*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75787 ***


                           G. CLEMENTE TOMEI

                            (_CARLES BRYAN_)


                             Il Busto d’Oro


                                ROMANZO



                                 MILANO
                     Casa Editrice del «Ventaglio»
                            _Via Piatti, 4_




                        Lodi, Tip. Operaia 1904




CAPITOLO I.

La negativa inattesa — Due tipi opposti — Hulda la Bella


— Dunque? chiese il giovane, un po’ concitato — che ne dice?

— Senti, figliuol mio, che ben posso dirti tale, questa volta no, non
ti accontento. Ho deciso per tutto un cambiamento; per tutto un nuovo
ordine di cose... È la mia età... la mia età che lo vuole. I sessanta
sono giunti (parevano una volta così lontani!) e da qualche giorno,
anzi, se ne sono andati...

— E permetterà, uno speculatore come lei, un capitalista della sua
forza, che si facciano avanti gli altri? Che siano gli altri a fare
il giuoco di tutte quelle azioni? Ma signor Webb, ci pensi, è una
speculazione di un guadagno certo, certissimo; sarà la nuova, una delle
linee ferroviarie più produttive dell’America del Nord...

— Figliuolo, voglio tornartelo a dire, per ora basta. Ho lavorato, lo
sanno tutti, per oltre quarant’anni. Ho diritto a riposarmi. Non si
riposa, anche vivendo in mezzo agli agi, quando si devono aver pensieri
fissi di somme impiegate a destra ed a sinistra, quando si deve vivere
col _pover’a me_! di vedersi da un momento all’altro ridotti... sai?
ridotti come prima, con un mondo di idee, con le mani vuote... Ma
allora, prima, intendi? c’erano la energia e la giovinezza e la forza
davanti; c’era tutto da guadagnare, oggi, a questa età, ho mutato
pensiero. C’è tutto da perdere...

— Io non arrivo a capire questo cambiamento... Io non mi so spiegare
come un uomo della sua tempra oggi... abbia timore.

— Sicuro, sono debolezze dell’età. Ora, io, e tu con me, finchè
vorrai e con buon interesse (io non lesino le percentuali), dobbiamo
adoperarci a conservare ciò che abbiamo saputo acquistarci...

— Quand’è così — insistette il giovane spiacente, ma energico in atto —
quando è così, presti a me la somma e farò io in mio nome...

— E non è lo stesso? E se tu perdi? Da un pezzo a questa parte, non
si fanno, per quel che vedo dagli altri, che speculazioni pazze,
rovinose... Rispondi, e se tu perdi? Colui che perde, realmente, non
sono sempre io? Godi in pace la vita tu che lo puoi... Il denaro è
un’utopia...

— Un’utopia? Un’utopia, già, ora che avete i milioni, e non potrete
negare che qualcheduno non lo abbiate fatto con il mio aiuto...

— E ne fosti ricompensato — rispose un po’ secco il vecchio.

Evaristo Grinfieri si morse le labbra. Capì subito che non avrebbe
dovuto lasciarsi sfuggire una frase come quella.

Se il ricchissimo Francis Webb gli negava poche migliaia di dollari
perchè si interessasse alla costruzione d’una nuova linea ferroviaria,
aveva, o meglio poteva avere tutte le ragioni, cominciando da quella
che i suoi denari poteva spendere, o rischiare, secondo che gli
talentasse.

— Ebbene — disse poi Evaristo Grinfieri, come se un nuovo e diverso
pensiero fosse entrato a padroneggiarne la mente e ad attutire tutti
gli altri — ebbene, non ne parliamo più... Ciò che io prima volevo per
lei è la prova del mio attaccamento alla casa; ciò che dopo volevo per
me è il desiderio di fare... di fare anch’io, modestamente cominciando,
qualche cosa nel mondo degli affari... Mi sento di giorno in giorno
aumentare addosso la febbre, la smania del lavoro... Non per il denaro,
ma per fare, per mostrare di saper fare...

— Illusioni! Illusioni! — disse il vecchio con un risolino che
terrorizzò quasi Evaristo.

— A trent’anni? Dopo di aver vissuto con lei?

— Illusioni! Illusioni!

Successe un momento di silenzio assoluto.

Webb guardava il soffitto dell’ampio studio, battendo le unghie
sui bracciuoli della poltrona, Evaristo Grinfieri, deluso nelle sue
speranze di affarista nato che voleva o per sè o per altrui prodursi,
facevasi violenza per nascondere il suo tremito di rabbia.

                                   *
                                  * *

Vi hanno momenti che mutano tutta una vita e decidono un avvenire.

Momenti in cui si prendono delle risoluzioni che prima, alla persona
stessa, sarebbero parse follia.

Queste risoluzioni sono la scintilla che si sprigiona dall’urto di due
contrasti.

Evaristo Grinfieri, rimasto solo, dopo che il vecchio lo aveva lasciato
in modo brusco e brontolando, _sogni sogni_, Evaristo Grinfieri, ritto,
percosse il suo tavolo d’un formidabile pugno, quasi a conferma, ad
assentimento, a sanzione dell’idea che gli vibrò allora nel cervello.

Un’idea luminosa e mostruosa insieme, un’idea da genio e da cattivo
soggetto, e disse sbarrando gli occhi:

— Sì, ho bisogno di un milione, e _devo_ trovarlo!

Poi sedette, socchiuse gli occhi e pensò.

Molti mezzi, molti espedienti gli passarono traverso la mente per
giungere ad avere una tale somma; nessuno peraltro era quello che
riunisse tutte le condizioni da lui desiderate.

Una forte richiesta di denaro, da parte sua, avrebbe potuto far
nascere perfino dei sospetti intorno al banchiere di cui egli era il
_factotum_, l’occhio destro, e da ciò in ultima analisi venendosi a
chiarire le cose, a lui sarebbe toccata la peggio e sarebbero sorti
nuovi ostacoli a raggiungere il suo intento d’aver nelle mani _un
milione_.

A quel natural genio della speculazione s’affacciava ora tremenda la
realtà.

Egli non se ne sgomentò; si fermò anzi a guardarla in silenzio... Poi,
come ritornando, con maggior convincimento sopra una deliberazione già
presa concluse:

— Il milione ci vuole. Deve uscire...

Un riso infernale gli illuminò la faccia, dandole una espressione
sinistra come non aveva mai, mai avuto.

Il genio della speculazione s’era accostato di un altro piede
all’abisso.

Egli intimamente aveva risolto, dove gli si offrisse l’occasione, di
venire anche a patti con i mezzi.

Come un rifiuto trasmutò da un momento all’altro un’anima, di quelle
che sono fatte per essere sempre eccessive, così nel bene che nel male?

                                   *
                                  * *

Intanto il banchiere Webb da anni ed anni ligio ad abitudini che la
stessa ricchezza non aveva cambiato, neanche nei particolari minimi,
era uscito, preciso nell’ora come sempre, e come sempre si era diretto
allo studio del signor Isaiah Wood, un ricco negoziante in generi
coloniali, per andare con lui a colazione.

L’amicizia di Wood rimontava alla bellezza di venticinque anni, ed era
stata sempre uguale ed inalterata, perchè lavorando commercialmente
in rami diversi, veniva esclusa ogni possibile rivalità nelle
speculazioni.

Isaiah Wood aveva una terribile massima tutta sua, in fatto di
commercio, e non pareva neanche un negoziante della giornata. Ma alla
pratica inesorabile di quella massima diceva con sicurezza, di dovere
la sua fortuna, di parecchi milioni: _quei quattro soldi_ appena
necessarii per vivere, come propriamente o meglio impropriamente egli
aggiungeva con superba modestia.

Qual’era la massima di Isaiah Wood? Era questa:

— Mai, e poi mai, _cambiali_. Mai e poi mai _azioni_.

Ed era invecchiato fedele a questa legge impostasi, arricchendo di
giorno in giorno.

Tutto il contrario di ciò che era stato sempre Webb, ardito, audace,
temerario; speculatore più che commerciante, giuocatore accanito più
che speculatore.

E tutti e due dandosi per venticinque anni reciprocamente torto,
avevano acciuffata la fortuna.

I due diversi sistemi di _lavorare il denaro_, avevano fatto sì, che
inalterata si conservasse e prolungasse l’amicizia tra i due uomini
d’affari, che reciprocamente conoscevano il loro principio.

Eran venuti su, come si suol dire, dal nulla, partendo da poli opposti
e trovandosi nella fulgida bonaccia di un comune equatore.

Entrarono come di consueto assieme nella grande trattoria di Cosmus
Thily, anch’egli un nuovo arricchito.

La trattoria di Thily, era il ritrovo speciale, caratteristico, di ogni
tipo di grandi affaristi e più veramente, direm così, di quelli di un
_tic_ e di una genialità speciale, e che, pure mutando fortuna avevano
serbato antiche abitudini di modestia, crescendo in loro soltanto, in
ragione diretta degli anni, l’accanimento al lavoro.

Lavoro ininterrotto di cupidigia, spesso ingiustificata ed incosciente,
d’insidia verso l’altrui capitale.

A colazione Francis Webb e Isaiah Wood s’informarono reciprocamente
e con assai disinteresse del movimento bancario, agricolo,
ferroviario del giorno innanzi, facevano previsioni, tiravano
oroscopi, sentenziavano, sotto l’ispirazione della loro esperienza,
e si premunivano per i casi che potessero o interessare, o toccarli
indirettamente o di rimbalzo.

Ma nel giorno del quale noi trattiamo, dopo i discorsi in linea
generale, assaporando la frutta del comune ed abbondante _dessert_,
Webb prese a dire:

— Tu, Wood, conosci bene il _mio_ Evaristo Grinfieri, non è vero?

— Se lo conosco?! Da quando era giovanetto, che dico? fanciullo.

— Sicuro... Egli restò senza i genitori; suo padre era al mio servizio,
un uomo fidatissimo, ed io, che non avevo allora figli, lo allevai,
come fosse stato mio...

— E non hai a pentirtene.

— Ah, per questo no, no!

— E devi aggiungere, siamo giusti, che ti ha aiutato, perchè...
perchè...

— Ma non lo nego, anzi! È intelligente, intelligentissimo. Ha proprio
il bernoccolo dell’affare.

— Già. Lo vede da lontano, quando gli altri non lo vedono ancora, lo
misura, lo valuta, lo affretta, e quando l’affare non c’è... e sta qui
l’abilità, lo crea. E tu devi volergli un gran bene...

— Non dico di no, — rispose un po’ seccamente Webb. — Però...

— Però?! fece protendendosi alquanto il grosso Isaiah Wood — però?!

— Stamattina, per la prima volta in tanto tempo ci siamo... ci siamo un
poco urtati!...

— Il motivo?

— Ecco... Egli ha tutti i giorni un nuovo progetto...

— ... e questo non è male...

— ... no, ma alla mia, alla nostra età... bisogna andare adagio... Io
sono stato ardito, io ne ho avuto del fegato, e tu lo sai, Wood: dopo
un’impresa, l’altra; ma oggi... oggi voglio conservare e riposare...
Oggi voglio lavorare a mantenere, non più ad accrescere il mio
capitale, quindi, non debbo avere il cuore agitato da timore di danni.
Una volta stava bene rischiare... allora c’era anche poco da perdere;
oggi, non si sa mai, potrei perdere molto. Si fallisce da per tutto
e con troppa frequenza, è un momento a veder diroccare il proprio
castello. Basta, adesso, basta! Non ti pare, Wood?

Isaiah Wood, che aveva smesso di mangiare, accese lentamente uno
zigaro, standosi con la testa alquanto bassa, come volesse guardare
nel piatto che aveva spinto leggermente da sè; ma il fatto si era che,
quando egli assumeva quel fare di raccoglimento un po’ goffo, una nuova
macchinazione gli agitava i pensieri.

Stette alquanto così e poi levando il capo in atto risoluto chiese, con
aria indifferente:

— E che voleva farti concludere il tuo... diavolo suggeritore?

— Oh, niente di male per questo, ma sempre una nuova fatica, sempre
muova carne che si mette al fuoco.

— Sentiamo... parla...

— Egli intendeva che diventassi azionista, se ne tratterà forse in
pubblico fra qualche giorno, del nuovo tronco ferroviario dell’_Est_.
E fin qui, poco male... Ma dovevo acquistare azioni, per più di
un quarto... Il massimo possibile, di quello che si stabilirebbe
dalla società, dovevo a mie spese costruire sul fiume, che la linea
attraverserebbe, un ponte colossale, più acquistare da quel centro,
pel raggio di quaranta chilometri, tutto il terreno intorno. Ma ti
pare?! Ti pare che io sia venuto al mondo adesso? Ti pare che io debba
cimentarmi, con i capelli grigi, a simili prove? Caro mio, è venuto
il tempo in cui approvo pienamente il tuo consiglio. Nè _cambiali_, nè
_azioni_. Intendo di vivere tranquillo una buona volta.

Isaiah Wood corrugò lo grosse sopracciglia setolose e poi, tacito e
quasi meccanicamente, riempì di vino il bicchiere dell’amico.

Era sempre stato così da anni. L’ultimo della bottiglia toccava sempre
a Webb, che beveva un po’ più di Wood.

— Non ti pare ch’io abbia ragione? — insistè spettando la risposta Webb.

— Ed Evaristo Grinfieri (ora capisco la cagione del dissidio...
momentaneo) avrà insistito perchè tu, ti lanciassi a capo fitto nella
impresa, non è vero?

— Sì, ha insistito e come! ha detto qualche parola che non avrebbe
dovuto dire... E poi, indovina?

— C’è dell’altro?

— Ma sicuro! La trovata finale — fece Webb, restando un momento con
gli occhi sbarrati ed a bocca aperta, e scoprendo gli enormi canini. —
Indovina? Indovina?... Voleva che, non facendo io la cosa, perchè dissi
risoluto di no, voleva che gli dessi il capitale onde farla per proprio
conto... Qui poi, mi si oscurarono gli occhi... Ma se _perdi_, non son
sempre io colui che ci rimette? Se _perdi_, chi mi rifà del danno?

— Ed insisteva, scommetterei, per avere i denari?

— Sicuro che insisteva. Egli, Evaristo Grinfieri, reputa l’impresa
solida e lucrosa. Ne è infatuato, ne ha come una fede, che dico?... una
visione sicura...

— Mi sarebbe piaciuto vederlo _insistere_ — disse con tono canzonatorio
Wood guardando di sottecchi e in modo sospettoso il vecchio amico...

— Insisteva! — ripetè ancora Webb.

Qui cessò la conversazione.

I due commercianti sembravano concentrati in se stessi, e con un volto
che indicava chiaramente un’intima soddisfazione dell’animo.

Pareva che quei due uomini fossero usciti vittoriosi entrambi dal
conflitto di quella conversazione.

Che cosa si era operato, o meglio che si andava operando in loro?

È quel che vedremo in appresso.

Per ora dobbiamo occuparci di _Hulda_, la donna strana, dalla
meravigliosa bellezza superba e fatale, la donna che avrà lunga parte
in questo racconto.

Essere umano e misterioso, amata e detestata, invidiata e infelice,
idealizzata e spregevole, angelo e demonio.




CAPITOLO II.

L’amante amata — La cameriera giudiziosa — Il cognato Wood


Hulda usciva dal bagno in quell’ora, che la grande maggioranza dei
cittadini aveva già vissuta e, starei per dire, sofferta, e nel lavoro
e nel travaglio dell’anima, la prima metà del giorno.

Ella sentiva con singolare squisitezza la voluttà del bagno freddo,
epperò indugiava con infinita compiacenza nella vasca marmorea, che ne
accoglieva le belle membra di pario egualmente.

Ora, tutta avvolta in niveo accappatoio di bambagina candidissima, si
sentiva non senza voluttà ricercata per ogni fibra da un serpeggiare
rapidissimo di freddo, mentre le guance, siccome di rosa in fiore,
s’accendevano di un incarnato sempre più vermiglio.

La crocchia ricchissima dei capelli neri e lucidi contornava, fin quasi
oltre la nuca, la testa espressiva e fiera, illuminata da due pupille
fulgide assai, ma incerte un poco, anche quando si affissavano su lo
specchio per ammirare la bellezza di quella figura sotto ogni aspetto
degna di essere ammirata. Solo la bocca, tanto bella nel sorriso, aveva
un che di sdegnoso nella immobilità, nel silenzio e dava, starei per
dire, l’idea che in quel giovine corpo vibrasse un’anima già vecchia,
già esperiente e già affannata.

Con tutto ciò Hulda era bella. E glielo dicevan tutti coloro che
potevano aver la fortuna di avvicinarla, e più di tutti lo sapeva lei,
che alla sua bellezza doveva tanti dolori in una vita tutta di menzogne
e senza amore...

Quando Hulda con l’aiuto della cameriera fu completamente vestita,
passò in un piccolo gabinetto da studio e congedò quasi la sua donna,
Bess, dicendole:

— Preparami la colazione.

Si accostò al piccolo scrittoio sul quale stava la corrispondenza del
mattino. Molti giornali ed una lettera.

Buttò nel cestino i giornali, senza neppure aprirli, poi schiuse
lentamente la lettera, come una persona che dal carattere, abbia
indovinato quello che dovrà leggere.

      «Cara Hulda,

  «Per sabato sera ti aspetto, e tu non mancherai, al solito posto.

  «Ti avverto pure che sono senza denaro. Senza denaro il tuo amore,
  capisci? Questo mandamelo subito. Mi bisogna per questa sera. Un
  saluto.

                                         «_La persona che tu sai_».

— Sempre così! — esclamò fremendo di indignazione. Sempre denaro!
Denaro sempre, non vede, non conosce che denaro. E dire che non posso
sottrarmi a quell’uomo. Dire che anche lontana mi soggioga, mi ha tra i
suoi artigli... Che fatalità è stata la mia! Del resto, se era destino
che dovesse andare così, facciamo buon viso ad avversa fortuna, fin che
c’è chi provvede... fin che ci _sei tu_, che non sai nulla di nulla...

Proferendo queste parole, alzò gli occhi, quasi supplichevoli, ad un
gran ritratto che le stava dinanzi... seguitando, dirò così, a parlare
con esso.

Era, quel ritratto, di un uomo giovine, con un’aria intelligente e
pensosa, severa assai più che ne’ ritratti abitualmente non si vegga.

Gli occhi avevano una espressione scandagliatrice e imperativa, e le
narici, leggermente tumide, parevan rilevare nell’individuo, facile
agli scatti, la pena, il soffrimento di quel minuto di posa, lo spasimo
di quella condanna istantanea.

Quest’uomo giovane, del quale adesso abbiamo dato rapidamente uno
schizzo, non è altri che Evaristo Grinfieri.

Hulda ne era l’amante ed egli avrebbe giurato, pure sapendo le prime
vicende di lei, che da quando si erano conosciuti ed egli faceva
prodigalmente tutte le spese, avrebbe giurato, dico, su quella fedeltà
i cui giorni, i cui mesi, i cui anni, sarebbero stati annoverati dal
durare della piccola fortuna che poneva Hulda in grado di vivere con
signorile indipendenza... e per lui solo.

— Tutta tua, tutta e per sempre — avea detto tante volte Hulda ad
Evaristo.

Ed egli, richiamandola alla realtà, con un sorriso le rispondeva:

— Per sempre, no. Finchè ti potrò dar del denaro, se credi, sì...

Ma in fondo in fondo, lo scettico amava, e quella sua frase non era
che un piccolo tributo che egli pagava alla propria vanità d’uomo che
voglia parere esperto in cotesta specie d’adattamenti, di combinazioni
e d’amori.

Con quello che sapeva di Hulda, Evaristo credeva di saper tutto, mentre
invece non era che al principio, e quel principio ormai si andava in
lui annebbiando, quella memoria si andava col tempo affievolendo, e gli
rendeva l’immagine di un cielo tempestoso che si rischiari man mano e
si sgombri e si faccia di zaffiro intorno al sole.

Un principio, un lontano principio d’amore sorgeva nell’animo
d’Evaristo.

Una di quelle passioni che non dovrebbero essere, dove si ponesse mente
a ben collocare l’amore, ma che sono pur troppo e ci regalano i drammi
della storia quotidiana.

Anche Hulda, benchè straziata dal rimorso d’una, dirò, nuova
coscienza che s’era formata in lei, cominciava a sentire una singolare
predilezione per Evaristo, e provava nel vederlo un senso di tenerezza,
non provata quasi nemmeno per colui che era stato il primo a parlare
d’amore.

— Povero Evaristo! Se lo sapesse... Se _tu_ lo sapessi, _caro_...
Eppure è così... Io devo essere anche di quell’altro e tu non ne sai
nulla, ed egli è il vampiro del mio... del tuo danaro...

Così dicendo pose un valore di parecchi dollari in una busta. Scrisse
l’indirizzo, poi chiamò:

— Bess! Bess!

— Eccomi.

— Vai alla posta.

Bess guardò bene la padrona di cui sapeva ogni cosa più intima.

— Siamo alle solite, non è vero? Mi pare che le richieste non si
facciano troppo attendere.

Hulda si strinse nelle spalle, come per dire:

— Lo sai pure chi è. Come posso negare?

                                   *
                                  * *

Hulda entrò nel piccolo tinello dove tutto era già disposto per la
colazione.

Sedette, stette un momento pensosa, poi agitò la bella testa come per
iscacciare pensieri molesti e cominciò a prendere il cibo, squisito,
servitole con la massima eleganza d’argenteria e di cristalli.

Quando la fida Bess fu di ritorno dall’avere inviata la lettera per la
sua destinazione, entrò nel tinello, con quella confidenza che a lei
sola in casa era permessa e sedette sur un piccolo divano rimpetto alla
padrona.

— Buon appetito...

— Grazie... Dopo tutto, ho appetito veramente.

Il significato di quel _dopo tutto_ non isfuggì punto a Bess. Esso
voleva dire molte cose, e tacendole in apparenza, dava loro un
significato, più complesso e più triste.

Mangiare, divertirsi, pensar solo a gustare con intensità il presente,
malgrado la vita che essa doveva condurre, malgrado le probabilità
di una immediata rovina, malgrado il lontano ancora, ma inesorabile
spettro della vecchiaia misera e desolata.

Sì, dopo tutto e malgrado tutto, finchè durava la provvidenza, per lei
impersonata in Evaristo, godere, godere godere!

— E non c’è proprio mezzo di finirla?

— Con Guy Stein?

— È impossibile. Sarebbe lo stesso che volersi trovare un giorno o
l’altro con una pugnalata in petto. È terribile, lo sai, ed è perfino
ammirabile, ma io, te lo confesso, o mia Bess, io che lo detesto, qui,
ora con te; io, vedi, quando gli son vicina, mi sento come schiava, mi
sento come lui, e peggio. Egli possiede tutte le mie facoltà, tutte le
mie forze, io non so resistere, non vincolarmi, sento che in me passa
tutta la sua anima infame, maledetta!... Sento tutto questo, capisci?
eppure... Che strazio, che strazio il mio...

— E quando siete con Evaristo, che cosa vi dice il cuore? Come fate ad
essere la schiava di uno per forza e la volontaria amante dell’altro?
Come fate, Hulda?

— Quando sono al fianco di Evaristo, mi sento un angelo, qualche cosa
mi dice qui, dentro nel cuore, che con lui potrei ritrovare quella
prima felicità, della quale mi è rimasto come un ricordo... Io sono
un’altra allora!

Vedi che stranezza? Se io mi specchio, e lui mi è vicino, mi sembro più
bella...

— Eppure, così, non potete continuare... Ci vuole della prudenza e
tanta, mia signora. E se un giorno, un malaugurato giorno, Evaristo
Grinfieri venisse a scoprir tutto?

— Non sarà poi tanto facile...

— So bene; la città è grande, è immensa; egli poi non sospetta per
nulla; ma sapete voi che cosa possa riserbarvi il caso? Sono accadute
tante, tante di quelle dolorosissime cose, che nessuno mai sospettava,
che parevano impossibili, che si dicevano, anzi, impossibili. Eppure?
Io sono vecchia, ho assistito nella mia vita a molti di questi scherzi.

— Bess, proprio adesso? Proprio adesso vuoi farmi pensare a un mondo
di cose? Ma insomma come vuoi che faccia io? e rimase muta in atto
desolato.

Successe un lungo silenzio.

Nè la padrona, nè la cameriera ardivano romperlo, bene pensando
che nuove parole disgustevoli e inutili si sarebbero dette, per
amareggiarsi inutilmente a vicenda.

Bess si alzò e si allontanò con un viso più triste e più rassegnato del
solito; Hulda scosse nuovamente la bella testa ed accese una sigaretta
dicendo a se stessa:

— Dopo tutto affliggermi per mali che non sono ancora accaduti?... Ma
via, tutto ciò è da sciocchi!

Da la picciola rosea bocca usciva a ondate, a nuvolette, a cirri
tenuissimi il fumo della sigaretta fragrante... velando un poco
l’ambiente che Hulda guardava ad occhi socchiusi... compiacendosi tutta
ne la voluttà di quel momento in cui non sentiva lo stimolo di nessun
desiderio, e si reputava felice, o quasi. O quasi, perchè a volte,
involontariamente, sorgeva a turbar la quiete dell’anima uno sfilare di
memorie affliggenti. Il passato non muore.

                                   *
                                  * *

Bess frattanto, nella propria cameretta, andava pensando con un sincero
accoramento alla situazione di Hulda, povera per se stessa, e indecisa,
irresoluta fra Guy Stein e Grinfieri, due amanti così diversi, e pure
così degni di riguardi e di studio. Due tipi opposti, così egualmente
capaci di far del male alla padrona. Quel male, in qualunque modo,
sarebbe stato anche il suo, e forse in parte molto maggiore.

Bess presso la cinquantina, dopo una vita agitatissima e povera, tutta
sola, sentiva ormai il bisogno di un po’ di pace, e il bisogno d’un
pane sicuro pel domani.

Così, quietamente avrebbe voluto trascorrere la vita, prestandosi come
esperta e prudentissima cameriera presso Hulda, col carattere della
quale il suo combaciava perfettamente, più che pei caratteri, per le
circostanze che li avevano livellati.

                                   *
                                  * *

Wood, quell’Isaiah Wood, che i lettori conoscono e che parlò così
lungamente a tavola con Webb, si stava spogliando, per andare a letto,
come da anni, nelle prime ore della sera.

Per lui la vita della notte non esisteva. Esisteva quella del giorno,
tutto intero, perchè s’alzava a primissima mattina.

Anzi, si meravigliava, sinceramente, al pensiero che ci fossero delle
persone che andavano a perdere il tempo in teatro, e a rovinarsi lo
stomaco nei caffè.

— Dev’essere gente che non lavora, perchè non capisce il piacere del
riposo.

Così sentenziava il grosso, il quasi elefantesco Wood, quando lo
interrogavano del perchè non si lasciasse mai vedere in alcun luogo di
ritrovo e di divertimento.

Ma a quella dell’andare a letto presto — _essere nottambulo_ — diceva
lui, si aggiungeva un’altra abitudine, quella di volere in camera il
cognato, ogni sera e, spogliandosi e facendosi aiutare, parlar d’affari
seco lui: concertare l’ultimo piano, pigliare le ultime disposizioni
pel dì susseguente.

Ma questa volta la conversazione fu dissimile dalle altre.

Bulghery, il cognato, una specie di nano, dovette, mentre lo svestiva
come un’ordinanza militare sveste il suo superiore, dovette udire cose
strabilianti.

— Io diventerò uno degli azionisti più interessati, nel nuovo tronco
ferroviario dell’Est. Io gitterò un gran ponte sul fiume, io acquisterò
intorno ad esso l’area per edificarvi una nuova città. La chiameremo
_Wood_.

— Come, tu?! — chiese il cognato piccolissimo, sgranando gli occhietti
cilestri, tu, così positivo, così compassato, così alieno da ogni
operazione che non fosse tua, esclusivamente tua, ora ti impegni... ti
rinfranchi, ti...

— Caro mio, tu lo sai. Sono tanti anni che fo sempre alla rovescia del
mio amico Webb, perchè dovrei cessare adesso? Pensa che io ho molta
stima di Grinfieri e Grinfieri _insisteva_... insisteva, capisci?

Il nano, con i calzoni sospesi del gigante che lo nascondevano tutto,
rispose sinceramente:

— Non ne capisco nulla... — e si strinse nelle spalle già strette.

Wood, salendo sul letto, il cui elastico s’inclinava e crocchiava
sotto quel pachiderma umano, diede in uno scroscio colossale di
risa. Spalancò la bocca mostrando i due lunghi canini, affilati più
che quelli di Webb, e così poggiato su le braccia tese e su le gambe
ripiegate, rendeva l’imagine d’un bue, con la testa di foca...

— Spiegami, spiegami, — insistè premuroso il minuscolo cognato — ma
quegli rise ancora facendo sobbalzare il letto sotto le scosse della
pinguedine enorme.

                             . . . . . . .

Così si chiuse il primo giorno di questo romanzo nel quale ai
personaggi già noti, altri ne succederanno per quella legge tanto
umana, tanto naturale che dice:

— Da cosa nasce cosa.




CAPITOLO III.

Ancora una bottiglia — Sotto il fanale rosso — La carrozza misteriosa


Evaristo, in una delle sere seguenti, congedò un poco più per tempo i
tre amici che aveva accolto a pranzo in sua casa.

Erano tutte persone di confidenza, di molta confidenza, per cui, senza
tanti ambagi potè dir loro, mescendo il vino dell’ultima bottiglia:

— Dopo questo, amici carissimi, avrete l’amabilità di andarvene. Debbo
concertare qualche cosa, ma di giorno, sapete pure, nel gran va e
vieni, in quel flusso e riflusso di casa Webb, non ho un momento di
quiete...

— Perfettamente! Non vogliamo sciupare l’amicizia per questo... tanto
più che io sono aspettato...

— Il solito, quello delle immancabili avventure amorose...

— Quello che infilza i cuori di tutte le dame che incontra...

— Voi parlate per invidia...

— Non ci perdiamo in chiacchiere. Accettato il licenziamento dell’amico
Evaristo e... buona notte...

— Fermi là! Fermi là! Ad un patto... I licenziamenti si pagano... Metto
una condizione: Un’altra bottiglia...

— Accettato! — gridò Evaristo — e poi... che il diavolo vi conduca!

Un vecchio servo, portò una egualmente vecchia bottiglia che i quattro
amici vuotarono subito; indi, salutato l’ospite con vigorose strette di
mano, lo lasciarono.

Rimasto, Evaristo diede una scorsa a qualche foglio del giorno, ma poi
cessò dalla lettura, quasi infastidito. Aveva un leggero dolor di capo,
o meglio, sentiva una leggiera spossatezza nel cervello.

Da più giorni vegliava e pensava molto. Un lavorìo denso e inusitato.

Decise di uscire, di andare a prendere dell’aria fresca.

Quando fu in istrada si fermò un istante a considerare:

— Se fo la solita via, incontro i soliti amici, quindi le solite noie.

Perciò, tagliando per un piccolo corso laterale s’internò in una via
lunghissima che metteva ad uno dei quartieri più lontani dal centro e
dove non certo avrebbe avuto gli incontri che quella sera gli premeva
d’evitare.

Camminò, camminò molto, lentamente, tutto inteso ai propri pensieri che
non cessarono di martellargli nelle tempia.

Di giorno in giorno si sviluppavano in lui sempre più quelle mire di
ambiziosa grandezza commerciale, che tanto tempo aveva portate con sè
assopite e come morte, e solo nella concezione sfruttandole a beneficio
di quel Webb che alla di lui genialità negli affari doveva i due terzi
della colossale fortuna.

A un certo punto, si sentì battere su di una spalla. Si volse e vide un
signore che a primo tratto non gli riuscì di riconoscere.

— Come? — chiese l’altro — non mi rammenti?

— Ah, sicuro! Cosmus Wite.

— Manco male...

— E dimmi, come stai? È da qualche anno che non ci vediamo più...

— Già; un po’ gli affari, un po’ questa città sterminata... sai, ognuno
resta preso in quella data cerchia abituale.

— Si diventa schiavi senza volerlo, senza saperlo... ci si crede
padroni di tutto il mondo, e si è circoscritti...

— Tu poi... ne ho piacere... perchè le cose si sanno, vivi in una sfera
alta, elettissima, in mezzo all’aristocrazia dell’oro, dove, a me,
non ancora sono schiuse le porte.... di qui una certa difficoltà di
incontrarci... Stasera è stato proprio il caso...

— Ed io in verità, lo benedico, sono proprio contento di averti
trovato... M’è perfino svanito quel po’ di malore di capo che avevo
prima... si direbbe che tu m’hai dato una scossa al sangue...

— È stato un incontro salutare... dunque? Ma, d’ora innanzi, se le
cose andranno come si spera, avremo occasione di vederci più spesso...
Anch’io entrerò nel _vostro_ mondo...

— Davvero?

— Sicuro... Lascerò la piccola casa Trebisdach, dove sono due anni e...

-E?... — fece con interesse Evaristo...

L’altro mutando tono e con una certa solennità continuò:

— Possibile che tu non sappia nulla di ciò che si sta macchinando
nel _vostro_ mondo? La cosa non è ancora ufficiale, ma lo diverrà fra
poco... ed io entrerò al servizio...

— Di chi?!

— Ma sai, che mi pare impossibile che tu non ne sappia nulla?...

— Servizio di chi?

— Di Wood! L’amico di Webb! Il grande negoziante di coloniali...

— Di quel... di quell’uomo così grosso con un cervello tanto piccolo?
Una testa da semplice _compra e vendi_?

— Caro mio, se tu lo giudichi così, t’inganni... Basterebbe il suo
progetto per capire che mente sia quella...

— Ma davvero?

— Sì, sì, non lo mettere neanche in dubbio... Chi mi ha detto le cose e
mi ha presentato a Wood è l’uomo che di Wood sa tutto, l’uomo per cui
Wood non ha segreti, il cognato del quale io debbo... a suo tempo...
sposare la figliuola...

— È strano, ti confesso che Wood non l’ho mai reputato una cima... E
si può sapere di che si tratta, si può vedere la luce di questa idea
luminosa?

— A te lo dico, perchè sono certo, che Webb, l’immenso, l’avveduto
Webb è impossibile non sia della partita... _Voi altri due_ siete
_fiutatori_ per eccellenza. Ecco dunque: Poichè si deve costruire un
nuovo tronco ferroviario quello dell’Est, Wood sarà uno dei maggiori
azionisti. Dove la ferrovia traverserà il fiume, farà costruire
subito un ponte grandioso a sue spese, e comprerà pure tutt’intorno
al ponte una vasta area circolare della quale il mezzo del ponte sarà
geometricamente il centro; perchè, guarda come ragiona diritto, e tu
lo dicevi ottuso!... è umanamente impossibile che laggiù non si debba
depositare del carbone, non vi debbano essere dei guardiani, non vi
sia una piccola stazione, delle osterie, dei contadini, insomma è
impossibile che in breve non vi sorga una città, specialmente quando
_si vuole_ che vi sorga. Che te ne pare?

— Mi pare — rispose l’altro senza entusiasmo e frenandosi a stento — mi
pare una idea abbastanza buona, se riuscirà...

— E perchè non dovrebbe riuscire?

— Per una ragione semplicissima. Si rompono più progetti che cose fatte.

Dopo questo dialogo che il lettore immaginerà quale effetto abbia avuto
sull’animo di Evaristo, i due amici si lasciarono con vicendevole
promessa di rivedersi in quel gigantesco affare delle Ferrovie
dell’Est, quella speculazione che agiterebbe tante colossali fortune
per crearne di nuove. Come di selci che più sono percosse più mandan
scintille.

                                   *
                                  * *

Ripresa la via Evaristo Grinfieri diede intorno un’occhiata con una
certa attenzione.

Era la prima volta che gli avveniva di attraversare quei grandi sudici
quartieri, che s’andavano via via spopolando di passanti e dove i
rumori della vita si spegnevano nelle prime ore della sera, e le
finestre andavano scomparendo nel buio.

Seguitò con una certa curiosità crescente, come un esploratore
al quale si affaccino cose degne di nota, perchè pure in quel
silenzio, in quell’apparente abbandono, nulla mancava per lo
spirito dell’osservatore. E questa funzione si compieva in lui
contemporaneamente, anzi dirò, su lo sfondo dell’altra, che egli
sintetizzava con questa frase soltanto:

— La mia idea! La mia idea!

Eran passate le dieci.

A un certo punto del suo procedere, Evaristo si avvide che alla sua
sinistra mancavano le case, mentre a destra si prolungavano ancora buon
tratto. Un piccolo lume rosso splendeva in fondo in fondo.

Si indirizzò verso di esso, certo di trovare uno di quei bugigattoli,
dove fino a tarda ora _i soliti_ si trattengono a gustare le ultime
bibite, gli ultimi liquori, dove si chiude la giornata coll’istupidirsi
piano piano, di volta in volta, preparando la via a mali che altrimenti
non sarebbero.

Evaristo non s’ingannò. Si trattava proprio di una delle solite
mèscite, piccola e lurida e ammorbata di fumo.

Sedevano a giuocare ed a bere pochi avventori.

Evaristo si pose ad un piccolo tavolo che stava al di fuori e chiese
un bicchierino di _cognac_, più che per altro, per avere il pretesto di
riposarsi alquanto.

D’una fila di caseggiati bassi e neri, quello era degli ultimi e
giratone l’angolo, si passava in un vicolo non tanto stretto, ma
quasi buio. Dal cominciamento di questo, fra due spigoli di case,
smussati in basso, e ergentesi ai lati d’una perenne pozzanghera enorme
s’intravvedeva quanto dovesse avere di sudicio, di uggioso, di sinistro
nel giorno, di pien meriggio il vicolo.

Non un rumore veniva da esso nella tardità dell’ora assopito, pure se
ne indovinavano quelli del giorno, emessi da operai e macchinarii in
fondachi oscuri; di riottosi venditori ambulanti s’indovinavano le
voci, e le chiacchiere delle molte donne sudicie, scarmigliate e il
gridìo dei fanciulli scalzi, mocciosi, insolenti.

Si capiva che internandosi nel vicolo e nelle diramazioni, tra le
casette luride e grommose di fastidiosa muffa, si entrava in uno di
quei labirinti, dove trova posto, s’annida e germoglia ogni rifiuto
umano, ogni vizio, ogni miseria...

Adesso, orientandosi a poco a poco, Evaristo ricordava d’averne udito
parlare, e più volte, di quel famigerato quartiere che cominciava lì,
proprio lì; s’allargava in piazzette, si prolungava in chiassuoli,
si diramava e ramificava in vicoletti e cortili dove i rilievi e le
immondizie non avevano a temere della scopa, nè certi esseri umani del
sole, che vi penetrava a stento, traverso i tetti che si richiudevano
per vicinanza sul capo e dove tanto meno penetravano i delegati e gli
agenti di polizia.

Ogni grande città ha inesorabilmente qualcuno di cosifatti quartieri;
dove si vive una vita così diversa dal restante della città, vita
così tipica, così feconda di oscene emozioni. Dove la morale è così
diversa, il criterio o troppo limitato o troppo grande ed asservito al
male, dove tutto si ignora, e dove una turba di accidiosi e famelici
s’inchina a pochi scaltri e violenti che se ne contendono il dominio e
impongono loro il tributo.

La miseria che regna in codesti strani riparti di umanità avvilita,
tutto spiega e tutto perdona e ammette tutto.

Così di pensiero in pensiero Evaristo vedeva vivere quella vita, per
quanto ne aveva udito a parlare, per quanto ne aveva letto e per quanto
la fantasia lo aiutasse a ricostruire quello che poteva chiamarsi il
tenebroso _regno del fattaccio_, la miniera inesauribile della cronaca.

Di là obbedendo a certe norme, a certe leggi, a certe terribili e in
apparenza disarmate gerarchie, esseri abbietti e mostruosi, nella notte
si lanciavano sulla città, come lupi affamati, peggio, come fiere umane
a raccogliere la loro parte di bottino, a far versare e a versare,
occorrendo, la loro parte di sangue; ad ubbriacarsi nella notte stessa
brindando all’esito, oppure ad entrare ammanettati nel carcere, per
uscirne più tristi.

Certe scene selvaggie di violenza e di rapina si colorivano ora in modo
originale e marcato nella sua mente; certe confusioni e certi amori gli
apparivano come l’espressione più logica e più naturale dell’ambiente
specialissimo, fatto di losche energie, in losche figure.

                             . . . . . . .

Una vettura chiusa che s’avvicinava, una delle comuni vetture da nolo,
troncò di netto il filo di tutte quelle immaginazioni nella testa di
Evaristo.

Il cocchiere che s’accorse di lui, facendo avanzare la carrozza
al passo, deviò alquanto allargando il raggio del giro, ben dentro
nell’ombra, poi fermò il cavallo.

Discese una donna in abito di popolana, di giovane popolana, piuttosto
alta di statura, e svelta insieme e circospetta attraversò la penombra.

Gli occhi di Evaristo non si staccavano da quella figura, le cui linee
e il passo ed il portamento non gli parevano nuovi.

L’insieme di quella donna gli ricordava perfettamente Hulda. Anzi
pareva che fosse passata Hulda in dimessi panni, forse nella povertà
d’una volta.

Secondo Evaristo, secondo l’uomo che amava, _pareva_ lei, ma era
assolutamente impossibile che lo fosse, perchè nel viso, per quanto
avesse con ogni attenzione guardato, stante la semi-oscurità e la
fretta della passante, non aveva potuto raffigurarla.

Il cocchiere intanto aveva fatta girare la carrozza fermandola con le
ruote quasi a sfiorare il marciapiede sul quale stava al suo tavolino
Evaristo e proprio davanti a lui.

Qui discese per bere un bicchierino di _gin_, ma fattosi accosto
il fanaletto rosso, con uno scatto improvviso fermatosi davanti ad
Evaristo e togliendosi con gran rispetto la tuba cerata, chiese con
curiosa premura:

— Lei qui, signor Grinfieri?

— Precisamente, ti fa meraviglia, caro il mio _Numero 13_?

— Dirò... — fece l’altro crollando le spalle — è un strada questa dove
signori ne passano di rado...

— Prima di tutto io non sono un signore. Per essere tale, occorre
almeno almeno... _un milione_... poi... — questa sera ho voluto
levarmi un po’ dalle solite strade che mi annoiano... siedi, non fare
complimenti, siedi qui accanto a me e... ordina tutto quello che più ti
aggrada.

