldati, ed ora vengo a Torino per avere anch'io la medaglia di S. Elena, che il degno nipote del grand'uomo decretò ai soldati dell'antico Impero.—
Mi congratulai col buon Giacomo, che sarebbesi trovato insieme co' suoi commilitoni schierati alla presenza del Principe Napoleone, futuro sposo alla nostra augusta Principessa Clotilde, e con cordiali saluti ci separammo giunti alla stazione di Torino, prossima ai ruderi della smantellata cittadella.
Pietro Micca e Pier Giannone.
Indirizzandomi verso la via S. Teresa, mi piacque considerare che il vecchio pastore delle nostre Alpi confessava il progresso della civiltà.
Ma come tanto potè progredire lo spirito umano in Italia?
«Molto egli oprò col senno e colla mano».
Questo verso mi suonò sul labbro, mentre fra le sorgenti tenebre della notte io passava sulle pietre della famosa cittadella distrutta in parte.
Ricordai due celebrate vittime di quella fortezza, che rappresentano fra noi l'azione delle armi e del pensiero militante, il minatore Pietro Micca e lo storico Pietro Giannone.
Micca nel campo del diritto per l'indipendenza della Patria, Giannone nell'ordine civile per l'emancipazione dello Stato dalla Chiesa, furono martiri nella cittadella torinese.
Duole il ricordare che il valoroso re Carlo Emanuele III facesse prigioniero nella cittadella il Giannone; ma più rincrescerebbe s'egli avesse consegnato l'illustre prigioniero alla Corte di Roma,[460] che faceva strette istanze per averlo, al che assentiva il ministro d'Ormea, sperando forse in quel viluppo politico guadagnare un cappello cardinalizio.
I tempi progredirono ed assicurarono la libertà di coscienza, sì che se si vuole emancipare lo Stato dalla Chiesa, si vuole pure che la Chiesa sia libera nella sua azione, onde la formola: Libero Stato e libera Chiesa.
Il rimpianto Lorenzo Valerio proponeva al Parlamento che nella cittadella si cercassero le spoglie del prigioniero Giannone per onorarle degnamente.
Si adempia il nobile voto, mentre io mi accendo di sacro entusiasmo pensando che l'Angelo della morte, nel secolo XVIII, alle porte di Torino confondeva insieme le ceneri dei due Pietri, piemontese l'uno e napolitano l'altro, forse per annunziare che nel secolo xix l'Angelo della vita, ricco delle palme dei due martiri, nel luogo della loro morte, all'ombra del vessillo sabaudo avrebbe fraternamente congiunte le stirpi dell'Italia settentrionale e della meridionale!
Le potenze celesti, più giuste delle umane, proteggano la terra ove si compiono tanti e sì generosi sacrificii, e dove si rinnova la civiltà della magnanima nostra nazione!
TORINO
Un Napolitano e un Piemontese.
Due morti colle palme del martirio, Micca e Giannone, nel maggio del 1858 fra i ruderi della cittadella mi profetavano il prossimo unificarsi d'Italia; e presso al medesimo luogo, indi a pochi giorni dall'ultimo incontro col pastore Giacomo, due vivi mi significarono colle musiche lo stesso concetto.
Erano due giovani popolani che deliziavano gli accorrenti ad un caffè innanzi al teatro Alfieri, il cui nome ricorda i primi onori della tragedia italiana e i primi impeti del nostro politico risorgimento.
Uno di essi era un Viggianese che toccava maestrevolmente l'arpa. Chiamavasi Gennarino Pennella, che garzoncello io avea conosciuto in Malta quand'egli faceva ancor parte della compagnia di undici arpeggiatori diretta da Vincenzo Pezzi e da Maddalena Volo. L'altro, che sonava la ghironda e chiamavasi Pietro, era uno de' figliuoli del pastore Giacomo che udimmo ricordare nella capanna di Bousson.
Ora dirò come i due sonatori, il Napolitano e il Piemontese, si conobbero e furono concordi di musica e di cuore.
Diamo dapprima una parola d'amore al melodico Viggiano, paesello de' monti Lucani che conta sette mila abitanti. Colà[462] pietre, acque e piante deggiono essere piene di armonia; e una musica segreta deve accarezzare la culla de' Lucani, e gemere nel santuario de' loro sepolcri.
Molti poveri Viggianesi campano la vita pellegrinando e sonando l'arpa nei ritrovi più frequenti dei due mondi, ben altrimenti dai noti Orbini di Bologna che vivono e muoiono coi fidi loro stromenti da arco, sotto i portici patrii a guisa di usignuoli che non abbandonano la selva natale.
Oggidì v'ha trecento di tali pellegrini di Viggiano, pei quali inutile trovato sono cocchi e strade di ferro. Essi viaggiano a piedi recando sulle spalle il davidico strumento, e dànno il saluto della musica ad ogni paese che incontrano.
Ai navigatori, anco ne' mari più lontani, avviene talvolta di udire un suono d'arpa che uscito dal fondo della nave va a mescolarsi colla tempestosa armonia delle acque. Sarà qualche Viggianese accolto ospitalmente dal capitano per sopire nelle musiche il timore de' pericoli e le noie della navigazione. Chi non farà festa all'armonico Viggianese, simpatico trovadore che fra gl'interessi materiali del secolo decimonono prova non essere ancor morto il sentimento della poesia nel cuore dei popoli?
In lontane regioni egli giunge amorevole messo della italiana Euterpe, il quale non traduce soltanto su l'arpa i suoni più applauditi de' nostri teatri, ma pure le armonie de' coloni e pescatori nostri, nate quasi per incanto su le acque e su le terre del più incantevole giardino d'Europa.
Il Viggianese viaggia informato dello spirito italiano, sicchè perfino il suo musicale strumento è spesso congegnato degli abeti della sua patria. L'arpa del nostro Gennarino Pennella era infatti lavoro di Vincenzo Bellizia di Viggiano, valente costruttore delle arpe lucane che dispensano i tesori della musica italiana per le nostre vie e fuori, nelle piazze di Parigi e di Londra, ne' castelli di Germania, fra le moschee del Bosforo e del Nilo, presso la pagoda del Cinese e nei mercati d'America, in ogni dove desiderate ed ammirate.
Gennarino, d'indole irrequieta, entrato nel quarto lustro di sua vita lasciò la compagnia de' conterranei ed elesse vivere solo, venendo per le spaziose vie di Torino a cantare e sonare. Ma non andò guari di tempo che sentì amara nel cuore la solitudine, e desiderò un compagno.
Lo trovò nella piazza di San Carlo. Quivi innanzi alla statua equestre di Emanuele Filiberto incontrava spesso il figlio del pastore Giacomo che, sonando la ghironda e traendo gente a guardare la scena di remote regioni nella sua lanterna magica, cantava le canzoni piemontesi del Brofferio, il Béranger della Dora.
Il Viggianese fecesi a conversare col giovane delle nostre Alpi, e si piacquero e s'intesero a vicenda.
Un dì Gennarino, narrando al sonatore della ghironda avventure de' suoi confratelli di Viggiano, gli disse, che Antonio Varallo, dopo avere per trentacinque anni viaggiato trattando l'arpa, era tornato dovizioso in patria; e gli parlò di Vincenzo Miglionico che nell'anno 1806 partì da Viggiano coll'arpa sola, e, dopo lungo pellegrinare, tornato ricco nel 1832, lasciò l'arpa per le lettere di cambio e i numeri musicali per le cifre algebriche.
S'intrattenne più a lungo a raccontargli i casi d'un guardiano di porci, che licenziato dal signor Poliodoro suo padrone, si appese un'arpa al côllo e girando l'America fece gran fortuna, più che non avrebbe fatto se a Viggiano egli fosse divenuto un Eumeo, e il suo padrone un Ulisse. Tornato al nativo paese con moglie e prole, Vincenzo Poliodoro, il figlio dell'antico padrone, fu lieto di poterglisi avvicinare, e si acconciò di tôrre a sposa una figlia di lui con cospicua dote.
—«Insomma, esclamò Gennarino, tu vedi, caro Pietro, che molti sonatori Viggianesi partono poverelli dal monte nativo e tornano ricchi e beati.
«Io li voglio imitare; e tu Pietro dovresti abbandonare il[464] pesante impaccio della lanterna magica ed associarti a me colla ghironda e col canto.
«Tu canterai le canzoni del tuo paese, io quelle del mio, accompagnandole insieme coll'arpa e colla ghironda, e canteremo entrambi que' canti italiani che sono venuti in moda; e da onesti e solerti compagni ci aiuteremo l'un l'altro nella buona e nella avversa fortuna.
«Un piemontese ed un napolitano cantando, sonando e vivendo insieme troveranno il comune tornaconto».
Pietro lo ascoltò attentamente ed acconsentì, vendendo ad un amico di Susa la lanterna magica.
Così innanzi alla statua di Emanuele Filiberto il Napolitano e il Piemontese stringendosi le destre sull'arpa e su la ghironda si dissero fratelli.
Il primo atto del loro musicale consorzio fu sonare ambidue sotto il portico vicino, in faccia alla operosa bottega di C. S. Caffarel; e quivi amabili ed oneste donzelle, sempre in faccenda a vendere merletti, nastri, cuffie e guanti, sospesero le cure del commercio un istante, e vispe si affacciarono alla porta per udire Gennarino che fiso guardandole e sorridendo cantava:
«Io te voglio bene assai
E tu non piense a me».
I due sonatori raggranellando danaro errarono per diverse nostre città; e poi, tornati a Torino, io gl'incontrai tra gli olmi secolari che ombreggiano il Teatro Alfieri.
Colà udii Gennarino cantare le canzoni in dialetto napolitano di Totonno Tasso, e Pietro quelle del Brofferio nell'idioma piemontese; e insieme ripetere l'inno del Tirteo genovese:
«Fratelli d'Italia,
Italia s'è desta».
L'ultima volta li udii nuovamente cantare per le contrade di Genova con insolito brio l'inno del Mameli, mentre si andava preparando la celebre spedizione di Garibaldi per Marsala.
Salutai gli animosi pellegrini e domandai loro se avessero buona fortuna.
—Sì, sì, mi risposero impazienti, ma ora vogliamo anche noi aiutare la fortuna della patria più che la nostra.
Cari giovani! Si erano nobilmente accesi dello spirito dei cantici nazionali che solevano ripetere nei pubblici ritrovi.
Deposero l'arpa e la ghironda, ed impugnata la carabina, andarono essi pure insieme col manipolo dei mille eroi a debellare in Sicilia la borbonica tirannia.
Infelici e generosi! nella pugna caddero per la nazionale indipendenza.
Italiani! nessuno mai ardisca scindere la unione politica del sud e del nord della nostra patria, raffigurata in due figli del popolo fra le memorie di Emanuele Filiberto e Vittorio Alfieri, e poi solennemente celebrata fra i trionfi delle imprese guerresche nell'antica metropoli de' Subalpini.
La storia del Piemonte romoreggia di guerra; e l'augusta Torino dalle altre città italiane si distingue nel valor militare, come nella filologia Firenze, e Roma nella religione.
I Taurini, antica schiatta ligustica, edificarono questa famosa città. Lascio Fetonte, il duce mitologico della colonia ligure, agli archeologi, perchè col lume della filosofia scoprano in esso il vero storico di ardite ed infelici imprese sulle rive del Po, presso alla foce della nostra Dora.
«Guai ai popoli romiti ed anacoreti!» esclamava Gioberti nel suo Rinnovamento; e il popolo subalpino non fu certamente nè romito, nè anacoreta, imperocchè sino da tempi remoti noi vediamo l'animosa Torino travagliarsi in tremende battaglie. Tre giorni di combattimento ella oppose all'affricano Annibale, e[466] si mostrò amica ai Romani, i quali, preponderando Giulio Cesare, qui condussero una colonia, onde da lui Torino prese il nome di Giulia, poi da Augusto fu detta Augusta de' Taurini.
Il sangue del Lazio mescolato a quello dei Liguri preparò sulle sponde della Dora quel maschio e belligero popolo, che dovea più tardi rinnovare i destini d'Italia.
Questa città, continuo bersaglio alle ambizioni dei potenti, si ammaestrò nelle frequenti sventure. Fu distrutta da Costantino perchè aderiva a Massenzio; risorta, fu nuovamente rovinata da Stilicone guerreggiante i Goti. Rifattasi dalle rovine, venne assalita dagli Eruli e dai Borgognoni; vinta dall'Esarca Narsete, fu ritolta all'impero romano dai Longobardi che la fecero seggio d'un loro duca; e Agilulfo e Ragumberto, duchi di Torino, vennero elevati alla dignità reale. Passò dipoi la guerreggiata città della Dora dal dominio de' Longobardi a quello de' Franchi.
La giurisdizione Torinese si estendeva sino al Monginevra ed al Moncenisio. Nel secolo decimo dell'era cristiana una famiglia, creduta d'origine francese, resse la Contea di Torino e la Marca d'Italia. Ultimo di questa famiglia fu Olderico Manfredi II, padre della celebre Contessa Adelaide, che sposò dopo il 1045 in terze nozze Oddone di Savoia, e lasciò quindi alla Real Casa lo splendido retaggio di questa fiorita parte d'Italia.
I Conti di Savoia ebbero il loro seggio in Chambéry, e lo trasferirono a Torino nei giorni di Carlo I sul 1482. Nel secolo XVI la occuparono per quattro lustri i Francesi che la cinsero di fortini più ad offesa che a difesa. Ricuperata per la vittoria di San Quintino, sorse la memorabile cittadella, di cui il mastio si vede tuttavia presso la contrada della Cernaia.
Mentre in Italia le fazioni cozzavano, le repubbliche divise e discordi perdevano le loro libertà, e invano i nostri pensatori e i ministri della carità cristiana coi poeti gridavano ai popoli irosi pace, pace, pace; mentre infiacchite dalle civili discordie[467] le italiche genti si assoggettavano a tiranni domestici e forastieri, i Principi Sabaudi, postisi a sentinella delle Alpi e col pensiero rivolto all'Italia, costanti nel proposito di restituirle il grado di nazione, coll'opera lenta ma ordinata di politico reggimento fondavano quel principato in cui doveansi maturare i nostri generosi destini.
Destreggiandosi i Principi di Savoia fra prepotenti nazioni, videro necessario all'avvenire d'Italia un forte ed agguerrito esercito, e primi nella nostra Penisola, sbarazzatisi dell'incerto aiuto dei capitani di ventura, si crearono un esercito nazionale.
La bravura militare accompagnò i nostri Principi ed estese il loro dominio. I due Amedei VII e VIII raccoglievano sotto il loro scettro proteggitore la contea di Nizza e quella di Ginevra. L'alleanza di Casa Savoia era cercata dai potenti d'Europa; ed i suoi Conti, poscia i suoi Duchi procedevano con passo sicuro ad accrescere la gloria del loro paese. La Casa di Savoia, mescolata ai politici rivolgimenti, che tennero per tanti anni divisa l'Europa, prese parte a tutte le guerre, crescendo sempre i suoi dominii, e conservando la sua indipendenza.
Principi per virtù insigni e per civile sapienza, legislatori e guerrieri uscirono dalla nobile schiatta che la Provvidenza avea prescelto a propugnare l'italico riscatto.
Il Conte Verde, colle sole sue forze approda alle sponde del Bosforo e libera dalle mani dei Bulgari l'imperatore di Bisanzio. Al Conte Verde succede non meno valente il Conte Rosso; Emanuele Filiberto, colosso di Casa Savoia, vincendo la titanica battaglia di S. Quintino, ristaura la fortuna della sua stirpe, e dopo gli studi della guerra inaugura quelli della pace, soldato e legislatore. Carlo Emanuele co' suoi cinque mila prodi dichiara guerra al Sovrano di tutte le Spagne; Vittorio Amedeo II col Principe Eugenio e con Pietro Micca, il Sansone di Andorno, fiacca le corna alla baldanza francese, e converte il seggio di Duca in seggio di Re. Carlo Emanuele III rovescia il nemico dal côlle dell'Assietta. Carlo Alberto rinunzia al trono, anzichè piegare al nordico vincitore di Novara; e Vittorio Emanuele[468] II, vindice del Padre e dell'Italia, primo fra i prodi, caccia gli Austriaci da Palestro e guadagna con cinque assalti l'altura di S. Martino.
Egli è vero che al cadere dell'andato secolo, per quella forza smisurata che scosse dai cardini l'antico edifizio europeo, Casa Savoia perdette il suo dominio in terraferma e solo regnò nell'isola di Sardegna; ma è vero altresì che nel 1815 ricuperò gli antichi possedimenti, che arricchì della Liguria; e che poi sostenuta eroicamente la iattura di Novara, e perdurando nel santo proposito della libertà e dell'indipendenza, venne in buon punto alla riscossa, e dopo celeri maravigliose vittorie, la causa sua fu quella d'Italia; sicchè per le annessioni spontanee della Toscana, dell'Emilia, dell'isola Sicula e del reame di Napoli, seguendo la battaglia di Castelfidardo ad unirvi l'Umbria e le Marche, Torino, già sede dei re Sabaudi, divenne sede al primo re dell'Italia redenta.
L'augusta città della Dora meritossi tanta gloria segnalandosi nelle guerre de' tempi antichi e de' moderni. E per vero fu maravigliosa Torino in due memorabili assedi de' secoli XVII e XVIII.
Negli anni 1638 e 1639 nacque guerra per la reggenza degli Stati di Carlo Emanuele II affidata a Cristina di Francia, madre del Duca fanciullo, e contesa dai Principi Tommaso e Maurizio, i quali, cognati della donna e zii dell'infante, volevano entrare nella pubblica amministrazione per impedire che la Francia se ne impossessasse colle scaltrezze del superbo Cardinale di Richelieu. Questa discordia di famiglia fu accompagnata da invasione straniera. Un esercito francese sosteneva la Reggente, uno spagnuolo i Principi. Questi occuparono la città, i Francesi tennero la cittadella.
Erano i Francesi capitanati dal conte di Harcourt, gli Spagnuoli dal marchese di Leganes, il quale, anzichè espugnare la cittadella di Torino, come il Principe Tommaso desiderava, distrasse[469] parte del suo esercito, e lo condusse a Casale ch'era tenuta dai Francesi, e ben munita e guardata. Il 29 aprile 1640 fu data gran battaglia con rotta degli Spagnuoli.
L'Harcourt, baldo della vittoria ottenuta in Casale, strinse d'assedio Torino, in cui s'era chiuso il valoroso Principe Tommaso, deliberato di difenderla sino agli estremi. L'accanimento de' soldati da ambe le parti fu smisurato e crudele. Ventinove sortite tentate e rintuzzate, assalti feroci, carnificine da ambe le parti. I contadini si levavano da ogni banda, ma indarno, contro ai Francesi; i cittadini difendevano in armi i loro bastioni e la indipendenza dello Stato.
Alla fine il Principe Tommaso, mal sostenuto ed ingannato dal Leganes, dovette capitolare addì 29 settembre, e ad onorevoli condizioni si ritirò sulle rive della Dora Baltea in Ivrea, costretto a lasciar nel dolore e insanguinata la Dora Riparia. Madama Reale Cristina entrò in Torino vestita a corruccio, nè solo a rimpianto del perduto consorte, ma pure rammaricandosi d'una vittoria riportata nelle discordie fraterne sui torinesi cittadini; avvegnachè pacificatasi poi co' Principi cognati, anco da essi venisse riconosciuta Reggente.
La bella Duchessa, libera dai travagli della guerra, spesso procurò sopire le cure di Stato sulla riva sinistra del Po, nel delizioso Castello del Valentino da lei fatto ricostruire fastosamente ed ornare secondo il gusto de' suoi tempi.
Chi entra in quell'edificio, dopo averne letta l'accurata monografia[34] di Giovanni Vico, è tentato d'immaginarselo uno de' fatati castelli che celebrò la musa di messer Ludovico.
Di rincontro al Valentino, su la riva opposta del fiume, le verdi colline coi giardini e le ville, e coi variati prospetti, ricordano i poggi beatissimi di Posilipo e di Mergellina, ed empiono l'animo di storiche rimembranze, da Carlomagno nella badia di Vezzolano a Silvio Pellico nella villa Barolo.
Tutto ride e spira pace colà d'intorno; e lo stesso Eridano scorre pacifico, come placido lago, sotto i veroni del castello turrito, che fu stanza di amori e di ozi soavi: e coi balli, i caroselli e i tornei, onorò le feste nuziali de' nostri Principi.
Mentre le sale del Castello echeggiavano di clamorosi tripudi, sulle acque del fiume furono veduti vivaci simulacri di fiorite isole allegrate di canti e allegoriche rappresentazioni; e in compagnia di molte navicelle adorne fu veduto il nostro Bucintoro, foggiato nel 1731 sul famoso di Venezia, passar fra gli evviva dei Subalpini, ricco d'intagli, dorature e simboliche immagini, leggiadro monumento dell'arte scultoria in legno.