Il cocchiere, senza neppure ringraziare Evaristo, al padrone che
aspettava, ordinò del _gin_.

— Qua — praticano pochi signori, vada per signori come dici tu, parlò
Evaristo, ma perciò appunto, non vi si dovrebbero neanche vedere
carrozze; come mai ti trovi qui? Se devo dirti la verità...

— Si figuri, non mi offenderò mai...

— Se devo dirti la verità, mi sembra che questa sera tu ti sia
prestato, con la tua ricompensa bene inteso, ad un qualche colloquio...
sai? come devo dire?... E mi pare inoltre che tu aspetti. Aspetti la
quaglia di ritorno.

— Ecco — rispose l’altro, con una certa solennità — io sono cocchiere,
lo sono da trenta anni e lo faccio onoratamente... Lei deve sapere
che...

Prima di andar innanzi con questo dialogo che ha molta importanza
nel nostro racconto, noi dobbiamo spiegare chiaramente al lettore le
ragioni, per cui fra il cocchiere del N. 13 ed Evaristo Grinfieri,
esisteva motivo di tanta famigliarità.

Sarà breve l’iudugio, per ritornare al dialogo, il più presto possibile.

                                   *
                                  * *

Un giorno, e proprio tre anni prima di quanto narrammo, Evaristo
gettandosi a precipizio per le scale pensava:

— Trovassi subito una vettura! Pochi minuti che io debba cercarla e...
non arrivo più in tempo a stringere il contratto.

Appena nel portone vide passare una vettura, la stessa che ora aveva
dinanzi, il _N. 13_.

Quel 13 veramente non gli piaceva, se non che non lui comandava, ma la
fretta, la premura, l’ansia di giungere, in quel momento.

Ogni ubbia, ogni superstizione anche convenzionale tacque, diede
l’indirizzo, saltò nella carrozza, ordinando di sferzare e il cocchiere
sferzò e via...

Via con la massima celerità che poteva sviluppare il cavallo forte,
snello, giovine ancora.

Giunse in tempo. Nessuno lo aveva preceduto, e quell’arrivo opportuno
gli aveva permesso di concludere un affare il cui benefizio ammontava a
dodicimila dollari.

Quando il cocchiere al ritorno si vide porre in mano due monete d’oro,
guardò il suo signore meravigliato in volto. L’altro gli sorrise tutto
raggiante.

— Grazie, disse il cocchiere; ma non seppe trattenersi dall’aggiungere:
Signore, lei non ha per la testa l’_idea_, voleva dire la _sciocchezza_
del numero 13?..

— Io? Tutt’altro!

— Lei è proprio un signore di spirito... Se sapesse quanto danno mi
ha già fatto questo numero 13! Ho perfino deciso di mutar padrona per
mutar numero. C’è della gente che si spaventa del numero 13, anche
nella libera America.

— Sono imbecilli, caro mio, e imbecilli al mondo ce ne saranno sempre...

Ma non tutti dicono così, non tutti hanno il suo buon senso, signore...

— Del resto; rimani con la tua vettura, nè ti sgomentare del tuo
numero. Io ho anzi una... simpatia pel numero 13 e, poichè spesso mi
occorre la vettura, ti darò la preferenza. Tu rimani fermo, non troppo
distante dalla mia abitazione? Sai dove mi hai tolto? Ebbene. Ogni
volta che mi occorrerà la vettura, ti manderò a chiamare. Sarà spesso.

Da quel giorno Evaristo ed il cocchiere N. 13, come lo chiamava lui, si
videro assai di frequente, e questo spieghi l’immediata confidenza del
dialogo...

                                   *
                                  * *

— Che cosa devo sapere?!

— Che noi, nella nostra professione, non dobbiamo cercare tanti motivi,
tanti perchè. Noi siamo per la persona che ci ha noleggiati...

— Già... già...

— Lei certo, ha visto scendere quella _donna_... perchè non si può
negare, ma che so io di costei?

— Portami di qui, fin là, ed io obbedisco, ecco tutto.

— Sì che tu non sapresti dare...

— Nessuna indicazione, per esempio... dov’è salita in vettura?

— Che cosa?...

— Questo non posso dirlo... o almeno, posso dire per la strada che
sarebbe non dir niente.

— Dove la riporterai? Lo sai già?

— Sinceramente lo so, ma non posso dirlo... perchè non si sa mai...

— Bevi un altro calicino, via, questo è _gin_ di quello veramente
buono. Mi verrebbe la voglia di farti compagnia se non avessi già
bevuto del _cognac_...

— È buono il _gin_, perchè hanno visto lei... È furbo il padrone... Pei
signori c’è la roba buona...

— Dunque (io mi ci diverto un mondo a questi discorsi) dunque dicevamo?

— Dicevamo che il cocchiere, deve avere un giudizio. Egli ha in mano
l’onore di una persona, specie con queste vetture chiuse... e... se
tutte le volte che lo interrogano dovesse parlare... povero mondo!...
Si finirebbe per credere, davvero sa? che al mondo non ci siano più
donne oneste...

Capita alle volte, di portare certe signore... certe dame... e poi
fanno fermare... e poi salgono certi tipi... Ecco, se io ho deciso di
non prendere moglie è appunto per questo... perchè faccio il cocchiere
e so di che si tratta...

— Dunque non si può sapere chi sia quella donna? Perbacco, ma non
temere di scoprire, di mettere in piazza una gran dama, come dici tu,
quella è una donna del popolo qualunque...

— Quella è... Via, non mi faccia commettere uno sproposito; quella
vestita così... è una signora.

— Ma che signora? Tu scherzi... scherzi perchè sai che ti voglio bene e
che ci conosciamo da tre anni!

— Come? vuole che io non lo sappia? Ho detto una signora ed è una
signora veramente.

L’insistenza di Ben — tale il nome del cocchiere — cominciò a destare
la curiosità di Evaristo che finì a poco a poco per impensierirsi.

Ma fu per breve durata; un nuovo raziocinio cancellò tutto dalla
sua testa, fin l’ombra del dubbio, del sospetto, ed egli si disse
recisamente:

— Lei? Hulda? È impossibile, assolutamente impossibile. Delle
somiglianze? Ce ne son tante! E poi, Hulda è diventata troppo signora,
si è troppo ringentilita, per certe cose... Senza contare che non veste
a quel modo... Essa, a qualunque ora, si presenta sempre elegantissima.
È una qualche popolana che fa uno strappo, ed il cocchiere ne fa
una signora per diventare un essere di una certa importanza nella
situazione... Furbo, il povero diavolo...

Evaristo versò il terzo bicchierino di _gin_, poi sorridendo chiese:

— Il nome... sarà impossibile saperlo...

— Quello non lo so nemmeno io...

— Ed abita molto lontano? — domandò ancora Evaristo, per non chieder
chiaro e tondo «dove?»

Il cocchiere, grinzoso, e con gli occhietti lustri, lo guardò in un
certo modo, come a dirgli:

— Vuol farla a me?

— Non lo posso dire, dove abita la signora. Non lo devo dire. Noi
dobbiamo essere prudenti... Mi rincresce di non poter compiacere un
signore come lei, un cliente nobilissimo, ma si metta nei miei panni...

— Dunque si tratta veramente di una dama?

— Sì, di una dama.

— Che pagherà salato... anche...

— Ne viene di conseguenza.

— Ha marito, o è una... vedova, una giovane vedova...

— Ecco, in quella faccenda lì, non ho mai potuto veder chiaro. Noi,
da cassetto, non si sa altro con precisione, se non quello che avviene
dentro... quanto al resto...

— Non ne sai nulla... — aggiunse con studiata indifferenza Evaristo...

— Nulla, con sicurezza, ma da quanto ho potuto capire, la signora,
questo lo si può dire, deve avere uno... uno dei soliti imbecilli...

— Che?...

— Che pagano... Essi pensano all’alloggio, al vitto, al teatro,
alla villeggiatura, a tutto insomma, e le belle donnine si divertono
con qualchedun altro... Noi cocchieri le sappiamo queste cose e se
dovessimo far pettini si saprebbe dove pigliare le corna.

— E questa tua dama è proprio una di quelle?

— O di quelle o di queste, io non so e non sostengo. Certo è una bella
donna, giovane, sana e quando le viene il capriccio, capirà, non vi
pensa tanto sopra.

— E ne ha spesso dei capricci?

— Veramente, io vorrei che ne avesse tutt’i giorni, ma non c’è male.
Lei e quella signora sono i miei migliori clienti. Uno di giorno
l’altra di notte.

— Non ti verrebbe la voglia di... unirci nella stessa vettura? — fece
scherzando Evaristo.

— Ah, quanto a questo no! A meno che non vengano a noleggiarmi insieme.

— Ciò che sarà un po’ difficile. Qualche volta mi permetto di
scherzare, ma a quest’ora, intendiamoci, perchè di giorno sono troppo
occupato...

— A maneggiar denari...

— Sì, Giuseppe, è vero e ne maneggio tanti, tanti... Gli è che me ne
restano ben pochi attaccati alle mani.

— E di quei pochi vorrei averne io la metà. Non vivrei a cassetto a
fare... un po’ di tutto...

— E la signora si reca sempre da questa parte?

— Con me, sì...

— A poco a poco, signore, lei mi sta confessando... Io non devo
dir nulla. Ogni _professione_ (la chiamava professione) ha i suoi
particolari segreti. Certo, che a venire da queste parti, di notte in
carrozza, e vestita così dimessamente come un’operaia del cotonificio,
il suo uomo, l’uomo pel quale nutre seriamente passione deve essere...

— Deve essere?!

— Alla via che fa o Guy Stein o Bill Oward. Sono loro due che comandano
là dentro — e levò la mano accennando alla parte del vicolo.

— Sono due tipi ben conosciuti...

Sono due tipi capaci di tutto e sempre in guerra fra loro. Essi sono i
re del quartiere.

— Lo conosci bene quel quartiere?

— Io? abbastanza, ma non creda che, specie a certe persone, sia molto
facile traversarlo. Tanto più se sono ben vestite. Lì dentro guai a’
signori.

— La cosa comincia a diventare interessante, ha proprio del romanzo,
senza contare che deve essere un bel tipo la tua signora che ama dei
soggetti criminali, degli uomini che si possono disputare il primato in
quel quartiere. Gente questa che si può dire non ha più scrupoli...

— Scrupoli?!

— Gente che va a rubare, che sa dare la sua brava coltellata, e che non
si fa mai beccare dalla polizia. La polizia sta alla larga più che può
dal loro quartiere. Non vi ficca il naso, perchè sa che passerebbe un
brutto quarto d’ora...

Evaristo ritornava a sentirsi agitato da un sinistro presentimento.
Egli si studiava di cacciarlo e il presentimento lo riafferrava con una
specie di novella tenacità.

— E sa ciò che rende più sicuri costoro e li fa più arditi? È questo.
In fondo in fondo, al lato opposto, il quartiere ha come una scappatoia
sul mare. Quante cose, sul mare, son diventate un mistero! I giornali
alle volte dicono, ma il mare tace. Fo il cocchiere da trent’anni, si
figuri se non ne ho vedute ed udite delle belle!

Tutto quanto Evaristo aveva appreso era più che sufficiente per destare
in lui dei timori, delle inquietudini.

Ben, nella sua stessa furberia, parlava ingenuamente e diceva delle
frasi delle quali non misurava certo la portata e l’atrocità.

— Apposta — disse a un tratto il giovane — io ho bisogno di vedere la
tua sconosciuta. Vederla assai da vicina.

— E parlarle?

— Se occorresse.

— E vorrebbe fare tutto ciò quando ella sarà di ritorno?

— Sicuro.

— Non glielo consiglio.

— Potrebbe essere pericoloso. Pericoloso per tutti e due. Certi
capricci alle volte si pagano più che non valgano. Se _qualcuno di
quelli_ là che non scherzano la scortasse in distanza? Se dal buio la
seguisse con l’occhio fino che fosse in carrozza? Io non mi fido per me
e per lei...

— E allora? Studia tu il modo. Rischiarati le idee. Dicendo questo gli
pose fra mano una moneta d’oro...

— Non per il dono — rispose l’altro mettendo la moneta in un borsellino
a reticella metallica — ma perchè lei è una persona perbene alla quale
si fa volentieri un favore...

— Parla — disse non senza agitazione Evaristo e si versò il secondo
bicchierino di _Cognac_ — Prima che giunga, parla.




CAPITOLO IV.

L’assalto alla vettura — La signora misteriosa — I pensieri di Bess


— Lei si allontani di qui, tornando su la via già fatta. Io resto ad
aspettare la signora, poi partirò... Dove la strada fa angolo, metterò
il cavallo al passo...

Due degli avventori che avevano bevuto e giuocato fino a quel momento
uscirono, dando prima un’occhiata circospetta all’ingiro e passando
innanzi ai due che interloquivano squadrandoli con attenzione...

Come si furono allontanati di alcuni passi, Ben accostando la sua
alla testa di Evaristo e ponendo l’indice attraverso la bocca, disse
sottovoce:

— Due agenti di polizia travestiti. Io li conosco lo stesso.

— C’è il pericolo di rivederci all’angolo?

— No; essi non fanno quella via. Ritornano per di là, vedrà.

I due, che presero a camminare con qualche sollecitudine, scomparvero
al lato opposto, nel buio...

— Dicevi dunque?

— Il cavallo al passo... Lei verrà vicino alla carrozza in fretta e,
_certo_ che la vettura sia vuota, mentre mi grida un indirizzo, aprirà
svelto lo sportello, introducendosi.

Io griderò di scendere, ma, se la dama accetta compagnia... frusterò
il cavallo, se no, prenderò le parti della signora, e intanto lei
l’avrà veduta, udita... si sarà tolta la curiosità... In questo io non
c’entro! È come un’aggressione e posso far la vittima anch’io... Siamo
intesi?

— Intesi...

— Se la donna però non volesse profittare per aver compagnia, non
insista, se ne vada... se ne vada, ha capito?

— Me ne andrò — rispose l’altro per contentare il suo interlocutore.

Non lui, in tal caso, ma la situazione doveva decidere.

Dopo questo, che ormai si faceva tardi, pagato il conto, Evaristo
Grinfieri si allontanò, giusta le indicazioni ricevute dal cocchiere...

                                   *
                                  * *

Tutto quello che prima gli era parso impossibile, tanto l’amore per
Hulda cominciava ad acciecarlo, adesso gli diventava quasi naturale e
tormentoso, esasperandolo.

Amando una donna come quella, perchè non avrebbe potuto toccargli un
fatto simile?

Se egli manteneva quella donna, se quella donna riguardava in lui un
padrone, come non avrebbe potuto odiarlo, sotto la menzogna di tanti
sorrisi, di tante carezze, e, odiandolo, per tacita vendetta tradirlo?

Tradirlo con uno che fosse la sua simpatia, la sua vera, unica,
vivissima simpatia, l’amante del cuore?

Forse i denari che spendeva gli davano diritto alla fedeltà?

Nel turbine di questi pensieri sentiva sempre più aperta la ferita di
vedersi tradito e di pagare egli stesso il tradimento.

Ma come mai — si domandava — sono stato sì cieco e tranquillo sul conto
di lei? Sapeva dunque far proprio le cose a modo Hulda? Possedeva tutte
intere le male arti e padroneggiava così abilmente i suoi complici, da
non venir tradita mai?

Tutt’a un tratto, in quella tempesta, si accendeva un bagliore di
speranza.

— E se io mi ingannassi? Se io, fin’ora, non avessi fatto che giudizi
temerarii, se non avessi fatto altro che calunniarla con l’anima?

Ma sì, sono io colui che ha torto. Perchè Hulda dovrebbe agire così
con me? Le ho mai fatto del male? La ho non assecondata in qualche
cosa? Quale dei suoi capricci può dire che non mi sia stato legge?
E poi non sono io giovane, vigoroso? Non sono simpatico, non mi so
rendere obbligante? E all’occorrenza non sono energico ed ardito come
piace alla donna? Ah, no, non può essere. È un inganno il mio, una
allucinazione, un pessimo sogno. Non è Hulda. È un’altra, un’altra...

Udì il rumore della carrozza che si avvicinava. Sentì pulsare il cuore
con violenza e quasi sotto i piedi spalancarsi il terreno... Quale
tremenda emozione quella così terribile incertezza!

La carrozza si udiva sempre più distintamente, anzi la vide avanzarsi
nell’ombra della via quasi oscura... Avanzarsi lentamente... giusta
l’intesa.

Aspettò qualche secondo ancora, con l’animo sospeso su di un abisso,
poi al momento opportuno, si precipitò sullo sportello gridando al
cocchiere, indovinate? L’indirizzo della dama che gli dava tanto
spasimo.....

Un grido di terrore rispose alla sua voce.

Evaristo afferrò la donna pei polsi e le gridò in faccia, a sua volta,
ancora sorpreso dopo tutto quello che aveva pensato:

— Hulda? Tu?!

— Signore, esca! La vettura è occupata! — vociava a sua volta Ben da
cassetto. — Signore, prego... Ma questo è un tradimento!...

Il cocchiere si precipitò da cassetto, mise la testa dentro...

— Signore, scusi... prego...

— La signora permette — rispose Evaristo contenendosi a stento.

— Non è vero, signora?

Hulda con un filo di voce rispose, sporgendo un poco la testa...

— Si.

— Contenta lei, contento tutto il mondo — ribattè il fiaccheraio
facendo di cappello e risalì al suo posto lieto e orgoglioso che la
commedia fosse riuscita a perfezione.

Era merito suo e pel quale non tarderebbe avere presto un’altra mancia.

Impugnò le redini, diede una scossa su la groppa e prese la via
pensando:

— Hanno proprio del buon tempo questi signori.

Il cavallo si pose al trotto sonoro per la via lunga e solitaria.

Seguirono a tutto questo alcuni interminabili minuti di silenzio
angoscioso; dopo il quale Evaristo, voltosi a Hulda, interrogò:

— Dunque?... Parla!

Confusa, annichilita, Hulda non si mosse, nè proferì parola. Sentiva
un malessere novo farle gruppo alla gola. Una forza misteriosa che la
costringeva suo malgrado alla immobilità.

Evaristo attese invano qualche secondo, poi, come pazzo, le urlò
nell’orecchio:

— Parla!!!

Hulda, con uno scatto improvviso, gli buttò le braccia al collo...

Al rapido martellare del core sentiva spezzarsi il petto; la violenza
del sussulto e il terrore angoscioso che l’invadeva le avevan preclusa
la parola, e gli occhi che non davano lagrime parevano quelli di chi si
svegli su l’orlo di un abisso.

— Parla, maledetta!! — urlò ancora Evaristo, e la scosse brutalmente
per un braccio.

Hulda, come fulminata, gli cadde con la testa su le ginocchia e
allora... solo allora pianse.

Com’era lunga quella via e come ne’ due animi aumentava l’angoscia di
indole diversa per diversa cagione, ma egualmente profonda, man mano
che la vettura inoltrava nel cuore della città, dove da per tutto
ancora brillavano lumi e ferveva la vita.

Ferveva la vita, come di giorno, ma sospinta in quell’ora dalla
spensieratezza del riposo dei più, dalla ricerca della conversazione,
del sollazzo, del piacere...

Sfilavano davanti allo sportello vetrine sfolgoranti, che vi mettevano
a tratti, rapidi e quasi direi, ingiuriosi bagliori...

Altre carrozze aumentavano il movimento e il rumore, e passanti
e _trams_ e venditori si succedevano con vicenda continua, con
l’animazione delle grandissime città, dove si vive sempre ed ove, in
apparenza, si direbbe non siano possibili la tregua, il riposo.

New York è così?

                                   *
                                  * *

Bess, la cameriera, attendeva la padrona leggendo e per nulla
preoccupata, relativamente, da che non era scorsa l’ora in cui doveva
far ritorno Hulda, la quale non si decideva mai ad andare per l’ultima
volta e ritornare, con una rottura completa di quel legame.

Era questa la consolazione che un po’ per cuore, un po’ per egoismo, e
certo più per questo, la vecchia cameriera si attendeva dalla giovine e
non ancora bene esperta padrona.

E degli esempi glie ne aveva portati, e accaduti a persone che essa
conosceva e di cui sapeva come si suol dire vita e miracoli.

Sperava sempre, con infinito desiderio, che un bel giorno si decidesse,
mandasse al diavolo quell’uomo ignobile in tutto e così vile nella
sua forza e nella sua potenza di cattivo soggetto da chiederle sempre
denari, denari sempre.

E di quelle richieste anche lei sentiva il contraccolpo, chè troppe
volte, prima che finisse il mese, la signora restava senza denaro, e
Bess avanzava parecchie mesate.

Quando invece, con un po’ di giudizio, con un po’ di regola, solo
levandosi da dosso la tirannia di Guystein, potevano benissimo, ognuna
a suo modo e secondo l’età, essere due signore.

Bess non era stata previdente in gioventù, che ricordando gli anni
trascorsi aveva a rimproverarsi le stesse cose che ora rimproverava
alla sua padrona, adesso si preoccupava dell’avvenire con un sacro
terrore.

Essa infatti aveva pensato a diventare sotto colore di cameriera,
la guardiana, la tutrice di Hulda, diventando, per custodirla e
salvaguardarla, l’alleata di Evaristo, di quello che con signorile
larghezza pensava al mantenimento.

Come mai si doveva essere sempre in debito con i fornitori?

Come mai continuare a vivere così spensieratamente? Come mai non
pensare che gli anni passano, che la bellezza sfiorisce?

Certo alla signora tutti facevano buon viso e buon credito, perchè la
sapevano fortemente appoggiata, ma se avessero potuto penetrare che da
un momento all’altro tutto ciò poteva diventare un passato, che cosa
sarebbe avvenuto di loro?

La serva, quella dei lavori grossi, ancor giovane, avrebbe potuto
collocarsi e pensare per tempo a sè stessa, la padrona, ancor bella,
scendere un altro gradino verso l’abbiezione, ma lei, lei che non aveva
più nè gioventù, nè bellezza, nè forza?

Dio, che miseria! Dio che rovina!

Quando si ingolfava in questi pensieri, le veniva una gran voglia di
fare una cosa, non bella certo, ma utile, e dopo tutto di interesse
comune.

Toccava a lei aver giudizio se non lo aveva la padrona. Non c’è anche
un proverbio che dice: chi ha più giudizio l’adoperi?

Era un piano prestabilito da un pezzo e sempre rimandato di giorno in
giorno, nell’attesa che Hulda pigliasse energicamente la decisione di
piantare quell’altro, quel mal soggetto, che invece di dar denaro alle
donne, dalle donne lo voleva.

Quel cosaccio senza _amore_ e senza scrupoli, ignorante, volgare,
manesco e ladro senza pregiudizio del resto, a seconda del caso.

E la decisione in cui Bess era intensionata di venire, consisteva
nel mettere, con garbo e secondo il momento, Evaristo a capo della
situazione.

Se non altro, scoprendosi il tutto, non sarebbe stata complice, e
data quella prova di attaccamento al _signore_, egli avrebbe potuto
collocarla, con poteri di sorveglianza presso di un’altra, perchè
certo, al saper della cosa, sarebbe stato rotto l’incantesimo e
spezzata la catena.

Dapprima quella idea le ripugnava, ma poi a poco poco tenendosela nel
cervello e studiandola e rivolgendola spesso, vi si era adattata e
finiva per trovar buone ragioni a giustificarla.

Interrottamente leggicchiò ancora un poco, indi rimise il libro sul
tavolo, chè udì avvicinarsi al portone la carrozza.

Allora, tolto il lume, andò all’uscio, l’aperse ed attese.

Allo scalpiccio che udì sulle scale s’accorse che erano in due persone
a salire e pensò che, come tante volte accadeva, l’avesse accompagnata
l’_altro_ che ne profittava talvolta per darsi il lusso ed il gusto di
sedere ad una tavola riccamente imbandita e pigliare una buona satolla
e magari la più sconcia ubbriacatura.

Una volta ad uno di quei _desserts_, Hulda ebbe un tremendo schiaffo,
ma non si ribellò. Stein sarebbe stato capace di troncarle un braccio
e di buttarglielo in faccia. E lei di quella brutalità pareva quasi
orgogliosa.

All’angolo dell’ultima scala in fondo al pianerottolo Bess ebbe la
terribile sorpresa che temeva da tanto, ma che non s’aspettava quella
sera.

Dopo Hulda, che saliva faticosamente, a testa china e tutta rossa di
pianto, vide apparire l’aristocratica e rigida figura di Evaristo.

Capì tutto Bess e sentì vacillare le gambe. La tremula mano reggeva a
stento il lume. Ella si fece da lato, salutando appena col capo, e i
due entrarono in silenzio.

Entrarono, come abitualmente, in quel salottino che era studietto e
gabinetto di lavoro per Hulda.

Qui, come se avesse fin’ora dubitato de’ suoi occhi e delle sue
orecchie e di tutte le dolorose impressioni che aveva subito l’anima
sua, Evaristo fissò ancora lungamente e muto Hulda, anche in quel
costume di popolana, bella, forse anche più bella.

— Hai ragione, mormorò sommessamente Hulda, hai ragione, fa di me quel
che tu vuoi... Ammazzami...

— Signora, _siate_ falsa e ingrata, quanto volete, _siate voi_, quanto
più vi aggrada, ma non vi rendete ridicola. Ammazzarvi?! E perchè?
Con qual diritto? Non lo farei, non lo penserei nemmeno se foste mia
moglie, figuratevi poi, per una donna che in fin dei conti è libera...
libera del fatto suo...

— No! No! Evaristo...

L’altro, come se quelle parole non lo riguardassero, con una calma,
tremenda più di qualunque collera, con una calma superiore ad ogni
scatto, continuò:

— Certo, io non debbo darvi più a lungo il fastidio della mia
compagnia. Ma che colpa ho io se... lo confesso... vi ho amato?
Sapevate far tanto bene che era impossibile non... adorarvi... perchè,
vedete come son sincero? io vi ho adorato... Voi, senza amarmi, pure
sempre tanto buona, m’avete sopportato finora, non avete avuto il
coraggio di dirmi: vattene...

Ora che so tutto, è a me che tocca di contentarvi, è un doveroso
ricambio di gentilezza e null’altro. Sarete così libera... potrete
disporre di voi... come avete fatto fino a tutt’oggi.

Hulda, abbandonata sopra un lato del divano, voleva piangere, ma ormai
non aveva più lagrime e lo strazio di quelle parole fredde, incisive,
la toccava più che nel cuore, nel cervello.

Ora pensava seriamente e suo malgrado, lei che aveva sempre pensato
così mal volontieri e di sfuggita.

Il contegno d’Evaristo non era nè studiato, nè dell’occasione, ma pur
troppo rappresentava la genuina espressione del suo carattere in un
momento consimile.

Era così. Quella era proprio l’espressione sincera del suo sentire e
del suo giudicare.

Diventava freddo, compassato, riflessivo e... sarcastico. La mirabile
lucidità mentale, che seguiva ad ogni suo motto o ad ogni colpo
improvviso, gli permetteva di riflettere e, col massimo sangue freddo e
quasi dentro i termini della cortesia, di martirizzare la sua vittima o
vincere l’avversario.

— E prima di tutto, continuò guardandosi la mano ben fatta, un po’
rossa e nervosa, non dovete neanche per questa notte avere presso di
voi la mia imagine. Essa vi turberebbe anche nel sonno, o signora, come
certo vi turbò in passato...

Si fece su l’uscio e chiamò:

— Bess!

— Eccomi, signore.

— Favorite di togliere dalla cornice il mio ritratto.

Bess cominciò ad obbedire senza rispondere. Tutto ciò era il meglio che
si potesse fare, mentre nel suo interno, per la inevitabile tempesta
che si scatenerebbe, andava ripetendo:

— Ah, se avessi parlato! se avessi parlato! Ora non rovinerei assieme
a quella stupida di Hulda. I miei consigli! I miei consigli! — E
tratteneva a stento i sospiri che le volevano erompere dal cuore
angustiato dalla perdita del suo dolce sogno di egoismo.

Come Bess fu pronta, non seppe resistere alla volontà di intromettersi
e facendo timido atto verso Evaristo, con la fotografia, disse:

— Vo ad avvolgerla in una carta... se proprio ha deciso di portarla
via... ma non lo credo ancora, mi pare impossibile, signore, che lei
voglia, che lei... si calmi... fu un errore, sono inesperienze... È
tanto giovane... Io poi devo obbedire...

— Più a me, che a lei — interruppe Evaristo... — Ah, questo sì, pur
troppo, ha ragione...

— Dunque, se ho ragione, Bess, fate silenzio...

— Signore...

— Il ritratto non lo porto con me... Ho pensato bene... di non
portarlo...

Fu un baleno di sollievo per le due donne... Ciò poteva significare un
mutamento di idee...

— Perchè portarlo meco? fece ancora con voce quasi dolce. Non ho con me
l’originale?

In queste parole, prese lentamente la fotografia e la stracciò...

Sotto le mani febbrili, ma sicure, il cartoncino parve mandare un
lamento, un suono di strazio. Con la sua immagine, Evaristo sapeva di
stracciare in quel punto due cuori.

Evaristo si volse lentamente a Hulda che restava alla sua destra. Le si
volse di fronte, con una solennità semplice e inesorabile:

— Signora, poichè nulla di quanto è qua dentro vi appartiene, non vi
sarà difficile consegnarmi libero l’appartamento per la sera di domani.
Siamo intesi.

Dopo queste parole s’avviò per uscire.

Allora, come fossero state spinte da una comune precedente impresa, le
due donne si precipitarono su lui.

Hulda ponendogli la destra al collo, Bess prendendolo per la mano.

— No, non te ne andare così; non te ne andare, perdonami, supplicava
l’una...

— Pietà di noi, signore, non ci abbandoni! Non ci lasci così! Sia buono!

— Hai ragione, ma perdonami, diceva a gran voce Hulda. Fui cattiva, fui
infame... eppure se tu sapessi... se tu sapessi tutto! Non è tutta mia
la colpa!

— L’ascolti, le ha sempre voluto bene questa povera ragazza... creda....

Così le due donne tentavano di smuovere Evaristo dal proposito di
cui avrebbero dovuto sentire i crudi effetti l’indomani; ma egli si
svincolò da loro, sordo ad ogni preghiera, ad ogni lamento, aperse
l’uscio e partì.

Prima di scendere, con solennità che diede l’ultimo sgomento alle due
donne, ripetè ancora:

— Siamo intesi. Domani.

                                   *
                                  * *

Ciò che Evaristo non si aspettava di trovare in istrada, avendolo
licenziato, fu Ben.

Ben tranquillamente a cassetto davanti al portone, aveva l’aria
dell’uomo che attenda per ordine ricevuto.

— Come? Tu qui?

— Signore, aspettavo.

— Chi te lo aveva comandato?

— Nessuno.

— Dunque, perchè sei qui?

— Perchè....

— Sentiamo.

— Perchè... scusi sa, immaginavo bene che non sarebbe rimasto sopra.

— Già... anche tu immaginavi che non sarei rimasto?

— Capirà, signore, è da un pezzo che fo il cocchiere, sono uno dei
più vecchi della piazza... E certe cose si giudicano dall’odore, si
respirano nell’aria.

— Poichè hai avuto tanto buono senso, ecco... approfitto.

E salendo diede l’ordine:

— A casa mia.

Adesso era vuoto quel posto accanto a sè. Adesso non lo occupava più la
donna che aveva disconosciuto così vilmente un amore, che malgrado il
di lei passato poteva diventare il legame della sua vita, e con quello
avere una riabilitazione.

Si è infelici e disonorati finchè non si trovi un’anima superiore che
ami e perdoni.

Amarissime riflessioni attraversavano la mente di Evaristo.

Ora più che prima gli davano un fastidio stizzoso gli sprazzi di luce
che tratto tratto rischiaravano l’interno della vettura, quando questa
passava dinanzi ai grandi caffè dove brillava una luce intensa come
di giorno, per l’elettricità, che vi profondeva il suo bianco e freddo
raggio meraviglioso.

Senza volerlo, senza, si può dire, avvedersene, Evaristo, s’era
rincantucciato proprio a destra, sul lato poco prima occupato da Hulda,
la quale vi aveva lasciato un poco di quel profumo che sempre emanava
dalla sua persona, che nel bagno, tutti i giorni prodigava a intere
boccette la favorita e dispendiosa essenza.

Di essa rimaneva ora un sottile profumo di rosa.

Evaristo lo aspirava con una amara voluttà di rimpianto.

                                   *
                                  * *

— L’avevo o non l’avevo detto io, che un giorno saremmo arrivati a
questo punto?

Tali furono le prime parole che con aria disperata insieme e rabbiosa
mosse la cameriera a Hulda.

Questa, sempre rossa in viso, ma senza più lagrime, non rispose.

Colla testa china ascoltò i rimproveri via via sempre più acerbi della
vecchia Bess, finchè non ne fu sazia, finchè non ne fu infastidita; poi
la interruppe bruscamente gridandole:

— Basta! Dico di smettere! Ormai quello ch’è stato è stato.

— Quello che è stato è stato? Ma a lei non pare che sia avvenuta
proprio qualche cosa di grave, d’irrimediabile? Non si è persuasa
ancora della rovina in cui siamo piombate?

— Rovina, rovina dici?

— Sì!

— Perchè? Per quei quattro soldi?... Ne troveremo degli altri; no,
non mi voglio affliggere, anzi mi pento di aver pianto... Infine sono
sempre bella e fresca, ho appena ventitre anni. Degli amanti ce ne sono
degli altri al mondo...

— Degli altri, come quello?

— Via! al diavolo tutte le malinconie. — Per l’ultima sera che son
padrona di casa, obbediscimi. Porta del cognac.

Bess obbedì, brontolando. Hulda la lasciò dire, perchè capiva che,
povera donna, non aveva tutti i torti e aveva parlato nel comune
interesse.

Ma mentre essa beveva lentamente il liquore, affettando fiduciosa
sicurezza nella nuova situazione che le si sarebbe schiusa, qualunque
fosse stata, l’altra ricominciò:

— Sloggiare sarebbe nulla, se non ci fossero debiti, tanti debiti da
pagare. Anche a questo io pensavo.

— Tu hai un gran talento, una gran testa; tu pensi a tutto...

— Ma come non capire che se ora tutti ci fanno credito, e non ci
molestano gran che i creditori, il motivo è che fra noi e loro c’è il
signor Evaristo? Non lo sapete, che se domani, se adesso sapessero a
che punto sono le cose, farebbero già la processione per le scale?

— Insomma, non mi devi seccare...

— Non vi seccherò, ma voi dovete ascoltarmi. Può essere che vi riesca
ancora a smuovere Evaristo dal suo proposito.

— Smuoverlo? Io? Ma ormai, se ben lo potessi non lo farei più... Dopo
tutto sono giovane e bella e non mancheranno a me gli amanti, a te
i padroni ricchi che vai cercando. Ah, vivadio, fin che si hanno di
queste figure... si incantano gli uomini... Pane e diamanti non ne
mancano...

E si rizzò fiera su la persona bella e stette un poco immobile con le
nere pupille un po’ fosche, dinanzi un grande specchio.

— Hulda, disse con accento di rimprovero insieme e di affetto Bess —
Hulda, con chi credete di parlare? Credete ch’io non sappia come vadano
le cose, come finiscano la gioventù e la bellezza? Ma non sapete che se
io vi so servire così bene, è proprio perchè anch’io sono stata come
voi? Io che oggi sono serva a voi, fui _signora_ anch’io, come voi...
non mi ci fate pensare, soltanto ascoltatemi ed evitate di peggio a
voi ed a me. Certo per qualche tempo ancora durerà la nostra fortuna,
poi di giorno in giorno... Iddio non voglia... vedete, io vi parlo col
cuore in mano.

— Ah, non posso dire che tu non mi abbia sempre voluto bene... Non
posso lamentarmi per questo...

— E per questo appunto ascoltatemi... ascoltatemi...

Hulda vuotava il terzo bicchierino...

— Non bevete più, non bevete. Perchè cercate di stordirvi? Per non aver
più la mente serena? Per non ragionare più? Mi ascoltate? Promettete di
ascoltarmi?

— Parla, via, parla, povera e paurosa Bess.

Hulda accese una sigaretta. Bess ricominciò...

— Ora andate a dormire. Volete nasconderlo, ma siete agitata, molto
agitata. Domani mattina, nell’ora in cui potete trovarlo in casa,
andate da Evaristo, andate da lui... Non conoscete gli uomini? Quella
è un’ora propizia... voi buttatevi ai suoi piedi... Dovete farlo...
dovete...

Bess fu interrotta dal campanello elettrico.

— Possibile? A quest’ora? chi sarà?

— Apri... — disse Hulda e il cuore le diè in petto un balzo repentino —
apri, ripetè con un filo di voce.

Bess aprì.

— Sono io — disse Ben il cocchiere. — Ho lasciato a casa _quel
signore_, che mi ha dato l’incarico di portarvi questo biglietto...

— Qua... disse Hulda tremante.

— Fosse la consolazione!

— Fosse la consolazione? — chiese Bess agitata e speranzosa anch’essa...

— Leggi! fece seccamente Hulda, e le porse la lettera che diceva così:

      «_Signora_,

  «Se vi fossero debiti verso i vostri fornitori, come credo,
  lasciatemene senz’altro la nota sulla vostra scrivania.

  «Penserò io al resto.

  «Siamo intesi.

                                            «_Evaristo Grinfieri_.»

Hulda diè la mancia al cocchiere e lo congedò.

Appena furono sole le due donne, Hulda disse scattando:

— Vedi, Bess? Altro che sperare! altro che i tuoi consigli! questo è il
colpo decisivo. Egli mi ha abbandonata e con quest’ultimo schiaffo, da
gran signore.

— Non importa. Domani, per tempo, anzi, prima che egli abbia lasciata
la sua camera, dovete essere da lui... Vi dirò domani il resto.




CAPITOLO V.

L’angelica Mary — L’ubbriacone impenitente — Il segreto della prima
donna


Che cosa avevano fatto tutti gli altri personaggi dei quali abbiamo
discorso in principio, in quella sera, tanto fatale a una fatale
passione?

Lo diremo brevemente.

Wood, il grosso Wood, faceva sogni meravigliosi, e tra i re del
petrolio, tra i re delle industrie, tra i re delle ferrovie, tra i
re delle ferriere vedeva sè stesso, re della nuova linea dell’Est,
principio di una serie infinita di linee, principio di una colossale
ragnatela in ferro lucente al sole. Ed egli ne era il ragno colossale,
e cento città vi si dibattevano impigliate come mosche immense.

Si realizzavano guadagni lautissimi.

Giustamente Evaristo Grinfieri aveva insistito. Gli stessi incassi
mensili erano sbalorditivi; le azioni erano andate su, su, erano salite
in un modo meraviglioso. Anzi, non si negoziavano nemmeno, chi ne
possedeva, possedeva un tesoro e non le dava, non c’erano dollari da
pagarle.

I grandi commercianti americani hanno di queste poesie.

Webb leggeva una lettera dell’unica sua figliuola allogata in un
educandato, ed era in viaggio.

Il viaggio di chiusura, l’ultima emozione, quasi a preparare l’entrata
nel mondo alle signorine che ormai avevano compiti gli studi e stavano
per abbandonarli.

Webb leggeva con attenzione la lettera di Mary, anzi l’aveva letta più
d’una volta e non se ne stancava mai. Tornava sempre da capo.

Le signorine educande viaggiavano con tutto lo sfarzo e le cautele che
si conveniva a loro, quasi tutte milionarie, future dame della nuova
aristocrazia.

Nulla si risparmiava, per gli agi e per la coltura insieme.

La signorina Mary scriveva dall’Italia, dove lei e le compagne
avrebbero dimorato per oltre un mese, visitando le città principali.

Diceva a un certo punto della lunga lettera.

«Papà, papà mio, non mi manchi che tu. Se tu mi fossi vicino, tutte
queste cose belle che io vedo, sarebbero più belle ancora. L’Italia
è davvero un paese meraviglioso, dove ogni città ha i suoi speciali
incanti.

«Perchè non sei venuto con me?

«Quando penso che la mamma è morta e che io sono nel paese della mamma,
io vedo nella mia memoria una madonna. Tale doveva essere quella cara,
quella santa...

«Anche tu la vedrai spesso la povera mamma, non è vero? E allora come
ti sentirai ancora più solo, perchè non hai neppure la tua Mary accanto
per consolarti, per dirti una buona parola, con tanta soavità come
detta l’amore... tanta... tanta... Ma confortati, papà. Il periodo
dell’educandato sta per finire. Al ritorno avrò compiuti i miei studi e
uscirò per venirmi a buttare fra le tue braccia e starvi per sempre...»

— Che figlia! che figlia!... Tutta sua madre... tutta quella povera
donna, che dovrebbe essere viva adesso... e vedere la mia fortuna e
compensarsi dei tempi crudi, quando soffrivamo... quando, basta...

Doveva andare così. Purtroppo la felicità non è mai completa. Quando
c’è il denaro, manca sempre qualche cosa d’altro... Quando c’è il
denaro...

                                   *
                                  * *

Evaristo, spogliandosi lentamente, nella sua camera da letto, piccola
ed elegantissima, e di nobilissimo vecchio stile, pensava a quanto
gli era accaduto... meravigliandosi del suo contegno correttissimo.
Meravigliandosi, di non esser andato su tutte le furie e di trovare in
ultimo pensieri di compatimento e di altero disdegnoso disprezzo, per
quella avventuriera, alla quale avea portato molto amore e che lo aveva
per tanto tempo abbindolato.

Conchiuse mentalmente che doveva da una simile donna aspettarsi tutto
ciò e che, se a un essere simile si poteva chiedere gratitudine, certo
non si doveva chiedere neanche una parvenza di amore.

Convenne che non a Hulda egli dovea pensare, al milione che gli
occorreva, per liberarsi un dì dal giogo di Webb, e spiegare le sue
nuove e superbe qualità di speculatore e di commerciante geniale.

Sarebbe stata la sua vendetta, e si sarebbe posto su la via di
trionfare su tutti i ricchi della città. I ricchi di America.

L’idea dunque che lo possedeva, malgrado tutto, e sopratutto, era
quella di procurarsi un milione. Il primo per la semente del miliardo.
Quel suo arditissimo sogno da giorni lo possedeva interamente e quanto
altro gli avveniva per lui non aveva aspetto che di piccole parentesi
nella vita, di piccoli inciampi su la grande strada.

Diede una scorsa rapida e sintetica a parecchi giornali più diffusi
e più autorevoli di commercio e di finanza, poi si addormentò,
relativamente tranquillo.

Così passò la notte.

                                   *
                                  * *

Al suo primo svegliarsi, a mattino inoltrato, quasi senza volerlo,
la mente gli corse a tutto quell’arruffio di cose del giorno innanzi,
ed in ispecie a Hulda, che non volendo, aveva sorpresa, e dalla quale
senza esigere spiegazione di sorta, si separava così recisamente.

Anche adesso trovava commendevole il proprio operato e si compiaceva,
malgrado la sua passione, d’essere stato così risoluto e in modo così
rapido.

In questa entrò Tommy, il vecchio servo affezionato e confidente.

— _Una_ signora... — fece con sorriso malizioso — desidera parlarle.

— Chi?

— _La_ signora — ripetè il servo.

— Hulda?

— Precisamente.

— Che cosa vuole?

— Deve parlare con lei.

— Che mi aspetti.

Evaristo si alzò e si vestì in fretta, quasi desideroso di rivedere
quella donna, che doveva aver passata una notte davvero angosciosa.

I lettori si saranno già accorti, a questo punto del racconto, del tipo
eccezionale di Evaristo Grinfieri, uomo che alle tante sue risorse di
larghe vedute per immediato sdoppiamento di ingegno univa una strana,
fortissima potenza di dominarsi.

Dominare se stessi, vietare a se stessi ogni ira, ogni scatto
passionale, imperare col senso dell’utile netto sul proprio carattere:
quello doveva essere il segreto che lo affidava dell’esito.

Dalla via tracciata a sangue freddo nessuno doveva rimuoverlo. Nessun
mezzo, nessuna potenza farlo deviare.

Pure, quando uscì dalla camera per entrare nel salottino dove Hulda lo
attendeva, sentì un brivido per tutta la persona.

Quante volte in passato a quell’ora l’avea avuta fra le sue braccia con
l’anima in uno stato ben dissimile tra l’oblio e il piacere!

Appena entrò, Hulda gli mosse incontro, sollevò le braccia per cingerlo
al collo; ma non ebbe l’ardire, e cadde in ginocchio...

— Alzatevi, signora! Che novità son queste?

— Perdono! Perdono! Perdono! Anch’io ti amo... Tu mi hai condannata
senza nemmeno ascoltarmi... Tu hai ragione...

— E dunque?

— ... ma ho ragione anch’io.

— Abbiamo ragione tutti e due, signora? È strano, io non capisco,
veramente, come ciò possa avvenire...

— Senti, non mi chiamar signora... chiamami Hulda, la tua Hulda come
prima... Dopo che mi avrai inteso... condannami, scacciami.

— Hulda, alzatevi — disse Evaristo allontanandosi un poco da lei —
Alzatevi... signora e risparmiate le vostre parole... Non vi pare che
esse siano perfettamente inutili, dopo quanto è avvenuto?

— Evaristo...

— Voi, signora, avete e con ragione, rivendicata la vostra libertà...
Io ho riavuta la mia, che non volevo... Ora andate, lanciatevi, non vi
mancheranno vagheggini, conquistatori, amanti... Mi hanno invidiato
tanti quando eravate al mio braccio... Imbecilli! Non sapevano che
anche allora eravate conquistabile, conquistabilissima.

— Ma perchè aggiungere lo strazio di queste parole, quando tu non sai
tutto?

— E mi bisogna di sapere? Non ho io veduto? A quell’ora, verso quel
quartiere, in carrozza, e con quell’abito? Strano il luogo dove
andate a reclutare i vostri amanti del cuore, o signora... Siete di
gusti molto modesti ed anche... molto depravati... suppongo... non vi
offendete.

Queste parole erano tanti colpi di coltello in petto a Hulda, cui
la notte aveva fatto pensare seriamente al nuovo stato di cose, e
non belle, che le si veniva disegnando alla mente, snebbiata dal
risentimento e dai fumi del liquore, e adesso tutta volta a considerare
il male con la lucidità spaventosa di chi prevede un domani di sciagura
irreparabile.

Così accorata e accasciata, Hulda guadagnava in bellezza. L’espressione
affascinante del sentimento che le sarebbe mancata altre volte,
quell’espressione l’irradiava adesso, tutta.

Evaristo aveva finito per guardarla con una certa fissità, che non
isfuggì a Hulda.

Hulda aveva sempre riso per lui in passato, folleggiando come una
fanciulletta viziata e maliziosa, avevano sempre bevuto insieme da
smemorati e da baccanti alla coppa della gioia.

No, non l’aveva mai vista nè con gli occhi, i bellissimi occhi
stellanti, velati dalle lagrime, nè tanto meno l’aveva vista
inginocchiata a’ suoi piedi, supplice...

Il sapere che quella donna finalmente soffriva, gli faceva gustare,
prelibare, un senso d’orgoglio nuovissimo, non ancora provato, e dava
alla donna seduzioni, che in lei non avea ancor visto.

Pareva che ora scoprisse in Hulda quel tesoro dell’addoloramento,
per cui ogni moto, ogni sguardo, ogni sospiro, assumono un incanto
speciale e comandano alla persona che affanna e potrebbe con una parola
consolare: perdona!

— Io ti amo, e tu devi crederlo e lo crederai, certo, se mi lascierai
parlare... Ascoltami. È l’ultima carità che ti domando, Evaristo,
ascoltami.

Evaristo rispose con la voce un po’ fioca...

— Via... _siedi_... Io vorrei da te l’impossibile; vorrei che tu avessi
ragione.

Evaristo premette la molla del campanello e comparve Tommy.

— Comandi, signore...

— Volevo... cioè... niente. Va pure, Tommy.

Che cosa aveva voluto, così un po’ accigliato, ed ora più non voleva?

Hulda sedette, lasciandosi cadere come affranta e pure guardando fisso
Evaristo, vedeva accanto a lui la figura di Bess che tanto poco prima
le aveva detto e insegnato.

— Devo raccontarti tutto, perchè tu non sai tutto. Quello che ti è noto
della mia vita è la parte più recente, la conseguenza dell’altra. Ho
soli ventitre anni, ma ho girato molto, e molto sofferto...

Io non mi chiamo, è bene che tu lo sappia prima di ogni altra cosa,
io non mi chiamo Hulda, ma Concetta, _Concettella_ come mi dicevano a
Napoli dove son nata, di padre napoletano e di madre oriunda francese.

Mio padre che contava molti anni più della mamma era macchinista in un
teatro, ora demolito.

Guadagnava poco, ma guadagnava il bastante per mantenere la famiglia se
non fosse stato un bevitore. Beveva mio padre, beveva di tutto, sempre,
insaziabilmente.

La povera mamma, essa è morta, lavorava di cucito, e credilo, se non
fosse stata lei, quante volte avrei sofferto la fame!

Quando rimanemmo soli, mio padre ed io, allora cominciarono i giorni
veramente dolorosi... Ero _intatta_ e virtuosa come un angelo, sì! lo
ero allora, e capii che la mia missione era quella di guardare me e mio
padre. Ciò che faceva prima la mamma. Perchè quella donna che lo amava
tanto e sinceramente, riusciva spesso con la energia, a ricondurlo
a casa dopo lo spettacolo, con la testa ancora a posto e con qualche
soldo di più in tasca.

Io ne seguii l’esempio. Avevo sedici anni. Lavoravo alla macchina,
unica eredità della povera mamma, fin dopo le dieci; poi lesta
lesta andavo a riprendere mio padre, prima che i compagnacci se
ne impossessassero per condurlo alla taverna. — Sei già qui? — mi
chiedeva spesso seccato. — Perchè? — rispondevo io — ti rincresce? —
Ah, no! ma sarebbe meglio che tu ne stessi a casa... Le ragazze sul
palcoscenico... piacciono poco a me.

Non verrò più, babbo, se mi prometti che all’uscita tornerai difilato
a casa... Non andare alla taverna. Ti farò trovare io un bicchiere di
vino a casa, poi te ne andrai a letto e ti riposerai, chè ne hai di
bisogno.

Quell’uomo aveva il vizio infiltrato nella midolla delle ossa.
Prometteva sempre e non manteneva mai.

Allora mi decisi di andare al teatro risolutamente, ogni sera, per
ricondurlo a casa malgrado lui e malgrado la volontà de’ suoi perfidi
amici.

Come costoro mi vedevano di mal’occhio tutti!

Avevo 17 anni ed ero una persona sviluppata quasi quanto adesso.

Là sul palcoscenico, nell’attesa, io sedeva in un angolo, con l’anima,
col pensiero al disopra di tutto quanto vedevo, osservando tutto,
starei per dire me ne accorgo ora, studiando tutte le miserie, tutti
i falsi splendori di quel mondo di cartone, di stracci, di orpello e
di belletto, fra le quinte. Ogni sera faceva una scoperta per rimaner
sempre più scandalizzata e nauseata.

Io credeva ancora a troppe cose belle, avevo ancora su la mia persona
intatta, intatto il sentimento, alto, altissimo, di mia madre.

Io ero religiosa... religiosa, capisci? Figurati che il mio cuore non
sentiva veramente e profondamente altra musica che quella dell’organo
in chiesa. Quella da teatro non mi conquistava, perchè nel mentre la
udivo, io avevo davanti a me lo spettacolo di creature infelici e di un
mondo falso...

— E poi, malgrado tutto questo...

— Lasciami dire — riprese Hulda (noi la chiameremo sempre così) dando
in un gran sospiro — lasciami dire...

Le compagnie si succedevano al teatro e mio padre conosceva tutti.
Capicomici, direttori, artisti, maestri d’orchestra, coristi...

Anch’io a poco a poco feci parte di quelle conoscenze, anch’io
entrai in una certa famigliarità, ma sai... restando pur tuttavia al
mio posto, il che mi attirava sempre più le simpatie di quanti mi
avvicinavano. Degli uomini, intendiamoci bene; perchè le donne, le
donne del palcoscenico, mentre mi parlavano e mi ridevano, m’avevano
in uggia, e le ho sorprese più d’una volta a canzonarmi, quasi in gergo
loro speciale, in mezzo a quelle fetide quinte, tra un atto e l’altro,
fra l’una e l’altra uscita.

Forse non erano proprio tutte cattive quelle donne, ma lo diventavano o
lo sembravano, quando erano riunite dietro le quinte in gruppi, pronte
per l’entrata in scena, tutte inorpellate, tutte false, tutte lustre
dalle testa ai piedi....

Ma c’erano anche delle prime donne in quelle compagnie di terz’ordine
che si occupavano un poco di me.

Talune per darmi della stupida, per disprezzarmi, tal’altra per
compiangermi... qualcuna, bisogna pur che lo dica, per invidiarmi...
Una specialmente... Ah, quella, non la dimenticherò mai... mai.

Una sera le mancò la solita cameriera che l’aiutava in camerino per le
vesti, per le maglie, per le acconciature.

Essa ne era disperata tanto che io non potetti a meno di
meravigliarmene.

Avrebbe potuto chiamare una corista, ve ne sono delle abili a
sostituirla e farsi servire, certo non meno bene, ma non volle e uscì
in una imprecazione che mi fece rabbrividire.

Mio padre che aveva visto e notato tutto, come la prima donna fu in
camerino v’entrò a parlarle... Dopo un minuto, venne a me, dicendo
con una cert’aria di mistero — Fa un favore a tuo padre. Va in quel
camerino per aiutare la signora, ma... ti raccomando... e si pose,
sporgendo la testa e fissandomi, l’indice attraverso la bocca. — Non
dubitare, babbo.

Scesi alcuni gradini, traversai un corridoio stretto e lungo che girava
attorno al palcoscenico ed entrai nel camerino della prima donna
che mi aspettava con l’uscetto socchiuso. — Eccomi, posso servirla?
Sì, rispose guardandomi attentamente e con una fissità che mi parve
maligna; aiutatemi un po’ voi, da che quella maledetta, che domani si
dirà malata, sarà a fare la sgualdrina con l’amante.

Poi rabbonitasi, ma si vedeva con sforzo violento, prendendomi per
mano, domandò:

— Mi promettete, non è vero, di non dir nulla di quanto vedrete?
Pagherò bene la fatica di questa sera ed il silenzio che desidero per
sempre... Ognuno, Concetta, a questo mondo ha il suo coloroso secreto
— e cominciò a spogliarsi, per poi indossare le maglie, dovendo nel
secondo atto cantare in costume di ballerina.... Ma purtroppo, quando
la signora bella e dalla bellissima voce, si tolse le calze, ebbi
la ributtante sorpresa del suo segreto. Aveva ragione di custodirlo
gelosamente! Indovina?

— Parla!...

— Le sue gambe... erano di scheletro...

— Di scheletro?! — chiese meravigliato e sorpreso Evaristo.

— Pur troppo!

— È orribile... — disse Evaristo aggrinzando il naso ed allungando le
labbra strette...

— Ed era, pur troppo, la verità... Non coscie, non polpacci, nulla...
Tutto ciò sarebbe stato nella maglia preparata. Solo degli orribili
stinchi da chiudersi tra il pollice e l’indice. Quando si rizzò su la
persona, temetti che que’ piedi, tutti fatti d’ossicini, di pezzetti,
si dovessero disgregare, sotto il peso della testa, proporzionata e
stupenda e sotto il busto ampio, ricolmo e leggermente vermiglio. Ora
capivo la collera della signora mancandole la cameriera solita, custode
esperimentata di quel segreto che propalato da una indiscreta, le
avrebbe tolto tanto fascino sul pubblico... perchè l’arte è bella, è
grande; ma quando a farla è una donna, si cerca anche la femmina.

— In verità, Hulda, io non ti avevo mai udito parlare a questo modo...

— Non meravigliartene, girando il mondo sempre qualche cosa s’impara.

Per parecchie sere, continuai in quella mansione di cameriera, e la
signora se ne mostrava contenta.

Ora ascolta. Il direttore d’orchestra e proprietario della compagnia,
non mancava mai tra un atto e l’altro d’abbandonare lo scanno e
correre, proprio correre in camerino presso la signora che era sua
moglie... dicevano con qualche ironia gli altri, compreso mio padre che
i misteri di quel teatro conosceva tutti.

Quell’uomo, forte, brutto, antipatico, non mi staccava mai gli occhi di
dosso, e io tremava nel vederlo.

La prima donna che s’accorse del fastidio, dell’imbarazzo, del
turbamento che mi dava la di lui presenza mi rassicurò dicendo che
egli era così con tutti, e che anzi ci voleva a capo di una compagnia
di operette un uomo simile, altrimenti la compagnia sarebbe andata a
rotoli; perchè ci voleva un tipo come quello per tenere a freno certi
artisti cani e certe coriste sgualdrine.

Io ebbi trenta lire di regalo dalla signora e ne fui contentissima, più
contenta ancora, che tutto fosse finito per lo meglio. Ma un giorno,
prima che la compagnia partisse...

Evaristo nuovamente toccò il bottone e comparve il vecchio servo.

Questa volta finalmente ordinò quello che prima si era pentito di voler
fare, per non parere d’arrendersi tantosto.

Ora un nuovo senso, diciamo così di pietà, cominciava a possederlo. I
casi di Hulda lo interessavano e se non potevano riaccendere l’amore,
preparavano una scusa alla simpatia che è indistruttibile e alla
vittoria del senso che è troppo umano per non seguirla.

— Porta due tazze di caffè.

— Permettete... permetti che te lo offra? Io aspetto ancora
l’impossibile, aspetto che tu abbia ragione...

Hulda respirò con una scossa, approvando Bess in cuor suo. Le pareva,
anzi era convinta che sarebbe riuscita a riconquistare l’affetto di
Evaristo, a tornare le cose come prima.

— La compagnia intanto aveva finito la stagione. Eravamo all’ultima
recita — sai, disse mio padre, il direttore (sono un po’ consuetudini)
mi ha invitato a cena, per dopo l’ultima recita... e la signora
desidera tanto che ci sia tu pure. Io dissi di sì — Questo invito
non mi piaceva per nulla; ma pensando che c’era in compagnia nostra
la signora, e che mio padre sarebbe andato ad ogni costo, risposi: —
Verrò.




CAPITOLO VI.

L’antiquario di Toledo — L’idillio indimenticabile — L’alba maledetta


A questo punto, riteniamo utile insieme e più spiccio, riassumere noi
stessi direttamente, in un capitolo, quanto disse di più interessante
Hulda nel suo dialogo pure attraverso il lume della speranza, sempre
angoscioso.

Hulda, non guardata da una madre, di quelle cui stiano a cuore le
figliuole, e così mal guardata da un padre come quello che aveva per
sua disgrazia, si manteneva tuttavia, malgrado i suoi diciassette anni
e la fioritura di uno sviluppo esuberante, si manteneva, tuttavia,
nello spinoso sentiero della virtù.

Nulla ancora riusciva a far di lei una delle tantissime precoci
disgraziate che troviamo sul lastrico delle grandi città, dileggiate
vittime, le quali si avviano alla più turpe degradante miseria.

Attraverso a tutte le seduzioni, le tentazioni e le debolezze, malgrado
tanta congiura di luoghi e di momenti, e tristo esempio di inevitabili
compagne, essa resisteva invulnerabile e trionfatrice.

Chi operava il miracolo?

L’amore.

Hulda infatti si era tacitamente fidanzata con un giovane, del quale
diremo in appresso, che la ricambiava d’affetto ardentissimo. Era
quello, in entrambi, un amore profondo e santo, che doveva poi nel
matrimonio toccare la felicità e perpetuarsi.

Questo amore dava ai due giovani quell’elevazione dell’anima che è il
pegno inalterabile della reciproca fedeltà.

Nè lei, Hulda, avrebbe rimosso dal suo proposito uomo alcuno, nè
lui, Riccardo Carassale, avrebbe attirato a sè altra donna per bella
che fosse stata, per dovizie che avesse posseduto. Erano decisi, e
guardavano, serenamente intesi nel desiderio, il loro avvenire di una
modesta agiatezza, ma tutto pago di sè, tutto radioso d’amore.

Vivere l’uno per l’altro, l’un per l’altro soffrire e sperare; ecco
l’amore; così lo sentivano.

Riccardo Carassale aveva sei anni più di Hulda e faceva con buon
guadagno l’antiquario in via _Toledo_... quasi, perchè da questa al
negozio, non c’eran che pochi passi, dietro l’angolo di un palazzone
antico, il quale sul davanti, in omaggio alla vetusta nobiltà, non
aveva botteghe.

Quella di Riccardo Carassale era un adattamento, moderno, una
concessione di eredi, per volgere di tempi fatti più positivi, e con
più vetusta nobiltà meno signori.

Hulda, allora Concetta, trovava spesso il pretesto, anzi non ne aveva
pur di mestieri, di passare per via Toledo, attraversandola proprio in
quel punto che metteva più vicino all’_Antiquario_ e visitarlo.

In quel negozio, Riccardo ci si era allevato, consolando più che come
un buon commesso, come un ottimo figlio il padrone di esso don Antonio
Percucco, tanto che il vecchietto lo lasciò erede del fatto suo.

Riccardo non aveva conosciuto nè padre nè madre e, per una abitudine
contratta da bimbo, chiamava _nonno_ il vecchio che lo aveva allevato.
Più volte da giovinetto gli aveva chiesto notizie dei genitori suoi,
e sempre il buon vecchio gli rispondeva: Sono morti che tu eri piccino
piccino.

Il ragazzo cresciuto con questa idea e nella gran buona fede che gli
ispirava il vecchio, s’era inchinato alla sua sorte, rassegnato al suo
destino. Diceva qualche volta tra sè: Meglio non averli conosciuti
quasi, che vivere adesso col timore di perderli. Gli pareva che se
avesse vissuto sua madre e avesse dovuto assistere alla sua fine, per
l’amore che le avrebbe portalo, lo schianto lo avrebbe ucciso.

Così pensano i figli che più non hanno o non conobbero madre; quelli
che possono proferire il dolce nome, ahi, pur troppo, tante volte, non
rifuggono dal farle piangere, dal contristarle con ogni più crudele
amarezza!

Riccardo non mancava di coltura e seguitava a studiar sempre un poco
ogni giorno, nei ritagli, quando non aveva dinanzi la sua Concetta o
doveva trattare qualche affare di compra o di vendita con i clienti,
che lo visitavano spesso. In lui era rimasta indelebile la massima del
«nonno»: più si è istruiti e più si è buon antiquario.

L’avvedutezza, le buone compere, i prezzi appropriati aiutavano di
giorno in giorno lo sviluppo commerciale di Riccardo e lo ponevano in
grado di guardare fidente nell’avvenire che per suo sogno roseo doveva
dividere con l’adorata Concetta.

Egli non vedeva che lei; ormai ella ne possedeva la mente, il cuore,
ogni facoltà dell’anima.

E Concetta non istava in ozio mentre amoreggiava in bottega. Puliva,
ordinava, rassettava, chiedeva schiarimenti al fidanzato. Faceva,
diremo così, la sua pratica, si presentava al tirocinio per diventare,
in un giorno che non sarebbe lontano, una espertissima padrona.

Una volta, aperto un grande stipo, ne levò fuori parecchi quadri ad
olio.

Li spolverò per bene tutti e poi li rimise al posto... meno uno: un
busto a olio al naturale, con una gran cornice dorata semplice ma
artistica.

Era nel retrobottega, chiaro alquanto per la luce blanda che riceveva
da un gran cortile. Concetta collocò per bene il quadro, sopra un
tavolo, poi corse di là, con queste parole:

— Riccardo, Riccardo, vieni a vedere... ma tu non sai nulla... come
questo quadro ti assomiglia!

Il giovane andò, diede una lunga occhiata alla tela e poi disse:

— È vero — e stette pensoso.

— Quando sarai più vecchio, potrai dire che è il tuo ritratto... Non ti
pare?

È vero, rispose ancora con semplicità preoccupata Riccardo.

Poi, i due fidanzati si baciarono.

Ci fu un momento di silenzio. Dopo Concetta disse:

— Che fantasia mi viene, Riccardo!

— Che è?...

— Mi par di vedere tuo padre... che ci benedica...

— Mio padre... è mo...

Concetta non lo lasciò continuare; gli coprì la bocca con un altro
bacio lungo, tutto caldo di passione che dal cuore le veniva a fremere
vibrante su le labbra.

Strano contrasto, quello di due creature giovani e amanti, in quel
retro bottega povero di luce e ricco di cose morte.

In un angolo, tutta una armatura in ferro collegata. Speroni, gambali,
cosciali, corazze, barbuta. Spada sul fianco e scudo al braccio e
lancia in pugno... Un guerriero... ossia le spoglie di tale che avrà
combattuto al grido di S. Germano glorioso e di Svezia. Ma dentro di
quella corazza non era più palpito, nè dai fori di quella celata più
occhio sanguigno guatava.

Più in là un cardinale, tutto rosso nell’ammanto, tutto bianco nei
capelli e nel pizzo.

Più in là ancora uno specchio in purissimo stile; di un’ovale grande,
e con capricciosi sopporti e nicchiette e mensole per i belletti
e i profumi; e di contro un’altra tela, un busto di aristocratica
incipriata, procace nel neo e nel sorriso, che nella pulita lastra si
specchiava ancora.

Poi sopra scaffali, cofanetti e tabacchiere e orologi d’altri
tempi, ove la miniatura paziente aveva profusa la dovizia de’ suoi
tesori minuscoli. In questo lusso di cose vecchie più semplici, ma
incomparabilmente più superbe, si levavano le statuette che sapevano i
secoli sotto la lava e che da Ercolano e Pompei eran riuscite alla luce
per narrare i fatti dolorosi del Vesuvio.

E poi ancora, azze, spadoni, picche, alabarde, candelabri, stocchi,
archibugi e pistoloni cesellati e ricurve lame ottomane scintillanti
e di Toledo, lunghe cedue lame sottili. E ancora un incensiere, una
mitria un gran teschio d’avorio...

                                   *
                                  * *

Come se su quel bacio fosse pesata la dolorosa fatalità dell’ultimo,
Riccardo, l’indomani alla consueta ora, non vide Concetta e per quanto
l’andasse cercando, non gli riuscì di vederla più.

Con sospiri e spesso non senza lagrime Hulda aveva narrato a Evaristo
quanto noi succintamente esponemmo.

L’invito del direttore d’orchestra a quella cena alla quale la
fanciulla andava con ogni fiducia, era avvenuto proprio la sera di quel
giorno, perchè la tavolata di addio, avesse luogo nella notte...

                                   *
                                  * *

I commensali, riuniti in una gran sala a terreno dell’Albergo dove il
maestro con la signora avevano pure l’alloggio, i commensali di vario
genere e di assai disparate età, erano molti.

In complesso dei tipi allegri d’una moralità un po’ elastica gli
uomini, d’una moralità un po’ scollacciata le donne; in maggioranza
coriste, con ancora su le guancie la truccatura della scena e con gli
occhi ingranditi e profondi per bistro.

La cena fu allegra sempre; spesso di un’allegria sguaiata, chiassosa
ed insolente, alla quale Concetta non prendeva parte. Rideva e
s’attristava. Ecco la sua alternativa di spirito. Ella avrebbe voluto o
non essere là, o aver almeno vicino il suo Riccardo. E allora si faceva
seria, come si faceva seria, quando guardava la prima donna, bella,
dalla voce bellissima e ne pensava il segreto doloroso.

Il maestro, losco e prepotente anche nell’allegria della mensa, sedeva
tra Concetta e il padre di lei, e li incitava ogni tratto di non far
complimenti ad essere allegri e per aver l’allegria a bere. Ed egli
mesceva loro, mesceva sovente e con generosità...

Alla fine, dopo il caffè, dopo diverse bottiglie di orribili liquori,
libere, sfrenate in atti e parole, si ritirarono le coriste con gli
amanti; si ritirarono due vecchi attori un po’ brilli e rimasero
davanti a quella tavola sudicia e disordinata e come travolta da
un soffio di tempesta, Concetta e suo padre, il maestro e la...
chiamiamola così, sua moglie.

— Finalmente un po’ di quiete! — disse il maestro sbuffando — Se n’è
andata tutta quella canaglia... Ora beviamone da per noi un goccetto in
santa pace.

Le due donne protestarono, dissero che bastava, che era l’ora di
ritirarsi; ma i due uomini non vollero saperne e le costrinsero a
mandare giù un altro pochino...

— È di quello che non se ne beve tutti i giorni e che mette a posto lo
stomaco — diceva con gli occhi lustri il macchinista. E rivolgendosi
alla figlia: — Bisogna profittare, oggi. Domani la Compagnia parte,
e direttori come questo... come il signor Tebaldo, non ne capitano
spesso...

— Ne convenite, è vero?

— Ma perbacco! questi sono uomini! — E gli batteva confidenzialmente la
grossa mano un po’ tremante su la spalla...

Trascorse ancora qualche minuto in discorsi inutili. Poi la signora si
alzò.

— Io sono stanca e vo disopra a dormire...

— Già?

— Sì, tu... che aspetti a venire disopra? — Ma senza pure attendere la
risposta, salutato il macchinista e la figlia, augurandosi di presto
ritornare a Napoli, accesa una candela, con essa si allontanò.

Malgrado Concetta vi si opponesse, ed anche con frasi risentite, pure
il mastro seguitava a far bere il di lei padre, che rispondeva agli
avvertimenti della figlia:

— Comando io; tu devi tacere. Io mi regolo da per me.

La ragazza se ne infastidiva e indispettiva non poco, tanto più che,
non abituata a tali cene e a tal’ora ed a libazioni promiscue, non di
sua consuetudine, sentiva ora un certo malessere, una certa pesantezza
alla testa.

Erano trascorse le due e mezza dopo la mezzanotte, quando finalmente si
alzarono.

Don Gennaro, il macchinista, si reggeva a stento sulle gambe.

Il direttore d’orchestra volle (quel che voleva fin dal principio)
accompagnarlo a casa.

I ringraziamenti «basto da per me» e i «non si disturbi» di Concetta,
non valsero a trattenerlo...

— Io non abbandono un amico in questo stato, insisteva il grosso
maestro. Ho il dovere di aiutare la figlia a ricondurlo...

Il vecchio sentiva adesso, sotto il braccio della figlia e dell’altro,
che il terreno si moveva a larghe ondate d’intorno, e che gli scarsi
fanali avevano un chiarore che dava il capogiro... Incolpava di ciò
l’essersi alzato da tavola prima di aver fatto la digestione. E il
vino... il vino si vendicava con quelli scherzi. Tutto per la figliola
del resto... perchè era un buon padre e voleva ricondurla a casa
presto... Meno male che c’era il maestro, un caro amico... un uomo
di quelli ai quali si dà volentieri anche il cuore, se lo potesse
strappare di petto... Quello era un uomo, non l’antiquario... Un coso
che, tanto giovane, aveva già una serietà di uomo _abbasato_, e che non
lo invitava mai a bere un bicchier di vino...

Era quello il rispetto che portava al suocero?

Con questi ed altri bislacchi pensieri, dondolando a destra ed a manca,
e spesso sputandosi addosso e con le palpebre abbassate e pesanti, don
Gennaro potè finalmente riporre piede in casa...

Concetta si sentiva stanca in modo come non si era mai sentita, e aveva
a tratti uno zuffolio sottile nelle orecchie e sentiva caldo e il busto
le dava una grande oppressione...

Quell’aria della sera, le faceva male... e il sonno e l’arsura e
l’oppressione aumentavano. Lei non c’era abituata ed ora più che mai
detestava quelle cene e giurava a sè stessa che la prima sarebbe stata
anche l’ultima. C’era cascata quella volta e pel babbo; ma no, non ci
cascherebbe più.

Fu non poca fatica far salire le scale a don Gennaro. Per fortuna
non erano molte. Andarono in fondo al ballatoio, stretto e sudicio e
poterono una buona volta entrare in casa.

Quivi accesero una lucernetta poi il maestro e la giovine condussero
don Gennaro presso il letto.

Senza spogliarlo, così come stava, quasi un corpo inanimato, ve lo
spinsero sopra... Il vecchio che non parlava, che non balbettava
neanche più, diede, quando fu coricato, quasi un grugnito di
soddisfazione... Un rigurgito di vino e di liquori, dalla bocca fetente
gli si riversò sul petto...

— Ora — disse l’altro — meglio di così non può stare. Lasciate che
riposi. È un po’ di vino...

— Ma se gli facessi bere qualche cosa di caldo? Voglio accendere il
fuoco...

— Inutile, inutile tutto. Non vedete, cara, come dorme? È tranquillo
come non è mai stato... Tante volte il vino può far male a...
chiunque...

— È vero... è vero...

— Non vi pare, _bella_ Concetta?

L’aspetto nauseante del padre, — le aveva sconvolto lo stomaco...

Dal letto un rivolo rosso, un rivolo di quel vinaccio, cadeva denso,
quasi filamentoso sul pavimento.

Nella fanciulla, già indisposta, già infastidita, cresceva la nausea...
Comunque si fece violenza e parlò...

— Signore, tante grazie della sua premura per noi... Ora sto
tranquilla... perchè sono in casa... Grazie, vada anche lei a
riposare... Siamo stati troppo... a tavola... quei cambiamenti di
vino...

— Se non avete quasi bevuto?!

— ... quel rosolii... quei liquori forti... ho la testa che mi gira e
mi martella...

— È niente, è niente, andate a letto... ecco tutto...

Concetta, s’appoggiò alla spalliera della sedia, ma cadde a sedere...

— Non mi... alzerei più... se ne vada... Io dormo così...

— Così? ma neanche per sogno. Andiamo che vi accompagno di là... nella
vostra cameretta...

La giovine con uno sforzo si alzò...

Il maestro la sorresse sotto le ascelle...

— Mi meravigliavo di mio padre... è strana questa... e poi sono
ubbriaca... sì, sono... ubbriaca io... Non vede... che non mi reggo?...

E si mise a ridere, d’un riso che sapeva di pianto, un riso che aveva
il senso d’una angoscia lontana...

Rideva la bella bocca ed eran lagrimosi i begli occhi.

— Via, andiamo — disse il maestro sospingendola un poco... andiamo
nella vostra camera... siate buona...

— Andiamo — balbettò e mosse, tendendo un poco le braccia in avanti,
come per premunirsi all’idea di poter cadere...

— Non temete, io vi sorreggo, io vi voglio... tanto bene... avete il
collo bianco...

— Si soffoca nel busto, e dondolò la testa...

— Adesso, adesso, Concetta.

Entrarono nella piccola camera, dove si vedeva a mala pena, chè la
lucernetta rimasta nella sala vi riverberava un barlume rossastro... Il
lettuccio nell’angolo rimaneva al buio...

— Per favore... il lume — chiese Concetta. — Come mi gira la testa...

— Non temete, lasciatemi fare... Io vi voglio bene tanto...

— Grazie... vada...

— Ma no... vi aiuto... Non ci riuscite a coricarvi... Resterete su la
sedia...

Più che svestita, discinta, Concetta fu aiutata a salire sul letto...
oramai fatta immemore e oppressa dall’insolito vino e dai liquori di
quella sera...

— _Stai_ meglio Concetta, così?

— Meglio... — rispose appena chiudendo gli occhi, già pesanti e
fastidiosi e allargando le braccia, come per immergersi con tutto
l’abbandono nel sonno.

— Concetta..

— Dormo...

— Concetta...

— Addio...

Dopo qualche minuto, il maestro chiamò ancora:

— Concetta...

Silenzio...

— Ah, queste no, bella, queste non sono _quelle_ gambe di scheletro...

La fanciulla, come riscotendosi, e mettendo un sospiro tronco, balbettò:

— Ri... car... do...

                             . . . . . . .

Il maestro s’allontanò ebbro della sua vittoria.

Tutto come aveva prestabilito; tutto a seconda!

                             . . . . . . .

Quando a giorno chiaro, Concetta aperse gli occhi su lo scompiglio e
l’orrore di quella notte, balzò di letto in camicia mettendo un urlo
formidabile.

Il destino che ella aveva temuto si era fatalmente compito... Tutto
vide... capì tutto... Tutto comprese ora con la mente snebbiata quanto
fosse necessario per conoscersi in quel punto.

Corse nella stanza del padre...

Don Gennaro russava sempre immollato nel suo vomito ammorbante.

La figlia, con gli occhi rossi, i capelli disciolti, il seno in
tumulto, levò i pugni davanti al padre dormente, urlando su di lui:

— Che tu sia maledetto!!




CAPITOLO VII.

Hulda e Guy Stein — Un mutamento troppo rapido — Ciò che dovrà seguire


Evaristo aveva ascoltato il racconto di Hulda fino a questo punto,
senza batter palpebra e tutto fisso, più ancora che con lo sguardo, con
l’anima in lei.

Ne attendeva con ansia la chiusa combattuto da opposti pensieri al
disopra dei quali l’antica, o meglio la prima simpatia, stava già per
riportare vittoria.

Hulda, fatta ormai più fiduciosa, continuò:

— Da quella mattina, da quella fatale mattina, in cui conobbi il
baratro in che, quasi senza mia colpa, ero caduta, da quella mattina
mio padre e Riccardo non mi videro più.

— Abbandonasti tuo padre ed il tuo fidanzato?

— Di mio padre, non parliamone, ma quanto a Riccardo, tanto era
sincero e profondo l’amor mio per lui, che non ebbi più il coraggio
di comparirgli davanti... Per virtù stessa del mio amore, sentivo
che ne ero diventata indegna e non dovevo aggiungere al mio dolore il
delitto di ingannarlo. Così, dovevo castigarmi. Castigarmi da per me,
condannandomi a perderlo. Io non ardirei di levare gli occhi in faccia
a lui, neanche se mi pagassero un milione!

— Un milione?! — fece Evaristo, come interrogando sè stesso.

— Ma che milione? rincalzò Hulda — neanche se risuscitasse la mia
povera madre... quella santa che mi è mancata troppo presto e per la
qual cosa, mi trovai... come mi trovai. Riccardo mi cercò invano, e con
lui mi cercò invano mio padre che della perdita deve essersi consolato
ben presto, abbrutendosi di giorno in giorno sempre più... avendo
acquistata la libertà e dovendo pensare solo a sè stesso.

— Immagina tu, la vita di una fuggitiva e... di una fuggitiva come me,
a diciotto anni appena...

— Un agente teatrale mi tenne qualche giorno con sè, poi sazio, per
liberarsene, mi fece scritturare in una compagnia di Operette. Una
figura come la tua, fa risplendere la mia — diceva lui, e intanto di
quella figura si liberava...

— Di viaggio in viaggio, di vicenda in vicenda, capitai qui a New-York,
o meglio qui nelle vicinanze, dove la compagnia si sciolse... Rimasi
a spasso, vivendo insieme di privazioni e di vergogna... Un giorno,
una notte anzi, credetti di aver trovato finalmente un uomo forte e di
cuore...

— È permesso? chiese il servo con la sua voce nasale dal di fuori.

— Avanti.

— L’avvocato Gasperal ha bisogno di parlarle...

— Che cosa vuole quel... quell’avvocato?

— Desidera di vedere il signore...

— Digli che passi fra un paio d’ore...

— Glielo dirò, ma badi che mi ha raccomandato l’_urgenza_.

— Anche l’urgenza?

— Vado un momento e torno — disse volgendosi a Hulda che chinò la testa
in segno di assentimento, con lentezza signorile.

Evaristo passò nell’altra stanza e visto l’avvocato gli stese la mano
dicendo:

— Che cosa vuoi? Presto, chè ho fretta.

— Hai di là qualche donnina?

— Ho di là chi mi pare e piace. Che cosa vuoi? Alle corte...

— Proprio alle corte? Senza neanche un po’ d’esordio? senza un po’ di
preambolo per disporti?

— Parla, perbacco!...

— Prestami cento dollari.

— Potevi dire _altri_ cento. Era il miglior commento, è un quasi segno
di... memore gratitudine.

— Quante storie! Te l’ho già detto che quando avrai bisogno di me...
Credi che non si debba addivenire a un saldo?

— Almeno lo spero... — Così dicendo levò da un piccolo forziere il
denaro, e lo porse all’avvocato.

— Prendi e vattene.

— Prendo e... obbedisco. Buon dì.

— All’occorrenza, sarai un utile birbante illuminato e cieco — disse
fra sè Evaristo, rientrando nel salottino dove Hulda attendeva.

— Eccomi... _signora_.

Quel _signora_ turbò nuovamente Hulda, che riprese il suo dire con la
cera tutta animata di passione presente e di dolore, per quei ricordi.

— Quell’uomo di oltre quarant’anni, di una ben strana, anzi sinistra
figura, mi tenne presso di sè, in un quartiere...., sai? dove mi
vedesti quella sera.

— È sempre quell’uomo? Gli sei bene affezionata.

— Aspetta. In quella casa che di fuori aveva ed ha un ben misero
aspetto, non mi mancava nulla. Ebbi biancheria, vesti, riposo, cibo...
Stetti quasi un mese con quell’uomo che non mi piaceva ma che mi
dominava. C’è qualche cosa in lui, che quando gli ero presso, io non
vedo più che per la sua volontà. Considera poi il bisogno...

— Ma quando il bisogno cessò, quando trovasti in me colui che pensava a
tutto, e a cui tutto tacesti, perchè non lo abbandonasti?

— Abbandonarlo?! E tu credevi dunque che fosse facile? Tu credi dunque
che egli sia un uomo come tutti gli altri?

— Ma perdio! — urlò Evaristo mostrando i pugni — chi è quell’uomo?

— Te lo dirò, ma calmati. Ascoltami paziente. Queste cose non
addoloreranno mai tanto te, quanto me addolorarono. Perchè io non
ti ho conosciuto prima? Abitando io quella casa, in quel quartiere
conobbi finalmente con chi avevo che fare... Guy Stein, quell’uomo,
era con Bill Oward uno dei due più potenti, in quel gruppo di casaccie
luride. I due eran nemici, e si disputavano il possesso, la padronanza
assoluta, di tutti gli altri, uomini e donne. Due principi nemici, e
due nemici da anni ostinatamente implacabili.

Quante cose ho veduto nella casa di Guy Stein! Quante volte avrei
voluto fuggire quell’uomo, ma lo temevo come lo temo sempre, troppo,
troppo, o Evaristo. Io che ho avuto il coraggio di abbandonare mio
padre, io...

— Ma in fin dei conti, che cosa fa questo Guy Stein?

— Che cosa fa? Egli, è là in quel quartiere il capo temuto, terribile,
di una banda d’uomini di ogni età e di ogni paese che a lui sono
stretti, vincolati, che da lui dipendono... Essi operano secondo le sue
indicazioni, obbedendo ciecamente ai suoi comandi.

Rubano, e per rubare non conoscono ostacoli...

Maneggiano le armi... Escono col favore della notte... Seguono e
studiano anche per mesi le loro vittime... Essi però mi rispettarono
sempre. Guai se uno di loro avesse ardito d’alzare una mano su di
me... che mi dico? di sorridermi soltanto, guai! Non avevo prima
d’ora idea di figure così perfide e così schiave... quell’uomo li fa
tremare tutti. Essi in quella casa dove non vivono, ma dove si adunano
e vengono a deporre il furto e a prendere ordine, essi hanno armi,
travestimenti, barbe, ed un vecchio cieco, di oltre ottant’anni, padre
a Guy Stein, istruisce i giovani, che lo rispettano, che hanno quasi
una venerazione per lui...

— E un tale uomo, ti ha permesso... permette, che tu viva distaccata da
lui? E non sa nulla, di me? dopo tanto tempo?

— Sa tutto, e lo permette, anzi, guai se ti lasciassi, me lo ha detto
egli stesso!

— Ma io casco dalle nuvole. Quella canaglia _permette_?! Quella
canaglia è un mio _protettore_?

— Un giorno — riprese Hulda facendo cenno ad Evaristo di calmarsi a sua
volta — un giorno, dopo qualche settimana che eravamo insieme, egli mi
disse:

— Ora sei alimentata e florida, hai biancheria, vesti, oro, e
sopratutto sei giovane e bella. Tu non devi stare qui. Il tuo luogo
è nella buona società, dove potrai occupare un posto magnifico. Io ti
proteggerò sempre. Non sei la prima di cui abbia fatto la fortuna...
Tu, alla tua volta, ti ricorderai di me, intendi? A te del denaro
ne avanzerà sempre e... quando ti scriverò... mi verrai a trovare.
Ricordati che qui c’è sempre la tua casa, quando tu non ne abbia una di
tuo... mobigliata bene, ben messa, come meriti... Sopratutto lascia i
giovinotti... Cercati una persona di giudizio e ricca.