Nel castello del Valentino tutto è sorriso e pace: ma la duchessa Cristina nello splendore della bellezza e delle feste più volte sarà stata assalita dalle squallide memorie dell'assedio di Torino, opera del suo fratello e del Richelieu, ostili ai Principi di Savoia.
Altro sanguinoso assedio ebbe a sostenere l'eroica Torino contro le ambizioni francesi, e fu il famosissimo del 1706, il quale fece persuaso l'orgoglioso Luigi XIV non poter sempre i grandi e forti riuscire a ciò che ingiustamente vorrebbero.
Nella lunga e terribile guerra della successione di Spagna, Vittorio Amedeo II, Duca di Savoia, accostossi alla lega de' potentati, che volevano porre sul trono spagnuolo un Principe austriaco, mentre Luigi XIV voleva stabilirvi il Duca d'Angiò, suo nipote. Dopo varie vicende la somma delle cose della guerra in Italia parve tutta restringersi intorno a Torino. Infatti quel superbo che soleva dire: Lo Stato sono io, deliberò di sbalzar di seggio Vittorio Amedeo, mandando poderosa oste a debellarne la metropoli.
La notte del 2 di giugno 1706 le milizie nemiche superiori alle nostre per numero non per valore, e capitanate dal vanaglorioso La Feuillade aprirono la breccia, facendo prima interrogare Vittorio Amedeo dove avesse l'alloggiamento per risparmiarlo nelle ostilità. Il nostro Duca rispose: Il mio quartiere è sui bastioni della cittadella. Però uscì di Torino dopo di averla vettovagliata e[471] munita coi propugnacoli dell'ingegnere Bertola; e volteggiando nella campagna, si diede con indicibile ardire a molestare qua e là gli assalitori. Il qual modo di offesa alla spicciolata fu la salute della città, perchè l'assedio si potè tirare in lungo tre mesi ed avere l'aspettato soccorso.
Combattevasi a cielo aperto e nelle tentate viscere della terra, e il suolo fecondo di morte era ben disposto a sconvolgersi contro gli assediatori. L'ultimo giorno d'agosto, già i Francesi da Porta Susa mettevano piede in Torino, passando sotto le opere avanzate della cittadella, ma il sergente artigliere minatore Pietro Micca, di Sagliano d'Andorno, risolvette di far saltare in aria ponti e bastioni, e fatto allontanare un suo compagno tentennante, ch'ei disse più lungo d'un giorno senza pane, diè fuoco alla mina, che con orrendo fracasso e magnanimo disastro seppellì sotto le rovine lui e i nemici, entrati in quelle insidiose gallerie.
Cinque giorni dopo, Maria Bricca coglieva all'impensata e faceva prigioni i nemici in Pianezza; e l'otto di settembre l'ardimentoso Principe Eugenio, giunto in buon tempo, saliva con Vittorio Amedeo da Chieri a Superga e dirigeva quella battaglia decisiva che fu detta di Torino, la quale toglieva l'alta Italia ai Francesi, dava gloria al Piemonte, e rassodava in soglio la Sabauda dinastia, i cui signori di Conti e Duchi, pel trattato d'Utrecht diventarono Re.
Chi mai potrebbe adeguatamente descrivere gli atti del valore subalpino in quel famoso assedio? Anco i fanciulli lavoravano ne' sotterranei, è le donne anch'esse, giovani e adulte, matrone e popolane, non atterrite dallo scoppio delle mine, dal tonare delle artiglierie e dalla pioggia fiammante delle bombe, fra i cadaveri e le macerie, accorrevano, italiche amazzoni, trasportando tavole, vinchi, fascine e masserizie d'ogni maniera, dove più fiero era il pericolo, nei luoghi infestati dalle batterie nemiche.
Le chiese sonavano di preci; i sacerdoti benedicevano i martiri della patria; i Principi Sabaudi e i Piemontesi, pigliando in gloria i patimenti, onoravano il loro secolo e il[472] nome italiano; imperocchè l'augusta città della Dora erasi fatta un quartier militare e tutto il popolo un esercito combattente per la indipendenza e l'onore dello Stato.
Torino è dunque giustamente ammirata per le virtù guerresche, e n'è costante maestra nelle sue massiccie caserme, nelle famose scuole d'artiglieria, e nella celebre Accademia militare, che diede al Piemonte i più grandi ufficiali del Genio, e che da ora in poi li darà al Regno d'Italia. Inoltre ci ammaestra coi preziosi documenti di valore raccolti nel Museo d'artiglieria, diretto dal capitano Angelo Angelucci da Todi, accurato e vivace scrittore di archeologia militare; e con quelli dell'Armeria Reale, splendido subbietto a' miei versi.
Pubblica Istruzione.
L'arte militare non fu solitaria appiè dell'Alpi, ma crebbe accompagnata dalle altre virtù, che ci resero degni del libero Statuto datoci nel 1848 da Re Carlo Alberto, atti a gelosamente conservarlo, come la più bella ed efficace instituzione dello Stato, e fondamento vitale della rinnovata Italia.
I Governi rappresentativi ne' popoli si svolgono con serena prosperità, se hanno a subbietto una coltura austera e progredita come quella de' Subalpini.
Il principale santuario delle scienze in Piemonte è la R. Università degli studi, massimo ornamento alla via di Po.
Ludovico di Savoia, Principe di Acaia e del Piemonte, la fondava nel 1405 per compiacere ai professori di Pavia e di Piacenza fuggenti la Lombardia contristata da vicende politiche dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti. Per tal guisa nel secolo XV i Principi di Savoia accoglievano ospitalmente la Scienza profuga dalle città lombarde, come ai tempi nostri accolsero nel Piemonte la Libertà esulante dalle altre provincie italiane.
La Università di Torino fu onorata di privilegi da Papi, e[473] nel 1412 da Sigismondo imperadore: fu affidata nel 1424 da Amedeo VIII ad uno speciale Consiglio, che di poi prese il nome di Eccellentissimo Magistrato della Riforma, con ottime leggi condotto dal Duca Emanuele Filiberto e dal Re Vittorio Amedeo II.
Spesso i trasferimenti nuocono a ben fondate instituzioni, onde anco i buoni studi soffersero, quando la Università per traversìe dello Stato dovette abbandonare il luogo natìo e migrare in Chieri e Savigliano. Ma tornata in questo suolo tanto acconcio a dare stabilità alle utili discipline, andò aumentando di sapienti professori e di scolari, che qui convenivano da lontane regioni.
Da Vittorio Amedeo II la R. Università ebbe il maestoso edificio, che ora occupa, compiuto nel 1719. Le statue in marmo del munificente Re e del suo erede, opera dei fratelli Collini, sorgono entro due nicchie nel portico del cortile, che può dirsi museo archeologico.
Il Supremo Magistrato della Riforma è sapiente instituzione, che nel suo stesso nome allude al costante ed ordinato progresso delle scienze, e fu grandemente ammirata al sorgere di questo secolo dall'imperiale Legislatore di Francia.
Ambrogio Rendu, l'illustre padre di Eugenio, dell'insigne amico d'Italia nostra, nella compilazione ch'ei fece, come segretario, degli atti fondamentali della Università imperiale di Parigi, disse:
«Il Bonaparte passava per Torino. Un giorno, mentre percorreva il palazzo della Università, si fece recare gli Statuti che la reggevano. Ne traluceva qualche cosa di grande e robusto che lo colpì. La grave autorità che sotto nome di Magistrato della Riforma reggeva il corpo insegnante; questo corpo medesimo, unito per mezzo di dottrine comuni e liberamente sommesso a doveri puramente civili che lo consecravano all'istruzione della gioventù come ad uno dei più importanti uffici dello Stato; nobile confidenza del potere sovrano, che concedeva al Consiglio incaricato della direzione generale un diritto permanente d'interna legislazione e di continuato perfezionamento educativo; quest'ordine stabilito sulla base imperitura della fede cristiana; tutto questo sommamente gli piacque e ne serbò ricordanza tra[474] i più strepitosi trionfi. Ricco di glorie militari, sollecito delle generazioni future, fondata solidamente l'amministrazione civile, rialzati gli altari, promulgato il Codice Napoleone, sostituiti i Licei alle scuole o accademie centrali, dopo aver rigenerato le scuole di medicina, creato quelle di diritto, volle stabilire anco per la Francia un sistema compiuto d'istruzione e di educazione pubblica. Ricordevole dell'Università di Torino, ne aggrandì l'idea, come tutto ciò che il grande Capitano toccava, alla stregua del suo impero e del suo genio: creò l'Università imperiale».
Il che venne eloquentemente confermato dal celebre naturalista Cuvier, quando nel 9 aprile 1810 parlando ai Professori adunati nella grand'Aula del nostro Ateneo, dopo aver accennato agli illustri uomini che in esso eran fioriti, entrò a ragionare delle Costituzioni che lo governavano, e disse:
«Il vostro Ateneo dee tornare a gran vanto della Università imperiale, anche sott'altro riguardo; perchè da esso l'Imperatore pigliò norma ed impulso alla sua stupenda rigenerazione degli studi».
La nostra Università, sì giustamente celebrata, crebbe di gloria ampliandosi nell'insegnamento, e sempre più arricchendosi di gabinetti scientifici[35] e di maestri insigni. Oggi è governata dalle leggi del 13 novembre 1859 e del 31 luglio 1862, e dai Regolamenti approvati coi RR. Decreti del 14 settembre e 5 ottobre 1862. Vi s'insegnano teologia, giurisprudenza, medicina,[475] lettere, filosofia, scienze fisiche e matematiche con cinquanta professori ordinarii, diciannove straordinari o incaricati, ventotto professori onorari ed emeriti, e con centotrentuno dottori collegiati. Nel Borgo San Salvario, non ha guari, si assegnò un caseggiato alla Scuola Veterinaria, e la Scuola di applicazione per gli ingegneri, felice creazione della legge Casati (13 novembre 1859), fu aperta nel Castello del Valentino, dove la severa Matematica vien rallegrata dal verde dei giardini circostanti, dal mormorio delle acque cadenti e dalle festose memorie del sito.
Lungo sarebbe, tacendo pure de' non pochi viventi, il ricordare gli uomini illustri che professarono nell'Ateneo torinese. Fra i tanti amo ripetere i venerati nomi di Balbo, Germonio, Cuiaccio, Tesauro, Gerdil, Cigna, Donati, Allioni, G. B. Beccaria, Balbis, Buniva, Caluso, Bonelli, Boucheron, Géné, Martini, Biamonti, Dettori, Giulio, Paravia, Piria, Riberi, Plana!
Mi piace osservare che i Reali di Savoia, larghi negli stipendi, chiamarono all'insegnamento non solo uomini illustri de' loro Stati, ma di tutta Italia, preparando così col mezzo della scienza l'unione politica della nazione.
Olimpico spettacolo è l'accorrere continuo di scolari ed uditori in gran numero alle lezioni universitarie, e torna grata la frequenza de' lettori nella Biblioteca dell'Ateneo ricca di 230,000 volumi, di quattromila e più codici manoscritti, e di oltre a cinque mila stampe. La Biblioteca è aperta a letture diurne e serali, ed ha la frequenza media giornaliera di novecento lettori nell'inverno e nella primavera, di tre a quattrocento nell'estate e nell'autunno.
Presiede alla Biblioteca il comm. Gaspare Gorresio, colui che agevolato da Re Carlo Alberto negli studi del Sanscrito in Parigi, primo in Europa, pubblicò, tradotto italianamente, il Ramaiana, poema indiano, e ne associò alle lingue ed alle idee dei popoli del Gange, ai quali più strettamente ci unirà l'ardito francese, Ferdinando Lesseps, col taglio dell'Istmo di Suez. Così un latino della Dora ed uno della Senna lavorarono egregiamente ad avvicinare in bel consorzio Asia ed Europa!
Torino vanta altre copiose ed importanti biblioteche: quella del Re con 40,000 volumi e 2,000 manoscritti: quella della Reale Accademia delle Scienze con 40,000 volumi: quella dell'Accademia medico-chirurgica con 12,000 volumi, e la biblioteca dell'Archivio centrale con volumi 7,730, tra i quali oltre a 600 di edizioni del secolo XV e parecchi preziosi manoscritti: e la biblioteca centrale militare ricca di 21,000 volumi di opere militari, scientifiche e storiche; e quella del Duca di Genova, ricca d'opere e di manoscritti d'arte militare, legati dal dotto cav. Cesare di Saluzzo, educatore dei figliuoli di Carlo Alberto.
Dicesi che di queste sei biblioteche vogliasi fare una sola da essere ordinata nelle sale del Palazzo Madama, a pubblica utilità. Se questa idea ha effetto, nel centro della città, la gioventù subalpina, in ogni tempo studiosissima, troverebbe nuovi agi a coltivare le scienze, le lettere e le arti.
Basti ricordare che tre giovani fondarono in Torino l'Accademia delle Scienze, come alcuni giovani quella di Bologna.
Francesco Maria Zanotti, scrivendo l'elogio di Eustachio Manfredi, narra che quel famoso matematico ed astronomo, essendo ancor giovinetto, in Bologna sua patria applicatosi alla filosofia, raccoglieva in casa sua molti suoi colleghi per provarsi nell'arte del dire; e che da siffatti domestici esperimenti ebbe origine quella illustre Accademia delle Scienze. E addì 31 ottobre 1833, la nostra R. Accademia delle Scienze celebrando la ricorrenza del cinquantesimo anno della sua fondazione, il venerando conte Prospero Balbo, che la presiedeva, ricordando gli esordi di così nobile instituzione, nel suo discorso disse: «Un giovane uffiziale, il cavaliere poi conte di Saluzzo, un altro giovine, già con maraviglioso esempio professore in quelle scuole (dell'Università), il Lagrangia; un giovane dottor di medicina, il Cigna, ne furono arditamente i primi fondatori».
Gli esempi de' giovani preclari di Torino, non dissimili da quelli della dotta Bologna, trovino ai dì nostri frequenza d'imitatori! E mai non mancherà sulle rive della Dora, ove oltre la Università[477] e l'Accademia delle Scienze, molti sono gl'instituti aperti al progresso d'ogni sapere.
Torino vanta l'Accademia Reale medico-chirurgica che si governa col regolamento organico del 18 novembre 1850; la Deputazione di Storia patria creata da Carlo Alberto nel 1833 per tutte le antiche provincie, ora estesane l'azione anche alla Lombardia, e presieduta da S. E. il conte Federico Sclopis, diede ricca serie di storiche pubblicazioni; la Società di Farmacia fondata nel 1852 coll'intendimento di promuovere l'avanzamento della scienza, e sostenere il decoro e la dignità dell'arte; l'Associazione medica, già creata nell'êra costituzionale, e poi estesa dopo il 1859 anche a molte provincie italiane; la Società Agraria instituita nel 1785, alla quale diede non poco lustro il novarese Rocco Ragazzoni. Inoltre Torino vanta il Collegio Carlo Alberto, che ha ben 140 posti gratuiti per giovani addetti a studi universitari, e il Collegio Caccia, licei, ginnasi, e scuole tecniche del Governo e di privati, scuole diurne e serali, ed instituti femminili; e l'Instituto tecnico, fiancheggiato dal nascente Museo industriale, e aggrandito da una scuola normale diretta a preparar maestri per le scuole professionali, testè inaugurato dal Torelli, ministro di Agricoltura e Commercio; e il R. Albergo di Virtù, che sino dal secolo XVI, per generoso provvedimento dei Principi Sabaudi, educa i figli dell'operaio nelle arti e nei mestieri, e che dovrebbe essere al popolo il più utile esemplare di scuole tecniche. Insomma Torino vanta un campo vastissimo, ove dotti maestri con zelo religioso coltivano gli allori delle future generazioni.
Io non entro a discutere intorno ai metodi d'insegnamento usati oggidì nelle scuole superiori e nelle mezzane. Il desiderio di diffondere e accelerare il trionfo della civiltà fece sì, che si moltiplicassero le discipline e i programmi della pubblica istruzione. Dopo fattone sperimento, deggio dire, che non di rado gl'insegnanti mi parvero ridotti alla condizione di coloni obbligati a coltivare ad un tempo e nel medesimo terreno alberi fruttiferi di ogni qualità, la pianticella del cotone e quella del lino insieme[478] col gelso, la dolce canna dello zucchero e la tenera pianta del zafferano, il frumento e il grano turco, senza disgiungere la pastorizia da questo complesso di seminati e di pometi.
Fra tanta baraonda di sistemi si troverà il più conveniente a coltivare colla debita misura le menti de' giovani ed avviarle alla meta desiderata.
In quanto alla parte educativa v'ha parecchi pregevoli collegi e convitti. Degno di particolar menzione è l'Istituto Paterno, il quale sorse su le rovine d'un collegio già diretto dai Fratelli delle Scuole Cristiane, e chiuso per cause abbastanza note. Il nuovo Istituto nel 1863 fu aperto nella via delle Rosine da una Società di padri di famiglia. Ne fu affidata la direzione al cavaliere prof. Giovanni Lanza, che lo governa con molto senno, ben altrimenti da coloro che nella educazione separano gli alunni dalla casa paterna. Egli vuole, che nell'Istituto la Scuola e la Famiglia siano in continua corrispondenza; vuole che i padri si facciano guida e custodia de' proprii figli, coadiuvando e facendosi essi medesimi gl'ispettori e consiglieri. La scuola piglia lena e conforto dalla cooperazione della famiglia, e a vicenda si sorreggono e si aiutano.
Questo sapiente disegno incontrò favore universale; e trecento vispi giovanetti crescono in lieto consorzio nel floridissimo Istituto.
Chi amasse un'accurata relazione delle scuole di Torino, legga il bel libro[36] del cav. Baricco, sacerdote che dice ed opera assai a benefizio dell'istruzione popolare.
L'insegnamento universitario e le accademie sono lustro antico delle principali città d'Italia. Ma negli atenei e nelle accademie la scienza rimane come infeudata a beneficare soltanto le classi superiori della civile compagnia. La scienza, sole delle menti,[479] deve essere universale come la luce, e la tenebrosa ignoranza dovrà snidarsi dalle officine degli operai, nè più essere sciagurato retaggio del colono, che per noi dissoda la terra.
A tale scopo la moderna civiltà diede largo impulso all'istruzione popolare. Già Vittorino da Feltre, Guarino il Veronese, Enea Silvio Piccolomini, il Casalanzio e l'Emiliani aveano in Italia sperimentato le scuole del popolo. Succedettero nell'arduo aringo altri valenti uomini nostri e stranieri. I nomi del Loke, del Rollin, del Girard, del Pestalozzi, dell'astigiano Goltieri, del Milde saranno sempre benedetti dagli educatori del popolo; nè meno di quelli saranno benedetti Raffaele Lambruschini e Nicolò Tommaseo, che tanta virtù infusero cogli stupendi loro scritti nei metodi dell'insegnamento.
Le dottrine sparse in que' libri trovarono in Torino campo acconcio a radicarsi e fruttificare, coltivate da maestri valorosi. Il popolo si mostrò disposto a riceverle, imperocchè qui era viva la memoria del sacerdote Ghetto, che nel mezzo del secolo passato sotto i portici e nei chiostri della piazza di S. Carlo, e nella chiesa del monastero di santa Pelagia, radunava nei giorni festivi i fanciulli da lui incontrati nelle vie per catechizzarli. Qui era viva la memoria del sacerdote Giulio Sineo, che ad esempio dell'evangelico Ghetto, ed a continuazione dell'opera di lui, sul principio di questo secolo catechizzava nella chiesa di santa Pelagia in idioma piemontese, e con tale eloquenza, che ad ascoltarlo non soltanto i mendici e gl'idioti accorrevano, ma eziandio i ricchi e i dotti. Era viva la memoria del canonico Clemente Pino, che, un anno dopo la compianta morte del Sineo, nel 1831 apriva nelle sue stanze la Società letteraria, che sì vivamente giovò a diffondere ne' giovani il culto de' buoni studi e delle virtù civili.
Ora ci piace ricordare Vincenzo Troya, Lorenzo Valerio, Antonio Rayneri, Domenico Berti, e non pochi altri, pei quali dapprima le scuole di metodo qui lodatamente crebbero e s'ampliarono. Nella Università fu creata una cattedra di pedagogica ora occupata dal cav. Antonio Rayneri, che ne fece studio[480] speciale, come si argomenta da' suoi eccellenti cinque libri della Pedagogica; e furono create scuole normali, da cui escono i maestri e le maestre, che deggiono distribuire il pane dell'istruzione elementare in ogni angolo dello Stato. In questi provvedimenti molto fecero in Torino il Governo, il Municipio e i cittadini[37].
Ma a dir vero, il beneficio delle scuole di metodo andò scemando, perchè sorsero fazioni a screditare la savia instituzione, e più ancora perchè non pochi usciti da quelle scuole lasciarono le orme degli insigni maestri di pedagogia, facendosi autori di trattatelli e di sistemi, che intenebrano gl'ingegni de' giovanetti.
Deploro il caos degl'incomposti rudimenti nelle scuole dell'adolescenza, e vado a salutare la luce serena nelle scuole dell'infanzia.
Scuole Infantili.