Dal giorno che io ti conobbi, Evaristo, e che tu fosti meco tanto
indulgente e tanto buono, da quel giorno Guy Stein, spilla tutto il mio
denaro...

Io sono carica di debiti... e non mi riesce levarmi di dosso il
giogo di quell’uomo che non scherza, che non promette invano. Ti
troverebbero, egli mi disse congedandomi... ti troverebbero una bella
mattina con un pugnale nel petto... — Perdonami e salvami! — Così
dicendo si buttò in ginocchio supplicante. I begli occhi irrorati di
lacrime, più che domandare la pietà, starei per dire la imponevano.

— No, no, alzati Hulda, alzati — e in così dire l’aiutò. — Tu sei
una vittima e io ti perdono.... Ad un patto però: che d’ora innanzi
regni fra noi due tutta quella confidenza completa che ci mancò nel
passato. A non avvertirmi di Guy Stein hai fatto troppo male. Io potevo
sbarazzartene; mi credi così da poco da non poter riuscire?

— Evaristo, io temevo anche per te.

E in fin de’ conti quest’uomo è uno di quei ladri famosi che la
giustizia non arriva mai ad acciuffare?

— Uno di quelli.

— E ha un rivale di mestiere in Bill... come hai detto?

— In Bill Oward.

— Precisamente.

Se in quel punto Hulda avesse fissato Evaristo negli occhi, li avrebbe
visti illuminati da un lampo. Avrebbe visto anche le sue labbra
abbozzare un sorriso e nello stesso istante contenerlo e spegnerlo.

Che cosa era passato per la mente di quell’uomo che aveva poi finito
per essere così pronto al perdono chiedendo solo confidenza?

— Hulda mia, baciami, siamo più amici di prima. Tu hai su di me un
potere al quale io non so resistere.

Ora, va a casa dove Bess ti aspetta, io lo so bene, col cuore fra
le spine... Consola quella povera vecchia... Domani, tu verrai qui a
pranzo. Domani riprenderemo la gaia vita di prima... Tu mi vorrai bene,
tanto e sempre e con la massima sincerità, non è vero?

— Tutta tua, tutta tua per sempre — disse Hulda, e gli si tornò a
buttar fra le braccia.

— Questa sera sei libera completamente... Va a trovare Guy Stein.

— Come?! — fece Hulda scattando, ma non mi avevi detto...?

— Questa sera vallo a trovare come tutte le altre volte e che egli
non si avvegga menomamente di quello che è passato fra noi. Questo ti
domando, non me lo concedi?

— Quando lo desideri...

— Lo ordino... se vuoi la vittoria.

Dopo che Hulda fu uscita, Evaristo incrociò le braccia e disse con fare
sarcastico:

— Poichè il caso vi ha messo fra le mie mani, poveri furbi, io vi farò
servire tutti al mio scopo!

Chiamò il servo.

— Comandi.

— Va in piazza, cerca la _mia_ vettura... _numero tredici_ e dì al
cocchiere, che per questa sera alle ventidue si trovi al portone
e mi aspetti. Dopo di questo passa al caffè della _Stella rossa_.
Là troverai l’avvocato quello che fu qui stamane. Digli che ho
assolutamente bisogno che oggi egli pranzi con me. Venga, dunque alla
solita ora.

— Quando vado con queste ambasciate, se vedesse come è buono quel tipo!
Mi fa un _milione_ di complimenti.

— Già... un _milione_ che non si spende... Mentre i milioni devono
aver corso e... correre... Mio vecchio amico, non c’è che il denaro al
mondo... il denaro.

— Secondo i bisogni che si hanno — disse con bonaria filosofia il
vecchio.

— Io ne ho molti, caro mio... cioè... ne ho uno solo ma che serve per
tutti... Così un capriccio... essere il più ricco di America.

— Fosse pure, caro signor padrone. Io allora potrei vantarmi di
essere... il re dei servitori.

                                   *
                                  * *

Un pensiero ardito, arditissimo, possedeva ormai la mente di Evaristo.

Uscito il servo, chinò la testa ad occhi socchiusi, tutto assorto
nel suo vasto piano di battaglia, o diciamo meglio il suo piano di...
attacco al milione.

L’avvocato Gasperal, il banchiere Francis Webb, Hulda, Ben il
_cocchiere N. 13_, Guy Stein, Bill Oward, dovevano per suo mezzo agire,
come in virtù di un filo misterioso, e tutti insieme, senza che ad
anima viva trapelasse la doppiezza della cosa, dovevano dargli, lui
immune d’ogni pericolo, il milione, quel primo milione, base ai cento
che, coronando le sue strabilianti arditezze, lo avrebbero collocato
tra i ricchi americani.

Ora con infernale lucidità assegnava le parti, rendendole più che fosse
possibile facili, misteriose e sopratutto coerenti, rigorosissime a
filo di logica.

Bisognava condurre le cose in modo da poter un giorno rendere, sicuro,
rendere occorrendo e poterlo fare, senza compromettersi, (lì stava
l’abile segreto) a fronte alta, davanti a tutti. Rubare e non essere un
ladro davanti al mondo...

L’idea di rendere, nella quale stava tutto il suo trionfo gli dava il
coraggio di una operazione ardita come quella che aveva concepito.

In ufficio, con Francis Webb si comportò come sempre. Nulla,
assolutamente nulla, poteva sul suo volto ne’ suoi atti, nelle sue
parole dare il ben che menomo sospetto, intorno a quanto egli covava.

— Sei sempre in quella idea intorno alle ferrovie dell’Est? — gli
chiese sorridendo a un certo punto Francis Webb.

— Sicuro che lo sono. Se mutassi parere vorrebbe dire che prima avevo
pensato male.

— Dunque _insisti_ ancora?

— Non insisto più, ma sono di quella idea...

— Mi fai venir a mente Isaiah Wood.

A Evaristo invece venne a mente Cosmus White il futuro impiegato, il
futuro _factotum_ di Isaia Wood.

Gli venne a mente quel tipo di povero diavolo fatto per incanutire sui
registri, senza slancio e senza audacia, anima di commesso sì, anima di
commerciante, di aspirante alla grande fortuna, no. Tipi senza fascino,
tra gli uomini, senza ripieghi nelle disdette, senza sangue freddo nei
tracolli, senza calcolo e senza equilibrio in mezzo a l’oro. Di quei
tipi che poteva lanciarli il caso, ma che di lanciarsi non possedevano
la intima virtù.

Cosmus White era un buon figliuolo che non vantava neppure come pregi i
difetti meravigliosi e cocciuti di Webb e di Wood insieme.

Cosmus a Evaristo non dava altro pensiero che quello di vederlo senza
il primo impiego, lasciato pel secondo, più lucroso e... anche senza di
questo.

Lo avrebbe compensato in seguito. Le piccole pietà che gli si paravano
intorno, bisognava calpestarle e passare.




CAPITOLO VIII.

La consolazione di Bess — Un giornale di nuovo genere — La fine di un
cavallo


Bess, ch’era stata tante ore in pensiero, che si era già vista senza
pane e senza tetto in quell’età, alla buona novella di Hulda, aveva
mutato; ilare s’era fatta, giuocando come forse non aveva potuto essere
mai.

— Ed ora, per carità — ripetè con far solenne alla giovane padrona
— ora che la cosa è riuscita bene, per carità, non ricadiamo! non
ricadiamo!

— Questa volta, no davvero; non ci sarebbe più rimedio.

Quando però intese che Hulda, quella sera stessa, avrebbe dovuto per di
lui ordine tornare da quel gran mariuolo di Guy Stein, rimase alquanto
pensosa.

La sua esperienza, la sua diplomazia in simile caso si trovavano a una
prova che usciva dalle comuni; poi, maturate le riflessioni, conchiuse:

— Quell’uomo è veramente fino. Egli troncherà la cosa senza che l’altro
non sospetti neppure... Sta certo studiando lo stratagemma. Finalmente
ci leveremo di dosso quella condanna.

Hulda si mise a tavola e cominciò a mangiare con appetito... senonchè
guardando la cornice vuota, cui prima non avea fatto caso e che ora le
stava di contro pendente dalla parete, provò una strana sensazione che
la tenne qualche minuto in sospeso.

Tutte le cose del mattino, tutta la sua storia d’angoscie, le tornavano
alla mente con una insistenza dolorosa.

Da un pezzo non s’era data la pena di rivedere il suo passato, ma ora
purtroppo si accorgeva che il silenzio dell’anima non è l’oblio che
tante volte invochiamo.

L’oblio non esiste. Non può esistere. Tutto quello che è stato ritorna
ad essere quando una cosa esterna muove l’onda della memoria.

Da quella cornice senza effigie ella passava ad un quadro, a quello
di cui aveva scoperto la somiglianza con Riccardo Carassale, qualche
anno addietro, quand’era onesta e quando invece di un amante, aveva un
fidanzato che la stimava e che l’amava davvero...

Rivedeva il giovine bruno, pallido, taciturno, più taciturno del
solito, in quella bottega di cose antiche le quali per arte e per tempo
avevano acquistato valore.

Vedeva Riccardo rassegnato sì, ma pur sospiroso ogni tanto. Lo vedeva
qualche volta fisso dinanzi a quel quadro che di giorno in giorno lo
somigliava sempre più, riandare al mattino di quella scoperta, riandare
a lei, tutta candida nel cuore e tutta amorosa allora, e turbarsi di
passione al ricordo dell’ultimo bacio... Sicuro, sicuro, doveva essere
la fatalità di Riccardo, guardar sempre quel quadro ad olio... quella
faccia che lo rassomigliava. E tutto ciò era un caso o era il suo
mistero?

Hulda così sopraffatta da tanti ricordi che le avevano date tante
emozioni e tante umiliazioni, portò le bianche mani alle tempia
che le volevano scoppiare, così le martellavano forte, pianse come
una bambina, e più accorata pianse, quando s’accorse che in lei,
intimamente c’era ancora del buono.

Poi pensò alle molte cose dette con Evaristo e più specialmente
alle molte domande che le aveva fatto e, a qualcosa di ironico e di
malizioso che aveva scoperto in lui, che ci doveva essere stato anche
prima e che pure non era mai apparso.

                                   *
                                  * *

Evaristo, sempre con l’idea fissa al milione, ormai di più facile
raggiungimento, cominciava ad impazientarsi dell’indugio di Gasparal,
quando questi fu annunziato dal servo.

— Gasparal, Gasparal — disse Evaristo movendogli incontro — vieni!...
Come vedi, ho avuto bisogno di te più presto di quello ch’io medesimo
non mi supponessi. Ma sai? questione d’idee, e le idee quando vengono
bisogna coglierle a volo. Tu come avvocato...

— Io come avvocato — disse l’altro lungo, nervoso, un po’ curvo benchè
giovane — io...

— Tu, con denari che io ti darei, dovresti fondare un giornale...

— Mamma mia! Ma se ce ne sono già tanti! Ma se nel giornalismo anche a
essere disonesti si muore di fame!...

— Ecco — disse con subita gravità Evaristo — parlando con te, non
intendo di parlare a un genio, ma intendo di poter parlare almeno con
un uomo dotato di senso comune e con un avvocato magari della infima
classe. Non mi ripetere le sciocchezze che furono già lo spirito degli
altri!

Ascolta, e fa senno per mio e per tuo bene.

— Ma vedi che non sei giornalista e non te ne intendi? Devi sapere che
a fondare un giornale si fa presto, con denari, ma la diffusione? La
diffusione chi te la garantisce?

— Promettimi di non aprire più bocca, di non fare più il saputo... La
diffusione è precisamente quello che io... non cerco!

— Non cerchi?! Ma mi spieghi che razza di giornale vuol essere cotesto?

— Lasciami parlare sino alla fine. Il nostro giornale, cioè il tuo per
ora, sarà dei più semplici... un tipo italiano. Quattro _pagine_, una
delle quali come al solito di _réclame_ che noi non cercheremo.

Sarà in carta di lusso però resistentissima, dovendo avere il giornale
una durata superiore a quella di ventiquattr’ore e dovendo passare per
molte mani.

Comparirà come l’organo di pochissimi individui, dai quali deve
rampollare la grande compagnia per la costruzione della linea
dell’_Est_.

Io darò l’indirizzo e la luce per gli articoli opportuni. Del giornale
non si tireranno più di 500 copie....

— Soltanto?

— ... 500 copie che saranno numerate e costeranno un dollaro per copia.

Ma domanderanno chi è quel matto che ha fondato il giornale e chi
saranno quei pazzi che lo compreranno?

— Lasciami dire ancora...

— Parla, chè sei dilettevole...

— ... sono utile, come vedrai... Col primo numero, il giornale
stabilirà che un nucleo di inglesi si assume la costruzione delle nuove
linee...

— Sta bene...

— ... che il giornale è fondato come organo che rifletta liberamente,
palestra a tutti aperta, le idee così degli azionisti che di qualunque
altro interessato per via indiretta, come di ogni studioso, di ogni
tecnico e di qualsivoglia individuo della gran massa del pubblico. Avrà
per titolo: _L’Oro dell’Est_.

— Ma perchè non più di 500 copie ed ogni copia numerata?

— Ecco il motivo. Una impresa come quella dell’_Est_, tanto più col
ponte immenso e con la nuova città che deve sorgere intorno ad esso,
è cosa di importanza somma. Il nostro... il tuo giornale ne sarà la
storia, non solo, ma lo studio e la norma, per tutte, dalla più piccola
alla massima delle operazioni di commercio, ed ogni numero di giornale,
sarà una cedola al portatore che _noi rimborseremo_ a linea compiuta,
come diremo sul programma del giornale. Varrà sempre un dollaro.
I capitalisti, i facoltosi, gli studiosi di ogni genere, poichè le
copie non sono più di 500 se le passeranno fra loro, con operazione
commerciale e l’_Oro dell’Est_ andrà soggetto alle fluttuazioni, come
qualunque altro valore, come qualunque altro titolo.

Di tutti gli articoli che porterà l’_Oro dell’Est_ sarà interdetta in
termini di legge la riproduzione, e non si farà polemica, se non per
tutto ciò che sarà solamente pubblicato su l’_Oro dell’Est_.

— Ma se ognuno si contentasse, letto il giornale di passarlo a quei che
l’aspettano riprendendosi il dollaro, che ne avresti tu?

— Io, che ne avrei? Sta attento. Ci dev’essere un individuo ultimo al
quale rimanga il numero del giornale non più cercato?

— Sicuro.

— Ebbene, egli riuniti tanti numeri pel valore di un’azione, fa il
suo commercio di borsa, perchè le azioni salgono ed abbassano... Le
nostre saliranno indubbiamente, per modo che ridotta l’operazione
all’unità, il valore di un numero, cioè il dollaro, può crescere fino a
raddoppiare...

Questo primo piccolo interessamento lancerà l’idea... il resto delle
azioni verrà e immediatamente, perchè gli americani non permetteranno
per cento ragioni che l’opera colossale sia tutta compiuta con _oro_
inglese, come potrebbero sospettare che avvenisse, dove non fossero
pronti a rilevare le azioni.

— E quando i giornali saranno migliaia, pel maneggio? per l’_agilità_ e
la praticità commerciale?

— Semplicissimo. La quantità che raggiunge il numero di un’azione è
portata a noi che la bruciamo, rilasciando una cedola come tutte le
altre...

— E chi volesse conservare il documento per la storia, per gli studi,
per le collezioni?

— Tanto meglio, non è rimborsato e noi abbiamo un guadagno. La storia
costa, gli studii costano, le collezioni costano; perchè quei signori
non dovrebbero pagare tuttociò? Per dopo domani portami tutta la
materia del primo numero. Il resto faremo assieme. Stabilirai i prezzi
di stampa ed io pagherò tutto puntualmente perchè...

— ... perchè ci son sotto i capitalisti che pagano...

— ... i capitalisti? — ripetè con mal celata ironia Evaristo. Un’altra
cosa, caro direttore. Adesso va all’uffizio di pubblicità e fa
pubblicare su cinque giornali del mattino questo annunzio — Evaristo
scrisse a matita su un foglietto:

«Mancia di dollari mille a chi consegnerà — _ancora intatta la busta_ —
una lettera smarrita indirizzata: Bill Oward. Depositarla al consolato
Italiano. Se aperta la busta, è inutile la consegna e sciolto l’impegno
del premio.

L’hai perduta tu quella lettera?

— Sì.

— E perchè ti sta tanto a cuore?

— Perchè contiene tutta l’esposizione dettagliata d’un nuovo piano...
commerciale. Non vorrei che altri mi rubasse l’idea.

L’avvocato credette a quelle parole, dette con la massima serietà, ed
uscì per le sue incombenze, felice, non tanto d’aver trovato lavoro,
quanto d’averlo trovato, quale era, adatto nè più nè meno all’indole
propria...

— Tu sei a posto, pensò Evaristo. Poi penseremo agli altri.

Rimase seduto sopra una comoda poltroncina presso allo scrittoio, in
atto d’uomo che riposi indolentemente, ma nella realtà, cioè nel suo
interno, seguendo un filo d’idee che dovevano restare misteriose per
tutti coloro che egli adoperava al conseguimento del suo scopo. Il
milione bramato, quel principio che gli permetterebbe la sua vendetta
geniale e grandiosa, si avvicinava a gran passi.

Tutto si avviava a concretarsi per bene, ad annodarsi, a svolgersi, a
intricarsi, a sparire secondo la tela che egli aveva in testa.

Andò in ufficio come di consueto e disimpegnò le solite cose come ogni
altra volta.

Francis Webb, che capitò dopo di lui qualche minuto, narrò fra le
più grasse risate che Isaiah Wood, quella enorme foca, ingrassata
di coloniali, aveva delle strane velleità di intraprese. Di quelle
intraprese delle quali in passato non aveva mai voluto udire neanche a
parlare.

— E si tratta? — chiese con affettata noncuranza Evaristo.

— Si tratta... si tratta... imbrogli in fine dei conti; perchè tra
l’altro, o non si sa spiegare, o non vuole spiegarsi.

— Sei tu (pensò tra sè Evaristo) che non vuoi parlare; ma per me hai
già detto abbastanza. Te ne accorgerai.

Tacquero. Evaristo intanto verificò diversi documenti e stabilì sulle
date degli incassi, per qual data la cassaforte di Francis Webb,
ospiterebbe un milione libero, involabile, e sicuramente spendibile.

Si trattava di pochi giorni, proprio il tempo assolutamente necessario
per preparare con abilità, circospezione, sicurezza, il gran colpo. La
polizia?

Non avrebbe avuto nessuna traccia. E come pura intuizione, si sarebbe
trovata dinanzi al mistero.

Ricorderanno i lettori come Evaristo a mezzo del domestico avesse fatto
sapere a Ben, il cocchiere del n. 13, che lo aspettava per la sera.

All’ora fissata, quando cioè i fanali erano accesi, il portiere salì ad
avvertire che la carrozza attendeva.

— Eccomi — disse Evaristo. Prese il cappello, il bastone e scese; montò
quindi in carrozza dicendo al cocchiere:

— Andiamo verso _Fort Lee Ferry_, ho desiderio di una gran corsa e di
prendere tant’aria... Tocca, Ben!...

— Lasci fare e dorma tranquillo... Il suo Ben è qui per servirla...

Evaristo accese un sigaro fumando con voluttà un po’ nervosa.

Ora che si andava sempre più inoltrando nella pratica del suo
divisamento, sentiva rinascere la volontà di toccarne la fine, sentiva
raddoppiare la forza ed acuire l’astuzia.

Per molti minuti la carrozza attraversò strade popolose, dove il
movimento dei passanti era fitto in modo singolare, dove le carrozze
sgusciavano fra le carrozze, dove i trams, con l’imperturbabilità della
linea, mutavano al loro apparire, il movimento di prima, dove s’udivano
voci innumeri di venditori, di passanti, e dove le ricche botteghe
accese di sfolgorio mettevano, lungo il grande percorso, la nota del
colore e della dovizia.

Si districarono finalmente dal viavai inceppante, uscirono all’aperto
ed a tutto quel rumore successe solo l’altro del _N. 13_, che prima si
perdeva confuso e coperto dagli altri più sonori e soverchianti.

A un certo punto Evaristo ordinò al cocchiere di fermare, e scese.

— Scendi tu pure, Ben; scendi a sgranchirti le gambe, avevo proprio
voglia di venire a fare due passi, qui davanti a questa veduta
magnifica. Prendi, fuma... — e gli porse un sigaro, di quelli che Ben
fumava assai raramente e... quando non gli costavano nulla.

— Ora — disse Evaristo, accostandosi, e molto serio, a Ben — ora noi
due dobbiamo parlare di cose...

— Importanti? — domandò il cocchiere, che gli lesse nel volto malgrado
la semioscurità.

— Importanti fino a un certo punto... Non hai qualche anno per nulla, e
saprai che le donne... son donne...

— Lo sapevo.

— Dunque, per l’_amicizia_ che da qualche tempo corre tra noi, io ho
bisogno di un favore, e tu non devi negarmelo... Bene inteso col tuo
compenso...

— Io sono qui per gli amici, rispose Ben.

— Ti ricordi della donna di quella notte? Ti ricordi di quel caso
inaspettato, del grido della signora e della mia agitazione?

— Sì, mi ricordo ancora qualchecosa, ma, io di certe avventure non mi
preoccupo più che tanto.

— Ebbene, sappi, che quella donna, così poveramente vestita per
nascondere il vero esser suo, è una delle più nobili e delle più ricche
dame d’Italia...

— Delle più nobili e delle più ricche?!

— Vedi, qual donna? Essa non te lo ha mai lasciato neppur sospettare!

— Dev’essere di una finezza... Già, tanto fina quanto bella...

— Orbene, sai perchè quella donna si trova a New-York? Perchè mi ama.

— Ed amando un uomo... lo...

— Lo tradisce, vuoi dire? Hai ragione, ma se ti dicessi che quella
signora è innocente? che sulla sua virtù non v’è nulla a ridire?

— Mi pare un po’ strano.

— Anche a me parve strano, anzi impossibile, eppure! Quella donna è
una vittima, nient’altro che una vittima. La notte che io la sorpresi,
la notte che tu sai ed in cui mi aiutasti con tanta accortezza, fu
terribile, fu d’inferno. Ella aveva sempre taciuto di queste sue corse,
temendo per me; ora che il caso l’ha denunziata, mi confessò tutto.
Essa andava, indovina?

— ... dica — fece Ben, ansioso...

— A portare danari a Guy Stein, perchè viveva sotto la minaccia
del di lui pugnale e, non per lei sola... Anche per me, capisci?...
L’aveva incontrata un giorno, le si era posto alle costole e... sai
chi sono costoro... Ebbe il torto di tacere e quella veramente fu la
mia offesa... Credeva che io non riuscissi a liberarla? Credeva ch’io
non avrei saputo dare in mano alla giustizia Stein ora che ciò mi
interessava? Come se con i denari non si riuscisse a tutto!...

— È un fatto — sentenziò Ben — le donne, anche le più belle e le
più ricche, sono donne un po’ tutte; peccano dell’istesso male e non
pensano mai che ci può essere un uomo più forte del primo che le ha
spaventate e dominate.

— Magnificamente, Ben, tu sei molto intelligente.

E tra sè: Intelligente e stupido secondo che io ti voglia.

— Io sono uno che rispetta molto il signore. Diamine! Il mio più
lucroso cliente.

— Il domani di quella sera, io ho fatto pace con la signora... L’amo e
non ho la forza di star con lei in collera, tanto più avendo chiarito
le cose. Ma ho giurato di liberarla da quel furfante di Guy Stein...

— Non gridi tanto — osservò Ben.

— ... e tu, col tuo compenso mi aiuterai!

— In che modo?

— Con un servizio semplicissimo; non credere che io ti domandi dei
miracoli...

Devi sapere che la signora non può piantare Guy Stein se prima non
ricupera una cassetta di gioie che Stein tiene presso di sè.

Egli costrinse la signora a dargliele in pegno con minaccie e violenze
ed essa, per la sua tranquillità e per la mia, che non sapevo niente,
era giunta a tal punto di schiavitù. Ora se Stein è arrestato prima che
si ricuperi la cassetta delle gioie, le gioie spariscono. Chi le trova
più in mano ai soggetti che lo circondano?

Io ho studiato uno stratagemma.

— La cosa mi comincia a diventare difficile...

— Niente... niente di più semplice.

Io ho trovato uno stratagemma per cui la notte che ti indicherò, a
te che aspetterai nel punto che t’insegnerò io... verrà una persona,
oppure lui medesimo, Stein, e ti consegnerà la cassetta dei diamanti da
portare a me.

— Lui stesso?!

— Sì lui...

— E poi lo arresteranno?

— Sicuro.

— E se anche questa volta non riuscissero ad arrestarlo e lui si
accorgesse del tranello, il povero Ben, chi lo salverebbe? Chi è che
non trova la vettura _numero 13_? Chi è che non conosce il vecchio Ben?
Chi mi salva?

— È già tutto pensato, tutto disposto — rispose con gran calma
Evaristo. — Volevi che io ti lasciassi in mano del nemico? Sei pazzo?

— Perchè, badiamo bene; Guy Stein non è solo un gran ladro, s’intende
anche di arma bianca e d’arma da fuoco e poi ha tanta abilità e tante
braccia al suo comando che arriva da per tutto...

— Dimmi, tu sei venuto dal Canadà? Ritorneresti al tuo paese?

— Al mio paese? Così povero? Senza avere mai fatto fortuna in tanti
anni?

— Ah, no! Con la tua brava fortuna... in tasca.

— Lei ne ha sempre una di nuova...

— Sai perchè mi son fatto condurre qua?

— Per respirare un po’ d’aria libera...

— Te l’ho detto prima. Ora la cosa è diversa. Sta bene attento. La
notte che ti verrà indicata, avrai nel ripostiglio su cui siedi un
vestito nuovo che ti regalerò io. Quando tu avrai portato in casa mia
la cassetta coi diamanti (tanti preziosi per 60 mila dollari) io ti
darò 1500 dollari per te. Tu ritornerai qui, anzi un po’ più in là
su quel ciglione. Ti muterai gli abiti e poi girerai la carrozza e la
spingerai tanto tanto, finchè...

— La spingerò?

— Finchè la carrozza ed il cavallo non facciano il tonfo.

— Far morire il povero Gar?

— Silenzio. Dopo questa operazione... semplicissima, tu costeggiando,
scendi alla marina, t’imbarchi col biglietto che io ti avrò dato, o per
me Tommy se non ci fossi, consegnandoti anche i 1500 dollari e ritorni
al Canadà con la tua fortuna in tasca... Senza contare che anche là
io ti potrò assistere. Se il ladro sarà preso, tanto meglio; se la
polizia, anche questa volta non riuscisse, tu sei al sicuro e Stein,
quanto alla perdita delle gioie, data la disgrazia della carrozza
penserebbe che tu pure sia diventato una vittima a tua volta.

— E la signora?

— Non ci pensare; essa poi sarà sicura come non è stata mai.

— Ecco, noi siamo al mondo per aiutarci l’un l’altro; ma ammazzare...
far morire annegato questo povero Gar... che lavora da anni insieme con
me... è troppo...

— È necessario... Non si ammazzano tutti gli animali per l’uomo? La
lepre, la gallina, l’agnello, il bue, le anitre, i passeri, il leone,
la tigre, non hanno gli stessi diritti del cavallo? Allora sarebbe
inutile che l’uomo fosse il re degli animali... capisci? Del resto
io posso pregare un altro di questo servizio, per risparmiare il tuo
cavallo; vuol dire che 1500 dollari li guadagnerà un altro... Io come
vecchia conoscenza ho voluto offrire a te l’affare... se non vuoi...

— Ah, dopo tutto, questo piccolo servizio lo voglio e lo devo rendere
io.

— Hai capito perfettamente?

— Capito? Già... — continuò poi Ben, più sommessamente, accarezzando la
testa del cavallo che pareva tutto inteso a quel discorso — già, ci son
delle circostanze in cui la vita non si calcola, quando si tratta di
rendere un servizio a persone a modo.

— Inutile che io ti raccomandi il silenzio — disse Evaristo sgranando
gli occhi in faccia a Ben.

Questi, portandosi ossequiosamente la mano al petto, rispose:

— Sono cocchiere e tanto basta.

Evaristo aveva così svolto una parte del suo programma a base di una
sequela di menzogne intrecciantisi, ma non privo di avvedutezza e di
quella coesione, di quella preparazione logica, le quali sono tanto
necessarie ad eliminare sospetti, a precludere la via ad ogni dubbio.

I lettori avranno già indovinato l’intero sistema, e se qualche punto
rimanesse tuttavia oscuro, il seguito li persuaderà sempre meglio
intorno alla mente acuta, al progetto vasto e coerente di questo
aspirante a re delle ferrovie.

Non che un misero milione bastasse a realizzare l’idea grandiosa;
tutt’altro! ma era il minimo necessario a raggruppare, di fatto, tutte
quelle esteriorità e quelle pratiche necessarie, indispensabili a
rappresentare il principio di una vasta associazione _prima ancora che
esistesse_.

Tutto procedeva a seconda e ormai aveva anche calcolato con certezza
matematica per qual giorno il movimento monetario della Casa
permetterebbe di avere in cassa un effettivo immediato di contanti per
un milione.

Tutto quel movimento commerciale e bancario che ormai cominciava a
stancare e sgomentare qualche volta il suo padrone, egli lo aveva tutto
nella propria testa, funzionante netto e lucido, come un gran congegno
di orologeria, di cui gli indici con movimento regolare segnavano sul
disco numerato, il lavorio dell’interno, le fasi di entrate, di uscite,
di rialzi, di oscillazioni, di scadenze, attraverso alle quali lo
speculatore tesoreggia il tempo fatto moneta.

                                   *
                                  * *

Evaristo, che Ben aveva riportato a casa, cenò con buon appetito, poi
acceso un zigaro si chiuse nel suo piccolo ed elegante studio:

Scrisse una lettera abbastanza lunga di due pagine ma molto adagio,
quasi vagliando parola per parola.

Quando fu contento dell’opera sua, ricopiò con la macchina da scrivere
quella lettera, bruciò l’originale di suo pugno e chiuse in un cassetto
secreto la copia.

Che cosa aveva scritto? È quello che vedremo in seguito; per ora
occupiamoci dell’antiquario Carassale, dell’abbandonato da Concetta.




CAPITOLO IX.

Un’anima in pena — L’orologio di Mary — Un mistero dopo l’altro


Il tempo, che sana tante ferite, aveva potuto ben poco su l’anima
addolorata di Riccardo.

Vedeva è vero la sua Concetta sempre più lontana da sè, ma la vedeva
sempre, e più che tutto lo torturava la di lei sparizione così rapida,
così densa di mistero.

Aveva finito per evitar di vedere anche il padre di essa, don Gennaro,
che ne sapeva nè più nè meno di lui e che posto alle strette in tutti i
modi, ripeteva di continuo le medesime parole:

— Chi ne sa più niente? Io non avrei mai più creduto che una figliuola
mi trattasse in tal modo! E dire che le volevo tanto bene! Sarà
scappata con qualcheduno... sarà scappata... Non si può pensare
diversamente.

Riccardo Carassale, sempre nel suo negozio di antiquario in via Toledo,
non aveva altra distrazione che i brevi momenti del suo commercio.

Partito il cliente, ritornava al suo scrittoio, protetto da un piccolo
paravento, e chinava la testa su di un libro.

Ma pur troppo gli accadeva sovente di leggere pagine intere senza
seguire il filo dell’autore, giacchè qualunque piccola causa, vuoi
esteriore, vuoi interiore e prodotta dalla stessa lettura, ne deviava
il pensiero dall’oggetto presente e lo conduceva al passato per
torturarlo ancora...

A far sempre più doloroso questo stato di preoccupazione e di
eccitazione continua, si aggiungeva quel ritratto scoperto da Concetta
e che di giorno in giorno lo somigliava sempre più.

Lo aveva a poca distanza e di fronte. Alzando gli occhi dal libro,
doveva inevitabilmente vederlo, vederlo muovendo per il negozio,
vederlo sempre.

Ed è strano! In quel piccolo ambiente di cose morte, in quell’ambiente
dove perfino il suo amore così giovane, così gagliardo, così sincero,
aveva trovato la morte, in quel piccolo ambiente la cosa più viva, dirò
meglio l’unica viva, era quel ritratto...

Pensieri strazianti, soliloqui dolorosi, intuizioni lacrimevoli!

Ecco l’opera, l’effetto, il lavorio incessante di quel ritratto che lo
somigliava...

— E se ad arte, mio nonno avesse voluto tacermi la vera storia della
mia esistenza? E se il caso, se il destino volessero svelarmi tutto ciò
che mi fu taciuto? Se io fossi figlio di quell’uomo? Se vendute tanto
tempo addietro le cose sue, tutto il dovizioso decoro di una gran casa,
fosse proprio capitato al figlio fatto antiquario, il ritratto del
padre?

Immerso in cosifatti pensieri, solo per lunghe ore, melanconico, spesso
con uno specchio nella sinistra, guardava un po’ se stesso, un po’ il
grande ritratto ad olio... guardava con un’ansia ed un intenerimento e
una speranza indescrivibili, finchè tacite lagrime, e direi consuete,
non gli offuscavano lo sguardo.

Un giorno, traverso il mobile riflesso di quel pianto, gli parve che
la figura, per tanti anni muta, movesse la bocca... Gli parve di udire
sommesso nel silenzio: — Sono tuo padre.

Allora, addentrato con più tenerezza nel suo dolore, raccolse in una
unica amaritudine quella di tutti gli affanni:

— Senza padre, senza madre, senza il nonno, senza Concetta, solo nel
mondo. Senza Concetta, poi, quella che doveva per lui farli tutti
rivivere in sè e vincerli tutti insieme d’amore...

— Concetta — pensava e s’esasperava — io vorrei che tu fossi morta,
prima che caduta e contaminata! Io vorrei averti nel ricordo, così
bella di cuore, come ai giorni dell’amor nostro... Ma perchè mi hai
abbandonato? Perchè non mi ricordi più? Sono dunque io il morto? Io?

                                   *
                                  * *

Il caso ha delle ben curiose combinazioni, dei colpi di scena inattesi,
impreveduti, delle rivelazioni crudeli, inesorabili.

Abbiamo detto il caso, forse dovremmo dire la mano misteriosa
invisibile d’una provvidenza che regola tutte le cose, anche quando
regna in esse, al corto vedere dei nostri occhi, la confusione e
l’incoerenza.

È allora che la verità ci si presenta, e più bizzarra, più capricciosa,
più nuova di ogni fantasia, nel più fantastico modo trionfa.

Un giorno mentre Riccardo era tutto immerso nelle solite dolorose
fantasie, seguita da una signora attempata, gli si presentò una bionda
elegantissima signorina, che dall’insieme e più dall’accento, si rivelò
per forastiera.

Mentre Riccardo contemplava ritto e con far premuroso la biondissima
fanciulla, questa chiese, in bruttissimo italiano, di vedere un
orologio da tasca dei più antichi e dei più pregevoli per l’oro, per lo
smalto, per le miniature.

— Deve essere cosa veramente degna, questo ricordo di Napoli, che
voglio donare a mio padre.

Riccardo Carassale, tolse da un suo tiretto diversi astucci, li aperse
e li schierò davanti alla signorina...

Questa guardava attentamente, e poi man mano passava gli orologi alla
signora attempata, dicendole il suo pensiero su ciascuno in inglese.

Riccardo capiva perfettamente, ma non lo dimostrava.

A un certo punto la signorina, che si volgeva ora a destra, ora a
sinistra, giovanilmente irrequieta, a un certo punto, s’arrestò fissa
sul quadro ad olio (che noi ben conosciamo) ed accennandolo alla
signora attempata, le disse:

— Quello... è un conte... di cui non ho presente il nome... uno dei
signori che qualche volta vengono a far visita a mio padre...

— È impossibile! — rispose la signora — l’ho visto anch’io qualche
volta, ma... Ma è più vecchio...

Certamente, non lo nego... Sarà una combinazione, ma ciò non toglie che
non vi sia grande somiglianza...

In questa venendole fatto di fissare Riccardo, accennò più vivamente
a nuova sorpresa, seguitando in inglese, mentre il giovane era tutto
orecchi:

— Notate come anche l’antiquario nostro lo somigli. Notate.

— È vero — rispose guardandolo fissamente la signora attempata, è vero.
Si direbbe quello il padre, questo il figlio...

Riccardo conosceva grammaticalmente abbastanza bene l’inglese per
non perdere una parola. Adesso, a quell’ultima espressione che l’uno
pareva il padre e l’altro il figlio, voleva, tremando tutto d’una nuova
emozione, voleva rompere il ghiaccio e chiedere nella stessa lingua:

— In qual paese abita questo signore? Come si chiama? Ha mai parlato di
avere figli? Dove è nato? Che cosa fa?

Voleva dire tutto questo Riccardo, ma la foga e l’emozione gli
troncarono le parole, nel mentre che in modo affatto meccanico
posto l’orologio antico in una cassetta lo consegnava alla giovane e
biondissima fanciulla.

Fu un momento di indecisione poi, con risolutezza, disse in inglese:

— Potrebbe la signorina ricordarsi il nome del signor conte al quale ha
accennato? È una mia curiosità, mi piacerebbe saperlo già che posseggo
questo quadro, poichè io pure ignoro il nome del soggetto.

La fanciulla sorrise allo stentato inglese, come Riccardo aveva sorriso
prima, affettando più che altro cortesia, all’udire l’aspro, il duro
italiano di lei, e voltosi alla signora che la accompagnava domandò a
sua volta:

— Voi lo ricordate?

— Io no.

— E io neppure... E dire che ci sto pensando... Del resto lo vedevo
di rado, perchè ero in educandato... È naturale che non ne abbia
famigliare il nome. E poi parlava sempre d’affari con mio padre, le
rare volte che io l’ho veduto. È un vecchio alto, simpatico, elegante.
Credo che la sua gioventù l’abbia (è italiano) l’abbia passata qui...

— A Napoli? — fece scattando Riccardo.

— Sì a Napoli.

— E trovasi adesso?

— Dove siam noi. A New-York.

— E non sa darmi proprio altri schiarimenti?

— Non ne so altro.

— È molto ricco?

— Molto.

— E...

— ... e infine vorrebbe vendergli forse il quadro? vorrebbe che
comprasse per sua la immagine di un altro, perchè gli è somigliante?

Riccardo chinò la testa mormorando:

— Non è per questo... non è per questo...

— Piuttosto, giacchè somiglia anche a lei — aggiunse la bionda
signorina con un grazioso sorriso — piuttosto lo tenga per sè e potrà
dire che è suo... fra qualche anno...

Le due donne neanche lontanamente pensavano a ciò cui alludeva
Riccardo, a ciò che lo dilaniava in quel momento.

La signorina pagò l’orologio, intascò l’astuccio e uscì seguita dalla
donna attempata e scura che lasciava trasparire malgrado l’abito e
l’età, un gran rispetto e direi una grande sottomissione, però avveduta
e prudente, verso la fanciulla, felice d’aver comperato il ricordo di
Napoli per Webb.

Sicuro, per Francesco Webb.

Essa ne era la figlia, l’angelica Mary, di cui Webb, con tanto
affetto, a consolarsi della assenza imparava a memoria, si può dire, le
lettere...

                                   *
                                  * *

Come rimanesse il giovane Carassale pensi il lettore.

Adesso era il più agitato e più angosciato di prima.

Aveva un indizio, un lontano indizio, e ciò costituiva insieme il suo
martirio e la sua speranza, il suo dolore e la sua fede.

Era trascorso qualche giorno da quanto abbiamo narrato, quando un
mattino entrò nel negozio nell’antiquario un tipo a lui sconosciuto,
che si rilevò interessante subito, prima dall’insieme, poi dalle
parole.

Era un pittore, e poteva contare cinquanta anni.

A primo aspetto si vedeva l’uomo bizzarro.

Un piccolo cappello a cencio, nero, buttato sulla nuca più che poggiato
sulla fronte, soffocava una capellatura ricciuta e brizzolata, molto
prolissa e ricadente ai lati, celando le orecchie. Aveva gli occhi
stranamente vivi e neri, il naso tutto butterato, prominente, una
barbetta grigia, lunga e rada e spartita sotto il mento.

Vestiva azzurro scuro, e portava col panciotto di panno giallo, una
gran cravatta di raso rosso.

— Ha delle miniature?

— Certamente.

— Roba di buoni artisti?

— Buoni, qualcheduno ottimo...

— Che soggetti?

— Paesaggi e idilli...

— Fuori gli idilli...

— Subito.

— Me ne abbisognano sei, per un buon diavolaccio d’un riccone. Vuole
che siano miei... ma io ho altro per la testa, più che lavorare in
piccolo...

Carassale presentò diverse miniature.

— Queste son veramente belle...

— Cerchiamo le migliori perchè debbono _essere assolutamente mie_. Ed
io sa che cosa faccio adesso?

— Che cosa fa?

— Con qualche ritocco le rinfresco, le ringiovanisco... e poi fra
qualche giorno le fo passare per mie... Dirò magari che la metà le
avevo pronte... presso di un amico... Insomma dirò... dirò delle bugie
e prenderò i _quibus_.

— Come crede...

— Ma diavolo? Che cosa vedo? Quel quadro? Quel ritratto, com’è capitato
qui? L’ho fatto io quel quadro... È mio...

— Così dicendo si avvicinò alla tela e accennò in un angolo:

— Vede questo sgorbio? È la mia firma. Io sono molto infelice nello
scrivere!

— Il quadro è suo?

— Ma perbacco? E come l’ebbe?

— L’ho ereditato dal proprietario della bottega, il defunto Percuoco...
E dica, ch’io non ho mai potuto saperlo, perchè non è neanche segnato a
catalogo? chi rappresenta? Di chi è quell’immagine?

— Perbacco! Il conte Melisardo.

— E dove si trova?

— In America...

— Ma è grande l’America.

— A New-York, lo vidi l’ultima volta...

— E sta sempre là?

— Sempre.

— E perchè c’è andato?...

— Perchè in Italia, quello scapestrato di un conte, ne ha fatto di
tutti i colori. Si è rovinato poi al punto da dover cercare il lavoro,
ma non volle cercarlo in Italia ed emigrò...

— Ed ora?

— Ora ha rifatto la sua fortuna ed è diventato tanto giudizioso, che
qualche anno fa, quando lo vidi non potetti a meno di meravigliarmi e
di dirglielo...

— Lei è stato dunque a New-York?

— Io? Io ho girato tutta l’America... Nord e Sud...

— E quel conte Melisardo non potrebbe ricordarsi per suo mezzo, di
questo suo ritratto e adesso che è tornato in fortuna ricomprarlo?
Mi dia le opportune indicazioni e penso io a tutto. Io mi figuro che
dovrà essere tanto caro a quell’uomo vedere questo oggetto scampato al
naufragio della sua fortuna, alla dissipazione della sua giovinezza...
E poi per farne dono ai suoi figli... ne ha dei figli?

— Non ne ha, ma ne ebbe uno...

Lo ebbe qui a Napoli... e quando dall’America dopo un certo tempo,
ne fece ricerca, quando volle essere padre della sua creatura...
riconoscerla, farla ricca, gli scrissero che la creatura era morta...
qualche mese dopo la madre... Era un maschio, e a regola di data
avrebbe ora la sua età... Ma perdiana sa che più la guardo e più
noto la meravigliosa somiglianza che ha lei col mio amico il conte
Melisardo?

Riccardo non rispose.

Come in un bagliore e nella confusione del suo passato, rivide il
_nonno_.

Rivide Percuoco... rivide Concetta, rivide la signorina bionda,
la compratrice dell’orologio. Legò in un pensiero quelle persone,
vagliò tempi, circostanze, discorsi, vagliò più di tutto il silenzio
ostinatissimo di _nonno_ Percuoco ed a braccia aperte, esasperato,
affranto, disse con tutta l’anima al pittore:

— Signore, sul mio passato è tutto un mistero; mai, mai, non potei
far luce sulla mia esistenza... Ma per tante cose, per tanti indizi,
presenti, lontani, e per questa rassomiglianza, io credo... credo di
essere figlio al conte Melisardo...

— Niente di più facile — rispose il pittore con una calma che fece
rabbrividire Carassale — Niente di più facile... Melisardo amava le
donne... qualche volta, viene al mondo un figliuolo... ma come mai,
quando questo figliuolo fu ricercato dal padre, gli si è scritto che è
morto?

— Mistero! — Disse Riccardo.

— Mistero! — disse il pittore e si guardarono in faccia fissamente e
muti...

Il seguito di questo fatto a suo luogo. Per ora ritorniamo a Evaristo
Grinfieri, intorno al quale muovano e s’aggirano tutti gli altri
personaggi siccome i minori pianeti intorno al sole.




CAPITOLO X.

I dolcissimi baci — La Lettera per Bill Oward — L’attesa del momento


Hulda, abbigliata con lo sfarzo della massima signorilità, già più
calma, benchè trepidante ancora, nel salottino di Evaristo ascoltava
attentamente le parole che questi aveva tanto vagliate e meditate
prima.

— Malgrado tutto, malgrado l’offesa terribile che hai recato al mio
cuore ed al mio amor proprio, Hulda, io t’amo ancora... ancora come
quando avrei giurato che dal primo dì che ci siam visti, tu eri mia,
tutta mia... Ecco perchè non so più insistere su quanto di primo impeto
avevo deliberato. Ecco perchè ti bacio come prima...

Gli occhi di Hulda brillarono di lagrime. Evaristo le passò gentilmente
la mano su la nuca e la trasse sul suo petto con dolcezza, con una gran
dolcezza, nella quale l’amore non avrebbe potuto essere nè più soave,
ne più intenso.

Hulda lo abbracciò e stettero così qualche istante, senza parole,
guardandosi negli occhi.

— Baciami...

— Prendi... tutta tua e per sempre... Mi hai perdonato?... Mi hai
perdonato?

— Io, no.

— Tu no?

— Io no. Il mio amore sì... E poichè il mio amore mi possiede tutto e
mi comanda... io ubbidisco...

Il salottino, quieto nella luce blanda, armonizzava con la pace dei
due cori riconciliati. Un profumo intimo di idillio novo, dopo tanta
ebbrezza carnale, pareva aleggiare d’intorno. Le due anime vi nuotavano
nell’estasi d’una placidezza, non gustata ancora, in una viva e cara
dilatazione di tutti i sensi, proprio come al tornar del sereno dopo la
tempesta dello spirito.

Nella vita agitata di Hulda, quello fu senza dubbio uno dei momenti
più sinceri. In quell’ora di letizia suprema e direi casta, dimenticò
tutto, e stringendosi forte con le belle braccia al collo di Evaristo e
inebriandolo del suo profumo gli sussurrò dolcemente:

— Tua nel perdono, tua nella vendetta, sempre tua. Sento che la mia
vita è da oggi veramente legata a te.

— Come ti sei comportata con Guy Stein? Sii franca: sospetta di nulla?
Foste gli stessi come prima?

— Come prima, amor mio. Non fece altro che vuotarmi il borsellino.

— Tu sai già che ora, con lui, bisognerà farla recisamente finita...

— Lo so.

— E a questo scopo, mi aiuterai, non è vero?

— Ti aiuterò.

— Non temere per te. Ciò che devi fare è poca cosa. E dopo questa,
tu sarai salva... Se Guy Stein arrivasse anche lontanamente a
sospettare... non potrebbe raggiungerti col suo pugnale... Non potrebbe
farti nulla, stanne certa, nulla.

Evaristo andò nell’altra camera e tolse da uno scrignetto la lettera
che avea scritto a macchina e della quale il lettore ricorderà.

— Tu mi hai detto, e anzi è notorio, che Bill Oward e Guy Stein sono
nemici...

— Acerrimi.

— Ebbene, questa lettera, vedi, è indirizzata a Bill Oward. In essa
è preposto, non intimorirti, un ottimo affare nel loro genere. Tu
fingerai di aver trovata la lettera per istrada, mentre andavi a
trovare il _tuo_ Guy Stein.

Avrai pure teco un giornale che io ti darò e nel quale sarà annunziato
lo smarrimento di essa ed il premio, se la consegna, ancora intatta la
busta, al Consolato italiano.

Tutto questo è una fandonia, un artifizio per far cadere Stein
in trappola. Se egli ti consigliasse di non aprirla per prendere
il premio, tu, inducilo ad aprirla con ogni mezzo... E d’altronde
vedendola indirizzata al suo rivale Bill Oward, il desiderio di aprirla
lo vincerà prima ancora delle tue parole.

Egli farà quello che è scritto nella lettera, certo, ma se stasse in
dubbio, tu spronalo. Mostragli quanto la cosa sia facile e sicura.

— Ma che contiene questa lettera?

— Nulla di male per te. Tu, per caso, l’hai trovata dopo aver letto
l’appetitoso annunzio del giornale e fingi di averla portata a lui
chiedendone l’avveduto consiglio.

— Ma non si può proprio sapere che cosa contenga?

— È inutile perfettamente adesso. La leggerete insieme. Mi pare di fare
un mondo di chiacchere inutili.

— Proprio così?

— Proprio così. Hai detto che mi vuoi bene?

— Sì.

— Dunque per primo pegno del nostro inalterabile amore, dammi una prova
d’ubbidienza.... Hulda. Hai capito? obbedienza. Guy Stein deve cadere
in mano alla giustizia, deve essere colto in flagrante... Ti basta?
Tutto quello che leggerai, e che ti parrà strano, non ti sgomenti. Così
avessi saputo prima tante cose e già il vigliacco orgoglio di Stein
sarebbe fiaccato.

— Obbedirò — disse Hulda con sicurezza, — obbedirò. Baciami ancora...
tanto, tanto, stringimi, così, forte...

Ed Evaristo la strinse forte, facendole male, proprio male, come voleva
lei, che felice gli arrovesciò la testa sul petto e digrignò i denti
e si contorse maliosa come al momento supremo, quando gli gridava:
Angelo, uccidimi!

Con molto accorgimento, con finezza squisitissima, Evaristo aveva
consegnato a Hulda la lettera chiusa tacendole il contenuto, per tema
che ella non aderisse, o meglio non osasse; mentre venuta a conoscenza
di tutto, al fianco di Guy Stein, avrebbe trovato per la stessa
propria salvezza, tutto il coraggio dovuto, accettando la situazione
improvvisata. Avrebbe trovato tutto il coraggio tutta la sfrontatezza
necessaria per fare la sua parte nella triste commedia.

Ai baci, che parvero di angelo, doveva succedere il ghigno di Satana.
Il _milione_, il futuro milione, voleva così.

                                   *
                                  * *

Hulda era pienamente decisa di assecondare in tutto Evaristo, ma dove
mai fosse stata cosa alcuna che l’avesse tenuta perplessa un istante
l’avrebbe spinta, anzi spronata, la vecchia Bess, troppo certa di avere
corso un gran pericolo, di averla scampata bella, in seguito al doppio
segreto amore (chiamiamolo amore) di Hulda.

I giornali del mattino giusta la inserzione commessa da Evaristo
all’avvocato Gasperal avevano tutti annunciato lo smarrimento della
lettera diretta a Bill Oward, e la ricca mancia, dove la missiva fosse
stata riconsegnata con il suggello tuttavia intatto.

L’indomani, come aveva detto Evaristo a Hulda, era il giorno della
prova.

A pranzo Evaristo aveva finito, non solo per convincere Hulda che ad
ogni modo doveva esserlo, ma per entusiasmarla.

Si trattava di dare una prova d’amore ad Evaristo. Ebbene, che quella
prova, costasse pure la sua vita, che quella prova fosse la benvenuta!

Il lettore entri con Hulda nel quartiere da noi descritto in principio,
ne segua attento i passi e più attento ancoratypo for efferatoascolti
il dialogo e studi la disinvoltura di lei a contatto d’un uomo
singolare tra i delinquenti, ributtante come un rettile, efferato come
un carnefice, superbo come un genio e innamorato di sè stesso.

                                   *
                                  * *

Hulda entrò ad arte frettolosa nella stanza vasta e bassa dove stava
Guy Stein.

— Adesso? — chiese questi notando l’ora insolita.

— Proprio adesso, ho bisogno di te...

— Di me?

— Sì.

— Che vuoi?

— Un consiglio...

— Soltanto? — fece con un riso sinistro Guy Stein.

— Sì, un consiglio, ma importante... della somma importanza, perchè si
tratta anche di dollari...

— Di dollari? — domandò Guy Stein aguzzando lo sguardo.

— Sì... ecco.

— Parla... dunque...

— Questa mattina, come sempre, leggo il _New York Herald_, per caso
mi vanno gli occhi a queste righe (così dicendo spiegò il giornale)
queste righe, dove si annunzia una mancia addirittura favolosa, per chi
consegnerà ancora suggellata, ecc. ecc., una lettera... una diretta,
indovina a chi?

— A chi? — domandò Guy Stein pigliandola brutalmente pel polso.

— A Bill Oward, rispose con lentezza e circospezione Hulda...

— A lui?

— A lui.

— Chi può avergli scritto una lettera di tanta importanza?

— Ma non basta, non basta, sai...

— Che c’è? C’è dell’altro?

— Ma sicuro, una combinazione strana, stranissima, una cosa che non mi
sarei aspettata mai più. Io mi vesto...

— E poi?

— Esco a fare la mia solita passeggiata. Faccio forse duecento passi da
casa mia, ancora in forse se dovevo venire a dirti ciò che avevo letto
sul _New York Herald_ quando trovo io stessa...

— La lettera?! — chiese Guy Stein puntandole al petto l’indice...

— La lettera... precisamente e... allora son corsa da te... da te per
un consiglio...

— Dammi la lettera...

— Prendi... vedi, io ho avuto la tentazione di aprirla subito, ma poi
volli anche te del mio consiglio... venni qui, perchè tu mi dicessi,
se conviene più prendere, senza rompere il suggello, la ricca mancia
di mille dollari, o pure penetrare il mistero di Bill Oward. Ciò poteva
essere anche più interessante... almeno per te.

— Sicuro... Sicuro... — rispose concitato Guy Stein. A me importa
sopratutto conoscere le marachelle di Bill Oward. Sapere qualche
cosa di segreto di un uomo, vuol dire, poterlo possedere e vincere e
abbattere all’occasione.

— Vuoi proprio aprire la lettera, adunque?

— E subito — rispose Guy Stein. Così dicendo stracciò la busta e
lesse, mentre Hulda fattasele da lato, leggeva anch’ella nascondendo
mirabilmente l’emozione che la prese appena dopo le prime righe.

Ecco il documento scritto da Evaristo a macchina, come dicemmo in uno
dei capitoli precedenti:

      «_Caro Oward_,

  «Abbiamo lavorato insieme più di una volta e con buon esito. Mi
  rivolgo perciò di nuovo a te certo del tuo aiuto.

  «Il giorno otto del corr. mese alla sera nella povera trattoria di
  Brendly, si troveranno a mangiare nella saletta di sopra Francis
  Webb ed Evaristo Grinfieri suo segretario.

  «Ognuno di essi ha una chiave. Con due chiavi si apre la cassa
  forte di Francis Webb, dove in una cassetta di ferro si troverà
  chiuso un valore di duecentomila dollari.

  «Sotto la camera della cassa forte è il giardino. Nel giardino
  una scala rimastavi dei muratori che lavorano alla facciata. Con
  la scala passerai dalla finestra che si aprirà appena spinti i
  cristalli.

  «La cassetta, all’incrocio delle vie _Bendy_ e _Vaynel_, sarà
  consegnata al cocchiere _N. 13_, che sai fidatissimo come in tutte
  le altre volte. Tu consegna e mettiti in salvo sempre come l’altra
  volta, noi ci rivedremo dopo giorni quindici per la ripartizione,
  quando sarà tornata la calma.

  «Per impossessarti delle chiavi adopera il mezzo che credi
  migliore.

  «Usa meno persone che puoi e le strettamente necessarie, svelte,
  espertissime.

  «Per qualunque cosa ti possa occorrere prima che siano spirati i
  quindici giorni, rivolgiti sempre a Ben il _cocchiere N. 13_, al
  quale, consegnando la cassetta col milione, dirai queste parole:
  _Ecco le gioje_.

  «_Intesi._»

A modo di firma seguiva un segno speciale...

— Questa volta ho finalmente nelle mie unghie la vendetta e la fortuna
— disse trionfante, Guy Stein. — Io canzonerò l’uno e l’altro. Mi
gioverò di questo piano e farò il colpo tutto per me...

— Come? — disse Hulda — escludendo il cocchiere, che è la chiave di
tutto?

— Perchè no?

— Sarebbe un errore.

— Perchè?

— Perchè in un piano prestabilito come questo tutto è studiato, tutto
è preveduto, e a spostarlo, non solo ci si può rimettere il denaro, il
milione, ma la libertà può essere compromessa. Tu..., _noi_, abbiamo
bisogno di questi complici...

Ma a proposito, e questi complici si presteranno più all’opera dal
momento che la lettera è stata smarrita? Non aggiorneranno la cosa?
Ci vuole della prudenza e tanta. Io non vorrei che tu ti avessi a
rovinare. Tu sei il mio aiuto, la mia forza, guai se tu mi avessi a
mancare. Chi mi rispetterebbe più?

Guy Stein stette lungamente pensoso per raccogliere le idee...

— Ti credi, aggiunse quasi timidamente Hulda, che fatta la cosa, non
cadranno dei sospetti anche su te? Come nascondi, senza avere aiuti di
chi ha già studiato il necessario, la cassetta col milione? Di notte,
nella premura, nell’imbarazzo del primo momento?

— Io penso a questo — disse con gravità Guy Stein — Se fosse stata
scritta a Bill Oward un’altra lettera, mentre si cerca di avere intatta
la prima smarrita?

— Potrebbe darsi...

— E allora ci troveremmo (se non cambian la data) ci troveremmo in due
la medesima notte a fare la stessa operazione...

— Questo mi impensierisce assai, assai — fece Hulda con gravità,
preoccupata veramente per la situazione che le si era posta dinanzi,
così nuova, così improvvisa, e tuttavia decisa irremovibilmente ad
assecondare Evaristo, che ora, secondo lei, in qualche cosa doveva
aver mancato, qualche cosa doveva aver non preveduto, malgrado la sua
mirabile lucidità.

— Senti, Guy Stein, io in queste cose ci perdo la testa. Io temo di non
consigliarti bene pur volendolo fare..... C’è ancora qualche giorno,
rifletti...

— Ehi, dico — a proposito — fece con aria di canzonatore Guy Stein —
non ti passerà neanche per la testa, voglio sperare, di fare due parti
in commedia?

— Come? Che sarebbe a dire?

— Cioè di parlare con me a un modo e poi dire tutto al tuo Evaristo...
svelare tutto; magari per fare la sua fortuna presso Francis Webb e la
tua anche; per farti, se occorre, sposare.

— Come? Tu mi credi capace di tradirti?

— Sei donna... non ragioni con la testa... Puoi essere capace di
tutto... Io, credilo, non dubito, ma se avessi un sospetto soltanto,
vedi questo pugnale?

Guy Stein levò un pugnale che non pareva neppure avesse avuto sulla
persona.

— Inginocchiati.

Hulda s’inginocchiò tremante.

— Giura che non mi tradirai?

Così dicendo la strinse colla sinistra ai capelli e le puntò sul petto
il pugnale.

— Lo giuro...

— Davanti a Dio?

— Davanti a... Dio.

— Ed ora, perchè tu conosca chi è Guy Stein, sappi che del tuo
giuramento nulla m’importa, perchè io nulla farò, nulla voglio fare.

E diede in uno scroscio di risa.

— È cosa che non riesce bene; dov’entra una donna, tutto è perduto...
Dietro alla donna qualche volta c’è la polizia... benchè io della
polizia m’infischi, quanto nessuno potrà mai, perchè se anche mi
cogliessero sul fatto, avrebbero sbagliato....

Quando voglio, _io non sono più io_. Dimmi — urlò — riconosci tu in me
Guy Stein.

Dicendo queste parole il meraviglioso ladro, portò rapido la destra
agli occhi e alla bocca, poi la stese dimesso e supplichevole con
queste parole:

— Fate la carità a un _povero cieco_!

Hulda diè un balzo indietro inorridita.

Le pupille grigie taglienti di Guy erano scomparse. Aveva invece la
pupilla bianca cenere e opaca del cieco, senza raggio, senza riflessi,
immota e ributtante.

Nella bocca larga mancavano tre denti, scoperti dalle labbra sottili
e come rialzate da uno spasimo abituale e dalla pena si direbbe di chi
soffra per non vedere la luce...

Hulda seguitava a guardare, sempre più inorridita, quella inattesa
trasformazione.

Guy Stein ripetette ancora con mutato accento e supplichevole:

— Fate la carità a un povero cieco!

— Guy Stein! — gridò Hulda portando le mani alla testa.

                             . . . . . . .

— Va, va, Hulda; a questi così misteriosi milioni io ci rinunzio.

— Davvero?

— Farò recapitare la lettera a Bill Oward... Se è un tranello sarà per
lui... Resti dunque avvertita, che io non mi muovo, cara... Denari,
pochi, e subito... Ne hai portato? I tuoi sono tanto più sicuri...

— Fra questi due uomini io ho perduto la testa, io non mi raccapezzo
più — pensò tutta sconvolta Hulda, e intanto vuotò il borsellino nelle
mani di Guy Stein.

                                   *
                                  * *

Guy Stein, rimasto solo, si consigliò lungamente col vecchio padre:

— Hai fatto molto bene la tua parte — disse il vecchio — mai donne
negli affari, specie di questo genere. L’hai convinta che tu non
muoverai neanche un dito?

— L’ho convinta.

— Sei certo che ti crederà?...

— L’ho abituata a credere o per amore o per forza...

— Ora, se la rivedi, non parlargliene neppur più di questa cosa.

— Niente.

— Sta bene...

— Ed io intanto...

— Tu intanto ti prepari, ed al momento opportuno... all’opera...

— E per il cocchiere?

— Il cocchiere bisogna che sia dei nostri. Non capisci che dev’essere
un uomo giudizioso ed interessato, così compromesso com’è? Egli anzi è
il più esposto di tutti, è la vera garanzia delle due parti, giacchè
non solo se ne conosce il nome, ma è una persona che deve stare
continuamente esposta in pubblica via a cassetto, e con un numero
di riconoscimento che accusa lui e salvaguarda noi, che nel caso di
qualche sinistro...

— Capisco, un cocchiere pubblico è una garanzia delle più importanti
nel nostro caso, ma bisogna anche pensare...

— Che vorrà la sua parte?

— Certamente... e grossa.

— Ma, caro mio, una mano lava l’altra... non bisogna essere egoisti
a questo mondo.... Quanto alla persona che ha architettata la cosa,
l’accetterà compiuta tanto da te, quanto da Bill Oward. Potrebbe
ricusare il fatto compiuto?... Lo scopo è tutto, ed anzi il cocchiere,
che noi abbiamo in mano quando vogliamo, che deve stare su la piazza,
che non può nascondersi e sfuggirci, il cocchiere sarà il tratto
d’unione e la garanzia... Perchè, quel milione non è di oro, si
capisce, ma di carte che noi (noi commercianti) non possiamo spendere,
senza l’aiuto di terzi.

— Avete ragione, avete ragione, padre mio. A questo non avevo pensato.
Accettiamo i complici. Per la sera indicata sarò al mio posto...

— Se non troverai Webb e Grinfieri, vorrà dire che la cosa fu differita
o abbandonata, per lo smarrimento della lettera, che per eccesso
di prudenza, non fu ripetuta. Io invece, proprio in seguito allo
smarrimento che toglie ogni sospetto, farei arditamente il colpo...

— È proprio quello che ho pensato anche io.

— È già notte — disse Guy come per accennare il rapido passar
dell’ora...

— Per me lo è sempre — rispose il vecchio sospirando.

Entrava intanto qualcuno degli uomini che _lavoravano_ sotto la tutela
e l’indirizzo di Guy Stein.

Egli dava consigli, esortazioni, biasimi, elogi. Ad uno di essi che
dinanzi a uno specchio si provava una barba, come un attore si prepara
per la scena, raccomandò di avere uno sguardo più dolce, poichè il
naso pronunziatamente aquilino e la lunga barba nera gli davano un’aria
arcigna troppo, fuori dal naturale, e facile ad essere sospetta.

Ad un altro raccomandò un po’ più di attività. — Sono più sere che non
fai proprio nulla — vai forse a far l’amore?




CAPITOLO XI.

Ciò che dice Hulda. — Ciò che pensa Guy Stein — Ciò che fa Francis Webb
— Ciò che aspetta Evaristo


I primi numeri dell’_Oro dell’Est_ erano usciti. Il giornale lasciato
dall’avvocato Gasperal sotto la segreta direzione di Evaristo Grinfieri
aveva per la sua stranezza e per la sua utilità immediata, tratta
l’attenzione e la simpatia di quel ceto che si interessava di commerci
e di speculazioni di ogni genere.

L’avvocato Gasperal si meravigliava sinceramente dell’esito, ed
Evaristo si convinceva sempre meglio nel proposito che bisognava
continuare, perchè il trionfo sarebbe stato sicuro.

Stava egli appunto preparando un articolo per l’_Oro dell’Est_, quando
gli venne annunziata Hulda.

— Falla passare. Tommy.

Hulda si presentò; come persona che ha fretta di giungere, di parlare e
che ha insieme l’animo sconvolto, turbato.

— Ma perchè, Evaristo, non dirmi prima tutto, acciocchè io fossi
preparata? Perchè lasciarmi cogliere improvvisa alla lettura della
lettera?

— Per questa semplicissima ragione — rispose calmo l’altro — perchè
tu ti saresti sgomentata al punto di indietreggiare malgrado le tue
proteste di amore.

Hulda tacque. Sentì nell’intimo che tutto ciò non era lontano dal vero;
volle essere sincera e disse:

— Ora ti avverto che il tuo piano è sfatato. Guy Stein è un furbo...

— E di un furbo avevo bisogno.

— Ebbene egli non si mette all’impresa...

— Il motivo...

— Il motivo sta nella scelta stessa che tu hai fatto, per vincerlo...
Egli dubita di me, dubita di un tranello della polizia, dubita che la
cosa non abbia luogo più, per lo smarrimento della lettera, che doveva
dare importanza e sicurezza alla cosa, egli infine ha confessato che
non muoverà un dito, nemmeno un dito... Si direbbe che egli tremi già,
si sente già addosso l’unghia della polizia.

— Mi ha rimandato dicendomi che di quei così misteriosi milioni, non sa
proprio che farsene...

— Ora capisco più che mai due cose. La prima che è veramente astuto, la
seconda, che egli cadrà in trappola...

— Davvero?

— Certo, egli vuole accingersi all’opera, ma vuole allontanare insieme
il sospetto che egli la compia. Ecco perchè ha agito nel modo che tu
dici.

— Proprio così?

— Così e non altrimenti. Ora la tua parte è finita, grazie. Il resto è
pensiero mio. Fra qualche giorno tu non avrai più quell’incubo addosso
e vedrai quanto valga il tuo Evaristo. Saprò mettere io a dovere quel
volgare prepotente, quel mascalzone.

Hulda ascoltava meravigliata, e anche adesso, davanti a quella calma
imperturbata, davanti a quella fiducia completa, pensava ancora come
prima:

— In mezzo a questi due uomini, in verità io sto perdendo la testa.
Come si metteranno i fatti, quale dei due trionferà?

                                   *
                                  * *

Dopo il colloquio col vecchio padre cieco, Guy Stein aveva fermamente
deciso. Quel colpo di mano bisognava farlo. C’era tutto da guadagnare.
Alla peggio, se per lo spostamento prodotto dalla lettera smarrita non
si trovassero Webb e Grinfieri nella piccola trattoria di Brandly, alla
peggio le cose rimarrebbero allo stato di prima ed impregiudicate, cioè
buone per un’altra volta.

Ora, Guy Stein concentrava tutta la sua intelligenza sul modo da
tenersi per togliere di dosso ai due le chiavi della cassa forte.

Non era facile giacchè i facili mezzi che si potevano avere per uno,
non potevano usarsi per due nello stesso momento.

Di tutti quei mezzi, con calma e lucidezza, vagliava il pro e il
contro. Sopratutto rifuggiva dalla violenza, la quale oltre alla
difficoltà, alla incertezza dell’esito per la reazione che produce,
richiede lo impiego di molta forza, quindi molti uomini, quindi molto
chiasso, quindi ancora molta probabilità o di tradimento prima, o di
spionaggio dopo.

Nel dubbio, proprio intorno al punto delle chiavi, concertò nuovamente
col vecchio e decisero insieme con pieno accordo.

Due uomini e una donna bastavano a condurre l’operazione. La donna
lavorerebbe con Guy Stein, i due uomini lavorerebbero in apparenza fra
le quinte. Occorrevano due per riuscire, e Guy Stein non doveva essere
nessuno di quei due, per ottima cautela fino all’ultimo momento.

Franimy e Tymbord avrebbero un piccolo programma in apparenza separato
dal resto, come al momento opportuno vedremo.

                                   *
                                  * *

Francis Webb, assiduo lettore dell’_Oro dell’Est_, non sospettava
proprio nulla sull’operato e sulle mire di Evaristo; soltanto era
molto seccato delle domande che gli faceva l’amico suo, collega e
coetaneo Isaiah Wodd, che vista sparirgli l’operazione come principale
azionista, rimproverava Francis di non avere ascoltato Grinfieri, di
non averla fatta per sè.

Era una specie di mite vendetta, una vendetta tutta quanta di parole un
po’ brusche e un po’ bonarie che per altro seccava abbastanza Francis
Webb, del quale diremo ora una consuetudine presa da molti anni, ben
nota ad Evaristo e sulla quale appunto per il _giorno otto_ questi
contava pienamente.

È dunque a sapersi che con la data del suo anniversario coincideva per
Francis Webb la data in cui il suo particolare bilancio gli assegnava
dopo tante lotte, peripezie ed audacie i primi duecentomila dollari,
ciò che in italiano significherebbe il primo milione.

Egli dispose da quel giorno di festeggiare quella data. E la festeggiò
sempre in compagnia di Evaristo andando a pranzare nella modesta
trattoria, dove meschinamente faceva i suoi pasti tanti anni prima,
quando, giovane poverissimo e con molti debiti e con nessun credito,
sognava la colossale fortuna, con l’audacia di un gran disperato e di
una straordinaria attività.

A quella tavola umilissima riviveva la sua gioventù e si godeva un
mondo, ora che la tempesta della miseria era passata, si godeva un
mondo a raccontare le sue peripezie a Evaristo che le sapeva ormai a
memoria.

Le sapeva a memoria, eppure gli facevano sempre un grande, uno strano
effetto e gli davano turbinosi pensieri.

L’esempio di tanta fortuna, con tanta inferiorità intellettuale, era
terribilmente contagioso.

Perchè egli, che ne aveva tante ed era giovane e ardente, non avrebbe
attuate le sue grandi idee?

Come Webb aspettava il giorno di festeggiare il suo primo milione, così
allora (come eran mutate le cose!) Evaristo pensava a rubarglielo in
quel modo pel quale aveva già disposto.

Evaristo, quello strano carattere, tutto intento allo scopo, non ebbe
mai un solo momento di esitazione, anzi in lui cresceva ora la bramosia
del possesso, ora che per un altro lato tanta parte di strada era stata
dischiusa dal giornale di cui Gasperal passava per essere il direttore.

Venne finalmente la sera tanto attesa dai diversi interessati,
e Francis Webb ed Evaristo Grinfieri, puntuali come negli anni
precedenti, si trovarono alla tavola modesta, l’uno pronto a ripetere i
suoi soliti discorsi, l’altro quasi certo di vederli presto interrotti,
e disposto, secondo il piano prestabilito, a fare la sua parte di
vittima.

Così doveva essere perchè tutto procedesse per bene.

Quando furono alla metà del desinare Webb ed Evaristo videro entrare
e sedersi ad un tavolo da presso un uomo che doveva essere, e ne aveva
tutta l’aria, uno di loro.

Dopo di lui, circa un quarto d’ora, entrò una donna non tanto giovane,
ma belloccia, ma piacente ancora.

Erano infatti Guy Stein, e la sua complice.

Una ladra esperimentata, piena di seduzioni e di risorse, la quale per
molte prove date di abilità, possedeva tutta la stima di Guy Stein, e
si era indissolubilmente legata alla sua vita, alle sue vicende.

Si chiamava Lucy.

Evaristo mesceva sovente da bere a Webb, che, in quella sera di
completo abbandono e di finta gioviale povertà, era diventato
insolitamente chiacchierino.

L’uomo e la donna discorrevano di cose indifferenti; celiando spesso e
procurando di interessare Webb e Grinfieri ai loro discorsi.




CAPITOLO XII.

Un pensiero a Gar — La donnina Lucy — Dove sono le chiavi


Francis Webb seguitava a bere e a chiacchierare senza posa. Aveva
momenti di commozione addirittura infantile e di goffa ammirazione per
l’opera sua, che, in quel momento e in quello stato, egli era davvero
il più inadatto ad apprezzare seriamente.

Evaristo non mancava di eccitarlo e di concitarlo vedendo ormai la cosa
bene avviata pel buon esito.

Ben — il nostro _cocchiere N. 13_ — era stato avvertito di nuovo
all’ultimo momento e, giusta l’intesa, a una certa ora, cominciò a
rispondere a chi lo richiedeva del suo servizio:

— Mi rincresce, ma sono occupato.

Egli da cassetto guardava il suo cavallo Gar, e gli ripeteva,
accarezzandolo blandamente con la frusta:

— Pensare che fra qualche ora sarai morto e... ti avrò ucciso io stesso.

Mah, le cose del mondo! Chi poteva pensare che dovessero andar così?
Che colpa ne ho io?

La fantasia di Ben ora evocava l’imminente dramma che in verità
l’accorava nel profondo del cuore.

Ben e Gar si conoscevano da troppi anni per non sentire una simpatia
vivissima, un attaccamento, un bisogno di rimanere uniti.

Ah, lo strazio di quel cavallo, in verità, era orrendo e per dispetto
non gli voleva uscire dinanzi gli occhi.

Lo vedeva spinto sul ciglione dell’alto scoglioso dirupo, il povero
animale, tratto dal peso della carrozza nel vuoto, lo udiva nitrire
spaventato, con gli occhi schizzanti, percuotere con le zampe l’aria
vertiginosamente e poi... poi dopo un tonfo grandioso e sonoro, lo
vedeva sparire nei gorghi profondi delle acque mosse in ampli cerchi
sopra di esso!

Non era in quel punto senzazione dolorosa che il malcapitato quadrupede
non provasse.

Sul fondo, puntava l’unghia invano per sollevarsi, nel prepotente
istinto di conservazione.

Disperati sforzi per riprendere la superficie, ormai scomparsa per
sempre!

L’animale, impossibilitato a risalire per la carrozza che lo
imprigionava, ormai spossato e vinto, mettendo un gorgoglio nell’acqua
soverchiante, si abbandonava sul fondo... per imputridirvi e
dissolversi, se i pesci glielo permettessero...

E vedeva dei pesci, tanti, alcuni piccini, altri enormi; questi
piombare dall’alto, quelli sguisciare da tergo, e tutti affrettare il
dente nel morto Gar...

— Povero Gar! disse mesto Ben... e lo toccò con la frusta.

Gar, come al solito, rispose nitrendo...

Allora nella lunga fila di carrozze nitrirono un po’ tutti i cavalli...

A Ben parve di sentire un addio, un lamento, un saluto di morte e...
diciamolo pure, anche una gran voce d’accusa.

Gli si strinse il cuore e sentì un brivido di freddo.

— Povera bestia! E pensare che fra un’ora morirai! Sono forse più a
tempo per salvarti la vita? No certo, avrei dovuto pensarci prima...
D’altronde (e qui sorgeva tra lui e il cavallo l’alta e bruna figura
di Evaristo e si sentiva addosso i suoi occhi). D’altronde non si
ammazzano i topi, i conigli, i passeri, i leoni, le tigri, i colombi,
gli agnelli, i buoi... Forse che il cavallo dovrebbe essere una
eccezione? E noi altri uomini, non si muore forse anche noi?

Intanto che questo Amleto da strapazzo seguita nelle sue fantasie,
ritorniamo ai quattro personaggi che lasciammo alle tavole relative...

                                   *
                                  * *

— L’amico che aspettavo! — disse a Lucy, Guy Stein.

Si udiva infatti giù nella bottega una voce maschile che chiedeva al
padrone se di sopra ci fosse alcuno.

— Eccomi! — disse ancora a voce alta. — Vengo, — E scese per la
scaletta di legno tarlato e scricchiolante.

Dopo questo fatto, il contegno di Lucy cominciò a diventare, agli occhi
di Francy Webb, più mondano e più provocante.

Il vecchietto abbastanza allegro e spranghettato per le frequenti
libazioni, eccezionali davvero e riserbate proprio per quella data,
le sorrise e poi cominciò a dirle qualche parola... di quelle che si
dicono dai giovani come dai vecchi, ma che vuoi in bocca degli uni,
vuoi in bocca degli altri, sono sempre eternamente banali.

Certe frasi, è un fatto, non ebbero spirito che una volta sola, cioè
quando furono cacciate a proposito. Lo perdettero allorchè diventando
patrimonio di tutti, fecero a tutti dire una cosa che aveva sentito uno
solo.

Hanno però sempre un vantaggio, quello d’avviare il discorso.

Evaristo intanto pensava a qual mezzo si sarebbe appigliato Guy Stein;
egli dai connotati lo aveva bene riconosciuto per carpire loro le
rispettive piccole chiavi e si impensieriva dell’indugio.

— A qual mezzo ricorreranno? Ce ne son tanti. Vediamo se son dei ladri
veramente furbi...

Webb offerse alla per lui sconosciuta ma simpatica interlocutrice, che
gli si era avvicinata, del liquore ch’essa bevve centellinando.

A un certo punto come per ricambio Lucy levò un astuccio di sigarette e
ne offerse ad entrambi che le accesero e fumarono.

Pensò ancora Evaristo:

— Certo questo deve essere il mezzo. Che gente dabbene, essi escludono
ogni violenza, ogni rumore... Noi fra poco saremo addormentati.

Guy Stein non risaliva.

Parlava continuamente come se trattasse di gravi interessi con l’altro,
col compare che era venuto a cercar l’amico e l’aveva trovato.

Di sopra invece, il discorso a poco a poco languì, e come per l’effetto
dell’obesità e del bere Evaristo e Francis cominciarono a sentire una
gran pesantezza di sonno, finchè blandamente si addormentarono.

Fu allora che Lucy, con mirabile destrezza li frugò, staccò dalle
rispettive catenelle le chiavi e intascatele discese.

Guy Stein pagò senza fretta ma anche senza indugio il piccolo conto,
salutò e partì con la donna e con l’altro compare, un valoroso fabbro
meccanico d’altri tempi, diventato così esperto nella sua professione
che si decise a mutarla per più rapidi guadagni.

Ognuno aspira alla fortuna a suo modo.

Il più adesso era fatto. Il meno era aprire la cassa forte ed asportare
il cofano di ferro, operazione che voleva essere condotta con la
massima celerità, prima che i due si svegliassero e si accorgessero di
ciò che loro mancava.

Andò tutto a meraviglia.

La lettera aveva dato indicazioni precise, per le quali tutto era stato
possibile nel minor tempo.

                                   *
                                  * *

Ben era al suo posto, cioè al crocevia indicatogli da Evaristo. Attese
circa un’ora, poi vide avvicinarsi alla sua volta un uomo, con un gran
cappello sugli occhi e un largo pastrano.

— È lui... — disse tra sè il cocchiere, ma non fece un movimento.
Stette come impassibile a cassetto.

L’uomo dal largo pastrano gli si avvicinò affrettando il passo,
si guardò attorno circospetto, indi sollevata una cassetta nera
all’altezza del poggia-piede della vettura domandò:

— Ben?

— Ben — rispose l’altro sottovoce.

— _Ecco le gioie._

— Benissimo.

— Tu sai ch’io posso rivederti quando voglio... che ti conosco?... E il
_nostro amico_ dov’è ora? Quando ci rivedremo? Te lo ha detto?

Queste parole di Stein avevano lo scopo di investigare senza parere,
ma Ben volgendo rapida la testa temendo a sua volta e accennando con la
frusta a parecchi lontani passanti rispose:

— Viene gente... ritirati... presto... — In così dire toccò il cavallo
e partì, lasciando solo Guy Stein che si ritrasse in un angolo sotto un
fanale in piena luce.

Quivi, per eludere la polizia, se fosse stata, trasformatosi
immediatamente come aveva fatto davanti a Hulda, non appena il gruppo
de’ passanti gli fu vicino stese la mano dicendo con voce fioca:

— Fate la carità a un povero cieco.

Nessuno gli badò. Rimasto solo diede un sospiro di soddisfazione
e s’incamminò verso il proprio quartiere, dove il vecchio padre lo
attendeva, ansioso dell’esito.

                                   *
                                  * *

Si faceva tardi.

L’inconscio padrone della piccola trattoria, che non vedeva ancora
discendere i suoi ospiti signori e bizzarri, com’egli diceva, salì
sopra alla saletta.

Come li vide così tranquillamente addormentati, affacciatosi alla
piccola balaustra di legno disse alla moglie, una vecchina che cadeva
dal sonno e aspettava il momento di chiudere:

— L’hanno presa buona, questi signori! Vieni a vedere come dormono.

— È tardi, ripetè senza scomporsi la vecchina, è tardi — svegliali.

— È fino un peccato interrompere il loro sonno — pensò bonariamente il
trattore...

                                   *
                                  * *

In quello stato i due individui assopiti per l’effetto delle sigarette
preparate, non solo non soffrivano, ma gustavano ognuno d’essi a suo
modo una grande dolcezza in un sogno mirabile.

Come dissero di poi, quando le vicende che narriamo toccarono il loro
fine, Evaristo ebbe la visione di una ricchezza straordinaria e di una
felicità mai desiderata perchè pensata mai, e venuta a lui, con mezzi
nuovi e improvvisi. Ne era stato investito e preso come di soprassalto,
rimanendo vinto e beato d’essere vittima.

Un gran cielo d’oro ardeva sul suo capo, e una quantità di persone
quasi tutte sconosciute s’inchinavano a lui ammirando.

Hulda non passò con la sua bruna figura, per mezzo a quella luce, ed
egli non sentì il bisogno di vederla e di cercarla.

Una nuova potente affezione, con una forza inesplicabile lo soggiogava,
schiudendogli un mondo ignoto, una visione di nuove meraviglie, quasi
premio alle smodate vedute della sua ambizione di speculatore.

Francis Webb rivide la diletta Mary. Si sentì dalle care braccia
stringere, sentì la bella bocca rosea della figliuola posarsi su la
sua.

Egli era contento in quello stato, ebbro di paterna felicità.

Quando riaprirono gli occhi, per la cessazione del sonno, non perchè il
loro sonno fosse stato interrotto dal padrone che malgrado tutto non
vi era riuscito, si posero in cammino per ritornare alle rispettive
dimore.

                                   *
                                  * *

Ben intanto s’affrettò verso la casa di Evaristo Grinfieri, dove Tommy
attendeva.

Non indugiarono molto a compiere ciò che da chi tutto dirigeva, era
convenuto dovesse aver luogo.

Ben consegnò _le gioie_ ed ebbe dal vecchio servo il denaro, l’abito
nuovo, e lo scontrino pel viaggio.

Cambiarono poche parole, per quanto si conoscessero già da parecchio.

— Tommy — chiese Ben prima di partire — sento una strana arsione in
gola; datemi un calicino di qualche cosa veramente buono.

— Ecco — gli disse dopo qualche momento il servo, ecco del _gin_ di
ottima qualità. Non è di quello che si trova da per tutto.

Ben tracannò subito, poi, più per complimento che per aver gustato
davvero in quella fretta il liquore, disse con solennità:

— Avete ragione. È dell’ottimo. Vi saluto.

— Arrivederci.

Ben, salito a cassetto, pensò subito alla seconda e più difficile parte
del suo programma: levare di mezzo Gar.