Chi di noi non ricorda Ferrante Aporti di Cremona, che fra le fatiche evangeliche e gli studi severi della storia, propugnando[481] ogni maniera di educazione popolare, fu meritamente salutato padre degli asili infantili? Il marchese Tancredi Falletti di Barolo in Torino, primo in Piemonte, fondò asili per l'infanzia, ma non avrebbe bastato a propagarne il culto e il benefizio, senza la voce eloquente e l'opera autorevole dell'Aporti.
Egli in Italia si fece apostolo della pietosa instituzione, e nel 1839 secondo i suoi metodi creavasi in Torino da egregi cittadini la Società delle scuole infantili autorizzata dal Governo. Questa Società provvede ottimamente a sette asili d'infanzia mantenuti dalla carità pubblica.
Altri furono aperti, perchè qui le buone instituzioni progredirono sempre con rara felicità, sicchè i bimbi dell'artigiano e dell'indigente sono largamente beneficati.
Il cremonese promotore degli asili vide che, a far sempre più prosperare la sua diletta instituzione, il popolo prendeva dalla Reggia utili esempi di carità cristiana, e, provando una gioia ineffabile, nel 1853 esclamava sulle rive della Dora.
«Sia gloria al magnanimo Re Carlo Alberto, che le instituzioni infantili incoraggiò ne' primi promotori, gloria alla Regina sua augusta consorte, che ne seguì l'esempio, gloria al Re Vittorio Emanuele, che emulando la paterna generosità, conserva quanto egli fondò, e cogli onori conferiti, indicò luminosamente quanto ami ed apprezzi questa maniera di beneficenza educatrice. Sia gratitudine e riverenza all'augusta Maria Adelaide, che da Regina protegge di affetto efficace codeste instituzioni, che proteggeva da principessa[38]».
L'esultanza dell'Aporti era il tripudio degli Apostoli di Cristo nel trionfo della fede e della carità. Veramente ogni anima pia si sente commossa visitando il regale asilo de' fanciulli eretto dalle Regine Maria Teresa e Maria Adelaide, ora sovranamente mantenuto dal nostro augusto Re, e con ogni sollecitudine vegliato dal R. Elemosiniere, il teologo cav. Antonio Pavarino, e[482] da cinque Suore di S. Giuseppe di Pinerolo. L'Asilo è situato sotto il tetto dell'istessa Reggia; ed io lo visitai mentre i trecento bimbi ivi protetti, levando le manine, cantavano in versi una preghiera, con cui riconoscenti invocano la benedizione del Cielo sulla Real Famiglia. La preghiera degl'innocenti, portata dagli angeli in cielo, sia accolta dal Dio delle misericordie, e sarà benedizione a tutta Italia!
Visitai eziandio più volte la scuola infantile per gli agiati nella via dell'Ospedale. La fondò lo stesso Aporti, e il conte Carlo Boncompagni continua prosperamente la pia opera, giovando agli agiati ed ai poveri, perchè ogni somma eccedente le spese per quella scuola vien data a beneficio degli Asili aperti agli indigenti.
Visitai pure nella via Oporto l'asilo aperto dalla liberalità del conte Camillo Benso di Cavour. Solerte direttore di quell'instituto è il teologo Pagnone, che in funebre discorso saviamente ne ricordava il benefattore, dicendo: «Una prova che la Provvidenza protegge e sospinge l'opera nostra, si è che le procaccia larghe beneficenze di insigni benefattori. Il conte Camillo di Cavour che desiderò nuove glorie alla Dinastia regnante, non trascurò i tapinelli; ei che mirò a far grande l'Italia, non obbliò i minimi fra i Piemontesi: oltre la tenera pietà che ne sentiva, ben sapeva che il risorgimento di una nazione non è mai stabile e sicuro, ove le masse popolari non siano sufficientemente educate. Quindi egli in vita fu promotore ardente, anzi confondatore de' nostri Asili, e morendo li dotava di una parte delle sue sostanze, che, raddoppiata ancora dal nipote, varrà da sè sola a creare un novello asilo. Questa generosa emulazione fra un testatore e il suo erede, questa nobilissima gara di chi muore e di chi sopravvive è di memorabile esempio, degnissimo di venire dai doviziosi cittadini imitato[39]».
Sia benedetta sempre la instituzione degli Asili infantili! In[483] questo secolo di continue riforme non osi alcuno snaturarla colla smania di migliorare. Ai parvoli negli Asili voglionsi le cure di madre amorevole, non i precetti di faticosa institutrice.
I bimbi abbisognano di affetto più che di studio, di armonie più che di discorsi, come gli usignoletti che ne' loro nidi imparano ad aprire le alucce al primo volo fra il mormorio dei zeffiri e l'olezzo delle rose.
Insomma gli Asili infantili, più che scuole d'istruzione popolare, deggiono essere santuari di carità cristiana.
Niccolò Tommaseo scriveva: «I suoi civili vantaggi deve il Piemonte ai morali suoi pregi; dico, l'austero costume, l'operosità nelle industrie e nelle armi, la riverenza spontanea all'autorità, il docile attento riguardo a ogni luce di bene e di bello da qual mai parte venisse, il culto delle tradizioni, l'esercizio della fede religiosa massimamente nelle opere di carità. Sebbene le città italiane siano più o meno di carità monumenti, e quasi templi edificati a quel Dio ch'è amore; Torino in mezzo a tante grandezze di beneficenza non per tanto grandeggia; e con nuove istituzioni simili corona le antiche, anche in questo più vivamente antica delle altre sorelle, e più veramente moderna[40]». Queste solenni parole io vado ripetendo mentre ricordo le pie instituzioni di Torino. La più grande a quest'uopo ebbe principio ed ordinamento da Carlo Emanuele il Grande e da Vittorio Amedeo II, denominandosi l'Ospizio di Carità. Con esso, con altri somiglianti fondati nelle principali città dello Stato, e colle Congregazioni di Carità estese per tutti i minori paesi, in guisa che nessuno ne fosse privo, intendevasi a sbandire la mendicità vagabonda. Rimangono gli statuti e parte dei loro beneficii, ma l'opera de' fondatori fu monca; onde J. Bernardi[484] disse: «L'opera dei due Principi, incominciata in Piemonte sul principio del secolo decimottavo e intesa a sbandire la mendicità da tutto lo Stato, per isvilupparsi e giugnere al suo maggiore perfezionamento, dovea tener fisso e inalterabile il fine, e giovarsi della esperienza continuata ed intelligente per conseguirla: lo che per colpa dei tempi e talvolta anche degli uomini, che dimenticano ogni passato per far tutto da sè, non accadde[41]».
Oltre il R. Spedale di Carità, Torino ha lo Spedale maggiore di S. Giovanni; quello de' Santi Maurizio e Lazzaro; il Militare divisionario; quello di S. Luigi; il Regio Manicomio; la Compagnia di S. Paolo, che regge le case di educazione femminile del Soccorso e del Deposito, ed il Monte di Pietà: l'Istituto Pio, che soccorre a domicilio i poveri infermi; il Dispensario Oftalmico; lo Spedale della Maternità; la Compagnia delle puerpere; l'Ergastolo; il Ricovero di Mendicità; il Ritiro delle Rosine; l'Istituto della Provvidenza; il Conservatorio delle Sapelline; il Ricetto delle povere orfane; il Ritiro delle figlie dei militari; l'Opera della Mendicità istruita; l'Opera Pia del Rifugio; l'Ospizio de' Catecumeni; il Regio Convitto delle Vedove Nobili; la Compagnia della Misericordia che assiste ai carcerati; la Regia Scuola normale dei Sordo-muti; la Casa di Sant'Anna presso la Consolata; il Regio Stabilimento Ortopedico; l'Istituto di Santa Zita e l'Asilo dei lattanti. Questi istituti insieme considerati hanno il doppio merito di alleviare i dolori della vita e di educare, ed onorano il cuore benefico del popolo Subalpino e de' suoi Principi.
Il Canonico Giuseppe Cottolengo.
Il più maraviglioso degli instituti di carità è in Borgo Dora, la Piccola Casa della Divina Provvidenza, che si può definire colle[485] parole del Baricco, il compendio di tutte le umane miserie ed il trionfo della cristiana beneficenza[42].
Fondatore ne fu il canonico Giuseppe Cottolengo da Chieri. Egli eresse una casa, nella quale, ripeteremo volentieri con Defendente Sacchi, come nel Panteon degli antichi stavano le immagini di tutti gli Dei, sono eretti tutti gl'instituti di beneficenza.
Giova ricordare l'origine della Piccola Casa. Una povera donna straniera, da Milano moveva per Lione col marito e tre figliuoli; e passando per Torino, nel due settembre 1827, infermò nell'albergo della Dogana Vecchia. Fu portata qua e là per ricoverarla in qualche spedale, ma priva de' titoli richiesti non fu accolta, onde, travagliata dai disagi del trasporto, presto morì la infelice in quell'albergo fra le smanie della famiglia desolata.
A spettacolo sì compassionevole trovossi presente il canonico Cottolengo, che di conforti religiosi avea soccorso la inferma straniera nelle ultime ore di vita. Egli, adempiuto l'ufficio di sacerdote e rattristato del caso doloroso, andò a conferire colla Congregazione del Corpus Domini, di cui era socio, intorno alla deliberazione da lui presa di preparare un ricovero ai miseri abbandonati per le vie, ed agli infelici privi di aiuto, come la inferma straniera della Dogana Vecchia.
La Congregazione lodò ed agevolò la pia proposta, onde il Cottolengo, semplice e retto di cuore, innamorato del maggior bene degli uomini, e fidente nella suprema Provvidenza, cominciò l'opera benefica nel 1828 da una piccola infermeria, aperta nella casa della Volta rossa. La infermeria, nel 1831, da lui trasferita, dove ora si trova, nella regione di Valdocco, fu il fondamento alla Piccola Casa della Divina Provvidenza sotto gli auspìci di San Vincenzo de' Paoli.
Non è più piccola ma vasta casa di carità quella del Cottolengo, che accoglie poveri di ogni condizione e d'ogni età, dal bambino al decrepito, dal sano all'incurabile. Ma come il Cottolengo[486] procacciò i mezzi a mantenere dodici istituzioni da lui fondate e insieme congiunte? Come potè creare spedali, farmacie, scuole, asili d'infanzia ed officine di arti e mestieri per una famiglia di duemila e più poveri?
Sua ricchezza e possanza fu la fede nella divina Provvidenza, la fede viva, colla quale Pietro l'Eremita predicò le Crociate, la fede accompagnata dalle opere, senza cui sarebbe inutile; perciò in uno dei cortili della Piccola Casa, sulla parete di rincontro alla statua di San Vincenzo de' Paoli, leggesi: Fides sine operibus mortua est.
Il fondatore della Piccola Casa morì nell'aprile del 1842 e Monsignor Lorenzo Renaldi, vescovo di Pinerolo, che ne dettò con sacra facondia l'Elogio storico[43], pubblicandolo, giustamente lo intitolava al canonico Luigi Anglesio, che al fondatore succedette nelle virtù e nella direzione dell'Opera benedetta.
Visitando la Piccola Casa andai ad inchinarmi alla tomba del Cottolengo. Egli è sepolto, come desiderò, sotto l'altare di Maria Vergine, innanzi a cui, fra cento e cento quadretti in cui sono effigiati i tanti santuari di Maria sparsi pel mondo, il piissimo uomo soleva prostrarsi ed invocare a pro degli infelici la celeste misericordia. Egli riposa nella casa da lui edificata, tra i poveri da lui protetti, come padre fra' diletti figliuoli.
In Londra Cristoforo Wren è sepolto nella Basilica di San Paolo da lui architettata. In Malta l'armigero pittore delle Calabrie, Mattia Preti, dorme fra i sepolcri della soglia blasonica nella cavalleresca chiesa di S. Giovanni, da lui dipinta. In Catania nel monastero dei PP. Benedettini il celebre organo versa le armonie sulla tomba del suo autore. In Stresa il sodalizio della Carità inneggia sulle ceneri del suo fondatore, Antonio Rosmini; e così pure al sepolcro del Cottolengo è monumento la sua stessa opera, la Piccola Casa della divina Provvidenza.[487] Sulle sue ceneri suona la perenne preghiera di due mila poveri, mentre in Roma si tratta la causa della beatificazione di lui.
Gli uomini, come il Cottolengo, sono santi in tutte le religioni, e li canonizza l'umanità riconoscente.
La Dora è dunque prodigiosa per instituti d'istruzione popolare e di beneficenza.
Con tali considerazioni errando per le frequentate vie di Po e Doragrossa, e traversando dall'uno all'altro quartiere, presso i palazzi, i teatri e le chiese, e fra i magazzini sfavillanti di sete e gemme, è dolce incontrare in ogni parte scuole, spedali ed asili.
Mentre l'insegnamento e la carità assicurano la civiltà presente e futura, le industrie sotto i portici, nelle piazze e nei tre edificii testè eretti ai mercati, coll'assiduo lavoro alimentano i traffichi e soccorrono ai bisogni della vita. Qui però si ode il romore delle fucine, il cigolìo dei carri e lo scalpitìo de' cavalli, non lo schiamazzare della gente meridionale. Il commercio opera fra noi austero ed onesto con voce sommessa, come lo trovai nei popolati bazari di Giannina appiè del Pindo. Nella città dell'Epiro il silenzio de' mercati mi dava l'idea d'un popolo ancora atterrito dalle memorie del tiranno di Tepelleni. Invece nelle simmetriche e libere vie di Torino il silenzio è l'espressione d'un popolo che fa più che non dice, e ordinatamente.
Così Torino potè sempre più crescere di fama, di abitanti e di ampiezza. Il Cibrario, nella Economia politica del Medio Evo d'Italia, dice che Torino nel 1377 aveva 700 fuochi, rappresentanti 4,200 individui. Il Bottero in sul tramonto del secolo XVI non assegnava a Torino che 17,000 abitanti, i quali per la pestilenza del 1630 si ridussero a 12,000, come lasciò scritto il protomedico Fiochetta. Il conte Prospero Balbo, nel 1831, pubblicò una Tavola autentica del progresso della popolazione di Torino nel secolo XVIII, dalla quale risulta che nel 1706 Torino contava[488] 41,822 abitanti dentro città; nel 1727 ne aveva 64,803 co' borghi e il territorio; nel 1760—79,588; nel 1786—89,752; nel 1796—93,076, e nel 1799 solamente 80,752. Da quel tempo ad oggi la popolazione di Torino giunse a 160.000, poi a 180,000, e non ha guari a 200,000 e più abitanti.
Quando Torino era colonia romana, la sua forma era quadrata, come il vallo d'un accampamento, poi fu accresciuta ad occidente dell'isolato di S. Dalmazzo, del Monastero di Santa Chiara, di Piazza Paesana o Susina e del recinto spazioso della Consolata. Tal era all'entrare del secolo X, quando le mura della città vedevansi munite di spesse torri, e quando le girava tutto all'intorno una comoda galleria, sopra la quale ergevansi opere di difesa. Il matematico Niccolò Tartaglia, bresciano, lasciò scritto che i lati nord e sud delle mura di Torino correvano lo spazio di 360 passi, e gli altri due un po' meno: sicchè la forma quadrilunga della città era di circa 1400 passi di giro, cioè un miglio italiano e 100 passi geometrici. Dalla metà del secolo XVI in cui il Tartaglia verificava questa misura, fino al giorno d'oggi, s'andò la città mano mano ampliando, sicchè il suo perimetro dentro la strada di circonvallazione è di metri 7,750, cioè 4 miglia geografiche abbondanti, e, compresi i due borghi di Po e di Dora, 11,450 metri, cioè un po' più di 6 miglia. Tal era l'area di Torino nel 1840. Oggi è d'assai aumentata per gli altri borghi di S. Salvatore o Salvario, di S. Donato, di Vanchiglia e di Valdocco. Del nuovo non occorre parola; perchè essendo sorto fra la via arborata di circonvallazione (a guardatura di mezzodì) e quella dello Spedale, dove erano informi prati e vecchie cascine, non ha fatto che vestir di fabbriche grandiose una superficie entro città; sicchè, a rigore, l'appellativo di Borgo non gli si addirebbe.
Il Municipio torinese nobilitò non poche delle antiche vie, mutando i vecchi nomi con altri illustri; e appellò le nuove da grandi uomini piemontesi e da grandi fatti sabaudi. Onde leggiamo i nomi di Lagrangia, Andrea Doria, Carlo Alberto, dove erano i Conciatori, i Carrozzai, la Madonna degli Angeli; Bottero[489] dov'era il Fieno; l'Accademia Albertina dov'era l'Arco e la Posta. Così la via de' Macelli ha ceduto il nome a quello dei Barolo; e l'Arcivescovato fece luogo a Cavour; la Barra di ferro a Bertola, i Guardinfanti a Barbaroux, le Quattro Pietre a Porta Palatina. Oggi il Cannon d'Oro è Montebello; piazza Susina o Paesana è Piazza Savoia; quella della legna si è convertita in Solferino. E diverse antiche stradicciuole si fregiano adesso de' bei nomi di Virginio, Vasco, Giulio, Siccardi, Assarotti, Perrone, Bava, Torquato Tasso! Senza dire di strade nuove, che si appellano da San Pio V, Berthollet, Baretti, Tesauro, Botta, Alberto Nota, Principe Tommaso, Gioberti, Silvio Pellico, Massena, Galliari, Assarotti, Manzoni! E Legnano, S. Quintino, l'Assietta, Goito, la Cernaia, non risveglian esse gloriose memorie?—Tanto deliberò il Consiglio municipale di Torino nella sua seduta del 19 giugno 1860; tanto eseguì senza indugio.
Le grandi piazze, per le quali è così segnalata la città di Torino, sono denominate da Carlo Felice, da S. Carlo, dal Castello, da Vittorio Emanuele I, da Emanuele Filiberto e da Carlo Emanuele II. Le mezzane, da Carlo Alberto, dal palazzo Carignano, dallo Statuto, dal palazzo Reale, da quello di Città, dal saluzzese Bodoni. Le minori sono appellate da Cavour, da Maria Teresa, da Bonelli, da S. Quintino, e dalle chiese del Corpus Domini e di S. Giovanni.
Torino è partita in quattro sezioni: del Po a levante, del Monviso a mezzodì, del Moncenisio a ponente e della Dora a tramontana. Da due monti e due fiumi hanno preso gli auspìci le quattro sezioni della città.
Il Po ad oriente la viene lambendo: quel Po che, al dire del Marini,
«. . . Accolto in cristallina cuna
Pria pargoleggia, indi s'avanza e cresce,
E tante forze in breve spazio aduna,
Che sdegna il letto, odia i ripari e n'esce».
La Dora è il caro fiume di Val di Susa, del quale ho seguito il corso dalle fonti alla foce.
La Dora Riparia, che si versa in Po presso Torino, diede il nome alla quarta sezione della città, e rammenta come da lunga stagione fosser riposte le speranze d'Italia nella sua metropoli e ne' suoi magnanimi Sovrani. Infatti cinque anni innanzi al memorando assedio di Torino, cioè nel 1701, nasceva al Duca Vittorio Amedeo II quel Principe di Piemonte che fu poi il Re Carlo Emanuele III. Alla nascita di lui il bolognese poeta Eustachio Manfredi, che fu italiano di cuore come raro di mente e di dottrina, infiammavasi di sante speranze, e così cantava quella nascita con fausto vaticinio:
Vidi l'Italia col crin sparso, incolto,
Colà, dove la Dora in Po declina,
Che sedea mesta, e avea ne gli occhi accolto
Quasi un orror di servitù vicina.
Nè l'altera piagnea; serbava un volto
Di dolente bensì, ma di reina;
Tal forse apparve allor, che il piè disciolto
A i ceppi offrì la libertà latina.
Poi sorger lieta in un balen la vidi,
E fiera ricomporsi al fasto usato,
E quinci, e quindi minacciar più lidi;
E s'udìa l'Appennin per ogni lato
Sonar d'applausi, e di festosi gridi:
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.
Nè il poeta al postutto s'ingannò. Se Carlo Emanuele III non fu il soccorso d'Italia, lo è ben oggi un Sabaudo, lo è Vittorio Emanuele II.
«Italia, Italia, il tuo soccorso è nato».
Ritornando alla Dora, al più ragguardevole di tutti gl'influenti[491] superiori dei Po, dirò che poche acque sono recate a tanta utilità come le sue, sia per molini ed altri opificii, sia per irrigazione di campi; imperocchè l'arte di condurre questi canali era già molto innanzi in Piemonte in tempi lontani dai nostri, ove si considerino le tante derivazioni della Dora Riparia, e si confrontino i vari tempi delle sovrane concessioni. Fra Collegno e Torino sono le derivazioni che recano l'acqua alla città, e che servono alla fabbricazione delle canne da fucile, e di altre armi da guerra, alla preparazione delle polveri, ai molini civici, di cui 28 ruote idrauliche apprestano il pane ai cittadini e a' forestieri. Un altro canale, tratto dalla sinistra del fiume sotto a Torino, serve alla fabbrica de' tabacchi e della carta ne' vasti edifizii del Parco.