Ebbe quasi scrupolo di toccarlo con la frusta. Scosse le redini ed il
cavallo si pose al trotterello consueto.

Dopo una buona ora arrivò in quel tal punto di _Le Ferry_ che così
opportunamente era stato designato da Evaristo, nella sera in cui gli
aveva parlato di Guy Stein e delle gioie di Hulda da ricuperare, prima
di farlo cadere con un tranello in mano della polizia e liberare per
sempre da quell’incubo sè e la donna che amava.

Arrivò sul posto proprio al punto in cui l’alta rupe si scoscende sul
mare.

Scese: poi con un tremito di commozione non mai provata, cominciò a
mutare il vestito.

Pose il vecchio nella vettura, indi preso al morso il cavallo, girò la
vettura.

Girò la vettura e si fermò, ora che non mancava più che una spinta
indietro a precipitarla insieme con Gar.

Lo riafferrò la pietà dell’animale, che gli era stato compagno di
lavoro per tanti anni, non seppe decidersi al momento fatale di dargli
la morte. Si fermò incrociando le braccia, pensoso:

— E se io precipitassi la carrozza lasciando salvo Gar? Non sarebbe
l’istesso? Forse che Gar ha la parola? Forse che potrebbe tradirmi? Non
è meglio che lo lasci vivo a un altro destino?

In questa idea, lentamente sfibbiò i finimenti e ne liberò il cavallo,
che ritrasse in disparte; poscia presa per le stanghe la vettura puntò
i piedi e la spinse.

Uno sforzo, due, tre, ed il numero tredici, varcato l’orlo del
precipizio con le ruote posteriori, abbandonato a sè stesso,
precipitando con gran fragore, finì per dare un tonfo nelle acque, le
quali rumoreggianti si rinchiusero per sempre sopra di esso.

Seguì un silenzio completo e l’oscurità diede come un senso di sgomento
nuovo a Ben.

— Crepi la vettura! — disse il cocchiere — ma il povero Gar è salvo.

Si accostò all’animale, lo guardò, gli fece ancora una carezza, poi
quasi strappandosi ad esso ripetè due volte ancora;

— Addio! Addio!

Prese la via a passi concitati, allontanandosi pel cammino più breve
onde varcare il tratto di mare, guadagnare la riva opposta e internarsi
con più calma verso il Canadà.

Si fermò solo un istante quando udì per l’ampia oscurità nitrire Gar
che pareva chiamarlo.

— Che cosa vuoi da me dopo tutto? Non ti ho io salvata la vita? — E
concitato e a passi celeri proseguì il suo cammino.

Gar insolitamente libero vagò tutta la notte finchè seguendo l’istinto
si pose su una delle grandi linee che conducevano alla piazza dove per
solito stava fermato con la vettura e sotto la guida di Ben.

I rari passanti e i pochi vetturali di quell’ora non senza meraviglia
videro un cavallo sciolto abbandonato a sè stesso e non sapendosi
spiegare la cosa, si domandavano l’un l’altro:

— Che diamine può essere avvenuto?

Qualcuno credeva riconoscere la bestia, qualcuno metteva in dubbio le
asserzioni udite.

Una pattuglia di polizia, per misura di buon ordine, e per supposizione
di qualche fatto anormale... arrestò Gar, e lo rinchiuse in una stalla,
dove finalmente, dopo una giornata come quella, dopo il pericolo corso
di morire trovò biada e riposo...




CAPITOLO XIII.

La prima sorpresa. — Davanti alla cassa-forte — Ciò che fa la polizia


A un certo punto della via che percorrevano a piedi, e quando avrebbero
dovuto dividersi, Grinfieri s’arrestò e disse come sotto l’impressione
d’una sorpresa gravissima:

— È strano quel che mi accade!

— Che è?

— Mi manca la chiave della cassa, non l’ho più alla mia catenella.
Questa è nuova davvero!

Com’era naturale, Francis Webb cercò la sua e non la trovò.

— Come? Anche a me, manca la chiave...

— Anche a lei?

— Ma sicuro — rispose l’altro con un tremito fitto per tutte le membra.
Ah, corpo del demonio, siamo stati derubati...

— Derubati?...

— Ma sicuro...

— Io non mi raccapezzo...

— Sai tu quella donna?

— Quale?

— Quella che ci offerse le sigarette?

— Ebbene?

— Ebbene è stata lei... certo.

— Vuol dir proprio?...

— Ma lo giurerei! Chi sa che birba essa era mai. Ha profittato del
nostro stato... Noi abbiamo un po’ bevuto... Ci siamo addormentati, non
c’era nessuno... quindi...

— Comincio a credere anch’io che sia stato così.

— Non può essere diversamente. Noi portiamo sempre le chiavi addosso...
Vogliamo tornare indietro?

— No! No! sarebbe tempo sciupato. Andiamo subito allo studio a
verificare la cassa... Ah, proprio questa mi ci voleva. Oggi, oggi nel
giorno che festeggio! Ma che strana predestinazione sia mai? Andiamo,
corriamo, Evaristo. Altro che dormire. Bisogna stare in guardia,
chiamar gente, vegliare tutta la notte per prevenire l’opera dei
ladri... se saremo ancora in tempo.

— Se saremo ancora in tempo — aggiunse macchinalmente Evaristo, che
faceva con grande abilità, con mirabile disinvoltura la sua parte. —
Andiamo.

Il lettore conosce già la dolorosa sorpresa che li aspettava, o per dir
meglio che aspettava Francis Webb che diede in urlo disperato:

— La cassetta con duecentomila dollari! — e si portò disperatamente le
mani nei capelli.

— Pur troppo! — gemette Evaristo. — Il milione che avevo preparato per
gli sborsi da mandare in Italia e in Francia! Sono cose da impazzire.

— Ed ora? chiese Webb.

— Ora, calma e coraggio. Domani porremo la giustizia sulle traccie
dei colpevoli. Cominceremo col denunziare il trattore che a sua volta
denunzierà gli avventori che furono contemporaneamente a noi nel suo
esercizio...

Sopratutto calma. Ci dia coraggio il pensiero che, anche con un milione
di meno, siamo ancora capaci di dettar legge sui principali mercati, su
tutte le imprese, su tutte le combinazioni di commercio...

— Tu te la cavi subito, ti consoli con le parole...

— No, signor Webb, ci rimane ancor tanto che il perduto è ben poca
cosa, se sarà realmente perduto. Abbiamo ancora tanto margine per
consolarci coi fatti. Non siamo sempre noi? Non siam sempre quelli d’un
tempo?

— Speriamo — ripetè flebilmente Webb — speriamo.

                                   *
                                  * *

Al giorno, seguente quella agitatissima notte, il fatto si sparse per
tutta New-York, variamente commentato dai giornali.

La polizia, secondo le deposizioni di Webb, investigò presso Brendly,
ma a nulla approdò.

Brendly era perfettamente ignaro. Costatava soltanto di aver trovato
i due signori addormentati. Degli altri due e della dama, di Lucy,
non sapeva dare notizie, giacchè poteva giurare che non erano
frequentatori abituali e perciò non li conosceva. La sua lunga vita
poi specchiatissima contribuiva a salvarlo da qualunque accusa di
complicità.

La polizia si mostrò paga in apparenza, ma seguitò a tenerlo di mira
per coglierlo alla sprovvista, il che non ebbe luogo per quanta fosse
la attenzione nelle ricerche.

Restavano ora a far nuove congetture sul cavallo abbandonato che si
riconobbe poi subito per quello di Ben, cocchiere del _numero 13_, e
tutte le opinioni furono concordi finalmente, dopo sottilissimi esami
di parecchie circostanze.

Sicuro, chi aveva fatto il colpo e ne giustificava l’accusa la sua
scomparsa, doveva esser lui. O comunque doveva essere, se non autore,
complice e magari vittima.

Accadono tante cose al mondo; ma dov’era Ben, dove scovarlo?

La polizia, come tutte le polizie del globo, seguitava a... indagare;
tanto più che aveva in mano un filo: la scomparsa della vettura numero
13, non trovata nella rimessa, e più importante ancora, la fuga di Ben.

Si parlava di fuga con tutta certezza. Nessun dubbio ormai. Ben era il
ladro, o per lo meno colui che poteva accusare tutti quelli che avevano
preso parte al furto.

Anche qui, ricerche attivissime, ma Ben era introvabile, cioè... salvo.

                                   *
                                  * *

Stando le cose a questo modo il compito di Evaristo Grinfieri,
consisteva nel consolare Webb, nel fargli coraggio e nell’esortarlo ad
avere fiducia nelle famose indagini per le quali sarebbero ricuperati i
valori e puniti i colpevoli.

Mentre attendeva a questo, attendeva pure con la massima alacrità
ora che possedeva i mezzi a organizzare l’impianto per gli uffici
che avrebbe dovuto avere ricchi e grandiosi, la nuova linea dell’Est,
sotto la direzione dell’avvocato Fasperal, divenuto ormai una specie
di genio che tutti ammiravano, sia per la condotta del giornale, sia
successivamente per l’impianto della azienda colossale.

Il pubblico male informato come sempre, sempre allo scuro, cominciava
a formare intorno a Gasperal una specie di leggenda commerciale di
cui l’astutissimo Evaristo Grinfieri si godeva un mondo e di cui,
giovandosi della propria autorità, caricava spesso, come suol dirsi, le
tinte.

Gasperal era diventato l’uomo fenomeno che teneva a memoria migliaia
di cifre, che aveva amici in tutto il mondo, che parlava dodici lingue,
che aveva difeso gli imputati più celebri, e che senza darsene l’aria,
senza strombazzamenti, aveva uno zampino nella politica europea per
la fiducia che ponevano nel suo consiglio, l’Italia, la Francia, la
Spagna, il Portogallo, ecc.

Comunque, il fatto importante è questo, che la linea dell’Est — quel
sogno della linea dell’Est — s’avviava a gran passi verso la più
formidabile realtà.

Le azioni fiorivano. Il palazzo affittato per gli uffici aveva
preso l’aspetto d’una banca grandiosa animata da un pellegrinaggio
ininterrotto.

Erano stati assunti due sotto direttori, uno tecnico e uno
amministrativo; trentacinque impiegati, giovani ed alacri.

Erano stati adottati sistemi recenti per celerità e precisione.

Dieci servi portavano scritto in oro sul berretto _Linea dell’Est_.

Il grosso Isaele Wood era rimasto come istupidito.

Le cinquecento miserabili copie del giornale si quotavano a prezzi
relativamente favolosi, la ricerca ne era insistente, continua, e
pur troppo tutti trovavano la tiratura manchevole alla vastità della
importanza, eccessivamente manchevole, tantochè tentando una nuova
speculazione, cioè su quella innestandone un’altra, un ricco editore
di New-York aveva chiesto a Gasperal di poter riprodurre a distanza di
tre giorni ogni numero offrendo centomila dollari annui in compenso
e sottoscrivendo per quel numero di azioni che in base allo statuto
avrebbe richiesto.

— Denari? — rispondeva Gasperal indettato da Evaristo — ma se ne
abbiamo già troppi! La bontà dell’impresa è la più alta e proficua
sua _réclame_. Io sono assediato e stanco. Le casse rigurgitano. La
contabilità si complica... Date tempo... date tempo, lasciate che
comincino i lavori. Se ci occorreranno denari, li domanderemo. Forse
che ora non li abbiamo chiesti?

                                   *
                                  * *

Hulda, dopo tutto ciò che era avvenuto, raggruppando le idee a modo
proprio e nulla sapendo dell’intimo pensiero di Evaristo, rimaneva
spesso in dubbio circa la maniera di comportarsi con lui.

Ella che aveva aspettato ingenuamente l’arresto di Guy Stein, con lo
stratagemma escogitato da Evaristo, ora pensava:

— Non solo, non è riuscito, ma ha perduto il milione! È strano, è
tremendo! Dei due ha vinto ancora Guy Stein.

E lo rivedeva l’uomo terribile, con le pupille arrovesciate, e la bocca
sdentata, e paurosa ancora ne ascoltava, come di lui supremo sarcasmo,
le pietose parole:

— Fate la carità a un povero cieco.




CAPITOLO XIV.

Le idee di Mary — Nuove pagine d’amore — Contrasto in famiglia


Qualche tempo dopo gli avvenimenti narrati, e quando già Francis Webb
si rassegnava ormai a non rivedere più i duecentomila dollari che
con tanta finezza gli erano stati rubati, qualche tempo dopo, finito
il viaggio e gli studi, tornò definitivamente in famiglia Mary. Webb
abbisognava davvero in quel punto della consolazione di riabbracciare
la figliuola diletta, della quale oramai non si distaccherebbe più.

Da un pezzo si sentiva troppo solo, da un pezzo non gustava il piacere
di una così cara intimità quale poteva dargli Mary.

E la fanciulla era davvero amabilissima. Il sorriso più squisitamente
buono fioriva sulle sue labbra e quella vera bontà, che conquista e
ammalia, era tra le bellissime prerogative di lei.

Ora tutta entusiasta del suo viaggio aveva un mondo di cose da narrare
al babbo che l’ascoltava rapito, che se la stringeva al petto con nuova
intensa effusione.

In Mary egli vedeva rivivere la cara sposa perduta; in Mary presentiva
lontanamente, vagamente, il piacere e l’orgoglio di sentirsi presto un
uomo felice.

Egli aveva in testa abbozzato, se non concretato ancora, un progetto di
matrimonio nel quale si concentrava ogni sua idealità: ma pur troppo,
come vedremo in seguito, Mary non divideva le idee del padre, per
quanto gli fosse una figliuola singolarmente affezionata.

                                   *
                                  * *

Evaristo Grinfieri aveva in passato veduta poche volte la fanciulla
e proprio quando, giovanetta ancora, non s’era in lei delineata per
anco quella personalità forte e compiuta che può ispirare una seria
passione.

Le molte cure dell’azienda, che per tanta parte poggiava su di lui, e
l’attaccamento allora sincero per Hulda, avevano pure contribuito a non
lasciargli fissare mai troppo il suo pensiero su Mary.

Ora rivedendola spesso cominciava a sentire un vago bisogno di vederla
sempre, di parlarle, di gustare tutto il fascino innocente che emanava
da quella creatura così bella e tanto buona.

Mary, perfettamente ignara de’ di lui precedenti, cominciò a trovarlo
d’una simpatia irresistibile, cominciò a pensare che in Evaristo si
concretava il tipo che qualche volta le era balenato alla mente ne’
suoi sogni di fanciulla sana e forte che aspira con sincerità al bacio
dell’amore.

Francis Webb non si dava pensiero dell’intimità ognor crescente fra sua
figlia ed Evaristo. Egli aveva la convinzione che fosse nulla più di
una vera confidenziale amicizia e che il giovane sarebbe davvero ben
lungi dal voler in Mary una sposa.

Per la sua Mary ci voleva ben altro di quell’uomo, che egli aveva da
giovinetto educato al commercio e alla lotta delle speculazioni. La sua
mente vedeva un partitone ben diverso, vagheggiava uno di quei connubi
d’alta linea nobiliare che sono il desiderio e la spina di molti
americani di recente ricchezza.

Non solo, ma nella sua bonarietà nutriva la certezza, avrebbe giurato,
che la figliuola non penserebbe dissimilmente dal babbo.

Come si ingannava, e come di giorno in giorno, i due giovani si amavano
sempre più!

Evaristo, che prima di allora non s’era mai sentito soggiogato da un
affetto vero ed intenso, ora provava nell’anima una nuova voluttà.
Il suo spirito si sentiva attratto con tanta violenza verso il nuovo
ideale, che man mano quell’amore diventava per lui un martirio.

Il vero, il potente amore, quello che non si può nascondere è proprio
così, ed ormai quello che egli provava rispecchiava l’altro elevato,
intenso di Mary.

Quante dame aveva già conosciuto Evaristo! ma quale di esse si
era fatta amare con tanta passione, e fatta amare per la sua casta
bellezza, pel sorriso angelico, per la virtù, pel riserbo mirabile?

Ah, nessuna, nessuna come Mary! in entrambi era quello un primo amore,
con tutta la sua veemenza, con tutti i suoi spasimi, con tutte le
lusinghe crudeli, con tutte le grandi fedi inalterabili.

Mary doveva essere sua, doveva diventare la madre de’ suoi figli.
Bisognava perciò decidersi una buona volta e farla finita per sempre,
con quella precedente vita di scapolo, passata mutando amore sempre e
non amando mai.

La figura di Hulda ora impallidiva. Hulda per lui non aveva che le
risorse di una mondana e l’attaccamento suo non era che l’effetto del
pane e forse di una certa gratitudine.

Non si poteva amarla davvero, non si poteva a lungo andare viverle
dappresso, consacrarsi a lei, tutto a lei che era stata di altri.

Ma questo pensiero gli dava uno sgomento così forte, quale egli non
avrebbe mai sospettato che potesse avvenire, sentiva che Hulda era
un ostacolo, che troncare la relazione con l’amante sarebbe stata una
prova difficilissima.

Era tra due fuochi.

Intanto seguitava ad amare con crescente ardore la candida Mary.

Hulda, che pur continuava a visitare, più d’una volta gli aveva fatto
notare la di lui freddezza.

Egli rispondeva continuamente:

— Troppe preoccupazioni, troppi affari, troppe cose per la testa!

Quando, lasciata Hulda, ritornava a Mary, la sua fronte si rasserenava.
Gli pareva di trovare l’oasi della sua anima. Senonchè baciandola lo
assaliva quasi direi un rimorso. Gli pareva di contaminarla perchè la
sua bocca si era posata poco prima su quella di Hulda.

L’amore dà di queste così squisite delicatezze, e le dà più
specialmente a certi individui che, scettici e spesso elegantemente
brutali, si diedero in braccio liberissimi a ogni senso di voluttà.

A questo punto delle cose, o diciam meglio della intimità, fra Mary
ed Evaristo, Francis Webb non aveva ancora nulla veduto, ancor nulla
notato.

Che diamine? La buona Mary amerebbe e si lascerebbe amare, senza il suo
permesso? Una figliuola così affettuosa, così obbediente?

                                   *
                                  * *

Non basta, quello che già fu detto a riguardo di Evaristo, pur troppo
non è tutto. Una nuova spina veniva ora a fare strazio di lui. Di
fronte alla sincerità del suo amore, si ergeva lo spettro del rimorso.

Con che coraggio poteva egli chiedere la mano di quella fanciulla al
cui padre aveva rubato?

Questo fu a poco a poco il terrore che si ingigantì nel suo animo,
questo fu il nuovo tormento insieme con l’altro, cui cominciava ad
avvezzarsi, di Hulda.

Hulda, molto probabilmente, e ben preparata da Bess, si sarebbe per
denaro lasciata abbandonare.

Quelle donne in fondo in fondo sono un po’ tutte così.

In loro la questione saliente non può essere che la finanziaria. Esse
non amano, non devono amare.

Quando hanno rappresentata la loro commedia basta. Noi non domandiamo,
ed esse non possono e non devono dare di più.

Con questi pensieri si andava confortando, ma assai scarsamente,
Evaristo, che più spesso, dopo tante considerazioni si sentiva
attorcigliato da dubbi crudeli, da presentimenti angosciosi.

Frattanto erano corsi parecchi mesi e s’iniziavano i lavori per la
_linea dell’Est_.

L’ardimentoso concetto di Evaristo non poteva proprio concentrarsi
in modo migliore. Egli non poteva desiderare che più efficacemente la
pratica assecondasse la visione della sua intelligenza.

Un giorno che Mary ed Evaristo erano in giardino quella chiese
dolcemente al giovane:

— Che hai che ti turba?

— Nulla dolcezza mai.

— Eppure... mi sembra che da qualche giorno tu non sia più quello di
prima.

— Mary... sai pure che noi uomini abbiamo tante preoccupazioni...

— Ma adesso per te, come è per me, l’amore dovrebbe essere tutto ed
assorbirti interamente.

— Dubiti forse?

— Ed allora quando darai la lieta novella a mio padre?

Egli che ti vuol tanto bene, che ti stima tanto, ne sarà veramente
felice.

Evaristo rimase muto e pensoso, sotto lo sguardo innocentemente
indagatore di Mary, della buona fanciulla, che non sapeva quante cose
gravassero in quel punto sull’anima dell’uomo, che ella amava con tanto
impeto giovane, con tanta tenerezza.

— Parlerai dunque a mio padre?

— Domani, senz’altro.

Evaristo, preso alle strette, non smentiva mai il proprio carattere
dell’uomo che, visto il nuocere irreparabile dell’indugio, si
precipita, forte del suo coraggio, confidente nella sua arte, alle
sorti improvvise del nuovo destino.

Il domani, quando furono soli, Evaristo, dopo ch’ebbe ascoltato per
la centesima volta le recriminazioni di Webb sull’insufficienza della
polizia, e la sua incapacità a trovare i ladri dei suoi dollari, colto
il momento opportuno di tregua, gli disse:

— Ho bisogno di parlare per un motivo molto importante, un motivo che
son certo, non le dispiacerà.

— Hai forse dei sospetti? Sai forse per la tua furberia dove mettere le
mani?

— Non si tratta di questo, ma di una altra cosa, migliore assai o più
importante.

— Più importante dei miei duecentomila dollari?

— Ma sicuro...

— Mi pare impossibile. Di che vuoi tu parlarmi?

— Del mio matrimonio. Sento ormai di non poter più rimaner solo.

— E come c’entro io nel tuo matrimonio?

— Come c’entra? Ma è parte principalissima.

— Io?! Tu sbagli...

— Non sbaglio no.

— Dunque, io entro nel tuo matrimonio.

— Sicuro... come suocero.

— Come suocero?! Ma allora tu vuoi sposare mia figlia?

— Precisamente...

— Vedo che la sigaretta di quella sera ti ha proprio dato alla testa...
e molto più di me...

— Signor Francis Webb, queste non sono cose da trattarsi in burletta.

— Ma tu dici sul serio? Tu Evaristo vorresti sposare la mia Mary?

— E perchè no?

— Perchè è una cosa impossibile. Ma ti pare, figliuolo? Tu credi che io
voglia dare mia figlia al primo venuto?

— Veramente io non sono il primo venuto.

— E chi sei allora tu?

— Sono la giovane intelligenza, che vi ha aiutato a fare la vostra
attuale fortuna.

— Tu hai fatto il tuo dovere e ne sei stato ricompensato. Ed io non
credo che tra i miei obblighi ci abbia ad essere quello di darti mia
figlia. Ti voglio bene e ti amo sinceramente, perciò sinceramente ti
parlo. Io non credevo che le cose arrivassero a questo punto. Certo, tu
hai scaldato la testa a quella innocente figliuola che io ho avuto il
torto di lasciare troppo discorrere con te.

— Signor Francis Webb, i motivi della vostra disapprovazione?...

— I motivi? Dovresti saperli da per te. Esamina il tuo passato, pensa
che quel poco che sei è merito mio...

— E non mio?

— ... è merito mio, ripeto, e non mi sembra che si dia il diritto di
fare a me simili domande di matrimonio.

— Signor Francis Webb, io ho fatto questa domanda col più necessario
dei consensi, quello di sua figlia. Lei non vuole? Io dirò il suo
_no_ a Mary, e a Mary, a null’altri che a lei, toccherà la ultima
decisione...

— Ma questo si chiama parlar da padroni! — scattò Francis Webb.

— Sicuro — rispose pacatamente Evaristo — da padroni del cuor di Mary.
Io sono pronto a obbedirvi, a rimanermene col mio amore e col mio
desiderio, bisognerà vedere se sarà pronta ad obbedirvi Mary.

— Mary è mia figlia! gridò Francis Webb, — Mary è mia figlia, essa farà
ciò che vuole suo padre; ha abbastanza giudizio Mary.

— Sì, abbastanza giudizio; ed è perciò che non dispero di vederla
presto mia moglie.

— Tua moglie? Ma tu spingi la tua... sicurezza fino a questo punto? Ma
questo non è più coraggio, è temerità.

Mia figlia, lo ripeto, farà la volontà di suo padre. E basta.

— Basta per ora. Avete ragione. Abbiamo parlato troppo per concluder
nulla.

— In verità, Evaristo, io non ti riconosco più. Eri tanto buono, tanto
esperto, eri la perla del commerciante, e adesso, tutto d’un tratto mi
perdi la testa... ed esci con delle idee di matrimonio. Via, via, fa
giudizio! Ti mancano i divertimenti?

Sta a vedere che un giovanotto ha proprio bisogno di moglie!

— Lei mi incita a perderle il rispetto. Io invece glielo conservo.
Sicuro, io penso che Francis Webb deve diventare mio suocero, ecco
perchè ammutolisco.

— Questo si chiama aggiungere l’ironia, la beffa.

— No, si chiama seguitare a dire con coraggio la verità.

L’audacia del giovane meravigliava a un punto e indispettiva il
vecchio, che non poteva assolutamente acchetarsi nel pensiero che un
uomo allevato da lui, che un uomo di poveri natali, per quanto abile,
potesse aspirare alla mano di sua figlia. Non era quello il suo sogno e
solo il suo sogno doveva realizzarsi. Perbacco! Egli non era padre per
nulla.

Stette di malumore tutta la giornata, sempre attanagliato dal pensiero
di prendere una risoluzione energica, ma bene inteso dopo aver
avvertito la figlia di mutar pensiero, e, facendole, se occorreva, una
paternale per giunta.

                                   *
                                  * *

Mary notò che a pranzo il padre non era del solito umore e sagace
come non mancano mai di essere anche le fanciulle in apparenza più
ingenue, visto che il babbo taceva, perchè forse non trovava le parole
per cominciare ottenebrato dalla recente bile, risolse di rompere il
ghiaccio.

Evaristo l’aveva preparata e incoraggiata narrandole con parole
veementi la nuova e singolare tirannide paterna, e togliendo argomento
dal rifiuto per iscusare l’indugio.

— Io lo sapeva, io lo presentivo che avrebbe detto di no. Quell’uomo,
perdonami se parlo così di tuo padre, non arriva ad afferrare certe
finezze. Ora non rimane altra risorsa che quella dell’opera tua. Ora
fa tu, mia buona, mia amata Mary. Io penso che per l’amore che egli
ti porta, tu certamente riuscirai... Se poi, come non credo, dovesse
essere altrimenti, allora prenderemo consiglio dal dolore nostro e dal
nostro amore.

Mary levò gli occhi in viso al padre con una grande e naturale
espressione di tenerezza, sorrise pur conservando nel volto un senso
di mestizia rispecchiata dall’anima, e poi chiese tutta semplice e
candida:

— Che hai, babbo? Mi sembri mesto e preoccupato.

— Finalmente! parve dire fra sè Francis Webb — finalmente! Sicuro che
son mesto, sicuro che sono preoccupato. Quando c’è della gente che mi
fa certe domande, io non so davvero più in che mondo mi sia. A tutto
si pensa, ma a certe cose mai, non si pensa mai che possano accadere.
Eppure, capisci, accadono...

— Babbo, parlami chiaro... Io così non intendo bene ciò che tu voglia
dire; spiegati, su.

— Mi spiegherò; ma bada, bada di non darmi torto veh, perchè ho tutte
le ragioni possibili e immaginabili. Tu sei mia figlia, possiedi quel
che possiedi, sudori miei, stenti miei, e io non intendo per nulla che
un individuo qualunque, aspiri all’onore della tua mano.

— Babbo io sinceramente non capisco ancora.

— Tu fingi, tu sai già quello che io voglio dire.

— Posso bene averne idea; ma è d’uopo che tu parli ben chiaro. In certe
cose, inutili gli ambagi...

— Ah! inutili gli ambagi?

— Ah, tu voi proprio che io parli chiaro?

— Sì.

— Ebbene, il signor Evaristo Grinfieri, tu non lo sposerai nè oggi, nè
_mai_.

— Papà mio, quel _mai_ è superfluo. Io amo troppo Evaristo.

— Ma che troppo! Che troppo, se sono appena pochi mesi che vi
conoscete. Come si fa ad amare così? E poi se io vi avevo, fidandomi
di voi, data un po’ di libertà, non era certamente perchè mi tradiste
facendo l’amore. Queste, la mia cara Mary sono cose indegne di te, e
con l’educazione che hai avuto, io non me le aspettavo davvero.

— Papà, tu sai quanto bene io ti voglio.

— Oh, lo vedo, lo vedo...

— No, non giudicare così. Sei buono. Tu sai che ti voglio bene e che
ti rispetto: ora se io insisto nel chiedere che tu mi lasci sposare
Evaristo, gli è che il mio amore è ormai così forte, che io non mi
sento più di resistergli......

— Ma non capisci, povera bimba ingenua, che tu puoi esser moglie di un
altro uomo?

— Migliore di Evaristo?

— Ma sicuro!

— E chi?

— Un uomo molto ricco, immensamente ricco. Un nobile di Europa......
Insomma, un qualche cosa di grande, non un uomo del commercio, un uomo
come non ce ne sono tanti altri.

— Papà, io penso che tu non sia su la buona strada. Io penso che la tua
scelta non sia illuminata.

— Ma che cosa vuoi sapere tu, di matrimonii e di partiti?

— Che cosa ne voglio sapere io? Ma non sono io, la persona più
interessata?

— Ma se tu non lo conosci, bambina mia, l’interessante.

— Non ci intendiamo.

— Eppure finiremo, ragionando, per intenderci.

— Sicuro, e fare a mio modo.

— Cioè, fare a modo mio.

— Papà, certe risoluzioni, non vogliono tanti indugi. Prima che noi
ci alziamo da tavola bisogna aver deciso. Mi duole tenere questo così
risentito linguaggio, ma io amo, io amo con tutta l’anima mia Evaristo,
e quello voglio, quello intendo di sposare.

Francis Webb, guardava meravigliato la figlia. Mai l’aveva trovata così
calma, così energica, così risoluta. Dunque amava Evaristo proprio in
modo da non poterla rimuovere?

Dopo una pausa più o meno lunga e abbastanza angosciosa per Francis
Webb, Mary chiese bellamente, cercando col sorriso di attenuare
l’acerbità della frase:

— Dunque l’uomo che ti ha aiutato a fare la tua fortuna è indegno di
sposare tua figlia? E a chi vorresti affidarla meglio di lui che tu
conosci da tanto tempo e sai quanta serietà sia nei suoi propositi e
quanta assennatezza in tutta la sua condotta?

— Tu ora mi vieni facendo una quantità di chiacchere. Ciò che è stato
è stato. Chi lavorò ebbe la sua parte. E come l’ebbe! Se poi ciò non
basta e dobbiamo ancora a chi ha fatto il proprio dovere, dare ciò
che abbiamo di più prezioso e di più caro, cioè le figliuole, allora,
allora io non mi so più che dire...

— Papà, non insistere. Sarebbe perfettamente inutile.

— Perbacco! Ma io non ti credevo capace davvero di questa risolutezza.
Io mi domando se proprio tu sia mia figlia.

Mary, lo guardò seria, senza rispondere, ma quasi ringraziandolo con
lo sguardo dolcissimo dacchè aveva cominciato a capire che davanti alla
sua imperturbata costanza, il padre stava per cedere.

Avviene purtroppo così in certi caratteri.

Mentre sembra che vogliano ad ogni costo insistere nelle proprie idee,
basta poi che una persona le pigli con dolcezza energica di fronte,
cedono e si persuadono di aver torto.

Il pranzo continuò per altro in silenzio. A Webb sembrava troppo presto
ad ogni modo darsi per vinto, come a Mary sembrava un po’ indelicato,
mancante anche di buon tratto far capire al padre che era già in un
certo modo sicura della vittoria.

Fu in sulle frutta che Webb si sentì pietosamente gli occhi addosso
della cara fanciulla, quegli occhi i quali ad una grande bellezza
univano una espressione meravigliosa di bontà.

— Dunque — disse uscendo dal primo riserbo Webb — dunque noi dobbiamo
venire ad una conclusione?

— È quello che volevo dirti, babbo mio amatissimo.

— Ebbene, io ho pensato...

— Tu hai pensato? Su dillo, presto babbo, non farmi sospirare più a
lungo — tu hai pensato?

— Di accontentarti. Sì di accontentarti nel tuo desiderio. Io non ho
che te al mondo. E tu devi meco essere felice fino all’ultimo momento.

Mary diede un gran sospiro di sollievo. Si tolse dalla sua sedia, si
fece a fianco del babbo ed amorosamente gli pose le braccia al collo.

— Tu sei una biricchina...

— Perchè babbo?

— Perchè vuoi fare a tuo modo.

— E che, forse non ho fatto bene?

— Ecco... se torniamo sull’argomento, è un affar serio.

Mary lo capì subito e volle, se non tacere, deviare il discorso, ma
allora il padre insistette.

Pur troppo sono queste le fluttuazioni attraverso le quali passano i
nostri sentimenti, le nostre idee, prima che la realtà vagheggiata ci
sorrida.

Fra il padre e la figlia, vi fu di nuovo un istante glaciale, non privo
di un secreto sgomento per entrambi.

— No, fece allora coraggiosamente Mary, no, non torniamo su quel
che già si è detto. Grazie, babbo, per la tua decisione che mi darà
gratitudine per tutta la vita. Io ti ringrazio a nome mio e a nome di
Evaristo, e per tutti e due, prendi questo bacio....

— Veramente, veramente... ah, Mary! Mary!

— Padre mio!

— Nulla! Nulla! Ciò che è stato è stato. Svanisca pure il mio sogno.
Tu vuoi che Evaristo diventi tuo marito? Ebbene, quando lo vedi, non
appena lo vedi, puoi dirgli liberamente a mio nome che egli sarà mio
_genero_.

E qui al pensiero del genero Webb riandò al sè al dialogo avuto con
Evaristo, alla sua meraviglia ed alla cosa che da principio presa in
burletta, si risolveva ora tanto seriamente e così presto.




CAPITOLO XV.

Le conseguenze di quanto sopra — Evaristo alle durissime prove — Ciò
che almanaccò Guy Stein


Pensi il lettore con che ansia intensa e tenerissima, la buona, la cara
Mary, aspettasse di rivedere Evaristo.

Corrergli incontro, stringergli la mano, stringergliela forte forte
e dirgli: — Sai, il babbo è contento, è contento! — doveva essere per
lei, un momento di felicità vera e di orgoglio purissimo.

— Ma quando torna — pensava vedendolo tardare — ma che fa, il _mio_
Evaristo che non viene? Come si soffre ad essere privi — anche per poco
— della persona che si ama.

L’anima pur nella sicurezza dell’amore ricambiato, si sente povera e
sola e sconsolata. Le manca la vita e la sua luce.

È come il diamante che più splende, più è saettato dal sole.

A Mary importava sopratutto, per sua gentile alterezza, mostrare come
ella fosse riescita a vincere il padre, abbattendone i pregiudizi.
Importava mostrargli, come avesse subitamente riportata la vittoria che
in mano a lui soltanto non avrebbe arriso al loro amore.

Era un gentile, e soavissimo titolo di merito che essa buona
intimamente e cara, voleva produrre agli occhi di Evaristo, perchè
egli comprendesse non foss’altro una cosa sola: quanto la sua diletta
Mary, ne dividesse le idee e secolui arditamente, nella soave umiltà,
trionfasse d’ogni pregiudizio d’ogni umano rispetto.

                                   *
                                  * *

Evaristo era, mentre ella pensava così, presso di Hulda, recatovisi con
l’idea, se non di troncare per allora risolutamente la relazione, per
prepararne con garbo il distacco.

Quella passione della giovine mondana, lo sgomentava più che non
si fosse figurato dapprima, e quando gli pareva in certi istanti di
leggere chiaro nel carattere di lei, si ritraeva atterrito, come chi
abbia inavvertitamente sporto il capo su di un abisso.

Come desiderava adesso che Hulda non lo avesse amato mai, mai... Come
invece, troppo spesso, si avvedeva che nel cuore della povera traviata
un soffio di affetto sincero passava per lui, anche a traverso a
tante delusioni, a tante amarezze a tanto perfido scetticismo che
sinistramente, come una tenda funerea le illuminava intorno la via
della perdizione.

Il discorso fu da principio freddo fra i due. Avevano l’aria di persone
in cui pare essere entrato il sospetto, e nasca il bisogno di studiarsi
a vicenda, di essere guardinghi e attentissimi nelle frasi, di uscire
in accenni, di parare in tempo, di fingere i colpi.

— È ancora troppo presto — pensava fra sè Evaristo. — Par che vi sia un
principio di accenno alla freddezza, al distacco, ma non precipitiamo.

Le loro parole si aggirarono in ultimo sopra le solite cose, sopra le
solite inezie che non concludono e non compromettono dando modo alle
parti di temporeggiare.

Ad un certo punto Hulda, come balzando d’uno in altro pensiero,
disse con uno scarto quasi infantile, che sarebbe parso in lei prima
impossibile:

— Vuoi vedere il mio nuovo abito? È veramente bello! La sarta questa
volta, bisogna dirlo, ha superato sè stessa.

Chiamò Bess:

— Portami l’abito rosa, il nuovo.

Bess uscì frettolosamente e tornò indi a poco portando a braccio
sollevato il vestito, seta cascante, bellissimo.

— Va’ pure — disse alla cameriera.

Bess, avrebbe capito benissimo di uscire, senza quel comando, dato con
dolce parola e con lunghissimo sguardo.

Quando era sola Hulda aveva bisogno della cameriera, quando c’era lui,
bastava sempre da sè a tutto.

— Guarda, giudica te stesso — fece Hulda e cominciò lentamente
a spogliarsi con una grazia soave e una squisitezza procace, che
turbarono intimamente Evaristo, per allora inteso a ben altri pensieri
che a quelli del senso.

Ma questi purtroppo, lo richiamò Hulda così fine, così armata di
sottili astuzie da riuscir sempre più stuzzicante, più nuova, più
innamoratrice di volta in volta, cosicchè il volubile amore s’andava
raffermando e nobilitando in lei che a traverso del senso, per poco
forse, ma per certo insinuava l’affetto.

Come fu in sottanina e in busto, indugiò con molle grazia fascinatrice
a porsi l’abito di seta. Così a braccia nude e scoperta al sommo del
petto ampio, ricolmo, eretto sul busto rotondo e ondulante sui fianchi
disegnati da curve nobilissime, abbracciò Evaristo che sedeva sur un
piccolo divano.

Il busto ancora freschissimo e turgido di Hulda sfiorava il volto di
Evaristo, perchè la maliosa ve lo attirava con la candidissima mano,
così piccola, ma così potente alla carezza.

Un profumo tepido di carne giovane scaldata al sole della passione,
saliva al cervello di Evaristo svegliando ancora in lui desiderî
ch’egli avrebbe voluto sopiti per sempre, attirandolo ancora verso la
dolcezza del bacio amoroso.

— Sii buona, Hulda.

— Più buona di così? Come non potrei essere buona con te, io che sono
tutta tua? Sei tu, Evaristo, che colmi tutto il mio cuore, sei tu che
disseti tutta l’anima mia spasimante.

— Via, Hulda, ora ti stai ripetendo....

— Se mi ripeto, dicendo che ti amo, gli è perchè t’amo sempre. Tu
vedi...

— Io?...

— Perdonami sai, ma non mi sembri, no, più quello di prima. Io non
sono più il tuo pensiero, il tuo odio, il tuo amore.... Io, vorrei
ingannarmi, ma sto diventando per te, un’ombra di amore, un’infelice
creatura, che passa, desolata, nella piena del suo affetto.

— Ma Hulda...

— Sono dei timori che mi prendono, che mi agitano, che non mi lasciano
stare da qualche giorno, ma timori, mi parvero amor mio; chè se io
sospettassi menomamente che da parte tua un abbandono potesse diventare
possibile, io perchè ti ho amato, ti darei una lezione che non
dimenticheresti mai più... Vorrei che tu abbandonassi una morta...

— Ma tu, dici cose che non hanno senso. Tu sei presa da timori, nulla
affatto giustificati...

— Il cuore di chi ama parla...

— Ma non sempre dice il vero, non

sempre, mia Hulda, angelo mio... E, dimmi, rimani così? Non mi ti lasci
vedere con la tua bella veste nuova? Sopra te, così superbamente bruna,
il color roseo acceso deve diventare meraviglioso.

— Vuoi che io mi ricopra? — disse languidamente e ansando un poco
Hulda — vuoi ch’io mi ricopra? Non sono più belle queste braccia che ti
stringono con tanto amore, non è più tuo questo petto, straziato dallo
spasimo che gli hai dato tante volte?

— Hulda, vestiti, lasciati vedere in mezzo al colore delle rose.

— No, no, mia carezza, mio sospiro, mia vita, no...

— Hulda, sii cara, obbedisci a chi ti vuol bene...

— Se mi vuoi bene, baciami, tanto... tanto...

— Hulda!... — mormorò Evaristo tremando — Hulda...

— Baciami, rispose ancora lei, guardando con occhi voluttuosi
e sporgendo la testa siccome assetata presso a un rivo cadente,
baciami.... eccoti la mia bocca, prendila.

Fu un momento d’amore come quelli del principio, quelli così sospirati
e tanto animati dalla passione.

— Non è vero che sei mio, tutto mio, che nessuno ti strapperà mai dalle
mie braccia?

Pure nella sola solennità del momento, la parola traditrice uscì dalla
bocca di Evaristo.

— Tuo, tutto tuo, disse lasciandosi stringere e languendo beatamente.

Un angelo in forma di donna gli passò in quel momento a traverso la
fantasia.

Gli parve che quell’angelo s’allontanasse inorridito.

L’amore dell’anima, fu più forte del presente amore, e suo malgrado,
gli uscì dalla bocca un nome:

— Mary!

— Che hai detto?

— Che ho detto? _Ma ri...di, ma ridi_ una volta; non mi hai neppur
lasciato finire. Non sei forse contenta? Non sono sempre il caldo
innamorato di prima? Dunque mostrami i bei dentini, fa la pozzetta
nelle guancie, socchiudi gli occhi, agita la bella testa nera...
ridi...

Hulda prestò fede e chiuse con la sua, la bocca che prima aveva detta
la menzogna.

                                   *
                                  * *

Evaristo, uscì dalla casa dell’amante, se non in se stesso,
esteriormente e per lei, sempre innamorato.

Hulda rimasta sola, ora si dava torto ed ascoltava con piacere i
rimproveri di Bess.

Ella conveniva di aver errato nel sospettare di Evaristo, di essere
divenuta senza un motivo così terribilmente gelosa.

— Sarà che adesso, che ho sfidato Guy Stein, sarà che adesso ch’io ho
riacquistato la pace di Evaristo l’amo d’un nuovo e forte amore, quale
non ho provato mai.

— Però, non dovete esagerare.... Perchè volete addirittura incatenare
quell’uomo? Egli, comunque amandovi, deve essere sempre libero di sè.
Ma che vi pare?

— Senti Bess, quando si ama, parole come le tue fanno orrore. Non
dirmele più, sai? Non dirmele più!

— Tu non vedi che il tuo ventre da riempire, tu non devi avere amato,
mai, mai, mai!

— Io?!

— Sì, tu; altrimenti non diresti così.

— Sarà!

— È, pur troppo. Io sento invece ora, ciò che non ho mai provato, ciò
che non ho mai sentito in questa mia deplorevole vita... veramente, no;
un giorno mi ricordo ancora, a Napoli.... a Napoli.... c’era un uomo
che provava per me una vera tenerezza infinita ed io lo ricambiavo...
ma noi, noi, non siamo più vivi l’uno per l’altro. Noi siamo due morti
che camminano ancora.

Queste parole aveva pronunziate con accento vivissimo di passione
Hulda, a voce bassa, e in una commozione frenata a stento.

Un osservatore l’avrebbe detta una Ofelia pensosa, ma bruna e bella non
meno della biondissima che Amleto fece piangere e morire.

Meglio ancora una Violetta, che crede estinto l’amore mentre esso è
immortale e nell’addio del passato, scorge invece nuovi sogni e ridenti
visioni per l’avvenire.

La passione purificava Hulda, di giorno in giorno.

Quella stessa passione, purificava non meno Evaristo. Entrambi si
ritraevano da un brutto passato.

Ora, partiti da punti opposti, si ritrovavano ad un centro in cui
l’amore splendeva della sua luce più bella.

Come un sole, saettava dal cielo i fasci luminosi, accendeva le
anime, le rapiva nel regno dove la virtù non è più un mistero, dove
la passione, per chiamarsi divinamente amore è tutta sacrifizio, anzi
sacrifizio è il nome più degno!

                                   *
                                  * *

— Finalmente! finalmente! — gridò Mary non appena dal cancello del
giardino vide entrare Evaristo. — Come ti attendevo ansiosa, per darti
la lieta novella! Il babbo a detto di sì.

— Di sì? — chiese Evaristo con l’aria d’uno che riceva un po’ troppo
presto una notizia, per quanto buona e desiderata.

— Ma come? Non esulti con me, ti senti forse male?

— Tutt’altro! Sono felicissimo della risoluzione di tuo padre; sono
felicissimo che abbia finalmente mutato parere..... Ma che vuoi? Ho
sempre tante cose pel capo.... Ora sento più di prima l’attaccamento
verso di lui. I nuovi doveri, i nuovi interessi.... tutto mi preoccupa.

— Ti preoccupa, ma non deve toglierti alla tua intima felicità... La
tua Mary sarà la tua _oasi_. Quando sarai nella vita affaticato, stanco
della lotta, sudato, riarso, quando sentirai il bisogno di una mano
amica, la quale abbia per te una carezza sincera, allora sarà mia la
mano che troverai... E avrò tante parole buone per te, parole dolci...
Noi siamo ricchi, ma la ricchezza non fa mai completamente la felicità
di alcuno.... Come potrebbe farlo di noi che siamo così superiori?

Sarà l’amore, continuo ed intenso, non è vero Evaristo, l’amore, che
in qualunque circostanza formerà la nostra vera vita... Mio padre non
voleva, ma mio padre ha ceduto. Una vittoria dell’amore come vedi. Egli
non seppe resistere alle parole della figlia.

— Mary, Mary cara, io sento proprio il bisogno di ringraziare il cielo.
Riuscire a farti mia, fu il desiderio che mi prese dal momento in
cui ti vidi.... Mi si schiude una nuova vita, anzi mi pare di entrare
adesso nella vita. Il mio passato, tutto di lavoro, non mi ha dato mai,
una contentezza e una tranquillità così complete...

— Siedi, caro, siedi qui accanto a me... noi ora siamo con le nostre
anime già l’uno dell’altro... siedi, mio diletto... e dimmi tante cose,
aprilo tutto il tuo cuore... Più avrai sofferto e più nella tua Mary,
tu troverai amore.

— Mary, così parlano gli angioli...

— Così parla chi ama semplicemente... Se tu sapessi quante volte ho
pensato che sei rimasto tanto presto senza genitori... Che mio padre,
nel proteggerti e nell’educarti, forse fu qualche volta severo,
eccessivo.... Che tu, per tanto tempo, non hai avuto un cuore in
cui versare le tue lacrime, una bocca la quale ti dicesse una parola
consolatrice... Eppure per la tua bontà innata, il tuo cuore, in tanto
abbandono, non si è inaridito... ed ora si sveglia, non è vero? si
schiude come un fiore e manda tutto il suo profumo...

— Mary, Mary — disse Evaristo preso da una commozione intensa — tu sei
per me troppo grande, io sento quasi di non meritarti, di non essere
degno di te.

— Perchè, perchè mi dici così, carino? Perchè non ti reputi degno del
mio amore? Ma se sono io l’indegna, sono io che pure amando non so
amarti abbastanza, quanto vorrei, quanto meriti? Ma se io sento, dirò
così di essere nata per amare un uomo come te, dopo di averlo ammirato,
e dopo di averlo tanto tempo tenuto nascosto nell’anima... Non lo sai,
che tu eri il pensiero continuo, della povera educanda, sola sola, in
mezzo a tante compagne?

Proprio così; tutta l’anima mia si rivolse a te, da quella prima volta,
ti ricordi? quando già grandicella tornai in famiglia per le vacanze e
noi ci vedemmo, dopo che tu avevi fatto un lungo viaggio in Italia. Da
allora, sai... Da allora mi ti sei fitto nell’anima e se tu sapessi,
quanti intimi affanni, quanti spasimi segreti!

— Da allora? — interrogò Evaristo, meravigliato.

— Sicuro, mio bello, da allora. E tu, dimmi, dimmelo sinceramente a chi
pensavi, in quei momenti?

— Io?

— Sì, tu. A me non certo, e non ti do torto perchè ero ancora, in
apparenza, una fanciulletta... non potevo interessarti, come adesso.

— Francamente, la mia Mary, io non pensavo in quei giorni che a
lavorare, a rendermi sempre più degno della protezione di tuo padre.

— Soltanto questo?

— Soltanto questo.

— Non avevi un qualche amore, un qualche capriccio... non per fartene
rimprovero, sai! Tutt’altro! Ho abbastanza buon senso, ma, così per
semplice curiosità per una curiosità perdonabilissima, da che comincia
essa coll’assolvere, col perdonare completamente.

Preso nelle strette di queste argomentazioni. Evaristo sentiva che
tutto il suo spirito, e non ne mancava, si dibatteva invano, come un
bambino che sollevato dalla mano di un gigante, annaspa invanamente,
con le braccine e le gambucce, e mentre sente di essere sicuro, perchè
retto da una mano poderosa, sente tutto il raccapriccio dell’abisso
sottostante dove cuore comanda alla mano: Bada di non lasciarlo cadere.

L’unica conclusione di Evaristo fu questa:

— Per una moglie, io non potevo porre gli occhi, su fanciulla migliore.

Non indugeremo, nel descrivere più oltre gli innamorati, nel ripetere
le loro parole nel tempo che rimasero in giardino, sotto un tramonto
infocato.

Anime amanti, che fin qua mi seguiste, supplite con la vostra fantasia,
col ricordo del vostro passato, o con una più intensa considerazione
del vostro presente.

Un uomo e una donna che si amino, sentono, standosi vicino, guardandosi
negli occhi, una così celestiale dolcezza, per la quale ogni parola è
muta, e quando essi vogliano pur dirla quella loro intima felicità, non
hanno altra espressione che il bacio.

Eppure da quel colloquio tutto di giubilo, Evaristo si ridusse a casa
sua coll’inferno nel cuore.

Alla vigilia, si potrebbe dire di sposare la sua Mary, sentiva tutta la
indegnità del suo passato.

Come fu solo nella propria camera, e disse a Tommy di coricarsi che
nulla occorrevagli, sentì quasi un terrore di quella solitudine.

Un terrore che non aveva mai provato, un terrore che lo trasformava
tutto e che era tutto di rimorso.

— Io sono un ladro — pensava, sorpreso di non aver fatto prima con la
sua penetrazione quelle riflessioni sincere. — Io sono un ladro che
vuole la figlia dell’uomo al quale ha rubato...

È vero che scopo mio non era il furto per sè stesso, ma la vendetta
alla negativa fatta da Webb alla mia proposta; è vero che io, appunto
per la vendetta, avevo fin da principio l’idea di rendere, ma ora mi
spaventa il pensiero di non essere compreso, mi spaventa l’idea che la
restituzione si pensi cagionata dallo stato presente, dall’amore mentre
essa era già prima del furto nelle mie intenzioni.

Diversamente come avrei potuto brillare nella vendetta?

Ora, mentre l’amore, l’amor vero m’incalza, mi trovo sbarrato il
cammino. Ciò che parve difficile fu la più facil cosa. Ancora mi
restano da sormontare le più gravi difficoltà. Far tacere Hulda,
potermi ben distaccare da lei, ciò che è importantissimo, poi
restituire il capitale rubato. Rubato... che brutta parola! quando
l’intenzione non era che la vendetta!

Già, il capitale non mio preso a prestito... un po’ troppo arditamente,
bisogna convenirne.

Ma d’altronde, devo proprio essere io, l’uomo che si perde di coraggio?

Ho temuto abbastanza. Fin troppo ho temuto! Avanti! Il mondo è di chi
lo vuole. Io saprò volerlo. Tra qualche giorno, fra me e Hulda, rottura
completa, al resto, al resto...

Stette lungamente pensoso.

Un osservatore che gli si fosse trovato vicino, avrebbe veduto la
vicenda dei pensieri passargli sulla fronte. Taluni vi restavano
impressi un poco, dando a tutto il volto una intensa espressione di
mestizia, tal’altri, illuminandolo di un fuggevol riso, o balenando
come un lampo, in una contrazione di spasimo, sparivano.

— Ecco! Questo! — gridò ad un tratto, come invaso da un’anima nuova, o
meglio, come tornato all’antico vigore della mente arditissima e pronta
speculatrice. — Sì, sì, in questo modo!

Evaristo Grinfieri, aveva finalmente deciso, e per l’una cosa e per
l’altra. Nessuno poteva ormai rimuoverlo dal partito preso.

                                   *
                                  * *

Guy Stein, per mezzo dei giornali, che non aveva trascurato di leggere
attentamente dal dì che lo potevano interessare, si trovava oramai al
corrente di tutto.

Quale enorme delusione! Ben, quel Ben cocchiere del _numero tredici_,
e che gli dava l’intero affidamento della cosa, quel Ben, era diventato
col suo mistero, il suo incubo ed il suo scorno.

Al disopra della questione d’interesse, c’era quella del prestigio nel
mestiere, di amor proprio, di antica incontestata sagacia, battuta così
deplorevolmente, e con tanta formidabile astuzia, vinta.

Guy Stein aspettava un conforto dal tempo. Il tempo avrebbe posto
in luce molte cose, le quali ora non potevano apparire, e di tutto
quel garbuglio nel quale aveva agito troppo fidente, si sarebbe poi
consumato il mistero, e come la consunta superficie d’un panno, avrebbe
scoperta la trama.

Allora sarebbe toccato a lui. Sarebbe venuta la sua volta; chi era
riuscito a mistificarlo in quel modo, non doveva poi averne la lunga
compiacenza nell’anima. Ah, no! doveva morire.

Lo avrebbe ammazzato procurandosi il piacere di fargli conoscere: Chi
ti ammazza è Guy Stein.

L’induzione più facile, quella in cui riposava più volentieri il
pensier suo, era che chi lo aveva turlupinato, così abilmente, fosse il
suo rivale, il suo antagonista, il suo implacabile nemico: Bill Oward.

Non doveva essere stato certo un profano, ma un campione di quella
fatta, ad architettare, tanto bene, la burla tremenda, la ingiuria
sanguinosa; doveva essere, perchè solo poteva esserlo: Bill Oward.

Su lui, appuntava tutti i pensieri di vendetta; su lui acuiva il
proposito di rendere con inflessibile determinazione, come si suol
dire, la pariglia.

E veramente, quello era stato un gran colpo tentato da Bill Oward, con
astuzia mirabile, per far cadere lui, Stein, in mano della polizia e
sbarazzarsene, e tirare i di lui uomini dalla sua parte e rimaner solo
nel campo dell’azione.

Il tentativo non gli era completamente riuscito? Ebbene si pentirebbe
di averlo pensato.

Ma Hulda, come entrava Hulda in tutto questo? Era proprio in buona
fede, per affetto e per timore di lui?

Certamente. Doveva proprio essere così, da poichè ancora come prima e
con la stessa espansione... monetaria, seguitava a visitarlo, non solo,
ma a pregarlo che la liberasse da Evaristo del quale era sazia, del
quale non voleva più sapere. Ella a fare la signora, come pretendeva
l’amico e con tante esigenze e tante meticolosità del buon rango, si
sentiva troppo a disagio, seccata e ristucca.

Se talvolta, Guy Stein affacciava qualche dubbio, ella lo dissipava,
con finissima arte, di un tratto:

— L’uomo che non dimenticherò mai, l’uomo del quale sarò sempre la
schiava, felice di esserlo, sei tu... Perchè tu solo, fosti colui
che mi aiutò, che mi soccorse, che mi fece diventare rispettata e
signora, quando morivo di fame e di vergogna. Questo è ciò che io non
dimenticherò mai!...

Guy Stein, ladro, credeva alla gratitudine.

Tanto è vero che anche gli uomini più furbi vanno soggetti ad
ingannarsi.

                                   *
                                  * *

Un altro, fra coloro che almanaccavano intorno al furto patito da
Francis Webb, certo con intenzioni ben diverse, era il grosso Isaiah
Wood.

— Ebbene, si è scoperto ancora nulla? — chiedeva a Francis Webb tutte
le volte che lo vedeva.

— Nulla — rispondeva l’altro ormai seccato di quell’insistenza in
fondo un po’ canzonatoria. — Nulla neanche oggi, e ormai, non ho più
speranza.

— Anche tu, benedett’uomo, vai a mettere i denari nella cassa forte...

— Come?! Dove volevi che li mettessi?

— In qualunque altro posto conosciuto e custodito solo da te.

— Già!

— Certo. Come vuoi che sia sicura una cassa forte? Dimmi, esiste o ha
esistito chi l’ha fatta? Dunque, esiste il segreto per aprirla. Di qui
non si scappa... È dalla cassa forte che scappano i denari.

E dava, così dicendo, in una risata sonora, spalancando la bocca
enorme, con i due denti di foca.




CAPITOLO XVI.

Il colloquio doloroso — Il supremo consiglio — Bill Oward in scena


Prima che il fatto del fidanzamento si propalasse, bisognava sistemare
la situazione con Hulda.

L’indugio, non avrebbe fatto che accrescere il danno. Dalla bocca di
lui Evaristo, quasi chiedendone l’assenso, Hulda doveva sapere del
nuovo ordine di cose che si stava preparando.

Agire così, era praticare il più savio dei consigli, nel più difficile
dei casi.

Qualche giorno dopo quanto abbiam detto, una mattina serio e risoluto,
Evaristo fu nell’appartamentino di Hulda.

— Non s’è ancora alzata — fece rispettosamente e più rispettosamente
strizzando l’occhio Bess. — È ancora nel letto... ma lei, può passare
quando vuole... Venga.

— Lo so; lo so — e si fece innanzi.

Quel privilegio, che una volta formava la sua gioia e il suo orgoglio,
ora gli riesciva fastidioso e più che tutto inopportuno; ma pur
pensando a questo, e quasi mostrandolo in volto, schiuse l’uscio e
chiamò con dolcezza, come per chiedere permesso:

— Hulda...

Hulda non rispose.

Dormiva ancora profondamente, chè la sommessa voce di Evaristo non era
riuscita a svegliarla.

Tanta era in Hulda la natural grazia di ogni posa, che non pareva ella
fosse tutta abbandonata al sonno; ma piuttosto che si stesse immota in
un pensiero intenso, coi mori occhi socchiusi.

Le ciglia lunghe, smorzavano lo splendore di essi che non dovevano
perderlo anche nel sonno, e nell’ombra dell’alcova attenuatrice d’ogni
linea, la bella creatura viva, pareva un quadro un po’ fosco del
Cremona, dove la indecisione del tratto vuoi meglio la magìa della
sfumatura, si direbbe, diano più intima vitalità alle figure.

Era immersa sì, ma non affondata nella morbida ricchezza delle trine
candide e una fragranza di fresco fiore, dormente in sullo stelo,
aleggiava dintorno alla soavissima peccatrice.

Evaristo si rimase in silenzio a guardarla.

Respirava appena, con le labbra chiuse rigidamente un poco e le piccole
narici tumide. Moveva però frequente, la faccia, bellissima d’un
vermiglio acceso dalla traspirazione, quasi inconsciamente studiandosi
di adagiar quella, di volta in volta, meglio, sulla massa diffusa e
ondata dei neri, giovanili capelli.

Evaristo si rimase a guardarla intento pensando, col cuore contristato
dalla imminente rivelazione già prima che la facesse.

— Dorme, la creatura che ho tanto amato; forse mi sogna e forse in
questo punto anche Mary dorm e anch’essa nel sogno mi intravede. Sono
tremendi questi legami d’anima, questi vincoli che ci legano nostro
malgrado, che non riusciamo a disciogliere, a torci di dosso. È la
vera schiavitù, quella che ci comanda intimamente, che non riusciamo a
spezzare.

Tu sei bella Hulda, in questa tua inconsapevolezza... Mary è più bella
di te... Essa è coronata dell’aureola della sua verginità. La sua bocca
che bacerà un solo amore, tu... povera Hulda, tu non puoi, non devi per
tutta la vita attirarmi, vincolarmi, tu non ne hai il diritto. Ti ho
trovata sul mio cammino e ti ho amata, beneficandoti, ora basta... cioè
ti aiuterò nascostamente sempre, ma tu lasciami alla mia libertà al mio
amore vero!...

Dio mio! Dio mio! Ma come mai, colui che di tutto ha riso, che a tutto
è stato superiore, che non arretrò per un pensiero di ambizione e di
vendetta neppur davanti al furto, tra due donne si trova come una nave
in tempesta? Dunque, mette a queste prove il vero amore? E perchè mai,
prima d’ora non l’ho pensato?

Nell’agitazione di questi pensieri, pure trovò la forza di accostarsi
ad Hulda. Stesa la mano sulla fronte di lei sopra i riccioli odoranti
gli tremarono le dita:

— Hulda, svegliati.

La dormente aperse gli occhi che le diffusero sul volto la luce del
pensiero, sorrise all’uomo e levò verso la testa di lui le nude
candidissime braccia, atteggiando al bacio le fresche labbra di
garofano scarlatto.

— Ascoltami cara... Forse il momento non è il più opportuno, ma di
opportuni veramente per dir certe parole, non ve ne sono mai... ed io
ho deciso, ho dovuto anzi decidermi... Comunque, rassicurati, non ne
avrai danno, starai bene come oggi, anzi meglio...

— Evaristo? disse balzando a sedere sul letto Hulda e sbarrando gli
occhi. — Evaristo, che dici tu mai? Spiegati... spiegati...

— Come ti ho detto, tu non avrai a patire danno alcuno, anzi starai
cento volte meglio...

— Ma parlami chiaro Evaristo...

— Calmati. Tu devi sapere, anzi tu lo sai da molto, che io debbo tutto
quel che sono a Francis Webb. Egli ha una figlia...

— Ho capito!

— No, non hai capito ancora, perchè non è come tu pensi.

— Dunque?

— Francis Webb, che mi ha tenuto quale un figlio sempre, ora che Mary
è uscita di educandato, vedrebbe il compimento dei suoi desideri
effettuarsi dove io la sposassi. Egli me lo ha fatto capire, senza
darsene l’aria, bene inteso, e la figlia, forse da lui indettata è
già accesa di affetto. Ora pensa, ragiona pacatamente Hulda... Mary
è figlia unica. Vuoi che io lasci una colossale fortuna che mi si
offre, quasi in premio d’aver contribuito a produrla perchè la casa
di Webb cada poi in mano d’un altro, ed io che oggi, tu lo sai, sono
un padrone, domani diventi pel marito di Mary l’ultimo dei commessi?
che dico? ch’io sia bellamente posto alla porta, per non dare ombra al
nuovo padrone, che non varrà certo quanto me?

— Dormire sognandoti e svegliarsi poi, per udire parole come le tue, fa
desiderare una cosa soltanto... richiudere gli occhi, per non riaprirli
mai più...

Il respiro di Hulda si fece affannoso e gli occhi si gonfiarono di
lagrime.

— Ma perchè piangi? Perchè? Tu non perdi nulla...

— Non perdo nulla? E il tuo amore?...

— Ti amerò lo stesso...

— No, non si amano... due donne... Una delle due deve essere la
canzonata... l’ingannata... la vittima... Io l’ho veduta Mary. Essa è
bella, essa mi vince, essa ha il fascino della sua onestà... Io sono
una disgraziata con tutto il mio doloroso passato. Tu mi darai ancora
il tuo pane; ma l’attaccamento vero, ma l’amore, non saranno più per
me... Sarai di Mary, di Mary... E poi, quando ti avrà reso padre, tu
l’adorerai... Un uomo come te, è troppo orgoglioso di un figlio che lo
somigli... e tu l’avrai...

— Hulda, ascoltami, io non trovo la necessità del tuo accorarti
in questo modo. Sembra a te un male irreparabile, ciò che non è un
male... ciò che poi tu stessa dovevi aspettarti. Non lo pensasti mai,
che poteva nascere in me il desiderio di ammogliarmi? Forse che tu...
Dimmi, siamo noi due qua soli, dimmi, pretendevi forse ch’io sposassi
te?

— No! No! Io ti amo troppo per non considerare che come donna
contaminata, non potevo aspirare a divenirti moglie... Altri, e senza
mia volontà commettendo un delitto, colse il fiore che ti darà Mary...
Io voleva soltanto che tu pensassi che Hulda poteva e sapeva amarti,
come qualunque altra donna che t’amasse, anzi, più d’ogni altra... Io
voleva esserti il cuore devoto per tutta la vita, che si strugge nel
mistero, felice de’ suoi spasimi. Tu non mi hai nemmeno capito. O pure,
sei stato perfido, da non ascoltar in questo te stesso. Tu ora vedi la
carne intatta e il denaro... Hai ragione, ora tradisci la mia anima.

— Hulda, mettiti nella mia condizione...

— Va via, sei stato falso.

— Quando è così, ah, perdio! lo sei stata prima tu.

— Vuoi alludere a Guy Stein? Io ho avuto timore delle sue minaccie...

— Chi teme, non ama.

— E credi di avermi tappata la bocca? Ma non c’è nulla di più
ridicolo... Dovevi essere donna, dovevi essere nelle mie circostanze,
dovevi fingere una gratitudine, sentendo nell’anima una maledizione, e
poi avresti capito se veramente chi teme, non ama.

— Ormai, Hulda, sono inutili tante discussioni. Tutto rimarrebbe sempre
allo stato di prima. Io, ho impegnato la mia parola, e non la ritiro,
davanti a qualunque minaccia. Accomodiamoci in pace, in amicizia
sempre, nel pieno godimento della nostra libertà... Come ti ripeto,
io sposerò Mary, non devo recedere per motivo alcuno. Io sono un
_gentiluomo_!...

Non l’avesse mai detto. Hulda, rapida, gittò da lato la coltre e
piombando di letto ritta davanti a Evaristo, tutta accesa gli gridò:

— Un gentiluomo tu?!

— Io, sì.

— Non è vero! Tu non sei che un mentitore e un ladro!...

— Hulda!

— Un ladro! Sì, l’ho detto, lo ripeto, lo sostengo, sono pronta a
giurarlo davanti a tutto il mondo.

— Sul tuo... _onore_?

— No, sul tuo, che vale di più. E, dimmi, scelleratissimo che ho
avuto il torto di amare, tu credi, che io dopo... io, in seguito, non
abbia penetrata intera l’opera tua? Tu hai fatto, con diverso motivo
agire me, agire Guy Stein, agire Ben, agire tutti... ci hai tutti
ingannati. Non si trattava di rivendicare la mia libertà, di agevolare
la giustizia contro un furfante, si trattava invece di rubare: tu hai
rubato, e hai rubato all’uomo di cui sposi la figlia... tu sei più
ladro, più vile dell’uomo che detestavi a parole e imitavi a fatti.

— Hulda, il mio contegno, ti provi quanto ti ho amato e quanto ti amo
ancora e quanto ti amerò, sì, quanto ti amerò, perchè io non potrò
dimenticarti mai più!

— Taci, ipocrita...

— Non dire così, non dire così, io non me lo merito. Le circostanze
sono state a me superiori e le circostanze stesse mi hanno tradito.

— No, sei tu che hai tradito le circostanze... Io, sono quel che
sono... e Iddio mi perdoni... del resto... egli lo ha permesso... ma tu
sei peggio di me. Io ho dato me stessa... tu hai rubato... Ora comando
io. Tu vuoi il mio silenzio, non è vero?...

— Cioè la tua bontà... un comune accordo...

— Basta, basta ipocrisie. Tu vuoi il mio silenzio su tutto...

— Sì.

— Ebbene, compralo.

— Hulda ti ho già detto...

— Ascolta, non tante parole, sono io adesso che comanda fra noi due. I
patti sono questi: che tu seguiti con atto legale sempre a mantenermi
— e che io sia pienamente libera — che tu non mi ti faccia mai più
vedere...

— D’accordo.

— Vedi, ho proprio voluto contentarti. È inutile, per te sento sempre
un resto di amore.

Evaristo pago di quella conclusione dopo le tremende umiliazioni
avute, non si accorse della profonda ironia e del massimo sprezzo con
cui furono da Hulda pronunciate queste parole. Egli credette giunta
finalmente dopo un grande sfogo, compatibile del resto e lusinghiero
per lui, la conclusione tanto aspettata e in quel modo che aveva
vagheggiato nel proprio pensiero.

— D’accordo dunque?

— D’accordo.

Evaristo uscì frettoloso, Hulda esausta dalla meravigliosa violenza
fatta fino allora a sè stessa, si lasciò cadere su l’ottomana piangendo
con altissime strida...

Bess accorse e veduta Hulda in camicia ed in pianto, cacciandosi le
mani nei capelli, domandò concitata:

— Che è stato? Che è stato?

— Te ne accorgerai... dalla mia vendetta.

                                   *
                                  * *

Il furto subito da Francis Webb era stato oggetto dei discorsi e dei
commenti di tutta New-York, per qualche giorno. Dove, dopo il silenzio,
quasi generale, se ne continuava a parlare tuttavia era nel quartiere
di Bill Oward e di Guy Stein.

I diversi professionisti emeriti del quartiere, ne rimanevano
meravigliati e invidiosi, sentivano che c’era in quella immensa città
qualcuno che li superava...

E li superava davvero, perchè, dato l’impegno della polizia, per
l’entità del furto, non si riuscivano a scovare i colpevoli.

Come tutto era stato preparato con indiscutibile perizia, con
accorgimento sovrano!

Ma se Guy Stein aveva dei dubbi, anzi delle certezze, si potrebbe dire
intorno al fatto che Bill Oward avesse potuto tendergli un tranello,
per farlo cadere nelle mani della polizia e liberarsene, tranello
non si sa come andato a vuoto, ammasso di finzioni mal riuscite; Bill
Oward, dal canto suo, non aveva alcun sospetto intorno a Guy Stein.

Egli era convinto che nel gran furto a danno di Francis Webb, avessero
concorso ben altri elementi.

Ciò che gli restava misterioso, ciò che era un misterioso enigma per
lui e che aveva saputo per caso, parecchi giorni dopo, era la ricerca
sui giornali di quella tal lettera indirizzata a lui e smarrita.

Secondo il suo giudizio per lui e per Guy Stein era venuto il momento
di agire di conserva, di porre da banda ogni ira privata, ogni
rancore personale e pugnare insieme contro il comune nemico, contro
quell’essere meraviglioso ed ignoto che con tanta destrezza, con arte
sì fina, aveva canzonato loro e la polizia.

Bisognava avere un colloquio, venire a schiarimenti sinceri, e d’ora
innanzi, lavorare in comune.

Perchè lasciarsi vincere la mano da un terzo?

Lucy, la donna che noi conosciamo e che a Webb e ad Evaristo
aveva tolto di dosso le chiavine, Lucy, fu abilmente scelta come
intermediaria da Bill Oward.

Ella trattando con Guy Stein, doveva tra i due rivali stabilire il
colloquio e quasi prima che si parlassero, farli già certi dell’esito.

Proprio così, come nella diplomazia.

Per la mezza notte convenuta infatti, Guy Stein sentì battere all’uscio.

— Chi è?

— Bill Oward.

— Avanti.

Bill Oward lentamente entrò.

                                   *
                                  * *

La figura di Bill Oward, non meno sinistra dell’altra di Guy Stein, ne
era affatto dissimile, nella statura e nei tratti.

Bill Oward, d’una magrezza asciutta e terrea aveva un testone piatto,
con appena un dito di fronte, e un gran ciuffaccio sulle sopracciglia
grosse e mobilissime che con gli occhi infossati e incerti, le mascelle
sporgenti, il mento acuto gli conferivano un’aria scimiesca, paurosa
e ributtante. Le labbra carnose, lasciavano vedere denti acuti d’un
bianco opaco di perla orientale.

— Mi sai dir nulla del furto? — chiese Bill Oward.

— E tu mi sai dir nulla?

— Io no.

— Io, neppure... Ma mettiamo carte in tavola...

E presero a parlare animatamente, diventando, si potrebbe quasi dire,
espansivi.

Uno però tacque della lettera, mostrando di ignorare che in qualche
modo si fosse usato il suo nome, l’altro tacque non solo della lettera,
ma della parte, veramente da inconscio avuta nel furto che aveva
sollevato tanto chiasso a New-York, più ancora per l’entità che pel
mistero che lo circondava.

Dopo il lungo scambio di idee disse con atto reciso Bill Oward:

— Io sono venuto per far pace. Vogliamo farla?

— Sì, ma a patto che mio padre, sappia di tutto questo e vi acconsenta.

Prevenuto dal figlio, il cieco Stein, non si era coricato, nè si era
coricata Ellen di lui figlia e sorella a Guy.

Quando questi chiamò il vecchio, dopo un poco apertosi un piccolo
uscio, si vide entrare il cieco già canuto e curvo, condotto da una
fanciulla la cui immagine, fece rapidamente battere le palpebre di Bill
Oward.

Una bellezza singolare che egli non aveva veduta mai, e che solo per
caso quella notte si trovava in famiglia. I due Guy che l’adoravano,
la tenevano fuori di lì, in un quartiere pulito, presso una donna
assolutamente fidata che non li avrebbe in modo alcuno traditi.

Il cieco Stein sedette ed ascoltò con attenzione le parole di Bill
Oward, del quale ricordava benissimo il tipo.

Guy, che osservava attentamente Bill, notava come gli occhi di questi,
non si staccassero mai dal volto della sorella, e come fosse diventato
di una dolcezza e d’una condiscendenza, che si sapeva bene non gli
essere abituali.

Il vecchio intese le parti, prese la parola e stabilì le norme di
massima per l’accordo pel lavoro in comune, per la ripartizione dei
rischi prima e degli utili dopo.

All’ultimo, Guy Stein servì del liquore ripetutamente e con esso
brindarono alla pace.

— Ebbene — disse Bill Oward alzando per la quarta volta il calice —
acciocchè sparisca per sempre ogni rancore, acciocchè la più sincera
amicizia regni d’ora innanzi fra noi, diventiamo parenti.

— Parenti? — domandò Guy, scattando.

— Parenti? — chiese a sua volta il cieco trasalendo.

— Sicuro, io domando la mano di Ellen.

Questa, il padre ed il fratello, diedero un grido solo. La proposta
parve ai tre, la cosa più assurda del mondo.

— Perchè? — domandò Bill acceso d’ira a quella prima risposta che era
una così recisa ripulsa, — Perchè?

— Questo fatto lasciamolo — disse risoluto Guy Stein.

— Ma perchè? — insistette l’altro con più veemenza.

— Io non darò a te mia sorella, nè ora, nè mai. Essa non deve diventar
moglie di un uomo, che fa la nostra vita. Parliamoci chiaro. Tu sei un
ladro...

— E tu chi sei?

— Ma io, non ti chiedo una sorella!

— Ellen ascoltava spaventata, tremando. Avrebbe voluto essere lontana,
ben lontana, vicino alla sua buona vecchietta.

Il cieco, che conosceva il carettere impetuoso, bestiale, di Guy Stein,
volle usare per amor della figlia la massima prudenza:

— Non sono cose da parlarne adesso e in fretta. Ne tratteremo dimani
o dopo, con calma. In calma figliuoli miei... Date retta a me che son
vecchio. È l’ora di andare a dormire.

— Nè domani, nè dopo. Ora, proprio ora _voglio_ una decisione.

— Qua dentro nessuno deve dir _voglio_ — gridò Guy.

— Alle corte, una risposta, l’ultima!

— L’ultima? No! Ed ora via di qui! Ritorniamo come prima nemici! Io non
ti temo, io non sono venuto a cercarti.

— Ah, tu mi insulti?

Si udì lo scatto di una molla, si vide il baleno di una lama, e Guy
Stein, cadde con un urlo fra le braccia della sorella.

— Che è stato?! — gridò il vecchio che pure con la finezza del cieco
aveva indovinato...

— Vile! Vile! urlò Ellen.

Bill Oward che s’era avanzato verso l’uscio si volse e con un ghigno
infernale disse a Ellen:

— Sposa, vatti a vestire di nero! — e sparve.




CAPITOLO XVII.

In prossimità delle nozze — Il divisamento disperato — Un miracolo del
caso


Dopo un convegno di famiglia era stato definitivamente stabilito il
giorno per le nozze di Evaristo e Mary.

Questa attendeva l’avventurosa mattina col desiderio velato, ma non
nascosto, da un placido accoramento, che di giorno in giorno la rendeva
più pensosa insieme e più bella.

Evaristo, con una calma coraggiosa, anzi con una gran sicurezza, dacchè
Hulda aveva finito, egli lo credeva, per chetarsi, ed egli aveva poi
trovato anche il modo di restituire a Webb, divenutogli suocero, il
capitale che gli aveva rubato.

Quella restituzione sarebbe fatta appena gli sposi fossero legati
indissolubilmente, e qualunque reazione avrebbe dovuto tacere
nell’animo di Webb.

Le cose sarebbero poste in modo che egli, il vecchio, farebbe di
necessità virtù per amore della figlia, cioè buon viso ad avversa
fortuna, accettando i fatti compiuti, e in base all’affetto e
all’interesse, chiudendo un occhio sull’onore.

                                   *
                                  * *

Ma Hulda, caldissima amante, ferita così crudelmente dalla condotta di
Evaristo, non s’era chetata che in apparenza, non s’era chetata che per
meditare, architettare, rendere più terribile la sua vendetta.

Perciò aveva accettato di vivere ancora a spese di Evaristo. Bisognava
non dargli sospetto in modo alcuno.

— Occhio per occhio, dente per dente. Tu getti nella desolazione per
sempre il mio cuore? Ebbene, io ti rovinerò per sempre. Io che ti sono
stata complice, ora ti tradirò. Io non ho più nulla da perdere, poichè
ho perduto te, mentre invece, tu vedrai sul verde delle tue speranze
calare un velo di lutto.

Sapranno tutti chi sei, e Mary avrà orrore di te! Ella non vorrà più
essere toccata dalle mani di un ladro. Povera creatura, tu la stai
ingannando io la vendicherò. Ah, bisogna pur mettervi a posto, bisogna
pur darvi una lezione, uomini, che ci supponete incapaci di amare...
come le altre!

Mi butterò ai piedi di Guy Stein, gli rivelerò tutto, tutto! Penserà
lui a vendicare entrambi. Cioè... adagio... e se la prima vendetta la
facesse su di me? Non potrebbe questo essere anche possibile? Ebbene,
che importa? Se anche mi uccidesse, non ho io tutto perduto?

Irremovibile dal suo proposito, come venne la sera, e non più in abiti
dimessi, ma con una sfarzosa toeletta in seta nera e d’un velo pur nero
coperto il volto, salì su d’una vettura di piazza, facendosi condurre
in una via, molto presso a quella che era veramente la cercata.

Questo per eludere ogni congettura che potesse a suo carico fare il
cocchiere.

Nel tragitto e per l’agitazione che aveva addosso, l’assalì con
repentina violenza il ricordo di quella volta in cui per la stessa
strada, la carrozza era distinta dal _numero 13_ e il cocchiere si
chiamava Ben, ed era avvenuta la sorpresa di Evaristo e la confessione,
di conseguenza, del di lei duplice amore!

Rivide a tratti foschi e dolorosi la storia di ciò che era avvenuto
quella notte, e le mille angosce che da quella aveva provato poi
sempre.

Aveva sofferto troppo, sì, troppo, ed ora bisognava pur farla finita
una buona volta, con uomini come Evaristo, peggiori di Bill Oward e di
Guy Stein, con questa sconosciuta misteriosa specie di assassini del
cuore!

Più che preoccuparsi del modo con cui Stein accoglierebbe le di lei
rivelazioni, così inaspettate e così importanti, si compiaceva di
fissare il pensiero su la vendetta che ne trarrebbe, sulla maniera di
compierla.

Certo il matrimonio andrebbe a monte; certo Mary, prima vedova che
sposa, avrebbe dovuto irremissibilmente far rinuncia della sua corona
nuziale.

Poichè ella aveva amato un uomo fatale come Evaristo, il destino le
riserbava dei crisantemi.

Prima il disonore poi la morte. Questo doveva essere l’epilogo di
quella vita di scettico, di egoista, di ambizioso.

Come aveva saputo per tanto tempo mentire, per tanto tempo simulare un
affetto che dentro non gli palpitava!

Ah, chi avesse veduto Hulda in carrozza e presa da questi pensieri!

In certi momenti un riso feroce per un compiacimento infernale, ne
deturpava la bellezza, dalla linea ardita e resoluta.

La carrozza cominciò a entrare nelle vie più strette, più oscure, più
popolose.

Hulda sentì uno stringimento e un diaccio intorno alla vita.

Quando noi stiamo per conseguire ciò che bramammo e con tanto spasimo
e quasi in delirio, si direbbe che estenuate dalla prima tensione, le
nostre forze ci abbandonino, qualche cosa, venga meno, si attutisca in
noi.

Hulda fu invasa da un gran terrore e fu quasi sul punto di recedere dal
proprio divisamento.

Ebbe spavento di tutto il male che produrrebbe la sua vendetta, delle
lagrime... anzi del sangue che potrebbe costare.

Seguitò a lasciarsi portare dalla carrozza per la via indicata, in uno
stato quasi di atonia, di incaglio, dirò così, d’ogni senso e d’ogni
potenza di volontà.

Ma quando il cocchiere fermò, quasi fatta valorosa davanti al pericolo,
tornò quella di prima e s’inoltrò con passo risoluto e celere, verso la
casa di Guy Stein, dov’era conosciuta e dove fu tosto introdotta.

Quando Hulda entrò, non era ancora la mezzanotte.

Ma quello che le recò una prima sorpresa fu che le aprì una fanciulla
che mai prima d’allora aveva veduto.

Una bella fanciulla, cui non mancava nel portamento e nell’abito una
certa modesta signorilità.

— Che sia un’altra vittima come sono stata io? — pensò subito Hulda — e
intanto chiese — Guy Stein?

— Non c’è più speranza! — disse la fanciulla che era poi Ellen e portò
il fazzoletto agli occhi singhiozzando.

— Non c’è più speranza? Ma come sarebbe a dire? Che cosa è stato, che
cosa è avvenuto?

— Come, non sapete signora, che Bill Oward ha ferito a morte mio
fratello Guy?

— Io, no; nulla ho saputo di questo, e quando è stato, e perchè?

— Fu pochi giorni or sono e perchè Bill Oward si era permesso di
chiedere la mia mano.

— E Guy Stein?

— Rifiutò che sposassi un simile mostro, come avrei rifiutato io pure
direttamente, se si fosse rivolto a me.... ma non parliamone, venite
signora, venite a vedere il mio povero fratello. Io vi aspettavo quasi,
egli ha chiesto di voi...

— Ha chiesto?

— Sì.

— E che ha detto pure?

— Nulla.

— Nulla proprio?...

— Ha chiesto soltanto.

— E non v’è più speranza davvero?

— La coltellata nel ventre, penetrò in cavità, e malgrado le cure
produsse la peritonite.

Qui la fanciulla scoppiando nuovamente in lagrime, prese per mano la
signora e la condusse nella camera del moribondo.

La camera era rischiarata a mala pena dalla luce rossastra di una
lampada posta in un angolo, sur un piccolo tavolino.

All’entrare di Hulda, Guy Stein dilatò orribilmente gli occhi. Quello
fu l’unico segno, forse l’unico saluto, forse l’unica imprecazione.

Alla vista di Hulda, che pensieri gli vibravano nel cervello? Chi può
saperlo?

Hulda s’accostò al letto, e posò una mano sulla fronte madida di
Guy Stein, ma sotto quel tocco freddo egli rimase immoto, come già
nell’atonia della morte.

Il vecchio Stein cieco, stava all’altra parte del letto, muto,
immobile, compreso della imminente sciagura, che i suoi occhi non
vedevano, ma che il suo cuore doveva sentire ugualmente.

Davanti alla pietà del quadro inaspettato, tacque in Hulda ogni
pensiero di vendetta, per risorgere dopo, non meno truce.

— Io mi fermerò qui con voi — disse mite e buona a Ellen — io mi
fermerò qui con voi, per assistere il povero Guy.

— Come volete signora. In questi momenti non si ricusa la pietà, anche
se non giovi ormai più.