La Dora Riparia a Torino si valicava sopra un meschino ponte di legno sorretto da pile di mattoni. Regnando Carlo Felice (1823), nacque il pensiero di far cavalcare quel fiume da un ponte di pietra, che rendesse fede dell'avanzamento dell'arte in Piemonte; e fu recato ad effetto nel 1830.
L'ingegnere Carlo Mosca, oggi Senatore del Regno, lo architettò e lo condusse a buon termine, illustrando la sua patria e sè stesso con quell'opera insigne. Passate le piazze Milano ed Emanuele Filiberto, si entra nella via per cui si valica il fiume sul mirabile ponte d'un solo arco di cerchio con 45 metri di corda e 5,50 solamente di saetta. Miracolo dell'arte, che l'intelligente cerca ed ammira, perchè mole sì bella e di tanto ardimento è della massima solidità.
Senza dubbio l'augusta città della Dora, ampliata e raddoppiata di popolo nel corrente secolo, è cresciuta in fiore più d'ogni altra italiana, ed ha fatto il più glorioso progresso.
Uno degli amici torinesi, ai quali soglio leggere le mie pagine della Dora, a questo punto mi disse:
—Ora aspetto da te più che un cenno delle nostre belle[492] chiese. Mi descriverai la Metropolitana col Santuario della SS. Sindone, il tempio più vasto della città, ossia quello di S. Filippo, e il più strano, quello di S. Lorenzo colla cupola ardita e leggiadra. Vorrei pure descritto il tempio di S. Massimo e il magistrale dell'Ordine Mauriziano, ove il Morgari, sui concetti del conte Cibrario, dipinse poeticamente nella cupola Il trionfo della Croce. Gli Israeliti vorranno da te illustrata la nuova loro Sinagoga, e i Protestanti la loro chiesa di recente edificata; ed io buon cattolico e cittadino ti raccomando di non dimenticare nel tuo volume il Santuario prodigioso della Consolata; la chiesa di S.ª Giulia, di forma gotica, fondata dalla pietà della marchesa Barolo; quella in questi giorni dedicata ai Ss. Pietro e Paolo, e la celebre Basilica di Superga. Un altro bizzarramente lo interruppe, dicendomi:
—Io sono un profano, e lascio ai divoti la storia delle chiese. Per me desidero nelle tue pagine la vivace descrizione de' festosi teatri di Torino, principiando dal Regio e dal Vittorio Emanuele, due massimi delubri di Euterpe e Tersicore. Dovresti pur narrarci i trionfi dell'ingegno italiano, quando sulle scene del Carignano e del d'Angennes si davano le prime rappresentazioni delle tragedie dei nostri Alfieri, Pellico e Marenco e del ligure Ippolito D'Aste, e le commedie dei nostri Nota e Brofferio e del ligure Chiossone. Ricordaci il bel teatro del cortese amico cav. Gerbino, e il teatro Rossini in cui con applaudite prove Bersezio, Garelli, Pietracqua e Zoppis mantengono in onore la commedia nel dialetto e ne' costumi del Piemonte.
Non basterebbe un grosso volume, io risposi, a descrivere tutti codesti monumenti di cielo e di terra; ma io non faccio la storia nè l'itinerario di questa città. Chi voglia averne contezza, ricorra alle opere del Paroletti, del Cibrario e del Ricotti, legga la Descrizione di Torino del Bertolotti e quella del Giuria, e ne cerchi i particolari nel Dizionario storico-statistico del Casalis, ed anche nelle Passeggiate autunnali del Baruffi.
Io sono un paesista che trovandosi in cospetto di maravigliosa città, irrigata da fiumi, cinta da côlli, maestosa di vie, teatri,[493] templi e palagi, e abitata da popolo industre, dotto e belligero, coglie questo e quel punto di veduta per ritrarre sinteticamente in tela il complesso delle cose ammirate.
Peccato ch'io non possegga la tavolozza ed i colori di Massimo d'Azeglio!
Ed eccomi senza quasi avvedermene entrato a parlar di pittura e delle altre arti, argomento che si affaccia a quanti vengono a visitare le città italiane.
Belle Arti.
«Non ha il Piemonte un'antica successione di scuola pittorica come altri Stati, nè perciò ha men diritto di aver luogo nella storia della Pittura[44]».
Così scrisse il Lanzi. Ma oggi Torino acquistò tali elementi di vita artistica da gareggiare colle più illustri città sorelle, onde stimo bene d'indagare le origini di questa sua crescente gloria.
Fino dal 1652 in Torino si era creata una Società di Artisti, denominata Università di pittori, scultori ed architetti, detta anche Compagnia di S. Luca, la quale nel 1675 cominciò ad acquistar fama aggregandosi all'Accademia Romana dello stesso nome. Crebbe di autorità ai tempi della Reggente Duchessa Maria Giovanna Battista di Savoia, che nel decreto del 29 agosto 1678 la prese a proteggere in singolar modo e le assegnò sede nei reali palagi.
Nel 1716 l'Accademia di scultori, pittori ed architetti ebbe a suo uso dal Governo parecchie sale nel palazzo della R. Università, e nel 1778 il re Vittorio Amedeo III, riconoscendo le Arti liberali altrettanto utili quanto gloriose in ogni Governo, decretò e promulgò nuovi regolamenti, fondò premi e concorsi,[494] ed all'Accademia conferi il titolo di Regia. Nobili instituzioni, che vennero meritamente illustrate con medaglie a bella posta coniate.
Le arti, trascurate poi dalla bellicosa dominazione francese, al ritorno dei Reali di Savoia ripresero vita.
Nel 1821 il re Carlo Felice creò direttore della R. Accademia Giovanni Battista Biscarra, nominandolo ad un tempo suo primo pittore, capo e maestro delle scuole di pittura e di disegno.
Il Biscarra portò da Roma su le rive della Dora i severi precetti della scuola classica e i nobili esempi del suo pennello nel quadro il Caino, che adorna le pareti della nostra Accademia; e nuovi progressi si prepararono alle Arti.
Nel 1833 re Carlo Alberto donò all'Accademia il palazzo che oggi occupa nell'isolato di S. Francesco di Paola. Allora all'Accademia fu aggiunto il titolo di Albertina, nè invano, perchè re Carlo Alberto aperse un periodo nuovo alle arti protette, sì per la sua munificenza, come per le felici disposizioni degli ingegni subalpini.
Re Carlo Alberto volle che il Piemonte fosse ad un tempo la Macedonia e l'Attica d'Italia. Per farne la Macedonia, migliorò ogni ordine militare e instituì nel suo palazzo l'Armeria reale. Per farne l'Attica, agevolò ogni maniera di studi ed ampliò l'Accademia di Belle Arti. Inoltre instituì la Reale Pinacoteca segnalata per quadri fiamminghi. Ne fu dotto illustratore Roberto d'Azeglio, ed ora n'è vigile direttore il suo fratello Massimo, ministro, guerriero, scrittore ed artista: esempio unico nella storia.
Il munifico Re commise elette opere a chiari scultori e pittori d'ogni terra italiana: Baruzzi, Sangiorgio, Marchesi, Fraccaroli e Cacciatori, Hayez, Podesti, Bellosio, Camuccini, Gazzarini e Bezzuoli; e la Reggia di Torino, emulando la Corte Medicea, già per mezzo dell'arte cominciava la unificazione della nostra Penisola.
Statue e dipinture di gran pregio decorarono templi e palazzi. Crebbe il numero degli studiosi e crebbero le scuole; e l'Arienti[495] fu da Lombardia qui chiamato a professare la pittura, e dalla Sardegna il Marghinotti ad essere maestro nel disegno dal rilievo.
Invadendo ogni cosa lo spirito di riforma, entrò pure nell'Accademia Albertina, e coi nuovi ordinamenti Re Vittorio Emanuele II nell'anno 1856 affidò la direzione dell'Accademia al Marchese Di Breme. Questo patrizio, cultore e zelatore tenerissimo delle Arti Belle, acquafortista valente, consigliando l'insegnamento uno e vario, volse l'animo ad infondere vita novella nell'Accademia Albertina, convinto, egli dice, che le accademie si possono conservare, purchè si adattino meglio allo scopo dell'arte, la qual cosa consiste principalmente nell'unificare l'istruzione elementare e nel variare l'insegnamento superiore[45].
Uomini irradiati di bella fama vennero in essa ad ammaestrare. Vincenzo Vela alla scuola di scoltura, Enrico Gamba a quella di disegno, ed alle scuole di pittura Gaetano Ferri e Andrea Gastaldi invece dell'Arienti assunto a reggere l'Accademia di Belle Arti in Bologna. Desiderandosi inoltre a segretario dell'Accademia chi al merito dell'arte accoppiasse i pregi della letteratura, fu eletto a sì nobile ufficio il figlio dell'antico direttore, Felice Biscarra, al quale, mentre va scrivendo la storia dell'Accademia, si prepara dovizia di documenti nei lavori dei maestri e nelle speranze degli allievi.
Diamo un cenno degli esempi della Scuola Piemontese, che l'Accademia Albertina può presentare a' suoi discepoli.
La Reale Pinacoteca, che dapprima avea sede nel Palazzo Madama, fu, ed opportunamente, trasferita al Palazzo de' Musei, significando così che le scienze e le arti deggiono vivere insieme per far prosperare le nazioni.
In due stanze della Pinacoteca si ammirano molte e belle opere antiche di artisti piemontesi, ed altre moderne nel Museo che il Municipio apriva nel giugno del 1863 nella via Gaudenzio Ferrari, quasi per collocarlo sotto gli auspici dell'Apelle di Valduggia, capo della Scuola Lombarda, a cui i Valsesiani con soscrizioni preparano in Varallo un degno monumento.
Nel Museo Civico sono raccolti oggetti di patria e straniera archeologia, e monete antiche di Grecia e Roma, e delle zecche dei Comuni e Stati italiani dal mille in poi. Vi ha preziose reliquie medievali e un vivido acquario in cui pesci, diversi di specie e di colore, guizzanti danno gaiezza al luogo severo. Ma lo scopo principale di quel Museo è la Galleria moderna dei quadri, fra i quali se ne ammirano parecchi di pennello piemontese, come dicevami il cav. Agodino conducendomi gentilmente a visitare le recenti opere del municipio torinese.
Ricordando la R. Pinacoteca e il Museo Civico, io veggo schierarsi a me d'innanzi dallo scorcio del secolo XV sino a noi gli illustri pittori subalpini, coi quali deggionsi pur ricordare scultori ed architetti nostri di meritata fama.
Primo ci si presenta in Alba, il Macrino; poi nel secolo XVI Val di Sesia si pregia dei fratelli Tanzio e di Gaudenzio Ferrari, che ebbe comune con Raffaello la scuola e la gloria. Nel medesimo secolo Vercelli va altera del Sodoma e del Giovenone, e Defendente De Ferraris da Chivasso, dipinge la stupenda icona di Ranverso. Nel secolo XVII fra i vigneti del Monferrato il Moncalvo insieme colle due figlie, protetto dalle Grazie, dipinge madonne ed angioli; il Molineri, detto il Caraccino, narra col pennello le vittorie dei nostri Duchi alla natale Savigliano, che fu pure la culla di Giovan Angelo Dolce, di Pietro Ayres e del lodatissimo incisore Arghinenti, allievo del celebre Porporati; e Nizza, che mai non cesserà di essere italiana, di quei tempi ricorda il suo Lodovico Brea. Nel secolo XVIII Bernardino Galliari, della terra di Andorno, pittor di scene egregio, emulo del Bibiena, spargendo la sua fama in Europa, dipinge a Berlino, e fra noi colora d'affreschi la vôlta del Palazzo dell'Accademia[497] Filarmonica, e adorna il R. Teatro d'una scenica tela, segno alla pubblica ammirazione: e il savoiardo Beaumont ritrae gloriose pagine dell'Iliade e dell'Eneide nelle vôlte della grand'aula in cui ammirasi l'Armeria Reale. In quel secolo le arti del dipingere e dello scolpire, l'incisione e l'architettura lasciano ai Subalpini grate memorie. I torinesi fratelli Collini adornano di scolture i palazzi della Metropoli e i sotterranei di Superga, il Cignaroli acquista nome nella pittura di paese, i fratelli Valeriani dipingono lodatamente di affreschi il R. Palazzo di Stupinigi. Ed ecco io veggo segnalarsi nell'architettura il Iuvara, cui deve Torino la maestosa facciata e i due mirabili scaloni del palazzo Madama, e l'edificio della Corte d'Appello, e Superga, e Stupinigi; e il Conte Alfieri architetto dei tre teatri, il Regio e quelli di Carignano e d'Angennes.
Non cessano ai dì nostri le splendide pruove dell'architettura subalpina. Già ammirammo il Senatore Mosca al Ponte della Dora. Carlo Promis e Alessandro Antonelli sono dotti maestri dell'arte di costruire; e Domenico Ferri, architetto decoratore de' Reali palazzi, fe' il disegno dell'edifizio destinato al primo Parlamento del Regno d'Italia, dandogli una facciata corrispondente alla maestà del luogo; e già si vede sorgere altero quel monumento dell'arte nostra, mercè l'opera dell'architetto Giuseppe Bollati. La stupenda recente stazione della Strada Ferrata in Torino è disegno dell'ingegnere Mazzucchetti; e il torinese conte Carlo Ceppi ottenne nel 1863 la palma fra i molti concorrenti al disegno della facciata del duomo fiorentino, opera da accoppiarsi al Campanile di Giotto.
Nel secolo nostro, oh quale miriade di splendidi ingegni mi si presenta nell'arte, cominciando dal nizzardo G. Battista Biscarra! Io riverente vi saluto, o Pelagio Palagi e Carlo Arienti, o Antonio Gaggini e Vincenzo Vela. Voi, sebbene non piemontesi di origine, siete gloria artistica della Dora, perchè foste chiamati a ragguardevoli uffizi nella nostra Accademia.
Altri bei nomi mi ricorrono in mente. Il Migliara di Alessandria fu mirabile nella pittura d'interne prospettive; Fabrizio[498] Sevesi e Luigi Vacca furono frescanti e pittori scenografi di gran valore; Francesco e Guido Gonin, Enrico e Francesco Gamba, Gaetano Ferri, Andrea Gastaldi, Angelo Capisani, Ferdinando Cavalieri, Pietro Ayres, Camino, Perotti, Beccaria, Raimondi, i conti Corsi e Pastoris, e i due Felice, Cerutti e Biscarra, sono cari nomi che spesso udimmo ripetere ed encomiare in vari generi di pittura nelle annuali pubbliche esposizioni di Belle Arti.
Nè meno della pittura più volte ammirammo nelle pubbliche mostre l'arte statuaria di celebri professori già accennati e dei valorosi Giovanni Albertoni, Giuseppe Dini, Scipione Cassano, Silvestro Simonetta e Carlo Caniggia. Che più? Anche la stampa detta umoristica, mostra quotidiana, vanta sulla Dora quattro bizzarri corifei a matita, Redenti, Allis, Teja e Virginio.
Le glorie subalpine sono di tutta la nazione, onde il Re e il Governo onorarono di commissioni e d'insegne cavalleresche parecchi de' nostri artisti, e la storia segnò i loro nomi sui nuovi allori dell'arte italiana.
La Societa' promotrice delle Belle Arti
e il Circolo degli Artisti.
Fra tanto fervore di nobili ingegni opportunamente nel 1842 in Torino fu costituita la Società promotrice delle Belle Arti che ha per iscopo di eccitare fra gli artisti una lodevole emulazione, di propugnare le notizie delle loro opere, e di aiutarne lo spaccio, acquistandone in proporzione dai fondi sociali. A tal fine nella primavera d'ogni anno essa apre una pubblica esposizione di lavori di Belle Arti.
Promotore e primo presidente della Società fu il conte Cesare di Benevello, amante e cultore appassionato della pittura, a cui succedette altro mecenate, il marchese Ferdinando di Breme. Promotore insieme col Benevello, e, a buon diritto, segretario[499] primo di essa fu il Paravia; ed ora, sette volte rieletto, segretario della Società è il cav. Luigi Rocca, nome gradito, che s'incontra spesso quando in Torino si principia e s'incoraggia un'opera buona ad onorare gl'ingegni.
La Società andò mutando seggio, ed ora ha stanza accanto al Teatro Scribe, in via della Zecca, nel proprio palazzo, acconciamente architettato dal cav. Mazzucchetti.
Chi desiderasse conoscere i particolari della Società narrati con brio ed eleganza, legga le storiche pagine che Luigi Rocca nel novembre del 1864 mandò innanzi all'Album offerto a tutti i benemeriti che contribuirono all'erezione dell'edificio per le esposizioni di Belle Arti.
Qui dunque si trovano gl'incoraggiamenti e gli onori di che altre famose città italiane furono larghe agli artisti, non però le villane gelosie e le cupe ire che in altre contrade disonestarono le scuole dell'arte.
Sulla Dora non trovate, come su l'Arno, morto di ferro un Masaccio, non un Torrigiani che d'un pugno schiaccia il naso al Buonarroti, nè i contrasti di Baccio Bandinelli col Cellini. Qui non si ha a lamentare, come sulle adriatiche lagune, Andrea del Castagno che colpisce Domenico Veneziano per frodargli il segreto della pittura ad olio; nè, come a Bologna, si incontra un Calvart, che villanamente contristò la giovinezza del Domenichino; nè si ha a deplorare una Elisabetta Sirani, amorosa imitatrice di Guido Reni, morta di veleno nella verde età di ventisei anni. Qui, come a Napoli, le ribalderie dello Spagnoletto e del Correro non intristirono mai i seguaci dell'arte; non si attossicarono i loro conviti, siccome avvenne al Baroccio in Roma; nè, come a Genova, fu mai veduto per orrende gelosie un Pellegro Piola perir di pugnale.
Ai cultori dell'arte divisi e discordi altrove, in Torino rispondono cultori uniti e concordi col Circolo degli Artisti, unico in Italia.
Torino ha l'Accademia Filarmonica e la Filodrammatica, la Società del Tiro a segno, la Società Ginnastica, la Ippica, quella[500] dei Pattinatori, e quelle dei Canottieri, instituzioni dilette ed utili, ma fra queste la più fiorente è il Circolo degli Artisti.
Nel 1854 il cav. Felice Biscarra, tornato da un viaggio per l'Europa, narrò all'avvocato Luigi Rocca e ad altri eletti amici la soddisfazione da lui provata nel visitare in lontane regioni i Circoli degli Artisti, e quelli in ispecie di Brusselle e di Ginevra.
Sorse il desiderio di vedere sì bella ed utile instituzione anche in Piemonte, imperocchè le nobili idee fra questo popolo si volgono in atto con rara e pronta felicità, al pari de' semi che sparsi in terreno acconcio non tardano a germogliare, fiorire e dare frutti abbondanti.
Il Biscarra e il Rocca applicarono tosto la mente a comporre gli statuti tratti da quelli del Belgio con altri più adatti all'indole nostra, e fu dato principio con venti soci alla novella instituzione del Circolo che proseguì con ottanta, e, costituitasi con cento e venti, giunse ad avere ottocento fratelli adunati sotto il libero stendardo delle Belle Arti.
Il Circolo degli Artisti è presieduto dal Comm. Galvagno, uomo di probità antica; e trovasi in via Bogino nel magnifico palazzo Graneri, ora del generale Sonnaz, l'eroe di Montebello.
Quivi sono frequenti le adunanze con musiche e balli e con mostre di Belle Arti; e non ha guari, nella sera del 16 novembre 1865, il Circolo fra canti e suoni accoglieva festosamente il Re e la Regina di Portogallo insieme colla nostra Real Famiglia nella memorabile aula, ove ai tempi di Vittorio Amedeo II, fu celebrata la pace conclusa tra Francia e Piemonte, con banchetto splendidissimo, a cui sedevano i marescialli francesi e il Principe Eugenio di Savoia.
Il biondo Re lusitano, che amorosamente coltiva la musica e la pittura, e che lasciò in Torino ricordi grati del suo patrocinio agli artisti italiani, volle cortesemente dichiararsi fratello di quella artistica famiglia, e porre fra i soci il suo nome, fulgida gemma alla corona del Circolo, onde prova il Piemonte che qui la concordia civile preparò l'alleanza degli artisti insieme coll'unità nazionale.
Arte e Patria.
Non lascerò così grato argomento senza prima far cenno che l'Arte, considerata nel complesso de' suoi attributi, qui spesso rappresentò i destini della patria, e li preparò talvolta.
L'Architettura dai Cesari di Roma ad Emanuele Filiberto ricorda gli avvenimenti di sei tempi diversi nel turrito edifizio Augustale, il quale, ristaurato dal Municipio, spiccherà venerando, abbattute le case che ne impedivano la vista. L'Architettura narra i fasti e i lutti della stirpe Sabauda e del Piemonte, additandoci la Reggia e i reali Castelli e il Palazzo Carignano, culla di Carlo Alberto e del Parlamento del Regno italico. Essa, guidandoci al ponte di pietra a cinque archi onde si varca il Po, c'invita a salutare in cima ai côlli torinesi la Basilica di Superga, dedicata a Maria, sepoltura dei nostri Re. Quel tempio, architettato dal Juvara, è monumento di vittoria nazionale, eretto da Vittorio Amedeo II in ringraziamento a Dio per aver liberato questo combattuto paese dall'insolenza forastiera.
Guardando a Superga, ripetiamo esultanti colla Debora del Piemonte, Giulia Colombini:
«Oh! salve dal tuo côlle
Di patria indipendenza alto trofeo!
. . . . . . . . . . . . . .
Tu il sorriso del ciel sui brandi nostri,
Tu il prodigio d'amor Micca ci mostri.
Sul vinto baluardo
Spiegava lo stendardo
Il Francese guerrier: l'ardito esempio
Cento seguiano e cento;
Ma, nuovo Curzio, nel fatal momento
Diede il suo capo il Gran Biellese, e volle
Sè stesso per la patria in sacramento;
[502]Scoppiò l'accesa polve, e glorïoso
Micca su mille eroi tomba si aderse.
Oh viva eterno! E laude a te che, sperse
L'armi Franche, o Amedeo, vittorïoso
Innalzasti sul monte
Simbolo di salvezza, ara al Piemonte!»
Colla Basilica di Superga la Monarchia Sabauda ringrazia Iddio in vetta ai côlli torinesi; e alle loro falde il popolo subalpino lo ringrazia nel tempio della Gran Madre di Dio.
Quella chiesa, edificata col disegno del Bonsignore, ricorda il Panteon di Roma e il tempio del Canova in Possagno. Benchè posta sovra alto basamento con pronao grandioso ed ardito, trovasi oppressa dalle colline circostanti, ma nella mia mente quella chiesa prende gigantesche proporzioni, e dai côlli si eleva sfavillante d'insolito splendore, quando ricordo essere stata costruita per volo del Corpo Decurionale Torinese (1818), dopo il ritorno della stirpe Sabauda dalla Sardegna al Piemonte. Fra le colonne del tempio circolare ricordo le feste cittadine al cessare della gallica dominazione, e il solenne ingresso in Torino di Vittorio Emanuele I, addì 20 maggio 1814. Alla erezione di quella chiesa esultò il Piemonte, che vide restituita la dignità nazionale a queste regioni, riacquistando la dinastia di que' Principi che per otto secoli n'erano stati i reggitori e i padri, educando il popolo alle armi ed alle industrie, e a mantenersi libero dal giogo straniero.
L'arte statuaria con maggiore evidenza ci narrò i fasti della patria effigiandone gli eroi.
Non è stata felice nel ritrarre in bronzo e in marmo il Conte Verde; ma felice e gloriosa oltre ogni dire fu rappresentando nella Piazza San Carlo il Duca Emanuele Filiberto, che, vinta la battaglia di S. Quintino e firmato il trattato di Château-Cambrésis, entra in Torino vindice e stabilitore della sua schiatta, e, riposta la spada, interamente si dà ad ordinare il governo civile. La statua equestre in bronzo, e la battaglia e il trattato scolpiti in altorilievo nel piedistallo compongono il monumento principale della città per concetto e bellezza d'arte.
Il bolognese Salvatore Muzzi, perito negli studi dell'arte e noto per affettuosi libri di letteratura educativa, spesso mi era compagno nel 1863, mentre per le vie di Torino andavo notando le cose più degne di ricordo.
Un dì, dalla statua equestre di Emanuele Filiberto andammo insieme ad ammirare quella pure in bronzo del Re Carlo Alberto nella piazza dallo stesso Re intitolata. Girammo intorno al grandioso monumento di granito e di bronzo, ricco di statue e storiati bassorilievi, da cui sorge sul destriero di battaglia l'augusto martire dell'indipendenza italiana, col brando sguainato, in atto di capitanare l'esercito nelle pugne nazionali.
Io osservava che meglio delle attillate divise militari d'oggidì si affanno alle scolture le antiche armature e i larghi paludamenti; e consideravo che i bassorilievi di quel monumento con militari in tunica e borghesi in abito di rispetto non sono tanto ammirati. Il Muzzi non poteva farsi apologista di questa parte dell'opera; ma notava come l'artista abbia tenuto assai depressi i quattro storici bassorilievi, ed abbia saputo ad un tempo trattarli per modo che tutto vi si legge bene, anco esposti all'ombra, anche nell'ora del tramonto: e se non potea difendere che l'artefice avesse frammisto la realtà dei quattro soldati di tutto tondo alle quattro donne simboliche assise sul secondo piano del monumento, osservava, come ad una ad una le otto statue ornamentali siano veramente assai belle, e degne dell'artista che le concepì e plasticò, sicchè le bellezze de' modelli sono trasfuse nel bronzo.
Levandomi dalle controversie dell'arte al concetto incarnato nelle due statue equestri, io salutai col Muzzi in piazza San Carlo il Genio della Stirpe Sabauda che, ricuperata la signoria degli Stati aviti, ripone la spada nel fodero per attendere alle imprese di pace, e nella piazza Carlo Alberto salutai lo stesso Genio cavalleresco, che, pronto all'invito degl'Italiani, torna a sguainare la spada, già gloriosa in S. Quintino, per dare libertà e potenza a tutta la nazione.
Era conveniente che il medesimo artefice dovesse interpretare[504] e significare nel bronzo la duplice impresa di quel Genio guerriero e legislatore. L'insigne artefice fu l'italiano Marochetti.
Altri monumenti per le piazze e nelle vie ci ricordano i fatti generosi de' Principi e del popolo. Nella facciata del Palazzo municipale veggonsi le statue marmoree del Principe Eugenio di Savoia e del Duca Ferdinando di Genova, scolpite dal Simonetta e dal Dini, e donate dal banchiere Mestrallet, degne di lode, comechè alcuni le notassero di soverchio movimento, quasi fossero simulacri d'artisti ginnastici. Innanzi al mastio dell'antica cittadella di Torino ci si presenta Pietro Micca, statua in bronzo modellata dal Cassano, degno allievo del Vela; in cospetto al Palazzo Carignano, già seggio del Parlamento, l'Albertoni ci addita una sua applaudita scultura, Vincenzo Gioberti, colà collocato come esempio e scuola agli oratori della patria; e nella piazza Castello v'ha l'Alfiere del Vela, che, stringendo il patrio vessillo nella sinistra, e la spada colla mano destra, dal Palazzo Madama guarda a Doragrossa: profetico dono dei Milanesi all'Esercito Sardo, il dì 15 gennaio 1857.
Se pei verdi viali saliamo al pubblico giardino, detto dei Ripari, quattro sculture di marmo ci empiono l'animo di civili e guerresche memorie. Ci si mostrano Guglielmo Pepe che varca il Po, bel lavoro del professore Butti, ed Eusebio Bava, vincitore a Goito, opera dell'Albertoni. Le statue dei due valorosi capitani sembrano erette sul medesimo poggio dei Ripari per celebrare l'unione degli eserciti di Napoli e del Piemonte nelle battaglie nazionali. Chi non ammira colà i due marmi animati dal Vela? Nell'uno è onorato il Manin, il veneto cittadino che, repubblicano di origine, con vivo accorgimento riconobbe e riverì nella monarchia di Savoia l'unica salute della presente Italia; nell'altro marmo è onorato Cesare Balbo che meditabondo tiene la mano sul rinomato suo libro Delle Speranze d'Italia. Visitatori del grand'uomo, non rompete con vane ciance il nobile corso de' suoi pensieri. Egli è assorto in gravi meditazioni. Inchinatelo tacendo, e andate oltre.
Dai fioriti viali dei Ripari trasportiamoci fra gl'incensi degli[505] altari nella Chiesa della Consolata che ricorda Ardoino, l'infelice re d'Italia, in una cappella da lui eretta.
Nel 31 luglio di quest'anno entrai in quel tempio mentre il cielo abbuiatosi turbinava, e, piovendo a dirotta, il vento dalle finestre aperte spingeva l'acquazzone contro le marmoree colonne del Santuario. Una musica soavissima si diffuse, e parve colla virtù dei suoni rasserenare la scompigliata natura. Era il nostro celebrato Marini che sonava l'organo maraviglioso del tempio. Egli toccando maestrevolmente colle magiche dita i tasti dell'organo crea subite armonie ispirate dall'affetto del cuore e dalla maestà della religione.
Una vivida luce tornò a rallegrare il cielo e la chiesa; l'incantevole musicista coi suoni ora imitando il canto degli usignuoli traea il mio spirito a pregare in fondo ad una selva, ed ora imitando i flebili rintocchi della campana mi ricordava in sul vespero l'Ave Maria del villaggio. Così mentre il Marini in varie guise svegliava il sentimento della preghiera, io mi era prostrato presso la cappella semicircolare dove stanno le marmoree statue delle due regine genuflesse, Maria Teresa e Maria Adelaide, che si amarono in vita e che compiante morirono quasi ad un tempo nel gennaio 1855.
Un angelo colle ali spiegate tiene sospese due corone sul capo delle auguste donne che innanzi al Santuario di nostra Donna Consolatrice invocano la concordia e la prosperità sulla Reggia e su l'Italia.
Le due statue, opera del Vela, sono capolavori dell'arte moderna e gloriosi monumenti di quel prodigioso Santuario, da cui mi allontano per farmi alla Cattedrale di S. Giovanni eretta da Baccio Pontelli o da Meo del Caprino sugli avanzi di tre chiese antichissime.
Spesso ritorno alla Cattedrale, ma non a ricordare la bandiera musulmana e il vessillo colla Croce di Savoia insieme sventolanti innanzi alla SS. Sindone per ringraziare il Dio delle vittorie nella oppugnazione di Sebastopoli. Se lo spettacolo delle due bandiere, al quale assistemmo nel 1855, fosse avvenuto nel 1578,[506] quando dal prossimo vicolo, ove abitava Torquato Tasso, più volte vi sarà andato devotamente a chiedere inspirazioni dal funebre Sudario di Cristo, oh! senza dubbio l'epico cantore delle Crociate sarebbe uscito dalla chiesa indispettito, per recarsi a disfogare il cristiano suo sdegno nella prossima casa che abitò pochi mesi, consacrandola per tutti i secoli!
Io vi ritorno per salire alla Cappella circolare della Sindone, ardimentosa struttura del Guarini, dal cui pinnacolo piove la mesta luce a illuminare quel regale recinto. Quivi intorno all'urna contenente il Sudario di Cristo morto sono monumenti e simulacri d'insigni uomini di Casa Savoia: quivi lo scultore Marchesi ornò il sepolcro di Emanuele Filiberto, il Cacciatori quello di Amedeo VIII, il Fraccaroli quello di Carlo Emanuele II, e il Gaggini quello del Principe Tommaso.
Bella gara artistici per onorare la memoria di grandi uomini trapassati! Bell'effetto ottico di que' massi bianchi figurati su que' fondi di nero marmo!
A un lato, dentro nicchia di ricco ornamento, fra colonne di marmo nero con capitelli corinzii dorati, non possiamo guardare, senza esserne commossi, la statua della regina Maria Adelaide, augusta moglie del Re d'Italia Vittorio Emanuele II. Il ligure artista Revelli scolpivala seduta, in bianco marmo da lui animato, poi la seguiva nella beatitudine de' buoni.
Non meno della Scoltura fra noi piacquesi egregiamente la Pittura di ritrarre patrii soggetti. Splendido esempio ne trovai in Savigliano, nella città ch'ebbe la prima tipografia del Piemonte, portatavi dal tedesco Giovanni Glim nel 1470.
Colà il Molineri detto il Caraccino nella vasta sala del palazzo, già ducale, ora del marchese Taffini, immaginò sei grandi arazzi pendenti dai balaustri d'un cortile rettangolare. Negli arazzi dipinse le geste militari, e nel cielo aperto l'apoteosi del Duca Vittorio Amedeo I, figlio di Carlo Emanuele I, la cui effigie vedesi sovra la porta della sala. Nell'apoteosi intorno al carro della Vittoria scorgonsi le quattordici lettere componenti il nome di Vittorio Amedeo sostenute vagamente da angioletti;[507] e ne' guasti caratteri de' cartelli si scoprono iscrizioni latine sotto città e fortezze diverse; e servono a indicare i loro nomi insieme cogli stemmi corrispondenti, non già i fatti d'armi e le imprese rappresentate su quelle mura, come opinò il Napione illustrando quei dipinti.
Gli affreschi della Sala Taffini sono l'ultima e la principale opera di Giovanni Antonio Molineri. Al pari di lui altri valenti dipintori nel suolo subalpino colorarono le imprese eroiche della patria, e volentieri andrei accennando i loro lodati lavori sparsi nella città, se non mi sentissi tratto nel palazzo reale a contemplare più che altrove convenute le Arti belle a illustrare i politici accorgimenti e le virtù guerresche e civili degli Italiani.
La Reggia.
Entrati nel palazzo dei Re d'Italia, l'animo nostro è compreso di maraviglia salendo il maestoso scalone di bianchi marmi, che per doppio ordine di gradini mette ai regali appartamenti.
Diverse belle statue ricordano illustri nomi: il Conte di Carmagnola, lavoro del Dini, il Principe Tommaso, scoltura dell'Albertoni, e Re Carlo Alberto, statua del Vela, rimpetto ad una nicchia vuota, che aspetta dal Varni quella di Emanuele Filiberto.
Nei quattro campi laterali allo scalone veggonsi dipinti ad olio quattro quadri, ne' quali sfavilla la mente italiana.
In uno de' campi Gaetano Ferri rappresentò il matrimonio di Adelaide Contessa di Torino con Oddone di Savoia. Presso a quello il Gastaldi dipinse Tommaso I, che concede carte di libertà a parecchi Comuni dello Stato. Di rincontro a questo quadro Enrico Gamba, l'autore dei Funerali di Tiziano, ritrasse il magnanimo Carlo Emanuele I, il quale, per vendicare la indipendenza d'Italia, pronto alle battaglie, sdegnosamente restituisce a Don Luigi Cajetano, ambasciatore di Spagna, il Toson[508] d'oro, e gli ordina di partire nel termine di ventiquattro ore. Nel quarto campo il Bertini ritrasse nella villa del Parco presso Torino Filippo d'Este che presenta Torquato Tasso al Duca Emanuele Filiberto, il quale graziosamente lo accoglie fra personaggi delle Corti di Savoia e d'Este, e della Repubblica di Venezia.
Ebbi un dì la grata ventura di rivedere la tela del Bertini mentre un bel raggio di sole vividamente illuminava il mesto volto del poeta a cui stringe amorevolmente le mani Emanuele Filiberto, in segno del patrocinio onde i Principi di Savoia sempre furono larghi verso nobili ingegni.
Levando gli occhi dal Tasso vidi irradiata nella volta l'apoteosi di Carlo Alberto, affresco dal Morgari; e guardando attentamente allo scalone e all'atrio, comechè spaziosi, mi sembrarono angusti a tanta dovizia ivi accolta di sculture e di dipinti.
Entrato nei reali appartamenti saluto l'Hayez che in ampia tela pennelleggiò la sete tormentosa dei Crociati presso Gerusalemme, ed il Podesti nel Giudizio di Salomone. Quindi errando di sala in sala fra arazzi di antica fabbrica piemontese, fra madreperle e fra maioliche del Giappone e di Sèvres, fra vasi di malachite e lavori di tarsia, fra dorature ed intagli di ogni maniera in legno, e fra bianche colonne di marmo coi dorati capitelli corinzii, oh! spesse volte mi è dolce fra tanta luce venerare l'Arte e la Patria.
Re Carlo Alberto volle che l'Arte fosse messaggiera del risorgimento d'Italia, e nel 1845 commetteva al lombardo Carlo Arienti di rappresentare in una tela, da collocarsi nella sala de' Paggi, la Cacciata del Barbarossa da Alessandria. L'Arienti nell'opera commessagli pel regale palazzo sè medesimo dipinse vestito da popolano nell'atto di lanciare una pietra contro il barbaro Federico; e in tal guisa l'inclito professore dell'Accademia Albertina diceva a' suoi colleghi che gli artisti deggiono suscitare, e all'uopo anco eseguire le difficili imprese per la patria.
La commissione data all'Arienti nel 1845 era il primo squillo delle prossime battaglie nazionali; e nel 1850 quando si lamentavano le recenti sventure dell'Italia caduta nella battaglia di[509] Novara, ed erano assai dubbie le speranze del nostro avvenire, Re Vittorio Emanuele II nella pubblica mostra di Belle Arti al Castello del Valentino, a far manifesta la perseveranza della sua fede politica, avendo a' fianchi il Presidente del Consiglio de' Ministri e sommo artista, Massimo d'Azeglio, per aggiungere decoro alla Reggia acquistava il quadro di Felice Biscarra rappresentante Cola da Rienzo che parla di libertà al popolo di Roma; e quindi acquistava pure, ad ornare il Reale Palazzo, la tela di Gaetano Ferri che ritrae il lutto del Piemonte per la morte di Carlo Alberto, quadro che all'autore valse il premio della medaglia d'oro nell'Esposizione di Parigi del 1855. Lo stesso magnanimo Re nel 1858 accogliendo ospitalmente nella Reggia la tela del Gastaldi, in cui è raffigurato il Barbarossa vinto a Legnano, si apparecchiava all'eroica impresa, per cui avrebbe veduto i nipoti del Barbarossa vinti e scombuiati fuggire dai poggi di Solferino.
Andiamo a visitare le stanze regali, e vedremo l'amore del Bello espresso da ingegni valenti e forti di patria carità. Quivi si veggono in quattro quadri di Massimo D'Azeglio le imprese del conte Verde, di Amedeo VII e di Emanuele Filiberto; Vittorio Amedeo II, re di Sicilia, che sale alle pittoresche rovine di Taormina, mentre vaghissime donne gli offrono corone di fiori. Si piange la morte di Carlo Alberto effigiata da Francesco Gonin, e si ammirano i busti in marmo del nostro Re, del suo Genitore e delle figlie, lodate sculture del Varni; e, a sempre più dimostrare che la Reggia Sabauda fu ognora ospitale agli alti ingegni, la fulgida galleria, ove il Monarca imbandisce i solenni conviti, è riccamente adorna di cinquantaquattro ritratti di uomini illustri del Piemonte, fra i quali in particolar modo io amo inchinare il Maestro delle sentenze, figlio d'una lavandaia di Lomellogno, Pietro Lombardo.
Al reale palazzo mancava la facciata corrispondente, ma non tarderà a cominciarsi il desiderato lavoro secondo il disegno di Domenico Ferri, che la modellò, stando allo stile barocco della Reggia, però ingentilendolo maestrevolmente.
La facciata abbonderà di marmi e graniti con pilastri e balaustri, e con quattro giganti colonne scanalate di ordine ionico composito, che s'innalzeranno sino al ballatoio del secondo piano.
Per compiere la facciata con un concetto degno della Reggia e del popolo italiano, torna bene il ricordare quanto proponeva il conte Oprandino Arrivabene nel febbraio del 1863[46].
Egli proponeva, che il bellissimo Alfiere del Vela fosse trasferito ad uno dei lati innanzi alla Reggia, e che gli si mettesse di rimpetto la statua di Alessandro Lamarmora, lo strenuo institutore dei Bersaglieri. Questo concetto è bello artisticamente, come con acconcie parole dimostra l'Arrivabene; ed io aggiungerò che quelle due statue rappresenterebbero l'esercito italiano, fedele custode della memorabile reggia, da cui uscirono armati i destini d'Italia.
L'augusta Torino, sede delle arti della guerra e della pace, strenua maestra di ordini civili, operò l'alleanza politica delle altre provincie italiane con sè, intorno allo scettro della Monarchia Sabauda.
Dopo la fatale iattura di Novara, da ogni parte convenivano in Piemonte gli esuli nostri fratelli, che col senno e colla spada eransi resi degni di riverenza e d'amore. Accolti sulle rive della Dora, in questo unico santuario di libera italianità, trovarono salubre il clima, quieto ed onesto il vivere, forte e liberale il Governo, non mai turbato da popolari tumulti. A tutti fu dato ospizio, ed a parecchi non mancarono agi e cariche luminose.
Lo spirito di carità levato al più alto grado qui cominciò la unione politica degli Italiani, che fu poi mirabilmente sancita coi trionfi di Palestro e di S. Martino, capitanati dal magnanimo Re Vittorio Emanuele II, e colle ardite imprese del Leone di Caprera.
Le Camere legislative, concordi al senno del Conte Camillo Cavour, decretarono che Roma fosse la futura metropoli del Regno d'Italia; onde opportunamente nel 4 agosto del 1861 Achille Mauri dettava il seguente sonetto
A Torino.
«Se pur fia che le fauste itale sorti
Tocchino alfine il sospirato segno,
E un ultimo trionfo a Roma porti
L'augusto seggio del novello regno;
«Nobil loco, Torino, e di te degno
Sempre otterrai fra le città consorti,
E andrai chiara per l'armi e per l'ingegno,
Per maturi consigli e l'opre forti.