Dopo queste parole pronunciate molto sommessamente orecchio a orecchio,
regnò intorno al moribondo un silenzio già di sepolcro, nel quale, a
grado a grado, si cominciò a sentire il respiro sempre più affannoso e
rantoloso di Stein.

Passò così, quasi un’ora, una di quelle ore che nella camera di un
malato in estremo, sono eterne.

A un certo punto il cieco, brancolando su la coltre cercò e trovò la
mano del figlio e la strinse.

Ellen con la testina bionda abbandonata sulla spalliera della sedia,
piangeva, soffocando i sussulti.

Ella lo sapeva, la povera Ellen, che il cieco l’ascoltava intento,
argomentando dai suoi singhiozzi, l’avvicinarsi minuto per minuto della
fine. Che bella creatura, che anima gentile! Comprimeva in sè stessa
tutto lo strazio, per alleviar quello che sentirebbe il vecchio...

Che lunga, che lunghissima ora!

Lettrice pietosa, trasportati col pensiero in quella camera, guarda,
osserva, medita tutta la solennità della morte...

Guy Stein, dalla trista vita, stava ora per comparire davanti alla
Giustizia, e doveva sentirlo. Egli riuscì a deludere quella degli
uomini, ora, nei rantoli dell’agonia, ha il terrore di quell’altra che
l’attende e alla quale non si sfugge: la giustizia di Dio!

Il cieco seguitava a stringere quella mano che sembrava insensibile,
che dico? già morta nella sua. Ellen continuava a piangere con un
raccoglimento quasi sublime.

In punta di piedi, entrò un uomo alto e nero. Posò il largo cappello
dalle ali cascanti a piè del letto, e si tolse una gran barba nera da
padre cappuccino che gittò accanto al cappello.

Si protese sul moribondo. Lo guardò fisso... fisso...

Poco prima il rantolo era cessato. Le due donne e il cieco credettero
che fosse un momento di calma, la tregua... però quella che non
risveglia più la speranza.

Sull’incognito stavano gli occhi di Ellen e di Hulda che s’erano alzate
ponendosegli a lato.

— Dunque? — chiese Ellen perchè l’altro parlasse — Dunque?

L’incognito, che era il dottore e il fidanzato di Ellen; che per amor
suo ne curava il fratello e sfidava la polizia travisandosi, perchè
almeno non morisse sotto una condanna, colui che ne aveva meritate
tante, l’incognito al _dunque_ di Ellen, si voltò lento, quasi
solennemente...

Levò le sue mani alla fronte di lei, l’attirò a sè, come per baciarla;
invece le disse a pena nell’orecchio:

— È morto.

                                   *
                                  * *

Mentre il vecchio piangeva senza lacrime, e mentre Ellen desolata, in
disparte versava le sue sul petto del dottore, che sempre dottore, la
serrava con una mano al polso (era tanto delicato quel fiore nato nel
fango!) Hulda — la Concetta napoletana — tutta presa dal sentimento
religioso, andò di là a frugare in un armadio, dove ricordava di aver
veduto un crocifisso d’argento, molti mesi prima. Sperava che ci fosse
ancora. Lo trovò.

Venne con esso nella camera del morto e lo pose sul tavolo che era
nell’angolo, dopo averlo accostato al letto, poi vi accese ai lati due
candele.

La vicenda, il poema delle cose! Quel crocifisso d’argento era l’avanzo
di un furto sacrilego, operato sotto la direzione di Guy Stein. Ora
egli lo aveva accanto morto, accennante l’ultima idealità, il cielo.

Hulda si inginocchiò per pregare.




CAPITOLO XVIII.

D’un pensiero d’un accento — L’antiquario di Toledo — Cause ed effetti


Dopo tutto questo e di tutto questo a malgrado, non si creda che Hulda
avesse rinunziato all’ideale che vagheggiava allora, la vendetta. Anzi,
quella morte, se veramente non l’addolorava la indispettiva e inaspriva
sempre più.

Il mezzo sul quale essa contava era per fatale incanto, per strana
concomitanza di cose svanito; ora bisognava cercarne un altro. Le
cose erano, anche indipendentemente da lui andate troppo a seconda
di Evaristo perchè non la pungesse più vivo di prima il desiderio di
smascherarlo e di spingerlo sulla via della rovina e del disonore.

Adesso il compito diventava tutto suo. Le bisognava agire da sola.

Passò qualche giorno in siffatti torbidi pensieri, per trovar modo a
renderli più facilmente attuabili, poi quando la voce delle cospicue
nozze era ormai divulgata, un mattino si pose in via, resoluta di
presentarsi a Mary e narrarle tutto.

Era stata un po’ in dubbio, se prima parlare a Mary che al padre, poi
pensò bene di affrontare direttamente Mary. Francis Webb diventava
adesso il vero colpo di riserva, l’ultima cartuccia.

L’ultima? Ah, no! Dopo di quella ci sarebbe, come suprema corte di
cassazione la polizia. Sicuro andrebbe direttamente là al magistrato a
fare le sue più ampie rivelazioni. Occhio per occhio, dente per dente.

                                   *
                                  * *

Hulda camminava frettolosa. Al disopra delle ultime e forti emozioni,
si levava alta e gigante l’idea di porre in atto il suo pensiero.

All’offesa ricercata, ben si doveva quella rivincita.

Quando un poco affannata dal rapido camminare Hulda fu dinnanzi alla
casa di Francis Webb, rallentò il passo come per riprendere fiato e
riordinare le idee, chè in quella confusione, in quel turbinio della
mente agitata dal cuore, temeva soltanto questo, di non esporre bene,
di non dire tutto, almeno di non dire abbastanza.

Stava in cosifatto stato di animo, cosifatta tensione, quando udì
gridare:

— Concetta! Concetta!

Un uomo si precipitò su di lei, la strinse con violenza tra le braccia,
ripetendo ancora:

— Concetta! Concetta!

— Riccardo?! Riccardo! tu qui?

— Non mi vedi?

— Ma è mai possibile?! Ma sei forse venuto a cercarmi, a cercare colei
che diventata indegna di te ha però avuto il coraggio e l’amore di
fuggirti?

— Concetta, io sono troppo felice per non soffrire. Dammi un momento
di respiro, un momento di tregua. Lasciami la consolazione desiderata
da anni di guardarti... Ti guarderò in silenzio. Se in questo momento
aggiungessi una parola, mi scoppierebbe il cuore...

Hulda lo strinse sotto il braccio come per sorreggerlo e domandandosi
intimamente:

— Dunque, esiste proprio un destino.

— Dove abiti? Sei libera? Sei sola? Che fai? — chiese dopo qualche
momento Riccardo Carassole. — Conducimi a casa tua. Puoi condurmi?

— È quello che sto facendo. Abbiamo bisogno di restare soli, di dirci
tante cose, di piangere insieme... Riccardo... Riccardo mio, ma dimmi,
dimmi perchè ti trovi a New-York? Sei venuto a cercarmi? Chi ti ha
detto ch’ero qui?

— Ma prima di tutto, dimmi tu, perchè sei fuggita da Napoli? Perchè mi
hai lasciato in quel modo e per tanti anni mi hai tenuto la morte nel
cuore? Perchè?

— Lo saprai. Pensa che solo il mio abbandono, la rinuncia a diventare
tua moglie, sono la prova dell’affetto che io ti portavo, dell’amore,
veramente grande e rispettoso, che nutrivo per te.

Quando furono entrati in casa, Hulda disse non curando la presenza di
Bess che non sapeva spiegarsi la cosa:

— Qui, sono nel mio piccolo regno... qui ci diremo con tutta la calma e
con tutto l’affanno, i nostri dolori.

Sedettero, ma prima ancora di parlare, Riccardo si buttò fra le braccia
di Hulda soffocandola di baci e di carezze.

— Io so già che cosa vuoi dirmi, io indovino tutti i tuoi pensieri, ma
io domando una cosa soltanto.

— Parla.

— Puoi tu diventare mia e per sempre?

— Tua e per sempre? — fece Hulda seria e meravigliata. — Ma no, non
è possibile. Quando avrai udita la mia storia, ti vergognerai di me,
sentirai di non potermi amare. E avrai ragione, avrai ragione...

Allora darai sfogo tu pure al capriccio, all’amore che non può durare,
per poi dirmi: «Non puoi diventare mia moglie, io ho bisogno di una
fanciulla onesta».

— Ma no! No! Te l’ho detto prima. Io immagino già che cosa tu possa
farmi conoscere, ma non è un motivo perchè Riccardo non t’ami più.

— No, no; io non mi devo illudere e non devo illudere te. La tua è una
esaltazione che non può durare...

Io sì ho amato quando ne sono stata degna. Ora sono passata a traverso
a tutte le vergogne... Non ti inganni questa signorilità, tutte le
vergogne, sai... Se tu mi facessi tua moglie, ameresti più di me, e non
è possibile. Farmi credere che il tuo amore superi il mio, è togliermi
l’ultima e l’unica illusione che mi resti...

Perchè vedi, quando mi trovo con l’anima abbandonata, piango senza che
nessuno mi dica una buona, una cara parola, quando sono da per me nella
mia solitudine, e questa immensa città mi diventa un deserto, allora
io mi conforto vedi, pensando che tutti i miei spasimi, tutti i miei
dolori, mi vengono per averti amato, per averti saputo amare, con tanto
silenzio, con tanto sacrificio, con tanta vergogna...

— Io vorrei che tu tacessi, ma io penso ancora, quanto ti debba essere
di sollievo, l’aprire dopo sì lungo tempo l’anima tua a me.

Allora parla. Concetta, parla, ma pensa che qualunque cosa tu sia
per dirmi, tu hai tutta la mia pietà, il mio perdono, e sempre sempre
l’amore.

Hulda rinnovellò a sè stessa lo strazio del proprio passato narrandolo
a Riccardo, e che il lettore conosce per filo e per segno. Se non che
giunta agli ultimi avvenimenti e proprio al fatto di Guy Stein e di
Evaristo più che raccontare fece dei rapidi accenni, tacendo non pochi
particolari e tutti i nomi. Riccardo ascoltava, passando di sorpresa
in sorpresa, felice di essere accanto a Concetta e insieme disgustato
e commosso, per tutte le miserie che avevano attraversato il cammino
della povera, della disgraziata fanciulla.

— Ed ora — domandò conchiudendo — ora sai dove andavo? Sai dove sarei
andata, se non mi avesse trattenuto il tuo incontro?

— Dove?

— Indovina? — disse Hulda tutta accesa in volto e presa dal suo primo
pensiero — Indovina?

— Via, parla, non tenermi in sospeso.

— Ecco; a fare una vendetta!

— Contro chi?

— Contro l’uomo che mi ha voluta sua finora, l’uomo al cui volere mi
sono sempre e in tutti i modi sacrificata, e che adesso mi lascia,
perchè deve sposare una ereditiera al cui padre...

— Al cui padre? — fece con uno scatto di curiosità Riccardo.

— Non voglio dirtelo. Non debbo dirtelo. Vedrai solo fra giorni ciò che
accadrà. Della mia vendetta conoscerai, tutto l’odio che gli porto...

— E perchè, Concetta tutto quell’odio?

— Perchè non posso più amarlo! — gridò Hulda abbracciando Riccardo. —
Vedi come sono sincera, un’altra non lo avrebbe detto, perdonami questo
sfogo.

— Ed il mio amore, quello che fu il primo, non ti compenserà di questo?
Non ti ho io detto che dovrai essere mia e per sempre?...

— Ascolta Riccardo, tu hai ancora una bella, una cara anima di
fanciullo. Un’affezione fra me e l’uomo che oggi odio... era possibile.
Noi ci conoscevamo entrambi, ma con te, farei la tua rovina, spezzerei
tutto il tuo avvenire... Sono stata di tanti, di troppi... In te io
prendo un angelo, in me, tu prendi, no! no! non farmelo dire... Io non
mi illudo e non voglio illuderti... Lasciami Riccardo; io vado ora
alla casa della fidanzata di quell’uomo e parlerò e dirò tutto e lo
svergognerò e New-York domani, avrà un grande avvenimento di più...
Lasciamoci...

— Io dico di no. Ti ho trovata e non ti lascierò più.

— Ma che? Tu conti di rimanere qui?

— Io conto... di dirti le mie vicende da allora che ci lasciammo.

— Chi sa poverino, quanto avrai sofferto anche tu...

— Molto, molto ho sofferto, Concetta, ma ne fui compensato, dacchè
potei trovare le due persone che cercavo, e che avevo fede di trovare.

— Due persone?!

— Sì, una sei tu...

— E l’altra?

— Mio padre!

— Tuo padre?!

— Sì.

— E si trova qui?

— Per l’appunto.

— E l’hai già veduto?

— Sicuro, sono già tre giorni che stiamo insieme, dopo tanti anni di
separazione, e non per sua colpa. Egli mi cercava, e gli scrissero
ch’ero morto.

— E chi è tuo padre? me lo farai conoscere?

— Lo conosci già.

— Io?

— Tu, sì.

— Non è vero...

— È verissimo. Lo hai conosciuto prima di me, tu lo hai scoperto, tu lo
hai rivelato...

— Ma Riccardo, suvvia, non ti capisco...

— Ti ricordi Concetta _quel quadro_?

— Quale?

— Quello che mi somigliava? Tu mi chiamasti per farmelo vedere... Fu il
giorno di quel bacio che io credetti l’ultimo...

Hulda, come sopraffatta si rizzò fiera su la bella persona, portò
le mani alla tempia in atto di suprema sorpresa, con i grandi occhi
sbarrati, immobili, fissi in quelli del giovane.

Questi caldo d’affetto ed ammirato dalla magnificenza del gesto
l’abbracciò, dicendo:

— Io ti devo mio padre, ti devo la mia fortuna, la conoscenza di
me stesso, la mia risurrezione nel mondo... Io non sono Riccardo
Carassale, come per tanti anni falsamente mi fecero credere, per una
serie di turpi cagioni e di basse mire... Io sono invece il conte
Fausto Melisardi; mio padre ricchissimo, è felice d’avermi trovato,
egli non ha che una volontà: la mia...

— Ma dal notare la somiglianza di quel ritratto con te, al trovare tuo
padre, corre un abisso. Che è avvenuto? Che hai fatto?...

Fausto, ora noi pure lo chiameremo così, narrò, della biondissima
signorina americana compratrice dell’orologio antico, un orologio Luigi
XV dei più belli; narrò del pittore più specialmente e più diffusamente
e disse come per mezzo di questo, quindi dei consolati, fosse riuscita
la ricerca.

Fausto Melisardi, era meno alto, meno abile, e meno imperioso di
Evaristo, ma una qualità mentita in Evaristo, in lui emergeva in modo
eccezionale, perchè sincera, perchè in lui connaturata: la dolcezza
della parola. E insieme con la bocca parlavano gli occhi e con gli
occhi tutto il volto fosse mesto, fosse pure sorridente.

Dalle sue labbra sgorgava l’anima, e Hulda la beveva con le pupille
nere accese, mobilissime, Hulda se ne inebriava inconsciamente.

Così l’amore di quel momento stillava in lei il filtro, rendendo
consapevole e umano, quell’altro amore, così alto che aveva prima
comandata la repulsa, e l’aveva fatta gustare, come un conforto, ormai
abituale, per l’anima addolorata.

— Hulda, l’amore non è bello se non fa dei miracoli... Il mondo
riderebbe di noi, cioè di me, se sapesse tutto, e riderà certo perchè
si viene a sapere. Io mi rido del mondo, io non conosco che te, mio
amore, mia passione.

— Mi sembra di udire _quell’altro_ — non seppe trattenersi
dall’osservare Hulda...

— No, questo no! Tu m’offendi nel dir così. Uguali le parole, ma
diversi gli uomini...

— Perdonami...

— Infatti, egli ti abbandona; io... ti sposo.

— Fausto! Non farmi ridere via.... Io non mi permetterò mai di
diventare tua moglie... Poi, adesso che ho ingaggiato battaglia, devo
andare fino in fondo. Guerra! Guerra! Altro che matrimonio... per far
ridere...

— No; tu perdonerai a quell’uomo. Non tocca a te in tutti i modi
fare giustizia. Tu gli perdonerai... anzi il tuo silenzio sarà la sua
minaccia continua... Perdonagli...

— No.

— Perdonagli.

— No.

— Funestando le nozze altrui, funesteremmo le nostre. _Contessa
Melisardi_, per amor mio, perdonate! ve ne prego.

Tacquero entrambi, diversamente sospesi, poi Hulda ruppe il silenzio:

— Dunque, tu vuoi davvero che io diventi tua moglie?

— Sì.

— E mi presenterai a tuo padre?

— Certamente...

— Ed io, dopo tutto quello che sono stata, dovrò essere ricca, felice,
udirmi chiamare contessa? Ma è un sogno, o una burla infernale? È la
verità, o io sono fuori di me, non capisco sono pazza?

— È l’amore! Concetta; il mio...

Hulda, come fulminata, cadde ai piedi di Fausto, esclamando:

— Tu sei l’uomo più grande della terra! La tua generosità ha vinto il
mio amore.

— No! Non così! Alzati, abbracciami Concetta; il tuo posto è qui sul
mio cuore... Baciami...

Ella s’alzò; i due volti si unirono ma nella dolce effusione delle
lagrime, una interna spina fece sanguinare Concetta. Ella pensò. Perchè
non sono io vergine?...

                                   *
                                  * *

Bess, che vedeva prolungarsi il colloquio, che coglieva qualche frase
a volo, che udiva scoccare baci ogni tratto, seduta nella sua camera
attigua e come in guardia diceva esasperata:

— Da capo! Da capo! Questa volta ci rovineremo per sempre.




CAPITOLO XIX.

I sotterranei di Benvenuto Cellini — Beneficenza — vanità — réclame —
Una visita del conte


Un uomo alto, di grosse membra quadrate, con lunga barba brizzolata,
sempre vestito di nero, ma senza ricercatezza, con un cappellaccio
parimenti nero, a cencio, buttato sull’orecchia sinistra, entrava ed
usciva dal palazzo degli uffici della _Nuova linea dell’Est_.

Non avvicinava alcuno, nè era da alcuno avvicinato.

La fronte alta, un po’ calva al sommo, il grosso naso aquilino, la
bocca grande e sdegnosa, lo sguardo acceso e fisso, aveano in quella
sua alta e muscolosa persona, un doppio prestigio che dava rispetto
insieme e timore, mentre per la simpatia dell’insieme suscitava la
curiosità.

Egli entrava sempre da una piccola porta laterale, sotto un arco oscuro
a tergo del palazzo maestoso, annerito dal tempo.

Di quella porta aveva la chiave. Entrava solo e spariva per discendere
nei sotterranei, grandi sotterranei a volta del palazzo.

Tutti avevano notato come l’unico che lo avvicinasse, fosse il signor
Evaristo Grinfieri che si recava spesso agli _Uffici_ come amico, molto
famigliare del direttore, l’avvocato Gasperal.

Si sapeva pure un’altra cosa ed era questa, che nei sotterranei era
stata impiantata la luce elettrica.

Quando Evaristo e l’alto uomo vestito di nero si lasciavano, il saluto
di Evaristo era invariabilmente questo:

— Arrivederci, Benvenuto Cellini!

Alle quali parole l’altro levando al cielo i grandi occhi e squassando
la lunga chioma inanellata e grigia, rispondeva con un sorriso amaro:

— Qualche cosa di meno.

Qualcuno credette che realmente quell’uomo si chiamasse Benvenuto
Cellini; la cosa era d’altronde possibilissima; qualcuno invece diceva
che doveva essere un soprannome lusinghiero, dato per ammirazione da
Evaristo.

Certo, convenivano tutti in questo:

— Quell’uomo deve essere un’artista.

Si direbbe che negli esseri geniali, madre natura si sia compiaciuta
d’una impronta speciale che li stacca da tutti gli altri individui e li
accenna già quasi prima che sieno conosciuti, alla ammirazione.

Sono davvero dei tipi speciali.

Così, mentre tanti uomini hanno cura meticolosa di sè e del vestito
più ancora, essi tutto negligono, intesi ad una sola cura, una sola
bellezza, l’ideale che palpita in loro.

Molti li accusano di posare, ma molti sbagliano, spesso confondendo
l’artista con colui che lo vuol sembrare. Nella loro fede, nel loro
sentimento, nell’acutezza, nello spirito di penetrazione, i veri
artisti, hanno care inconsapevolezze di fanciulli, e spesso mirabili
ignoranze, più rilevatrici di tanta mal digerita sapienza.

Si potrà far loro accusa di essere troppo spesso innamorati di se
stessi, ma eglino si amano appunto, per la divina facoltà che sentono
in sè, e la cui rilevazione, il cui trionfo, costa tante battaglie,
tante lagrime...

Era precisamente uno di questi cosiffatti tipi artisti, quello di cui
abbiamo dato un rapido cenno, ed al quale Evaristo Grinfieri aveva
concessi gli inesplorati sotterranei a volta del palazzo.

In qual ramo d’arte lavorava costui?

Lo vedremo in seguito, ma l’accorto lettore può quasi argomentarlo dal
nome con cui lo chiamava Evaristo: — Benvenuto Cellini.

Si notò pure, da parecchi che si erano accesi di curiosità e volevano
soddisfarla, ma invano, si notò pure dico, che dopo un certo tempo,
insieme col _Benvenuto Cellini_, entravano nel sotterraneo degli uomini
più giovani di lui, silenziosi come lui, ma bizzarri al vestire, e
con volti simpatici ed espressivi, quasi quanto l’uomo che chiamavano
_maestro_.

Già, c’era chi da costoro aveva udito chiamarlo maestro.

                                   *
                                  * *

Francis Webb, non era diventato ricco, nè era americano per nulla.

Se egli, Webb con tante privazioni, aveva accumulato un così enorme
capitale, ora, per gli sponsali della figlia, voleva ricomprarsi tutto
in una volta del passato, delle abnegazioni sostenute anche nella
ricchezza.

Quell’unica Mary doveva figurare quanto una principessa. La luce di
quegli sponsali doveva risplendere su tutta New-York.

Grandi dunque i preparativi da parte sua e grandi da parte di Evaristo
al quale aveva detto facendolo suo collaboratore e consigliere:

— Sopratutto, non badare a spese. Onorando Mary, io voglio che si
sappia chi è Francis Webb, fin dove Francis Webb può arrivare. Mi si
quota alto, ben tu lo sai, ma non si raggiunge ancora il vero.

— Non dubiti.

— Io voglio sbalordire con il matrimonio di mia figlia, questi inglesi
e questi americani.

— Riusciremo — Rispondeva nella sua calcolatrice freddezza ambiziosa
Evaristo. — Riusciremo, e dentro di sè pensava amaramente: — Come
mi tarda l’ora di rendere ciò che ho rubato; come mi tarda l’ora di
apparire ladro per un istante... e poi non esserlo più... Se è vero
che dopo restituito si ritorni galantuomo... Del resto... io fui più
che altro un ambizioso speculatore... Io... ho una attenuante nella mia
opera, nell’uso che ho fatto del denaro...

                                   *
                                  * *

Ecco brevissimamente un cenno di ciò che si era stabilito dalla Casa
Webb per festeggiare le nozze di Mary.

A tutte le fanciulle povere di New-York, qualunque la loro confessione
religiosa, recantisi a marito quel giorno, sarebbe assegnata una dote
di dollari duecentocinquanta.

Ad ogni cocchiere che con la sua vettura adorna di fiori seguisse il
corteo nuziale, la somma di dollari trentacinque, più un premio di
dollari cinquecento da sorteggiarsi.

Ad ogni persona che si presentasse in una galleria, acciò designata,
fossero dati vino e liquori gratuitamente, con la sola clausola di
brindare agli sposi.

A tutte le fanciulle povere che si chiamassero Mary, un paio
d’orecchini d’oro.

A tutti i fotografi che presentassero delle istantanee, la commissione
di copie tremila, e mille dollari in premio a quella dove la testa di
Mary fosse più riuscita.

A queste facevan seguito altre ed altre disposizioni, dettate dalla
fantasia capricciosa di Evaristo, l’uomo, confessiamolo, meraviglioso,
che tutto quello sfoggio, faceva anticipatamente servire di _réclame_,
alla colossale impresa della _Nuova Linea dell’Est_.

Scoppierebbe dopo, quella _réclame_, come una pioggia d’oro su
l’immensa rete di ferro, su le negre locomotive rombanti, su gli
immani serpenti fatti di _vagoni_ e divoranti le distanze delle lande
silenziose...

Quella pioggia d’oro correrebbe sul fiume creazione, vita, anima,
di movimento novello; sui villaggi che diventano paesi, sulle plaghe
che fioriscono sulle comunicazioni che si schiudono, sui deserti che
diventano città.

Aveva di questi voli la fantasia di Evaristo, e egli qualche volta,
dopo l’austerità matematica dei calcoli, vi si abbandonava come alla
più dolce voluttà del suo spirito intraprendente.

Che dire delle disposizioni per la festa che chiameremo propriamente
nuziale?

Gli invitati, le centinaia di invitati dovrebbero, benchè assuefatti
alla magnificenza passare di meraviglia in meraviglia.

Un notissimo ingegnere aveva assunto l’impegno di fare, sotto i dettami
di Evaristo, del palazzo Francis Webb, una reggia fantastica, una
visione di bellezze di seduzioni e di grazie, quale non s’era fatto mai
per un’altra sposa.

Una squadra di operai lavorava già da parecchi giorni. Eran falegnami,
eran meccanici, eran tappezzieri e via...

— O Mary, io penso in questo momento scrivendo — quante cose, quante
cose per te che ami sinceramente e che pure amata non lo sei quanto
meriti!

Gentile ed inconscia, bella e soavissima, tu entri fidente nella vita
nuova che ti si prepara. Ma ahimè! Non nella ricchezza è la felicità
tu già lo hai detto. Che Iddio ti preservi da un doloroso esperimento,
quello di provare per te stessa che hai ripetuto una gran verità!

Per chi ama, il solo pane è necessario, e si conserva la vita per
amore; tutto il resto è superfluo.

Io so bene che a una mentita si leveranno parecchie signorine di quelle
che hanno giudizio e che ragionano, ma io sorrido pur sentendo di loro
la immensa pietà.

Le infelici che ragionano e nell’amore vogliono gittar le basi
dell’avvenire, non amano e non saranno amate mai. Per esse l’amore
quello che paga la vera fede anche col sacrifizio dell’intera vita non
esiste non può essere.

Il matrimonio poi è per loro una specie di surrogato del padre e della
madre, una nuova forma di tutela e di irresponsabilità.

Ma ritorniamo nel solco, non lasciamoci vincere dalla manìa delle
digressioni.

Le digressioni nel romanzo, cioè — in quella forma d’arte che è la
storia di tutti — le digressioni sono un po’ come le _tirate_ in
palcoscenico. Ora non vanno più, non son più di moda; al meno lo dicono
i critici. Anzi, è tanto vero che lo dicono loro, che quando c’è una
tirata il pubblico applaude.

Avrà forse l’istinto di tornare all’antico.

                                   *
                                  * *

— Il signor conte Melisardo — annunziò un servo ossequiente.

— Farlo passare subito — rispose Francis Webb.

Il conte Melisardo entrò con la scioltezza e disinvoltura di quegli
uomini d’affari, a cui la vita pratica e laboriosa del commercio, non
ha tolto l’eleganza della nascita gentile.

— Caro Melisardo...

— Caro Webb, io sono venuto a congratularmi per la vostra
prossima festa di famiglia! Ottimamente scelto lo sposo. È un uomo
invidiabilissimo. E anch’io, anch’io sapete, ho avuto una consolazione
in questi giorni... una consolazione certo anche più grande della
vostra.

— E sarebbe?

— Ho trovato mio figlio.

Pensatelo, dopo tanto tempo, dopo che per una infame vendetta mi
avevano accusato della sua morte... eccolo, eccolo fra le braccia di
suo padre.

— Ma davvero?

— Non potete credere il piacere provato nel rivederlo... Io mi sento
forte, felice, giovane... Io mi vedo, mi specchio in lui... È tutto
me, te lo farò conoscere, tutto me... ed è tanto buono, tanto gentile,
di un sentimento così squisito che non puoi credere... quando gli sono
vicino mi pare che i miei pensieri passino a traverso del suo cervello
mi pare che le nostre due anime, siano per un istante una sola...
Dimmi, non è vero che è così? Non senti così, quando sei vicino a tua
figlia?

— Sicuro, sicuro... ah, la mia Mary...

— A proposito, dov’è? Desidero salutarla.

— È occupata... cioè, è fuori e tarderà una buona ora... — Così dicendo
Webb levò l’orologio di tasca. — A proposito, guarda il dono che mi ha
fatto mia figlia al suo ritorno da Napoli...

— Un orologio antico straord...

— Come? Da Napoli? L’orologio antico!... Tua figlia? gridò come
impazzito il conte. — Ma dov’è, dov’è tua figlia che io l’abbracci, che
io me la stringa qui sul cuore...

— Conte Melisardo! fece Webb tutto sorpreso, vi assicuro che di questi
vostri scatti io non capisco un’acca...

— Capirete, capirete, dov’è? dov’è?

È a quell’angelo di vostra figlia che debbo di aver ritrovato il mio
Fausto.

Questo orologio è stato comprato nella bottega di mio figlio. È lui che
lo ha venduto... Là c’era un grande ritratto, era il mio.

Fausto ignorava che quella fosse l’immagine di suo padre.

Mary fece notare alla signora che l’accompagnava, la somiglianza di
quel quadro con me e poi... con l’antiquario che le vendeva l’orologio,
che è questo che portate voi...

Fausto capì, domandò, ebbe una vaga intuizione: il resto lo fece un
pittore... Noi ci siamo ritrovati...

Il conte Melisardo pronunziando commosso queste ultime parole portò
alle labbra l’orologio di Webb come una reliquia.

— Ma queste sembrano cose da romanzi — non seppe tenersi dal dire
meravigliato Webb.

— E i romanzi — rispose con profonda convinzione il conte — i romanzi,
sono le cose della vita. Vedete voi pure che strano sviluppo di
avvenimenti?

E dire che i due signori non sapevano ciò che sanno i lettori nostri
che speriamo di non avere annoiati fin qui.




CAPITOLO XX.

Evviva gli sposi! — La domanda di un colloquio! — Hulda ed Evaristo


Sono trascorsi due mesi da quando più sopra narrammo.

                                   *
                                  * *

Un salone grandioso con le pareti di velluto rosso, a frange d’oro
enormi, listate di grossi cordami d’oro, con singolarissimi fiocchi
pesanti, d’oro parimenti.

Il soffitto invece, tutto un giuoco di fiori, tutta una bizzaria
mirabile di rose, di margherite, di mughetti, di viole, di glicine
di edere, in volate capricciose, in ciocche ricchissime cadenti, in
grappoli cascanti, in ventagli di lunghi raggi, in spalliere bizzarre
facenti artistica invasione sul velluto rosso dalle liste, dai cordoni,
dai fiocchi d’oro.

Cinque grandi lampadari elettrici, sfolgoravano dai prismi iridescenti
già prima che fossero accesi.

Duecento, fra dame e cavalieri, aspettavano gli sposi ritornanti dalle
cerimonie.

L’indugio non fu lungo. Dal fondo della sala si levò un gran mormorio
confuso, picchiettato di piccoli gridi gentili, poi si fece un gran
silenzio. Tutti erano percossi dalla solennità del momento.

A un tratto abbuiò, come se un lampo nero fosse passato su tutte quelle
teste; poi un improvviso folgorio di luce, uno sprazzo strabiliante di
elettricità fece succedere a quell’istante di notte, la luce del sole.

Il piedino della sposa, entrando aveva dato il passaggio alla corrente,
e la luce fu.

Mary splendeva meravigliosa nella candida semplicità.

Il velo rialzato e fluttuante in sua balìa, metteva intorno alla testa
della biondissima — di statura alta un poco, e nello incedere graziosa
tanto — un’aureola vaporosa e un profumo celestiale.

Si poteva essere belle quanto Mary, ma non più modeste, ma non più
angioli in sembianza umana.

Non aveva luccicore, non aveva costellamento alcuno di diamanti, nè
alle orecchie, nè al collo.

Su quelle i biondissimi verginali capelli cadenti, erano l’ornamento
più bello, su questo il fior d’arancio era il più ambito fermaglio.

Solo il fianco, solo il fianco sinuoso lievemente, era cinto da un
doppio giro di diamanti, cadenti in due liste su la soffice gonna
bianchissima...

Ad ogni mover di passo, agitando i cento diamanti, le saliva dal
piede tutto un mutevole fiammeggiare di raggi che s’arrestavano alla
cintura quasi non osando levarsi più in alto, dove una casta luce
indescrivibile si partiva dagli occhi celesti della sposa specchianti
un’anima celeste pure...

Evaristo, in abito nero, avanzava a lato della sposa, disinvolto,
squisitamente superbo, ma pallidissimo.

Egli si sentiva d’intorno come una grande soddisfazione, come un
omaggio principesco, ma di dentro il cuore gli ripeteva quella parola
che aveva cominciato a dirgli dal primo giorno di amore con Mary.

In mezzo a quella festa, a quello sfarzo, accanto a una creatura
angelica quale Mary, il cuore gli gridava: ladro!

                                   *
                                  * *

Quando fra strette di mano e complimenti la coppia nuziale fu giunta a
mezzo del salone una sorpresa colpì tutti, e colmò di meraviglia.

Le grandi pareti di velluto rosso a frange, a cordoni a fiocchi d’oro,
si elevarono lentamente aggruppandosi, annichilendosi tra i fiori del
soffitto, scomparendo, senza scomporli...

Tutt’intorno eran disposte le mense, in grandioso ferro di cavallo per
duecento persone.

Trenta servi in livrea, irreprensibili, inappuntabili come statue...

Cominciò una musica dolcissima tutta di archi, e invano le dame
e i cavalieri cercavano i suonatori. Quella melodia veniva un po’
dappertutto e d’ogni punto del vasto ambiente sembrava il sospirar
melodioso.

Della dovizia della mensa, dello sfoggio di argenteria e di cristalli è
proprio superfluo parlare...

Quando la musica cessò cominciarono le piccole conversazioni in quelle
cento coppie, conversazioni che riunite e fuse in un solo concerto di
voci, davano già per sè stesse una gaiezza ed una animazione insolita.

Comunque parlando, gli occhi di tutti difficilmente si staccavano dalla
sposa.

Mary sentiva addosso tutti quegli sguardi, i quali, se avessero avuto
la parola, avrebbero taciuto; sguardi di ammirazione, di passione, di
invidia, d’odio sepolto in fondo al cuore, di desiderio, di rabbia e
perfino di compassione.

A un certo punto del convito, poco prima dei brindisi, un servo
presentò a Francis Webb una lettera, sopra una guantiera d’argento.

— Oggi veramente non si trattano affari — disse Webb aprendo la
lettera. — Come! — fece poi sottovoce — una lettera di Evaristo, di mio
genero? Ma se è qui a tavola!

La lettera diceva così:

«Signor Webb mio amatissimo suocero.

«Appena letta la presente lasciate la tavola per pochi minuti. Io vi
seguirò. Debbo comunicarvi cosa che vi farà grandissimo piacere».

Webb si alzò e si allontanò.

Evaristo lo seguì.

Quando furono appartati e soli Evaristo disse:

— Signor Webb, abbia la bontà di entrare nell’ascensore.

Entrarono e discesero.

Nel cortile stava una vettura pronta.

— Favorisca salire in vettura.

— Ma perchè? Dove andiamo?

— A brevissimo tratto di qua. Meno di cinque minuti.

— Ma, che diamine di imbroglio è questo? Proprio oggi? Di che si
tratta, parla.

— Pazienti pochi minuti.

La carrozza infatti poco appresso si fermò al palazzo della _Nuova
linea dell’Est_.

Discesero nel grandioso vestibolo in fondo al quale era un’ampia scala
di marmo.

— Mi segua — disse Evaristo con un tremito nella voce e affrettando il
passo come spinto da una forza superiore.

Entrarono in un salotto elegantissimo.

— Segga — disse Evaristo, che restò in piedi avanti a Webb.

Evaristo ebbe un momento d’esitazione, poi parlò risoluto:

— Signor Webb, suocero mio, le dirò cosa che penerà a credere e che pur
troppo è vera.

— Di che si tratta? Spiegati, perchè siamo attesi...

— Ebbene, la somma che vi fu involata, il milione preparato pei
pagamenti d’Italia e Francia, l’ho rubato io!!

— Tu?!

— Io!!

Webb rimase immobile, con le mani in avanti e gli occhi sbarrati.

— Lei rammenta quando le chiesi i mezzi per la _Nuova linea dell’Est_?

— Sì, rammento...

— Rammenta che me li negò?

— Ebbene?

— Allora, io architettai il furto, che è riuscito. La nuova società
è costituita; io che non ho figurato finora, io sono quello che lo
possiede e la dirige... Gaspero!... son io!

— Ma come hai fatto tutto, se tu sei stato vittima con me?

— Questo è stato il mio segreto per rendermi superiore ad ogni
sospetto. Oggi, giorno del mio matrimonio, io rendo a Francis Webb
quello che, per dargli una lezione, gli ho preso. Favorisca di qua,
signor Francis Webb.

Entrarono in grande studio arredato col massimo sfarzo.

— Oggi io regalo a mio suocero il busto in oro di sua figlia. Eccolo.
Guardi come le somiglia. Costa duecento mila dollari... è l’equivalente
del furto più gli interessi. Osservi il peso.

Toccò una molla e il busto d’oro ebbe una oscillazione come se sotto di
esso, agisse una bilancia.

— È di più! — disse Webb.

— No, sono gli interessi.

— Tutto ciò mi sorprende... io non so che dirti.

— V’è di più. Signor Webb, tutto quanto vede è suo. Ella è il maggiore
azionista della _Nuova linea dell’Est_... Mi accordi il suo perdono e
mi prometta di non far sapere mai nulla a Mary.

— Hai troppo ingegno, troppa abilità, perchè non ti perdoni.... Ho
avuto torto quel giorno a negarti poche migliaia di dollari, ho avuto
torto... Vuol dire che adesso noi siamo i padroni del nuovo movimento.

— Noi!

Webb abbracciò commosso Evaristo..

— Lei dunque, non mi ritiene per un... per un ladro?...

— Ah, no! Ah, no! Tu sei un genio — Così dicendo lo abbracciò
teneramente. — Ora torniamo subito a Mary, essa ci aspetta... abbiamo
tardato abbastanza.

                                   *
                                  * *

Alla fine del banchetto nuziale, quando si formarono pei vaghi
conversari i diversi gruppi passando nelle sale attigue, e dopo che
Isaia Wood ridendo, faceva ridere, con i denti da foca, avvenne un
fatto semplice, ma curioso.

Il Conte Melisardo che era tra gli invitati andò a Webb che discorreva
fra gli sposi, conducendo per presentare, non avendolo potuto fare
prima, il figlio Fausto — l’antiquario — e la di lui _fidanzata_ la
signorina Concetta, già Hulda ed ora Concetta per sempre.

Quando nella presentazione venne la volta di Hulda e di Evaristo,
questi inchinandola con elettissima galanteria le strinse la mano
dicendo:

— Contessa, ben felice di fare la sua conoscenza. Il conte Fausto avrà
in voi una moglie ideale.

                                   *
                                  * *

Mentre per tutta New-York si parlava degli splendissimi sponsali di
Evaristo e di Mary — un vecchio cieco che insegnava a rubare — il Padre
di Guy Stein — diceva ai giovani che lo ascoltavano intenti:

— Ricordatevi sempre, che esistono dei galantuomini, più ladri di noi
perciò state in guardia. La buon’anima di mio figlio Guy, non lo ha mai
voluto credere...




INDICE


  Capitolo I. — _La negativa inattesa. — Due
    tipi opposti. — Hulda la bella._                  Pag.  3
  Capitolo II. — _L’amante amata. — La
    cameriera giudiziosa. — Il cognato Wood._          »   19
  Capitolo III. — _Ancora una bottiglia. — Sotto
    il fanale rosso. — La carrozza misteriosa._        »   35
  Capitolo IV. — _L’assalto alla vettura. — La
    signora misteriosa. — I pensieri di Bess._         »   63
  Capitolo V. — _L’angelica Mary. — L’ubbriacone
    impenitente. — Il segreto della prima donna._      »   92
  Capitolo VI. — _L’antiquario di Toledo. —
    L’idillio indimenticabile. — L’alba maledetta._    »  115
  Capitolo VII. — _Hulda e Guy Stein. — Un
    mutamento troppo rapido. — Ciò che dovrà
    seguire._                                          »  135
  Capitolo VIII. — _La consolazione di Bess. — Un
    giornale di nuovo genere. — La fine di un
    cavallo._                                          »  151
  Capitolo IX. — _Un’anima in pena. — L’orologio
    di Mary. — Un mistero dopo l’altro._               »  177
  Capitolo X. — _I dolcissimi baci. — La
    lettera per Bill Oward. — L’attesa del momento._   »  194
  Capitolo XI. — _Ciò che dice Hulda. — Ciò
    che pensa Guy Stein. — Ciò che pensa Francis
    Webb. — Ciò che aspetta Evaristo._                 »  216
  Capitolo XII. — _Un pensiero a Gar. — La
    donnina Lucy. — Dove sono le chiavi._              »  226
  Capitolo XIII. — _La prima sorpresa. — Davanti
    alla cassa-forte. — Ciò che fa la polizia._        »  243
  Capitolo XIV. — _Le idee di Mary. — Nuove
    pagine d’amore. — Contrasto in famiglia._          »  253
  Capitolo XV. — _Le conseguenze di quanto
    sopra. — Evaristo alle durissime prove. — Ciò
    che almanaccò Guy Stein._                          »  278
  Capitolo XVI. — _Il colloquio doloroso. — Il
    supremo consiglio. — Bill Oward in scena._         »  305
  Capitolo XVII. — _In prossimità delle nozze. —
    Il divisamento disperato. — Un miracolo del
    caso._                                             »  325
  Capitolo XVIII. — _D’un pensiero d’un accento. —
    L’antiquario di Toledo. — Cause ed effetti._       »  338
  Capitolo XIX. — _I sotterranei di Benvenuto
    Cellini. — Beneficenza — vanità — réclame. —
    Una visita del conte._                             »  354
  Capitolo XX. — _Evviva gli sposi! — La domanda
    di un colloquio! — Hulda ed Evaristo._             »  368





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75787 ***