«Nè Italia coprirà di turpe oblìo
I decenni tuoi vanti, e il largheggiato
A' raminghi suoi figli ospizio pio;
«Ma grata al tuo Camillo, e a quanti il senno
E il cor con lui le offrian, del gran conato
Dirà che i primi onori a te si denno».
Fu caro spettacolo l'affratellarsi degli Italiani più chiari in armi, scienze ed arti qui dove Vittorio Alfieri apriva la nuova nostra civiltà, e la svolsero Gioberti, Balbo ed Azeglio, e donde la mente di Cavour ci condusse presso alla meta sospirata.
Più volte vidi rinnovarsi la concordia cittadina intorno agli autorevoli Buoncompagni, Berti e Capriolo, e nelle sale del Peruzzi e del Paleocapa. Ma più spiccatamente ammirai la felice fusione degli Italiani d'ogni provincia in due case di Doragrossa.
Nel fondo di quella via ad occidente presso la piazza dello Statuto abita Pasquale Mancini, il sacerdote di Temide, che allegra l'austerità degli studi col sereno verso di Laura Beatrice, sua consorte e musa.
La casa di lui è santuario di gloriose memorie onorate dall'arte. Nella maggior sala v'ha un bel quadro di paese dello Smargiassi, e su tela è rappresentata la sposa del volontario, corso alle battaglie nazionali. V'ha il busto in marmo di Guglielmo Pepe, scoltura del Butti, e il ritratto di Giuseppe Garibaldi, lavoro della signora Mancini, poetessa e pittrice. Colà più volte ho veduto fra canti e suoni festosamente raccolti in serali adunanze ministri, senatori e deputati, professori ed artisti ed ornate donne di ogni terra italiana. Due bionde figlie del Mancini, che hanno spontaneo il verso, recitavano rime accese di amor patrio, e un'altra, non meno poetica, faceva agevolmente scorrere le dita su le corde dell'arpa, come se intrecciasse gigli e rose tra fila d'oro, e, traendo armoniosi concenti, l'inspirata donzella sembrava colle musiche celebrare nella casa paterna il consorzio della scienza e delle grazie, e la italica fratellanza.
In mezzo alla via di Doragrossa, sopra i due archi che mettono alla Piazza del Municipio, abita il Conte Federico Sclopis, ministro ben degno di essere consultato nei gravi momenti della patria. Vigile propugnatore dei diritti della natale sua città, egli vive accosto al palazzo municipale e di rincontro al sito in cui sorgeva la torre sormontata dal simbolico toro di bronzo. Nelle sere apriva spesso le ospitali sale, in cui era ammirata per coltura e cortesi modi la consorte del conte, Isabella Avogadro, gemma della mia Novara. Stavano a lei dintorno dame, cavalieri, letterati ed artisti; ed ella aveva per tutti parole soavi, assisa in serici guanciali presso un tavolino su cui olezzavano fiori di ogni sorta fra eleganti volumi di opere italiane e francesi.
Ricordo di avere colà incontrato una eloquente donna dell'Arno, che in suo cuore non vede Italia se non a Firenze; e la incontrai presso una duchessa di Roma, che non accorgerassi, diceva, dell'unità italiana, finchè Vittorio Emanuele non salga trionfante in Campidoglio. Alcune volte vi trovai una principessa di Napoli, nobile di aspetto e di modi, e più ancora d'ingegno e di cuore; e spesso tre illustri subalpini, il generale Cavalli, il professore Ricotti e lo scultore Albertoni, tre fidi amici di casa Sclopis,[513] che in quella adunanza rappresentavano le armi e le arti, e la storia che ne registra i maravigliosi trionfi. In una tavola delle adorne pareti due vaghi angioletti di Gaudenzio Ferrari parevano scesi di cielo a benedire la concordia italiana.
Così un Napoletano ed un Piemontese, ambidue celebrati giureconsulti e uomini di Stato, accoglievano a lieto consorzio il fiore degli Italiani.
Ahi, fu turbata la serenità delle feste subalpine!
Il Piemontesismo.
Poichè a guisa di sponsalizie furono celebrate con desinari, musiche e danze le annessioni delle redente provincie italiane al Piemonte, cominciarono i domestici rancori.
Fu proclamato troppo il benefizio de' Subalpini al resto d'Italia, perchè i beneficati per solito sentono più il peso che l'affetto della gratitudine. Inoltre, vinta la tirannide tedesca e la borbonica, sembrò ad alcuni nuovo giogo sobbarcarsi alle nostre leggi, e soverchio il numero degli ufficiali piemontesi mandati a reggere le provincie annesse.
«Nè ciò dee far maraviglia (uso le parole non sospette di Marco Minghetti), poichè il Piemonte avendo avuto per dieci anni una costituzione libera, le sue leggi erano improntate di spiriti liberali e progressivi; ed inoltre essendo stato autore e guida del rinnovamento, le sue leggi dovevano avere una preminenza inevitabile, quand'anche nelle parti, che risguardassero l'amministrazione, potessero essere meno acconcie. Così era nella natura delle cose che per applicarle s'invitassero uomini da lunga pezza assuefatti a libertà, e di tempra maschia e severa, siccome sono gli abitatori del Piemonte»[47].
A poco a poco si andò dilatando la malattia delle menti detta Piemontesismo, chimerico cholèra-morbus della politica italiana.
I nuovi venuti immaginarono il Piemontesismo, più di coloro che esuli, stanziando fra noi da lungo tempo, si erano omai addomesticati alle usanze nostre.
Gli Italiani del mezzogiorno trovarono incresciose le nebbie e le nevi di Torino, e sospiravano i soli, gli aranci e la perenne primavera di Napoli e di Palermo. I Toscani e i cittadini della Emilia trovarono troppo compassata e gelida la realtà del nostro vivere, e preferendo la ideale voluttà delle arti, invocavano le loggie dell'Orgagna e le torri di Giotto, i prodigi di Michelangelo e di Raffaello, e le glorie della scuola bolognese.
Di poi si andò accagionando il Piemontesismo di tutti i malanni del mondo. Se freddo era il verno, caldo l'estate, se ne accusava il mal clima del Piemonte. Lo accusavano delle malattie e delle cure, che, mortali anch'essi, soffrivano talvolta gli onorevoli Deputati, e taluni maledicevano alla cucina de' Subalpini quando mai nel mattino non trovassero ben acconciati i maccheroni ben cotte le costolette nel caffè del Cambio, ove per solito adunavansi per disporre lo stomaco alla eloquenza parlamentare.
Fu dichiarata Torino benemerita per il suo passato, ma non più comportabile il Piemontesismo, che dal fondo della Penisola costringeva molti a salire sin qui per toccare il seggio del Governo e attingere alla sorgente della vita pubblica.
In tale stato di cose indarno ripetevasi che in Torino non il Piemonte governava, ma l'Italia coi Deputati ed i Ministri delle diverse provincie. Non giovava più rammentare che durò due secoli in Pavia il Regno Longobardo, divenuto quasi nazionale, senza trasferire il suo seggio in sito più centrale, come a Benevento, e senza i telegrafi, le strade di ferro e gli altri benefizi della civiltà presente. Era inutile ricordare che il Regno d'Italia appiè dell'Alpi fu fondato dai marchesi di Ivrea, il cui sangue scorre nelle vene del Monarca, che potè adempiere il voto di tanti secoli e di tanti martiri; e che pieno[515] di pericoli era divellere il seggio della monarchia dal granito alpigiano, in cui antico è l'omaggio ai Reali di Savoia.
Si compia l'opera dell'unità italiana dove si è con tanto senno preparata e condotta a buon segno. Con le contese ed i gravi dispendi del trasferimento non si turbi, nè s'indebolisca lo Stato già fiacco per le miserie del pubblico erario. Non s'incorra negli errori dell'Impero latino, che decadde dalla pristina grandezza, spostando il seggio dal Tebro al Bosforo, sicchè, non cessando i travagli del trasferimento, l'Italia imperiale fu
«. . . simigliante a quella inferma
Che non può trovar posa in su le piume,
Ma con dar volta suo dolore scherma»[48].
Fortifichiamoci rinvigorendo il trono sabaudo, principio di nostra salute, nella valle del Po, in cui più volte colle armi si decisero le nostre sorti, se pur non vogliasi un'Italia senza il Piemonte, com'era ai tempi delle battaglie di Annibale sul Trasimeno e a Canne, accennate nella militare concione dell'oratore e generale Cialdini, e come, forse opportunamente ai suoi fini, la descrive Napoleone III narrando la vita di Giulio Cesare.
Non gradivano tali ragioni, nè poi gli argomenti de' senatori Sclopis, Ricotti, Cadorna e Revel, e dei deputati Berti, Crispi, Chiaves e Coppino, e di altri uomini assennati.
Il Ministero Minghetti-Peruzzi, valendosi del Pepoli a messaggio ed interprete, nel silenzio diplomatico ordì colla Francia la Convenzione del 15 settembre, che traeva seco il trasferimento della metropoli a Firenze.
Il Ministero tutto preparò, meno gli accorgimenti bastevoli ad impedire tumulti nefasti e lo spargimento di sangue cittadino.
Il 22 settembre del 1864.
Sparsa in Torino la infausta notizia della Convenzione, gli animi de' cittadini si commossero, e per le vie e nelle piazze si manifestò l'indignazione popolare. Ma i cittadini che tumultuarono, non erano ostili alla causa nazionale, anzi ne erano provati caldeggiatori.
Molti, gridando Roma o Torino, lamentavano nel trasferimento a Firenze lacero il decreto della nazione, con cui si acclamò Roma per futura sede del Regno d'Italia.
Non pochi temevano che avesse a correre pericoli la Monarchia spostandosi dal suolo nativo, e con lei la unità italiana assicurata nella R. Stirpe di Savoia.
Nè mancarono di quelli che, ammaestrati dalle cessioni di Savoia e Nizza, temevano nel patto colla Francia si nascondesse qualche disonesta cessione di terra subalpina; onde ripetevano col Bolognese Eustachio Manfredi:
«Vidi l'Italia col crin sparso, incolto,
Colà dove la Dora in Po declina,
Che sedea mesta, e avea negli occhi accolto
Quasi un orror di servitù vicina».
Que' malcontenti non erano tali da dare scosse allo Stato più fiere di quelle che cagionava la Convenzione del 15 settembre. Erano gridatori inermi e nulla più, come vien provato dalla relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta dettata dal non piemontese Sandonnino, e dalla relazione del deputato Ara in nome del Municipio[49]. Non si aveano dunque a trattare come briganti armati nei burroni delle Calabrie, o come nemici schierati a battaglia sul Mincio.
Sarebbe bastato a quietarli il pacificatore Mazzarini, che nell'atto della zuffa fece sospendere l'azione guerresca agli eserciti di Francia e di Spagna contendenti in Casale; o meglio l'oratore Alfonso Lamartine, che colla potente parola salvò Parigi dalla guerra civile. Invece si ricorse ai mezzi con cui furono domati i Giannizzeri, ribelli alla legge musulmana.
L'egregio sindaco marchese Rorà e il Municipio espressero al Governo il cordoglio della indignata Città per l'effusione del sangue fraterno in Piazza Castello nella sera del 21 settembre: ma non valsero i loro consigli ad impedire che nuovo sangue d'Italiani fosse sparso nella notte seguente.
Inorridisco al ricordare gli allievi Carabinieri quando dalla porta della Questura in Piazza S. Carlo coi moschetti fischianti irruppero sull'affollato popolo inerme!
Oh! chi non ammirò quella vasta e magnifica piazza, dove sorge la statua equestre di Emanuele Filiberto e un monumento alla carità cristiana nel tempio a S. Carlo Borromeo?
Quella piazza ricorda i cavallereschi tornei in onore del Re, e le pacifiche e festevoli adunanze del popolo. Colà io mi deliziai fra i balli e i concenti dell'Accademia Filarmonica, e nelle sale del palazzo Natta abitate dal conte Corinaldi mi beai alle musiche ed alle eleganti raunanze cui traevano in gran copia preclari esuli di Venezia, confortandosi nel trovarvi una imagine della famosa loro piazza di S. Marco. In quella piazza spesso mi fu dolce salutare il palazzo già abitato dal Sofocle Astigiano e quello del marchese Felice Santommaso, che mi accolse giovine poeta nella cara e venerata compagnia di Pellico, Paravia e Cibrario; e le case ospitali del conte Farcito e del conte Pernati, e la religiosa libreria Marietti, e il maestoso Caffè, in cui più volte conversai coll'arguto Baratta, il nuovo Marziale.
Queste serene rimembranze impallidiscono innanzi alla cruenta notte del 22 settembre 1864.
Il fischio del piombo micidiale assordò orrendamente quel luogo memorando, e la piazza fu ingombra di vittime.
Nella concitata mia mente ho veduto Emanuele Filiberto rizzarsi[518] sul destriero, e levando la spada cercare intorno a sè gl'invasori stranieri per combatterli. Ahi! vedendo i segni della pugna civile, egli fremente sclamava:
—Chi sono gli sciagurati che cagionarono gli orrori del macello cittadino?
—Non sono Piemontesi: risposero cupamente fioche voci di moribondi.
—Ma pur sono Italiani: gridarono mille voci piene di giusto sdegno.
Poi fu silenzio e solitudine. Soltanto si udiva il rantolo della morte tra il fumo della moschetteria che intenebrò l'aria; e i bronzei candelabri a gaz che illuminano la piazza parvero tede funerali poste a rischiarare un campo di morte.
Il dì appresso i Torinesi sbalorditi s'interrogavano per le vie e ripetevansi l'un l'altro:
«I fratelli hanno ucciso i fratelli,
Questa orrenda novella vi do».
Il Re corrucciato immantinente mutò ministero!
Ma quali rimedi troverà il Governo, perchè l'offeso Piemonte cessi dalle querimonie?
Le acque della Dora e del Po non cancelleranno facilmente nella Piazza di S. Carlo le macchie del sangue cittadino. Ogniqualvolta vi passo io le riveggo farsi più rosse, e risento il puzzo dei cadaveri che non può temperarsi nè dall'olezzo de' nostri roseti, nè dai profumi d'Arabia.
O Conte Camillo Cavour, se tu ancor vivevi, no, tanto orrore non avrebbe offuscato la storia della tua Torino e d'Italia tutta!
Ho bisogno di sfogarmi nelle lagrime, e vengo a piangere in Sàntena sul tuo sepolcro in compagnia dell'illustre uomo di Stato, Filippo Cordova, che, non piemontese, lamentò pure la Convenzione del 15 settembre.
Il Sepolcro del Conte Camillo Cavour.
Sàntena è antico villaggio prossimo a Cambiano nel Comune di Chieri. È attraversato dal torrente Banna che mette foce nel Po presso Moncalieri; ed ha tre mila abitanti, lieti dell'annuo reddito di ventimila lire che traggono dagli eccellenti sparagi, prodotto de' loro terreni.
Volsero sette secoli dacchè i Bensi ottennero parte del feudo di Sàntena che apparteneva al Capitolo dei canonici del duomo di Torino, e nel secolo XVII ebbero poi dal duca di Savoia la contea di Cavour per la gloriosa difesa di Montemeillan, in Savoia, fatta dal loro Goffredo.
Carlo Emanuele III nel secolo scorso eresse a marchesato la contea di Cavour; e da quel tempo i primonati della famiglia Benso presero il titolo di marchese di Cavour, lasciando ai secondogeniti quello di conte di Sàntena.
Il castello di Sàntena non mostra segni della prima sua costruzione: ora è magnifico palazzo, con ai fianchi la torre che appartenne al conte di Baldissero. Assai pittoresca è quella torre merlata con finestroni e feritoie di foggia gotica, e folta di edera che le si abbarbica bizzarramente sui rossi mattoni.
Dal castello per doppia e bella gradinata si scende verso levante nel fiorito parco, che stendesi ampiamente, allegro per giardini ed ombrosi viali fra olmi, quercie e platani annosi.
Filippo Cordova ed io, accompagnati da cortesi persone, entrammo a visitare le vaste ed ornate sale del castello, che furono frequente soggiorno al Conte Camillo.
Ammirammo effigiati dai pittori scenografi Vacca e Fabrizi alcuni episodi dell'Iliade, fra i quali vedesi Achille che dietro[520] al carro trionfale trascina intorno alle mura di Troia il miserando cadavere di Ettore. Quello spettacolo di morte contrasta coi quattro leggiadri puttini che sorridenti si dispiccano dalla vôlta, quasi se fatti a rilievo.
Vedemmo inoltre ritratti di parecchi della famiglia Cavour e la effigie dei santi uomini Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, ed Amedeo di Clermont, principe e vescovo di Losanna, congiunti di sangue ai Cavour dal lato materno.
Il Conte Camillo era figlio secondogenito d'una De Sellon, ginevrina, nipote del celebre conte Sellon che propugnò l'abolizione della pena di morte, onorando e premiando chi meglio scrivesse intorno a così arduo argomento, e fondò la Società della Pace, con cui voleva por fine alle perpetue discordie del genere umano.
Il Cordova, additandomi appesa ad una parete l'effigie del conte Sellon, avvertiva che i lineamenti del suo sembiante ricordano quelli del nipote Camillo, e dalla somiglianza dei loro volti facendosi a ragionare della corrispondenza de' loro intelletti, assennatamente mi disse:
—«Le opinioni e le tendenze degli uomini traggono origine talvolta da certe alleanze di famiglia che sfuggono per ordinario allo studio de' biografi.
«Se Camillo Cavour nasceva da una dama piemontese, fosse anche stato il primogenito, non sarebbe forse riuscito liberale uomo di Stato e riformatore attissimo a scuotere i pregiudizi del suo sangue. Ma figlio di una Sellon, parente al fisico De La Rive, sino dall'infanzia in consorzio con uomini di culti diversi, e addetti alle scienze ed al commercio, apprese le forze vive dell'età moderna: ed aspirando a dirigerle, invece di ristarsi nell'ozio uggioso dell'aristocrazia, egli si fece capo della borghesia intelligente ed operosa.
«Nel Conte Camillo, nell'uomo che riformava il sistema daziario e partecipava alle grandi imprese dell'industria, nell'uomo che, amando il governo libero, promoveva la riforma della legislazione penale e aboliva privilegi ecclesiastici, tu non ravvisi[521] il figlio dell'antico vicario politico di Torino, il nipote di tanti governatori, prelati e cavalieri dell'Annunziata che costituiscono la maggior gloria della sua famiglia paterna, ma vi ravvisi meglio colui che per metà cittadino di Ginevra, sulle rive del Lemano avea raccolto le recenti tradizioni di Rousseau, della Staël, di Beniamino Constant, del Guizot, del Duca di Broglie; insomma il nipote del celebre Sellon, che esercitò nobilmente la Banca, ed era legato in amicizia cogli uomini che prepararono la Rivoluzione del 1830 in Parigi».
Accanto al castello sorge la chiesa parrocchiale di Sàntena, fatta costruire nel 1712 dal conte Carlo Ottavio Benso e da lui dedicata a Maria Vergine, come dice una lapide della domestica tribuna che guarda nel tempio. In quella tribuna veggonsi eziandio le immagini dei santi Francesco di Sales e Amedeo di Clermont; inoltre l'iscrizione, in cui l'edificatore della chiesa ricorda il suo fratello Agostino Maurizio, cavaliere di Malta, che segnalossi nell'espugnazione dell'isola di Scio, e mentre faceva sua una nave di Corsari, toccò una ferita, onde, giovine di 27 anni, morì nel 22 luglio del 1694. Vi si legge pure altra iscrizione che onora Luigi Benso, cavaliere Gerosolimitano.
Sotto la domestica tribuna era l'antica sepoltura dei Cavour. Consunte le casse mortuarie, andarono rimescolate e confuse le ossa dei cadaveri che furono colà piamente raccolte in luogo distinto della cappella sepolcrale, costrutta e decorata dopo la morte del Conte Camillo.
Vi si giunge scendendo per erboso declivio e passando per un praticello vestito di fiori e cinto di pioppi, acacie e salici piangenti.
L'architetto del recente sepolcreto non lo immaginò con le colonnette sottili e i leggiadri trafori dell'arte gotica, convenienti al misticismo cristiano; ma, pensando al grand'uomo ivi sepolto, vi costrusse un tempietto d'ordine dorico con colonne di granito bigio alla porta, che ricordano le costruzioni egizie.
Il concetto pagano di quell'edifizio è severo com'erano la favella ed i costumi, l'arte e le leggi presso i Dori; e ben si addice ad onorare fondatori e reggitori di Stati.
La piccola croce, che, come straniera al carattere dell'edifizio, sovrasta alla porta, ci ricorda le ultime ore del Conte, in cui la fede cristiana coronò tutte le glorie dell'uomo di Stato.
Entrammo nella funebre cappella. Sono di marmo nero le sue pareti e le due colonne che la reggono coi bianchi capitelli di marmo carrarese. In fondo vi ha un altare, e nelle lapidi le scritte ricordano i recenti sepolti. In quella dell'uomo, per cui colà movemmo, si legge:
CONTE
CAMILLO BENSO DI CAVOUR
NATO IL X AGOSTO MDCCCX, MORÌ IL VI GIUGNO MDCCCLXI.
Presso di lui giacciono le ceneri del suo fratello Marchese Gustavo, filosofo cristiano, e le spoglie del suo nipote Augusto, guerriero della patria, morto ventenne nel 1848 per le ferite riportate nella battaglia di Goito.
Alle pareti sono appese ghirlande e scritti che il Comitato Veneto, Società di operai, Collegi nazionali e frequenti pellegrini tributarono al sepolcro del Conte Camillo.
Mi fu detto, che in una delle nicchie della cappella sarà collocato il busto in marmo del nipote Augusto, commesso al Vela; che in mezzo al tempietto si ergerà un monumento degno del Conte Camillo e dell'erede; e che, a maggiormente decorare il tempietto funerale, la porta, ora di legno, sarà fatta di bronzo e fusa secondo il disegno del Marochetti.
Sia lode a chi sì nobilmente decorerà quel pio luogo, in cui molta è la frequenza de' pellegrini nostri e forastieri, fra l quali vien ricordato il Russo Stefano Sivereff, membro e consigliere ordinario dell'Accademia di Pietroburgo, che nel 1861 insieme[523] col suo giovane figliuolo andò a prostrarsi innanzi al sepolcro del Conte Camillo.
E noi tutti Italiani prostriamoci addolorati e riconoscenti. Nelle principali nostre città in onore di lui furono celebrate solenni esequie, recitati funebri discorsi, e ad eccellenti artisti si commisero marmi storiati. La sua nipote, contessa Alfieri-Cavour, diresse al sig. De la Rive[50] una lettera, nella quale, narrando la malattia e gli ultimi istanti dello zio, gli consacrò un monumento di affetti domestici nobilmente espressi; Nicomede Bianchi[51] gli consacrò un monumento di sapienza politica rivelando arditi accorgimenti del grand'uomo; e Giuseppe Bertoldi[52], tributandogli un monumento di classica poesia con due canzoni, vien collocato, dice il Tommaseo, d'un tratto fra i primi artefici che abbia l'Italia del verso, primo che abbia il Piemonte e che mai forse avesse.
Ma il massimo dei monumenti a Camillo Cavour sarà l'Italia stessa cogli allori dei Campidoglio.
Stavamo per uscire dalla cappella, quando il sig. Francesco Rey ci presentò un libro, in cui i visitatori registrano i loro nomi. Il Consigliere di Stato, mio compagno al pio pellegrinaggio, vi scrisse:
«Filippo Cordova, prima di partire per Firenze per effetto della Convenzione del 15 settembre 1864!»
La famiglia Rey è una serie di onesti e laboriosi maestri muratori, che da quattro secoli abita in Sàntena, ossequente con amorevole zelo alla casa Cavour.
Francesco in modo vezzeggiativo da Papà Camillo era chiamato Cicco, ed è conservatore ed illustratore dei fatti domestici del suo patrono.
Cicco fa ricordare l'antico servo di Voltaire, che presso Ginevra abitava in Ferney la casa del padrone filosofo, ed ai visitatori raccontava i particolari della domestica vita, e mostrava alcune suppellettili che aveano appartenuto al celebre uomo.
Così Cicco Rey: se non che, più avventurato del servo di Voltaire, bene usando della cazzuola e del martello, e protetto da Papà Camillo, salì a prospero stato, ed ora accoglie lautamente i pellegrini a lui raccomandati, che vanno ad inchinare il sepolcro del suo protettore.
Dopo di averci accompagnati al palazzo ed alla cappella funebre, Francesco Rey, introducendoci nella sua casa, gaiamente diceva:
«Voi entrate nella casa di un povero operaio». E noi allo incontro entravamo nella casa signorile di un uomo, che colla industria assidua e propizia si era acquistato la stima e la fiducia pubblica.
La bella sua casa, da lui costrutta, è sormontata da una torre, in cui sventolava il vessillo nazionale, ed è cinta da un giardino riccamente fiorito ed impomato.
Il fido Cicco accorreva tutto festevole ad incontrare il Conte ogniqualvolta lo sapeva di ritorno a Sàntena; e quando gli giunse freddo cadavere, Cicco pieno di cordoglio lo depose entro cassa di piombo chiusa in altra di legno, e lo seppellì in compagnia degli illustri antenati.
Francesco Rey, narrandoci questi atti di ossequio e di dolore, ci condusse alla stanza ove conserva preziosi ricordi entro un armadio. Apertolo, ci mostrò ciocche di capegli del Conte, e la pezzuola di bianco lino che nella faccia gli terse i gelidi sudori di morte; e il martello e la cazzuola che egli adoperò, e gli abiti neri ch'egli vestiva nell'8 giugno 1861 tumulando il lagrimato Conte.
Presso l'armadio ci additò in marmo di Carrara il busto del suo[525] patrono, e molti ritratti in fotografia, insieme con quello del Padre Giacomo, che, vero ministro di cristiana carità, benedisse e confortò le agonie dell'integro cittadino e del grande uomo di Stato, cui deve l'Italia tanta parte del suo politico rinnovamento.
Due giorni di lutto sublime vidi in Torino. L'uno fu quello in cui, muti i teatri e messi i diari a profondo corrotto, si celebrarono i funerali del conte Camillo Cavour con tale accompagnamento di ordini civili e religiosi e di popolo lagrimante, che meritava di essere eternato dall'arte. Il napolitano architetto Cipolla aveva con bel pensiero proposto di rappresentarne gl'insoliti funerali nei fregi intorno al monumento nazionale, come usarono gli Egizi effigiare le trionfali processioni dei Faraoni nei monumenti di Tebe.
L'altro giorno di lutto fu l'anniversario delle vittime del Settembre.
Più volte aveva assistito ai tripudi torinesi nelle feste civili fra mostre militari, musiche e fuochi artificiali. Oh quale mutamento! Fu tristo spettacolo vedere la generosa Torino che si abbandonava al dolore per la memoria di pubblica sventura. Le botteghe erano chiuse o parate a lutto, e drappi neri pendevano da parecchie finestre e dal gran balcone del palazzo municipale. Splendevano candelabri funerari e sventolavano neri gonfaloni nella grandiosa piazza Vittorio Emanuele gremita di popolo atteggiato a tristezza, colla dignità, onde il Piemonte suole significare le gioie e i dolori della patria.
Appiè de' ridenti côlli che si specchiano nelle acque del Po, sotto al peristilio del tempio sacro alla gran Madre di Dio, parato a nero, sorgeva un altare, e innanzi ad esso un catafalco, intorno a cui deposero i loro vessilli le diverse compagnie cittadine.
Il Sindaco e i Consiglieri del Municipio, il primo Magistrato politico della Provincia, i membri del Parlamento e di varie[526] associazioni, e il Comitato dirigente la solennità mortuaria assistettero in posti distinti alla funebre messa celebrata nell'atrio del tempio votivo.
Poscia di colà cominciò il lagrimoso corteggio preceduto dall'asta su cui era portata la corona da deporre sui sepolcri delle vittime del settembre, espressione della pietà cittadina. Seguivano le musiche, con un drappello della Guardia Nazionale; il Sindaco col Municipio; membri del Parlamento con preclari uomini di ogni terra italiana; il Comitato centrale, e i rappresentanti della Stampa e delle diverse Associazioni con nastri funebri al braccio e colle bandiere coperte di veli neri.
Il luttuoso corteggio percorse le vie di Po, Piazza Castello e Doragrossa sino agli archi che conducono al palazzo municipale. Entrato nel Corso di Porta Milano si condusse al Camposanto, e quivi depose bandiere e corone sulle sepolture delle vittime infelici.
Mi sento l'animo pieno di morte, e ritorno alle tombe!
Il Camposanto.
«Colà dove la Dora in Po declina»
mi accompagnò cortesemente l'egregio professore Casari tra i filari de' pioppi piramidali in un vespero d'autunno.
L'ultima luce del sole sulla riva destra del Po imporporava i vigneti e le ville della collina torinese e la basilica di Superga; e presso la foce della Dora malinconico pescatore colla rete vuota sedeva nella sdruscita sua barchetta, quasi a rappresentare il Piemonte misero e afflitto.
O magno Eridano, mescolato alle acque della Dora porta all'Adria i lamenti e i voti dei Subalpini, e di' a Venezia che il Piemonte sì nella prospera come nell'avversa fortuna sarà sempre intemerato esempio di patria carità. Dille che siccome si adoperò[527] per la libertà delle altre provincie d'Italia, così per la salute di lei darà il sangue degl'impavidi suoi figli al primo squillo delle battaglie nazionali. Ripeti, o Eridano, dove passi, che unanimi i Piemontesi esclamano in Torino[53]: «In questa città noi gridammo primi: facciamo l'Italia, ed anche nel dì del dolore i concittadini di Balbo, di Gioberti e di Cavour grideranno sempre: si faccia l'Italia».
Mentre la mia mente colle acque dell'Eridano e della Dora si trasportava alla mestizia delle venete lagune, il mio compagno levommi a fiorite memorie, ricordandomi il parco dei Duchi di Savoia, che appunto, dove eravamo noi, girava cinque o sei miglia con tanta amenità di boschi, giardini ed acque. Allora mi parve di rivedere il deliziosissimo Parco, che, piantato per ordine e sul disegno del Duca Carlo Emanuele I e ritratto dalla pittrice parola del Botero, fu inspiratore a Torquato Tasso nella poetica descrizione de' famosi giardini di Armida.
Non solo il Tasso, io osservava al Casari, si piacque della vista di que' luoghi, ma pure il Chiabrera che celebrò il Parco in tre sonetti, e Vittorio Alfieri che giovinetto colà imaginando caccie rumorose, saltava fossi smisurati e guadava spessissimo la Dora, com'egli racconta nella sua autobiografia.
Tasso, Chiabrera ed Alfieri ci danno lieti ricordi: non così l'italico Tirteo Giovanni Berchet, che sotto i pioppi della Dora lamentava la patria, nè così la gemebonda Torino che piange sui 200,000 morti, sepolti nel prossimo cimitero, costrutto sui piani incantevoli dell'antico Parco e benedetto nel 1829.
Il busto del marchese Tancredi Falletti di Barolo, ch'ebbe tanta parte alla erezione di quel funebre edifizio, ammirasi nella chiesuola del Santo Sepolcro annessa al cimitero, dove si giunge per ombroso viale e si entra per due cancelli.
Al limitare di quel campo di riposo leggesi la iscrizione del[528] Boucheron che conforta nella fede i visitatori: Locus religiosus ossibus revicturis ad quietem datus. Alta croce di pietra su d'un rialto, centro a quattro viali di cipressi, s'alza nel mezzo del campo. Gli corre intorno un muro adorno di lapidi e sculture entro nicchie e cappellette, in faccia alle quali stendonsi altrettante aiuole ove stanno i sepolcri di privata proprietà; e tutta la parte centrale del cimitero è occupata dai sepolcri comuni.
Non bastando però quello spazio ai rapidi trionfi della morte, il Municipio torinese provvide all'ampliamento, e ne affidò la cura all'architetto Carlo Sada. Fu aggiunto al Camposanto in forma di parallelogramma un maestoso ordine di portici diviso in duecento sessantanove arcate con edicole e cappelle acconcie ai monumenti. Catacombe sono incavate sotto i portici, e fra questi e le vie occupato è lo spazio da sepolture private e da marmi storiati.
In quel regno della morte i recinti destinati alle diverse professioni religiose sono congiunti da una muraglia comune, espressione della carità che tra fiori e cipressi accoglie amorosamente insieme tutti i figli dell'uomo.
Visitando i chiostri della necropoli torinese ammirai un Panteon dell'arte italiana che desta patrie memorie coi nomi piamente scolpiti ne' marmorei monumenti.
Colà sono sepolti statisti e guerrieri che lamentiamo sempre come recente sventura della nazione, Barbaroux, Pinelli, Santa Rosa, Gioberti, Bava, Poerio, Siccardi, Maestri, La Farina, ed Emilio e Alfredo Savio, che, fratelli di sangue eroicamente versato in Ancona e Gaeta, hanno comune la tomba.
Sono sepolti uomini, i cui ammaestramenti educarono la presente generazione: Boucheron, Biscarra, Buniva, Martini, Genè, Paravia, Plana e Riberi.
Sono sepolti poeti e scrittori, le cui pagine onorano la nostra letteratura, Grassi, Berchet, Pellico e Bertolotti.
Vi sono sepolte care persone che ci erano congiunte per corrispondenza di gentili e generosi affetti.
Mi sentii bagnar gli occhi di pianto quando incontrai il nome della contessa Ottavia Masino Borghese di Mombello, leggiadra[529] letterata e pittrice, nelle cui sale si adunavano artisti e scrittori, fra i quali io le intitolava un cantico della mia giovinezza.
Mentre mi andava tergendo le lagrime, altro argomento di pietà venne a stringermi il cuore innanzi all'arco indicato dal numero 100. Io guardava alla sepoltura che il conte Luigi Cibrario apparecchiava a sè ed a' suoi più cari. Colà rimpianta giace la ornata consorte del venerato amico, Teresa George, dal cui nome esordirono queste povere mie pagine.
Sospirai amaramente guardando al cielo, e andai sul sepolcro della famiglia Prever a confortarmi nella Speranza, mirabile statua del Vela.
Errai nuovamente nel Camposanto, e mi assalirono nuovi dolori in cospetto a memorie di catastrofi cittadine; mentre su le aiuole funerali io vedeva a due a due, col bianco cuffiotto e in veste di tela azzurra passare le Trovatelle ricoverate nello spedale di Carità.
Quelle innocenti figlie della colpa, che non conobbero padre quaggiù, andavano pregando di sepolcro in sepolcro, e dal Padre supremo invocavano pace ai trapassati.
M'imbattei nel monumento sacro ai ventisei estinti nello scoppio della Polveriera addì 20 aprile 1852; e in un angolo presso la chiesa mi fu additata la zolla sotto cui dormono i morti nell'incendio della casa Tarino, in via di Po, il 28 agosto 1861.
Oimè! altre vittime più numerose e più compiante ricorda un distinto quadrato di terra a tramontana! Colà
ALLE VITTIME
DEL SETTEMBRE
1864
lessi nella colonna che, simulacro di futuro monumento, fra due cipressi fu innalzata sulle fôsse in cui giacciono gli uccisi dal piombo fratricida.
Erano corsi alcuni giorni dal lagrimato loro anniversario ed ancora si vedevano i segni della mestizia cittadina. Dal sommo[530] della colonna pendevano i lembi d'un velo nero, e su gli scalini del piedistallo, coperto di negri panni erano sparse parecchie corone e sorgeva uno stendardo coll'impronta del caduceo e la scritta: Giovani del Commercio di Torino.
Una giovane donna vestita a gramaglie con in mano il rosario era genuflessa sovra una di quelle fôsse, da cui sorgeva modesta croce congiunta al tronco d'un salice. La mesta pregava e singhiozzava; e frattanto a' suoi fianchi bionda fanciullina appendeva corone di fiori ai ramoscelli del salice.
Mi appressai, e benchè la sua beltà fosse ormai sfiorata dal dolore, io la riconobbi. Era la Lucia di Bousson, la figlia del pastore Giacomo.
—Lucia, anche voi qui ...! le dissi, già commosso per la risposta amara che aspettavo.
Ella, pallida e lagrimante, levò gli occhi dalla fôssa; ma, immersa com'era nel dolore, non mi ebbe tosto riconosciuto. Allora io soggiunsi:
—Non ravvisate colui che accoglieste ospitalmente nella capanna paterna, là presso alla sorgente della Dora?
—Oh sì!;—ella rispose, traendo un profondo sospiro: e, stanca di affanno e di pianto, andò a sedere sui prossimi scalini del piedistallo seco traendo la fanciulletta, mentre l'andava amorevolmente accarezzando.
—Oh sì; riprese Lucia: è proprio lei che mi rivide a Bussoleno tutta festevole, quando andavo a nozze col mio buon Maurizio ... ora qui sepolto!
—Infelice!
—Sì, infelicissimo il mio Maurizio! Egli, acceso d'amor patrio, lasciò la vita pacifica dell'agricoltura per arruolarsi nel nostro esercito, e nella battaglia di Sammartino con atti di valore aveasi acquistato il grado di uffiziale. Ahi! nella sera del fatale 22 settembre in piazza San Carlo corse qua e là per temperare gli animi esacerbati e richiamarli a concordia; e in quell'inaudito tafferuglio di soldati e popolo fu colto dalla palla d'un moschetto!
«Mi scoppia il cuore nel ricordare quando nel Borgo Dora alle ore dieci di quella sera infausta mi fu portato in casa tutto grondante sangue. Non valsero cure di ogni maniera a sanargli la piaga mortale. Poche ore sopravvisse! Sempre mi suonano nel cuore le ultime sue parole. «Era meglio, esclamò dolorando, ch'io fossi morto sul côlle di Sammartino combattendo contro i nemici d'Italia, a difesa del Re e della patria! ma morire in pugna fraterna ... oh duro tormento!» Questo straziante pensiero gli affrettò l'ultim'ora, e agonizzando premè la mia destra al suo cuore e mormorò: «Lucia, fatti qualche volta al mio sepolcro colla nostra figliuola, e raccomandale sempre di amare il Re, Torino e l'Italia».
«Ed eccomi abbandonata da tutti con la figliuola sulla fôssa di Maurizio. I miei fratelli morirono pugnando per la patria, e il vecchio genitore mi fu rapito dalla morte poco appresso d'aver avuto la medaglia di Sant'Elena.
Ora io non ho più sulla terra che il rosario della buona madre (e lo baciava) per pregare, e questa orfana figliuola ad amare».
Frattanto le Trovatelle si erano colà raccolte, e prosternate presso la memorabile colonna pregavano pace intorno al salice di Maurizio. Una suora di Carità, loro guida, mentre io cercava di confortare la sventurata Lucia, le disse:
—Non disperate, o donna. Non siete da tutti abbandonata, perchè la Provvidenza, che protegge le trovatelle, veglia pure su le vedove e le orfane; e già per opera di generosi italiani in Torino prepara un conveniente ospizio alla vostra fanciulla, insieme colle altre figlie de' militari.
Speranze.
Pace alle querimonie, e s'apra l'animo a liete speranze.
Anche sui sepolcri germogliano le rose, mentre le nazioni per vie di morte giungono alla meta della loro vita.
Il deputato Domenico Berti, ragionando del Piemonte, diceva: «Esso altro non vide in questi ultimi anni davanti a sè che l'Italia, non sognò che l'Italia. Il suo Governo era l'Italia, l'Italia il suo Re, l'Italia la sua bandiera. Visse di vera vita italiana, e non avrebbe potuto vivere altrimenti. E quindi accadde il singolare fenomeno, che mentre agli occhi dello altre province l'Italia diventava Piemontese, agli occhi del Piemontese il Piemonte diventava l'Italia. Sublime trasfigurazione, per cui gli altri Italiani volgevansi a noi per affetto, e noi ci volgevamo a loro per debito[54]».
Poichè si è lasciato entrare e maturare nelle altre provincie lo strano pensiero che qui l'Italia divenisse piemontese, a rimuovere l'ingiusto sospetto si volle trasferire il seggio del Governo a Firenze.
Nello scorso maggio in riva dell'Arno io lamentava le recenti afflizioni di Torino ed esprimeva dubbi e timori sull'avvenire del Regno d'Italia ragionando con un colto amico di Toscana, che mi confortò nel modo seguente:—«Poeta, mi disse, si tolga il velo alla favola, e in Fetonte rovesciato dal carro di luce nelle acque dell'Eridano presso alla foce della Dora facilmente ravviserai il fondatore della colonia ligure appiè delle Alpi, spodestato e perduto nei disastri d'incaute imprese.
«Poeta, ugual sorte sarebbe toccata al fondatore del Regno italico fra il Po e la Dora. Ma qui sull'Arno, non più savoiardo, non più piemontese, ma italiano, il lealissimo fondatore, nella patria di Dante e Michelangelo, di Galileo e Machiavello trarrà vita nuova e sicura dall'idioma e dalle arti, dalle scienze e dalla politica della nazione intera».
—Un albero secolare, gli risposi, radicato in terreno acconcio opino che corra pericoli gravi se altri vuole trapiantarlo in campo novello. Ma lasciamo le inutili controversie, e facciam voti che[533] sull'Arno la monarchia trovi la fede costante ed operosa dei popoli subalpini.
Firenze acquista la suprema importanza dello Stato, e Torino la perde. Non per questo il Piemonte dovrà disperare, quasi non potesse altrimenti rifarsi dei danni che ora patisce dalle mutate sue condizioni. Il Governo sappia far cessare i rancori sulla Dora e i timori di cessione territoriale nel suolo subalpino, ad alcuni pretesto, ad altri cagione sincera di malcontento.
Rasserenati così i Piemontesi, metteranno a pruova la loro mente e le loro forze nelle industrie, apparecchiati a rinnovare lo spettacolo degl'Italiani del medio evo che furono il principal nerbo dei commerci nei mercati del mondo.
Torino, non più centro di piccolo Stato, diverrà la città manifatturiera di una popolosa nazione, la Manchester d'Italia; e mettendo i suoi prodotti a concorrenza coi migliori delle altre genti, saprà uguagliarli, se pure non superarli. Allora il Piemonte industriale al resto d'Italia non sarà meno utile del Piemonte politico e guerriero; ed avrà la duplice gloria di aver capitanato la indipendenza nazionale nei campi della politica e dell'industria.
Maraviglioso è già stato il Piemonte a benefizio del commercio in tre ardimenti, il traforo del Cenisio trovato e diretto dai tre nostri ingegneri Grandis, Grattoni e Sommeiller, il sussidio dei dieci milioni assicurato al passo del Lucomagno per aprire un varco alla Svizzera ed al cuore della Germania, e il trasferimento della marina militare da Genova alla Spezia; il che oltre l'importanza politica ha quella speciale del commercio, perchè trattasi di lasciare ai traffici l'intero porto genovese.
Altri ardimenti nel campo dell'Industria si aspettano dal Piemonte che dai Comizi agrari seppe far germogliare l'albero della libertà italiana.
Queste speranze ci allietano, ricordando le pubbliche mostre dei prodotti della industria piemontese fatte nel R. Castello del Valentino. Colà vedemmo i prodotti delle ferriere, gli acciai, gli ori, gli argenti, i lavori in tarsia delle nostre officine, le carte e i cuoi variamente conciati, e i tessuti di seta, lana e[534] cotone. «Ed anche l'arte dei tipi, mi diceva Giambattista Dusso, l'intelligente direttore della Tipografia Scolastica, anche questa operosa ministra del pensiero e dispensatrice dell'umano sapere, sino dalla prima Esposizione del Valentino, nel 1829, fu nobilmente rappresentata dalle premiate edizioni dei Chirio e Mina[55], e poi dalle molteplici e belle edizioni dei Pomba, di Fontana, Botta, Marietti, Franco, Fory e Dalmazzo, Paravia, e Favale, degni seguaci dei nostri Giolito da Trino e Bodoni da Saluzzo».
E l'arte dei tipi su queste povere pagine ripeta, che gioconde speranze ci allietano conoscendo le virtù dei Subalpini, e leggendo le più recenti Relazioni del Sindaco Marchese Rorà fatte al Consiglio comunale di Torino. Questo strenuo patrizio qui commendato nella municipale amministrazione, come nella governativa in Ravenna, vuole mantenere incolume la prosperità dell'augusta Torino con ampliate vie e maestosi edifizi, con istituti di credito e nuovi canali di acque, e con tutti i mezzi efficaci al lavoro ed al commercio; e vuole conservate le gloriose aule del Parlamento, eterna testimonianza del senno italiano.
È dolce dire col Marchese Rorà: «Se noi percorriamo i nostri borghi, le numerose officine che vi si trovano possono persuaderci che l'industria già vi esiste; se parliamo con gli stessi industriali, conosciamo che i loro prodotti non servono solo alla consumazione locale, ma sono già esportati in notevole quantità nelle altre province d'Italia ed in parte all'estero. Io sono convinto che noi possiamo aspirare a veder maggiormente svilupparsi la nostra industria»[56].
Le speranze del Sindaco abbiano prospero evento, e il Piemonte non cesserà di essere il più gagliardo propugnacolo della monarchia e della libertà d'Italia, sicchè all'uopo i suoi operai saranno soldati, e cittadelle le loro officine.
Il trasferimento della metropoli fu accompagnato in Firenze dalle feste del sesto centenario di Dante Alighieri; e le città italiane per mezzo de' loro rappresentanti con ispontanea allegrezza innanzi alla statua del sommo Poeta rinnovarono il patto di concordia, congregati con musiche e vessilli nella memorabile piazza di Santa Croce.
Colà il magnanimo Vittorio Emanuele II fu salutato nella piena luce Re nazionale.
Leale quanto prode, egli, postergando gli affetti domestici a quelli della nazione, pose a rischio sè e la sua stirpe nei cimenti della guerra e della politica; e a togliere ogni mal sospetto, trasferì da Torino a Firenze quel soglio che sarà un dì stabilmente piantato sulla vetta Capitolina.
Nella piazza di Santa Croce Ei non apparve sabaudo o piemontese, ma sovranamente italiano. Egli avea lasciato la reggia de' suoi avi, le tombe de' suoi maggiori e i luoghi a lui più cari perchè consacrati da rimembranze gloriose di famiglia; avea lasciato l'augusta Torino, la città che il vide nascere e che fu esempio maraviglioso di fede e di valore verso di lui e della paterna monarchia: «la città, diciamo collo stesso Re, che seppe custodire i destini d'Italia nella rinascente sua fortuna».
Le città italiane accese di tali sensi plaudirono al Monarca guerriero che mise in atto la unità politica tanto augurata dall'Alighieri, e si strinsero fraternamente le destre dove un tempo arsero le discordie municipali.
I nostri poeti furono invitati a celebrare sull'Arno la insolita festa: ed io al cortese invito che l'onorevole Gonfaloniere conte Cambray-Digny m'inviò nella R. Università di Cagliari, stimai debito cittadino recarmi a Firenze e recitare un canto nell'Accademia letteraria ivi tenuta il 17 di maggio.
Con animo riconoscente ricordo in quella congiuntura i plausi di Firenze a me poeta subalpino. E siccome in essi interpretai, più che altro, uno schietto saluto della Toscana al Piemonte, volentieri compio le pagine consacrate alla Dora, ripetendo il cantico intonato sulle rive dell'Arno.
NEL
SESTO CENTENARIO
DI DANTE ALIGHIERI
CELEBRATO IN FIRENZE
Io lo vidi: il Cantor de' tre regni
Levò il capo dal lugubre piano,
Ove al Goto guerriero sovrano
Reggia e tomba il suo popolo aprì;
E dall'erma pineta odorosa
Sovra l'ale di cento cherubi
Per cammin di tempeste e di nubi
Il conteso Appennino salì.
Io lo vidi: librato ne' cieli
Affacciossi alla terra pentita,
Che tra i fiori gli diede la vita,
Ma, noverca, dal seno il cacciò.
Affacciossi con volto sereno,
Volentieri a colei perdonando,
Che l'ingiusta condanna del bando
[537]Con superstiti onori ammendò.
Al vederlo, di Fiesole i côlli
Del più splendido april s'ammantarno;
E la gemina riva dell'Arno
Di Casella i concenti mandò.
Esultarono l'ossa nel Tempio
Della Croce, e risorsero i vati
Di Säulle e d'Arnaldo, svegliati
Da Colui che il lor verso animò.
Del Pöeta le ceneri sante
Tien gelosa Ravenna, ma sale
E vïaggia lo spirto immortale
Fra le stelle di libero ciel.
Ei su l'Arno ritorna, chiamato
Dal desìo del suo Veltro promesso,
E consacra con mistico amplesso
Dell'Italia il monarca fedel.
Come, o Dante, mutarsi tu vedi
L'egra Italia, che serva ploravi
Di tiranni bordello e di schiavi,
Di stranieri ludibrio fatal!
Nella roba di piglio e nel sangue
Più non danno le arpie de' castelli;
Giostra rea non è più di fratelli
La tua scissa contrada natal.
Ora Italia rinacque, baciando
Del tuo sacro volume le carte;
Pria si fece concorde nell'arte
Coll'unanime culto per te;
Poi coll'armi di Micca e Ferruccio,
Disfidando l'avversa fortuna,
Seppe farsi in te libera ed una,
[538]Nelle leggi concorde e nel Re.
Ora Italia trïonfa secura
Nella fè del tuo divo pensiero,
E già torna al suo pristino impero
Dalla notte di barbare età.
Coll'eloquio di Tullio e Marone
Dal Tarpeo dominò l'universo,
Coll'eloquio che informa il tuo verso
All'antico splendor tornerà.
Da vetusto ed informe linguaggio,
Fra le plebi obblïato di Roma,
Germogliò con leggiadro idïoma
La parola del nostro avvenir;
Crebbe al sole d'illustri memorie
Da Toscani cantata e da Sardi[57],
E si accese di spirti gagliardi
Nelle prove del patrio martir.
Ebbe alfin questa degna parola
Delle muse la gloria suprema,
Dal civile tuo sacro pöema
Suggellato d'eterna virtù;
Ed espresse fra gli odî fraterni
La bontà dell'ingegno latino,
Viva sì ne' tuoi carmi, o Divino,
Che per tempo scemata non fu.
La bontà degli etruschi ardimenti,
Che l'incendio agitò de' tuoi carmi,
Nella possa irrompeva dell'armi
Onde valse il Tedesco a domar;
Penetrò nell'insubre congegno
Che gli elettrici messi governa,
Del Cenisio negli antri s'interna
[539]E di Sue ricongiunge i due mar.
Salve, nunzio dei veri superni,
Affratella in magnanimi intenti
Del latino legnaggio le genti
Disgregate in lontane città.
Col tuo verbo risuscita i giorni
Ch'ebber vita dall'italo sangue;
E l'umano consorzio che langue
Rinnovato sul Tebro sarà.
Torino, addì 25 dicembre 1865.
Alla memoria di Teresa George Cibrario | Pag. | 291 | ||
Capitolo | I | —Dal Monginevra a Susa | » | 297 |
» | II | —Susa e suoi dintorni | » | 324 |
» | III | —Da Susa al Pirchiriano | » | 355 |
» | IV | —Dal Pirchiriano a Torino | » | 389 |
» | V | —Torino | » | 461 |
Cantica a Dante | » | 536 |
NOTE:
[1] | Raccolta degli Atti concernenti l'enfiteusi perpetua delle decime del Brianzone, di G. Brunet; 1754, pag. 17. |
[2] | Ulciensis Ecclesiæ Chartarium.—Torino, 1753. |
[3] | Cibrario—Storia di Torino, lib. 2, c. 2. |
[4] | Botta, lib. 45, Storia d'Italia. |
[5] | Denina, delle Rivoluzioni d'Italia, lib. 24, cap. 1. |
[6] | Cenni sopra l'insigne miracolo dell'Ostia Eucaristica, avvenuto li 6 di giugno 1453. Torino 1837, dalla tip. Botta. |
[7] | Panorama militare delle Alpi piemontesi viste da Superga.—Cesare Balbo. |
[8] | Botta, Storia d'Italia, lib. 45. |
[9] | S. E. il Conte Luigi Cibrario, nella sua preziosa collezione delle incisioni d'intagliatori piemontesi al servizio della R. Casa di Savoia, mi mostrò quella assai rara che riproduce l'accennata battaglia, lavoro del La Pegna. |
[10] | L'Assietta, del Cavaliere Agostino Lostia. Torino 1825. L'Assiette, poème de M. Le Ch. Lostia, traduit de l'italien par le
Gl M.r C.te De Locke. Chambéry 1828. |
[11] | In morte di Ugo Basville.—Canto quarto. |
[12] | Chi amasse di leggere per intero la canzone del Michelin, raccolta da Norberto Rosa dal labbro del popolo, vegga il giornale il Cimento, vol. VI, luglio 1855, pag. 145. |
[13] | Il Romito del Cenisio, romanza di G. Berchet. |
[14] | Estratto dalla vita manoscritta, conservata nell'Archivio Generale del Regno. |
[15] | Per sovrano decreto del 6 dicembre del 1835, la cassa coi quadri venne affidata alla chiesa parrocchiale della Novalesa. |
[16] | Botta, St. d'It., lib. 41. |
[17] | Museo scientifico, letterario ed artistico.—Torino: anno V, p. 259. |
[18] | Ariosto, Orl. Fur., C. XXIII, st. 108. |
[19] | Io deggio la conoscenza d'un tale documento alla operosa benevolenza
dell'erudito cav. Jacopo Bernardi, che me ne scrisse ne' termini seguenti:
«Nel codice diplomatico del capitolo di Cremona, raccolto e conservato
con diligente affetto dal benemerito primicerio Antonio Dragoni, trovasi un
documento dell'anno 773. È una carta con la quale donasi al clero della
chiesa di Santa Maria di Cremona una casa cum viridario et omnia
adjacentes (non era molto addentro nel conoscimento della sintassi latina:
che ne direbbe il tuo Gando?) ut ipsa vestra canonica (parla al clero) et
casa mea melius abitare habeatis. E il donatore era il diacono Martino,
che insegnò a Carlo Magno la via delle Alpi. Ecco le parole del documento:
Dum in Dei nomine ego Martinus cremonensis sancte catholice ecclesie
ravennate, divina gratia diaconus, jussu sanctissimi in Christo patre
Leone archiepiscopo ravennate difficile et longum iter suscepessem, et
ad fines Francorum fuemus (l'indole della lingua non muta), regemque
eorum Charolum regem gloriosissimum adlocussem, et in regressu meo
Cremona patria mea advenissem, mihi paruit esse gratum Deo.. E qui
parla della donazione che fa al clero della chiesa cremonese, cui appartenne.
L'atto si fece nella canonica di Cremona il giorno di mercoledì 28 aprile,
l'indizione undecima, e la soscrizione è la seguente: Ego Martinus cremonensis
sancte catholice ecclesie ravennates diaconus cardinalis in ac
donacione a me facta et manu mea scripta subscripsi et firmavi, ad
gloriam Dei et remissione peccatorum meorum. Il documento stampavasi per cura di Federico Odorici nella Nuova Serie dell'Archivio Storico Italiano, tom. II. part. 1.ª—Firenze, 1855. |
[20] | Della Storia d'Italia dalle origini fino all'anno 1814. Sommario di Cesare Balbo, lib. IV, § 19. |
[21] | Dante, Div. Comm., Par., c. vi. |
[22] | Arte e Inspirazione—Studi di Niccolò Tommaseo, 1858. Edizione Le-Monnier, pag. 389. |
[23] | Storia dell'Abbazia di S. Michele della Chiusa, dell'Abate Gustavo de' Conti Avogadro di Valdengo.—Novara, Tip. Ibertis, 1837. |
[24] | Novelle di Cesare Balbo—La Bella Alda.—Firenze, Felice Le Monnier, 1831. |
[25] | La Sagra di S. Michele disegnata e descritta dal Cav. Massimo D'Azeglio.—Torino, 1829. |
[26] | Gioventù—Racconti di Domenico Carutti.—Firenze, Felice Le Monnier, 1861. |
[27] | Giaveno, Coazze e Valgioie—Cenni storici per Gaudenzio Claretta.—Torino, Tip. Favale, 1859. |
[28] | Études d'Histoire religieuse par Ernest Renan, pag. 317.—Paris, Lévy Frères, 1864. |
[29] | Della imitazione di Cristo: Libri quattro del ven. Giovanni Gersen, secondo il Codice De Advocatis, pag. 319. Torino, Tip. Chirio e Mina, 1846. |
[30] | L'Autore prega i lettori a non tener conto dell'ultima linea di testo della pag. 379, e della nota corrispondente ivi stampata. |
[31] | Equivalgono a L. 3181. 44 italiane oggidì in corso.—Vedi Cibrario, Economia Politica del Medio Evo; quinta edizione, tomo II, pag. 199. |
[32] | L'idrofana è una specie di quarzo, e più esattamente, una varietà di opale che ha la proprietà di diventare trasparente nell'acqua. |
[33] | Gazzetta di Torino, 14 agosto 1865. |
[34] | Il Real Castello del Valentino, Monografia storica di Giovanni Vico—Torino, Stamperia Reale, 1858. |
[35] | Vanno annessi all'Università i seguenti stabilimenti scientifici: il
Museo egizio e d'antichità, il Museo di zoologia e di anatomia comparata,
il Museo di geologia e di mineralogia esistenti nel palazzo delle Scienze, i
Laboratorii di chimica generale, di chimica farmaceutica e di fisiologia nel
palazzo di San Francesco da Paola, l'Orto botanico al Valentino, il Gabinetto
di fisica nel palazzo universitario, l'Istituto anatomico e le cliniche
mediche e chirurgiche nell'Ospedale Maggiore di San Giovanni, la clinica
ostetrica alla Maternità, ed altre cliniche speciali presso altri ospedali (la
sifilitica, la oculistica e quella delle malattie mentali).
V'ha pure un edifizio idraulico speciale detto della Parella, che ora è
addetto alla Scuola d'applicazione degli ingegneri, presso la quale sono
eziandio preziose collezioni di mineralogia e geologia (dono del prof. Quintino
Sella), di meccanica, di macchine e di disegni. |
[36] | L'Istruzione popolare in Torino—Monografia del Teol. coll. Pietro Baricco.—Torino, Tip. Eredi Botta, 1865. |
[37] | Persona autorevole mi diede la seguente nota, che volentieri pubblico:
«Il numero di coloro che ricevono istruzione in Torino, non comprendendo
gli studenti delle scuole universitarie, della regia militare Accademia,
nè i giovani ammaestrati entro le pareti domestiche, tra maschi e femmine
è di 30,531. La popolazione di Torino essendo di 204,715 abitanti, ne risulta che circa 1/7 frequenta le scuole. In una sua circolare del 3 gennaio 1865 il Ministro dell'istruzione pubblica si compiacque dichiarare che nel fondare, nel migliorare scuole per l'istruzione popolare, e nel vegliare affinchè questa sia largamente diffusa, il Municipio torinese occupa in Italia il primo posto d'onore. Risulta dagli archivi della Città di Torino che nel 1596, mentre la popolazione era di 32,000 anime, il Municipio spese per l'istruzione L. 683, e che aumentando quella, la spesa per l'istruzione fu sempre accresciuta in proporzione maggiore che l'aumento degli abitanti. Nel bilancio del Municipio per il 1865 la somma stanziata per l'istruzione sale a L. 619,241,10». |
[38] | Gazzetta Piemontese, Giornale ufficiale del Regno, N. 47, anno 1854.—Appendice di J. Bernardi—Asili e Scuole d'infanzia. |
[39] | Discorso funebre detto dal Cav. Teologo Pagnone nella chiesa di S. Francesco di Paola, il giorno 2 maggio 1862, nei solenni funerali dei defunti Benefattori degli Asili infantili. |
[40] | Nuovi studi su Dante di Niccolò Tommaseo, pag. prima.—Torino, 1865, Tip. del Collegio degli Artigianelli. |
[41] | Jacopo Bernardi: Il R. Ospizio di Carità in Torino.—Torino, Tip. Speirani, 1857. |
[42] | Pietro Baricco, L'Istruzione Popolare in Torino, pag. 188.—Tip. degli Eredi Botta, 1865. |
[43] | Nelle esequie celebrate al Sacerdote Teologo Canonico D. Giuseppe Cottolengo—Elogio storico di Lorenzo Renaldi, Vescovo di Pinerolo—Torino, Tip. Marietti, 1863. |
[44] | Luigi Lanzi, Storia Pittorica, lib. V. |
[45] | Discorso letto dal Marchese Di Breme, Direttore Generale della Reale Accademia Albertina, nella riapertura delle scuole il 15 di novembre 1856, pag. 12.—Torino, Tip. Zecchi e Bona, 1856. |
[46] | Vedi l'Opinione (giornale) anno XVI, N.º 33—Monumenti in Torino. |
[47] | Marco Minghetti ai suoi Elettori, pag. 6.—Bologna, Tipografia di G. Monti, 1865. |
[48] | Dante, Div. Comm., Purg., C. VI. |
[49] | Inchiesta amministrativa dei fatti accaduti in Torino nei giorni 21 e 22 settembre 1864, dalla Giunta municipale affidata all'avv. Casimiro Ara.—Tip. Botta, Torino, 1864. |
[50] | L'Opinione (giornale), Torino, 26 luglio 1862. |
[51] | Il Conte Camillo Cavour, Documenti editi ed inediti, per Nicomede Bianchi, Torino, 1863, Unione Tipografica Editrice. |
[52] | L'Istitutore, foglio ebdomadario d'Istruzione e degli Atti ufficiali di essa. Torino, 23 novembre 1861, pag. 746. |
[53] | La citata Inchiesta amministrativa del deputato Ara, pag. 29. |
[54] | Discorso del Professore Domenico Berti pronunziato alla Camera dei Deputati nella tornata del 14 novembre 1864. |
[55] | Le edizioni dei tipografi Chirio e Mina furono eziandio premiate nelle mondiali esposizioni di Londra 1851, New-York 1853 e Parigi 1855. |
[56] | Relazione fatta dal Sindaco Marchese E. Lucerna di Rorà al Consiglio Comunale nell'aprire la sessione ordinaria di primavera 1865.—Torino, Tip. Botta, pag. 15. |
[57] | Nel secolo XII italianamente poetarono nella Sarda Corte d'Arborea, Bruno de Thoro, di Cagliari, e Lanfranco de Bolasco, di Genova; e in Toscana poetarono il Folcacchiero e l'Aldobrando, ambidue di Siena. |